Il 5 dicembre 1963, mentre i fotografi assiepati nel salone delle feste del Quirinale immortalano il giuramento del nuovo governo, Indro Montanelli su «Il corriere della sera» scatta, con la sua prosa mordace, un’istantanea del nuovo presidente del Consiglio, Aldo Moro. Pur in un chiaroscuro che giustappone barlumi di fiducia a estese zone d’ombra, il ritratto che ne emerge fatica a sottrarre Moro, un riservato personaggio della politica italiana ora investito degli oneri e degli onori del protagonista, da un alone di opacità e di mistero. Scrive il giornalista toscano:
Moro, fra gli “amici” democristiani è forse uno dei meno clericali. Però è il vero cattolico, ispirato da una concezione pessimistica della vita e degli uomini. Non sente lo Stato, la sua grandezza e maestà. Non ha, nella democrazia, nella libertà e nell’Occidente, quella fede incrollabile che animava invece De Gasperi; e l’opinione pubblica vagamente lo avverte, anche se non chiaramente lo comprende. Non dico che covi una volontà di rinunzia e di capitolazione. L’uomo è profondamente onesto e incapace di tradimenti. Ma la risolutezza non è il suo forte proprio per quella sua vocazione, che lo qualifica e che intellettualmente lo onora, di tutto comprendere. Sarà per la sua natura di meridionale, per l’allenamento all’esame critico che gli deriva dal suo passato di professore universitario (lo era a 24 anni), per la severa educazione che ha ricevuto, per la sua infanzia triste e chiusa, per i pochi anzi per i punti contatti che ha avuto col mondo. Sarà anche per le sue fragili condizioni di salute. Fatto sta che Moro è uomo più di disarmo che di lotta. […] Non si può non credere alla sua integrità, alla sua intelligenza, al suo disinteresse, al suo senso del dovere spinto fino al sacrificio. Ma tutto questo ispira più rispetto che fiducia. Lo riteniamo capace di morire nella propria trincea, ma non di guidare uomini all’assalto di quella nemica[1].
Apparso sulla scena per placare, con il suo languore, la sua lentezza, la sua «mandarinale cortesia»[2] il clima politico ancora agitato dal decisionismo di Amintore Fanfani, a Montanelli Aldo Moro sembra destinato, da un lato, a imprimere nell’iniziativa di governo i segni del suo carattere evasivo, incapace di progetti, limitato al piccolo cabotaggio dopo le avventure e i rischi di naufragio corsi dal politico aretino; dall’altro a restare egli stesso, e a lungo, un «complesso e sfumato personaggio di difficilissima comprensione»[3]. La prima ipotesi, pur con tutte le manchevolezze e le incoerenze delle iniziative del centro sinistra da tempo evidenziate dalla storiografia, non sembra aver conosciuto una piena conferma nei fatti successivi. La seconda, invece, sì. Ed è proprio da qui che occorre partire.
Negli ultimi anni l’immagine di Aldo Moro è stata oggetto di un crescente interesse da parte della storiografia[4]. Lo studio della sua presenza pubblica, del suo linguaggio, della gestualità e dell’oratoria, l’interpretazione della sua figura elaborata dal teatro, dal cinema e dalle fiction televisive, ha fornito significativi contributi per ricostruirne la vicenda biografica, intellettuale e politica. La stessa storiografia, impegnata in questo approfondimento con gli strumenti suoi propri e senza affettare indulgenza verso la memorialistica e la pubblicistica d’occasione, si è tuttavia accorta di quanto una certa immagine di Moro radicata nell’opinione pubblica abbia a lungo condizionato una serena comprensione della sua vita e del suo pensiero. È, appunto, l’immagine dell’uomo delle oscure radici personali e intellettuali, del linguaggio ermetico, del ragionare enigmatico, delle strategie sibilline. Un’impenetrabile e gelosamente custodita riservatezza sulla vita familiare, sulle sue letture e sui suoi riferimenti culturali ha contribuito in larga misura a tutto ciò. Ha confidato, ad esempio, Agnese Moro nel 2003:
Credo di non avergli mai sentito dire una parola su sua madre e su suo fratello, morti quanto lui era ancora molto giovane. Forse una volta avrà detto la parola mamma, ma niente di più. Della sua infanzia non ha mai raccontato nulla, salvo alcune cose che si cucinavano a casa sua come le frittelle o le cime di rapa. Non mi sembra di aver mai sentito raccontare di un compagno di giochi, un episodio di scuola, qualcosa fatta da un fratello quando erano piccoli, una frase detta da suo padre o da sua madre. Sembrava venuto un po’ dal nulla, come se, da un certo momento, avesse chiuso con il suo passato[5].
È ben noto il peso che il rapimento e l’assassinio di Moro hanno avuto sull’immaginario collettivo. Quella tragica fine ha aggiunto mistero a mistero, finendo così per rendere Moro prigioniero ancora a lungo, ben oltre quei fatali cinquantacinque giorni, della sua stessa immagine, racchiusa nel volto sofferente immortalato sotto la stella a cinque punte delle Brigate rosse. Il cono d’ombra gettato da quegli eventi sulla sua decennale e complessa vicenda biografica e intellettuale ha, per oltre trent’anni, inquinato le indagini dei magistrati e quelle degli storici. Per attraversare quel buio gli studiosi – come si vedrà – hanno dovuto compiere uno sforzo notevole per avvicinarsi a una comprensione e a un’interpretazione il più possibile rigorosa e critica, rispettosa dei metodi e degli strumenti dell’analisi storica.
In tutto questo, molti hanno almanaccato sulla giovinezza e sulla formazione di uno sfuggente personaggio che è sembrato a lungo «venuto un po’ dal nulla». Il ritratto di Montanelli è, in ciò, emblematico. Nel 1963 Moro non irrompeva sulla scena pubblica italiana come un fulmine a ciel sereno, spinto da una venale intuizione dei dirigenti democristiani, ma aveva alle spalle un curriculum già prestigioso. Non emergeva dal vuoto di un’infanzia triste e chiusa e da una giovinezza priva di contatti col mondo ma aveva percorso un itinerario formativo ricchissimo di stimoli e di confronti. Non era affatto vero che non sentisse la grandezza dello Stato, come testimoniavano i suoi insegnamenti universitari, o non avesse fede nella democrazia e nella libertà, come aveva dimostrato in Assemblea Costituente. Egli era, in fin dei conti, tutt’altro che un alieno nel mondo della politica e della cultura. Cosa mancava a Montanelli, oltre a uno sguardo neutrale sui fatti che a un giornalista potrà forse essere perdonato, per verificare tutto questo? Mancava la materia prima senza la quale, in troppi casi e troppo a lungo, si è ragionato attorno a Moro senza criterio o in modo superficiale: la conoscenza dei documenti.
L’incapacità e, prima ancora, l’impossibilità, di confrontarsi direttamente con i testi e le opere di Moro nella loro completezza e organicità, di immergersi nel nudo dettato delle fonti, senza cedere alla tentazione delle formule e degli aneddoti, senza affidarsi alle sole testimonianze e alle immagini edulcorate o adulterate, è stato il limite principale contro il quale si sono scontrati gli studiosi che si sono cimentati nella ricostruzione della sua vicenda biografica in generale e della sua formazione giovanile in particolare. Di questo limite – il cui superamento costituisce il principale obiettivo dell’Edizione Nazionale delle Opere – occorre avere contezza se si vuole ripercorrere, come cercherò di fare nelle pagine che seguono, le acquisizioni della storiografia sul giovane Moro. A uno sguardo d’insieme essa appare connotata in larga misura almeno da due elementi.
Da una parte, oltre all’alone di mistero appena richiamato, già all’indomani della morte l’intenzione di perpetuare il messaggio politico di Moro, condivisa da molti, il tentativo, talvolta maldestro, di intestarsi la sua eredità morale, azzardato da altri, e lo sforzo di circoscrivere il suo pensiero entro precisi filoni ideologici, compiuto da altri ancora, ha condizionato la storiografia. In questo quadro, specialmente, ma non solo, da parte di alcuni esponenti del movimento cattolico a Moro più vicini per esperienze associative ed ecclesiali, è stata accentuata una presunta logica di esatta continuità del pensiero del giovane intellettuale cattolico con quello del maturo statista. Si tratta di un’interpretazione teleologica, non priva di forzature e di ingenuità, che appare in modo carsico negli studi sul giovane Moro. Essa partecipa della più ampia difficoltà a considerare il periodo della formazione, all’interno di una biografia, di per sé, come una fase avente connotati specifici, una logica e uno sviluppo autonomi, e non solo come il preludio a successive o naturali evoluzioni.
D’altra parte, approfondire il segmento giovanile della biografia di Aldo Moro ha consentito a diversi studiosi di capire meglio il tessuto culturale della generazione entro la quale si è formato un gruppo di uomini importante per la storia del Paese: quello della futura classe dirigente cattolica. Una generazione dotata di una mentalità niente affatto schematica, ma plurale, in evoluzione dentro un travagliato momento storico, protagonista di un dialogo tra molteplici personalità, dal quale non può essere disgiunta perché in gran parte risultante da essa. In questo senso i contributi squisitamente storiografici sulla formazione giovanile di Moro, benché pochi, possono tuttavia essere considerati esemplari della modalità con la quale la sua vicenda biografica e intellettuale dovrebbe oggi essere restituita, tutta intera, a un’obiettiva e documentata comprensione. Capire come Moro si è costruito dentro la realtà degli anni Trenta e Quaranta, non ha significato – e non significa – limitarsi a sondare il «nulla» dal quale sembrò emergere la sua storia personale, ricomporre il quadro delle sue esperienze familiari e giovanili, registrare le sue reazioni alla guerra e alla rinascita democratica, descriverne il cammino educativo e formativo in sé. Tutto questo è certamente molto importante. Ma ha significato e significa soprattutto dare ragione della molteplicità di esperienze che hanno partecipato a questo complesso percorso, con le loro influenze reciproche, i loro riferimenti culturali e spirituali, i loro distinti itinerari di maturazione, in una costante e feconda interazione tra il pensiero, il fatto storico e la sensibilità personale. Ha significato e significa coniugare la fedeltà alle fonti con l’attenzione allo sviluppo della personalità e al fluire storico che essa vive, influenza e interpreta.
Nel 1968 il «primo tentativo di una biografia», come si qualificava sul retro di copertina il volume di Gennaro Acquaviva Aldo Moro. Un italiano diverso[6], lasciava intravedere in che direzione si sarebbe orientato e avrebbe successivamente insistito l’interesse sul profilo giovanile di Moro. Si concludeva, in quell’anno, la quarta legislatura e, con essa, anche la stagione del centro sinistra, sebbene la formula si sarebbe riprodotta, svuotata del significato originario, negli anni seguenti. La contestazione studentesca, le lotte operaie, la strategia della tensione saranno il prologo della stagione degli anni Settanta, lungo i quali sul bilancio dell’esperienza governativa appena conclusa e sulle insufficienze che essa aveva dimostrato si sarebbe concentrata la critica degli studiosi. Moro avrebbe fatto il suo esordio nelle pagine della storiografia nella veste di imputato principale, reo di aver frenato con il suo moderatismo defatigante e le sue arrendevoli strategie l’iniziale slancio riformatore del centro sinistra. Nel pieno della questione democristiana, con la percezione dell’esaurirsi di un ciclo storico nella crisi degli anni Settanta riletto secondo le categorie culturali della sinistra, a Moro verrà riconosciuta finalmente la statura dell’indiscusso protagonista di un trentennio di vita politica italiana ma, al tempo stesso e proprio per questo, non sarà risparmiata la critica più radicale[7]. Ma intanto, alla metà del decennio precedente, la sua presenza sulla scena pubblica appariva ancora «un lungo enigma»[8].
Questo si coglie dallo scambio di lettere con la direzione di «Epoca», del settembre 1965, che apriva la biografia di Acquaviva. «Come diavolo ha fatto a capitare in mezzo a noi?» si chiedeva un lettore[9]. Il motivo della «perdurante sconoscenza di Moro […] il perché di questo “enigma”, nonostante il fatto che l’onorevole Moro governi l’Italia da oltre quattro anni e sia alla ribalta politica del nostro Paese da più di un ventennio e sempre in posti di grande rilievo»[10] era indicato da Acquaviva nella provenienza meridionale del presidente del Consiglio e nell’oblio in cui era finita la sua vicenda giovanile. Quasi che quella sua flemmatica personalità meridionale, senza esuberanza, senza emotività, fosse un mistero custodito e comprensibile solo al Sud. Moro appariva così come il figlio di un tempo e di un luogo avvertiti già allora come remoti. Figlio di un paese salentino, Maglie, del quale Acquaviva citava l’«interessante museo paleontologico, nel quale sono raccolti e classificati fossili di animali di milioni di anni fa e antichissimi oggetti manufatti dell’uomo preistorico»[11]. Per esplorare la “preistoria” del giovane Moro l’autore aveva raccolto le testimonianze di quanti gli erano stati amici e «riesumato fra vecchie carte, qualche suo articolo scritto su giornali giovanili del tempo»[12]. Da questa opera di disseppellimento emergeva una duplice considerazione che si sarebbe ripetuta in larga parte degli scritti successivi: la percezione di una sorta di predestinazione al ruolo di protagonista nella vita pubblica[13] e l’assoluta continuità del suo pensiero e soprattutto del suo modo di scrivere e di esprimersi dalla vita giovanile a quella adulta. Quello di essere un enfant prodige della politica e uno scrittore oscuro sin dalla gioventù, diventeranno veri e proprio topoi – nella duplice accezione di temi peculiari e di luoghi comuni – morotei. «In quel tempo Moro – si legge in Acquaviva – già parlava e scriveva come oggi, con lo stesso stile, con gli stessi periodi complessi e complicati […] lo stesso stile serio e pensoso»[14]. Ancora: «Il suo periodo era già allora ricco di specificazioni, ma non di ambiguità. Il suo ragionamento era già allora, come adesso, fervido della sua stessa maturazione che nasce dalle idee contrapposte»[15]. In questa logica di continuità e in questa analisi retrospettiva, le conclusioni tratte, tra l’altro, da ampie citazioni degli articoli giovanili di Moro su «La rassegna», dei quali già nel 1968 Acquaviva auspicava una raccolta e uno studio sistematico, non potevano che condurre dalle remote origini alla più viva e stringente attualità. L’autore giudicava perciò del tutto «agevole intravedere» negli scritti del giovane Moro «un preciso pensiero politico e forse anche una anticipazione della politica di un vero cattolico, vale a dire una politica di centro-sinistra»[16].
Tre anni dopo l’uscita del volume di Acquaviva, ampi riferimenti alla giovinezza di Moro comparivano nella Storia della Federazione Universitaria Cattolica Italiana di Gabriella Fanello Marcucci[17]. La presidenza di Moro, tenuta nel delicato frangente civile ed ecclesiale che va dal 1939 al 1942, era ricostruita facendo ricorso ai suoi scritti su «Azione fucina», il giornale dell’associazione, all’epistolario che egli tenne con Giulio Andreotti, direttore del medesimo organo di stampa, reggente e poi egli stesso presidente nazionale, e alla corrispondenza che Moro intrattenne con molti fucini durante il servizio militare. Anche in questo caso, ragionando sui suoi editoriali, l’autrice non esitava a qualificare l’incarico del presidente della Fuci, già nei primi mesi della guerra, come tutto orientato al futuro impegno in politica che prenderà forma nella rinascita democratica. Scriveva: «il mondo era sull’orlo della rovina, tutto quello che aveva costituito fin lì motivo di orgoglio, ideale di vita, andava completamente sovvertito. Mentre si profilava la catastrofe peggiore, Moro già pensava alla ricostruzione»[18]. E, più avanti, ribadiva: «Moro lavorava per il futuro»[19].
Come già anticipato, la morte di Moro segnò un radicale cambio di prospettiva anche per gli studi storici. Quel tragico epilogo, anziché consegnare Moro alla storia e quindi a una comprensione il più possibile schietta e documentata della sua biografia e del suo pensiero, suscitò una congerie di interpretazioni e di riflessioni sulla sua eredità morale e sul significato della sua strategia politica[20]. Uomo del dialogo con i comunisti, artefice del compromesso storico, ispiratore della terza fase: l’immagine di un demiurgo della politica italiana si enfatizzò e si sovrappose alla sostanza dei fatti. A seconda di come la si osservava, quella immagine riproduceva o il volto del trasformista conservatore e cinico o quello del solerte e raffinato statista impegnato nell’allargamento delle basi della democrazia repubblicana. Consapevole di ciò, già pochissimi giorni dopo la morte, Pietro Scoppola segnalava quanto fosse rischioso etichettare il pensiero di Moro dentro una corrente chiara e netta della tradizione democratico cristiana, delimitarne i contorni mortificandone la vastità e la complessità, ignorarne l’esigente equilibrio tra la dialettica politica e i valori morali[21]. La storiografia era chiamata, da allora in avanti, a compiere uno sforzo notevole.
In quello stesso tornante, gli studi sulla formazione della classe dirigente democristiana conoscevano un incremento che risulterà decisivo per comprendere il giovane Moro. Studiando le posizioni degli intellettuali cattolici tra gli anni Trenta e Quaranta, Renato Moro svolgeva un’analisi del cambiamento del cattolicesimo durante il fascismo che avrebbe rappresentato un punto di riferimento per tutte le successive ricerche[22]. Veniva alla luce un mutamento profondo, che non si era limitato a una modernizzazione degli strumenti e della presenza dei cattolici nella società di massa. Lentamente, sotto traccia, attraverso il forzato e progressivo abbandono della sfera politica in favore di quella religiosa, si capiva che i movimenti intellettuali dell’Azione cattolica – la Fuci e il Movimento Laureati – avevano educato la generazione in cui era cresciuto Aldo Moro a osservare il mondo e a intervenire nella storia con uno sguardo e una prassi radicalmente diversi rispetto al passato. Le fonti rivelavano che si era trattato di una pedagogia basata su un nuovo rapporto tra la modernità e la tradizione, che riteneva la cultura cattolica non più uno strumento di conquista ma di verifica, non più un’arma apologetica ma un’espressione di valore capitale per la persona umana. Ricostruendo il tragitto della Fuci e dei Laureati cattolici tra gli anni Trenta e Quaranta e analizzandone la matrice intellettuale e le peculiarità nel panorama ecclesiale dell’epoca, Renato Moro individuava nel loro bagaglio culturale da una parte un quadro di riferimento globale, una prospettiva di fondo, una filosofia della storia strettamente dipendenti dalle analisi tradizionali del pensiero cattolico riguardo alla società moderna e, dall’altra, un’attenzione profonda e positiva al concreto dei fenomeni, ai risultati nuovi della cultura e della tecnica moderna, una consapevolezza della difficoltà di adeguare il “pensiero cristiano” alla storia[23].
Nella fase di rinascita democratica dell’Italia, l’esigenza di un ordine nuovo avvertita dai movimenti intellettuali era studiata da Renato Moro nelle diverse espressioni che conobbe. Esse risultavano all’occhio dello storico non prive di astrazioni e di ambiguità, spesso frutto di speculazioni che tradivano una sottovalutazione della dimensione propria della politica, un desiderio di porre a contatto i fondamenti spirituali della fede con la concreta realtà sociale non esente da afflati integralisti, una fiducia pressoché esclusiva nell’azione autosufficiente delle élites. Pur cercando di dar forma a un’aspirazione diffusa alla collaborazione e all’intesa con le altre forze che partecipavano alla dinamica ricostruttiva, nelle riflessioni degli intellettuali dell’Azione cattolica emergevano pertanto resistenze e pregiudizi verso il momento politico in quanto tale, mentre l’esigenza fortemente sentita di una politica che fosse animata da un respiro etico e più propriamente da uno spirito dichiaratamente religioso, portava questi cattolici – osservava ancora Renato Moro – ad un riconoscimento solo parziale dei valori laici di essa. Il metro di giudizio delle posizioni politiche finiva infatti per questa strada per essere dato non dalla loro opportunità ed effettualità storica ma dalla ispirazione religiosa che le doveva animare[24].
Immerso in queste suggestioni, cominciava ad affiorare il contributo del giovane Moro. Si intuiva come esso fosse stato orientato alla riaffermazione dell’idea cristiana nel mondo moderno, alla rifondazione di un rapporto tra il cattolicesimo e la politica coerente con l’«ideale di una democrazia dalla mentalità profondamente rinnovata»[25], alla rivalutazione della cultura professionale e tecnica nella società di massa, con una peculiare sensibilità per la formazione della coscienza civile del cittadino e, soprattutto, con una motivata resistenza al coinvolgimento diretto degli intellettuali dell’Azione cattolica sul piano politico. Pur nel progressivo riconoscimento del ruolo della democrazia elettorale e garantista[26], risaltavano infatti le forti perplessità di questi ultimi verso il valore totalizzante della politica e verso l’ipotesi di un ritorno al passato prefascista, lungo una linea di frattura con la precedente generazione che nella storiografia avrebbe assunto – lo si vedrà – un rilievo crescente. Si riscontrava come per costoro spettasse al cristianesimo in quanto tale, e non di certo alla politica o, viepiù, al partito cattolico, svolgere un ruolo di pacificazione e di equilibrio nel nuovo sistema, realizzare la libertà e la giustizia sociale, riconciliare le fratture all’interno della società e della coscienza dei cittadini, secondo una logica vivacemente articolata in gran parte degli scritti di Moro dopo il 1943. Già ai sondaggi iniziali della storiografia l’immagine di quest’ultimo «venuto dal nulla» o proiettato sin da giovanissimo nella politica cominciava insomma ad allontanarsi dal vero. Le prime indagini compiute sul versante giuridico dei suoi scritti giovanili e pubblicate tra il 1979 e il 1981 dalla rivista «Il politico» lo confermarono.
Ugo De Siervo, in un saggio sul ruolo svolto da Moro nell’Assemblea costituente[27], portava alla luce diversi elementi utili per comprendere la costruzione del suo pensiero giuridico presenti negli scritti giovanili. In essi, alla luce della concezione istituzionale che sarebbe stata delineata negli interventi alla Costituente, annotava De Siervo, «dei partiti viene contestata sia la pretesa di rappresentare il complesso della società nazionale, senza rispettare davvero il pluralismo della struttura sociale, che la tendenza a schiacciare le posizioni diversificate, individuali o collettive che siano, senza invece farsene portatori»[28]. Un interessante contrappunto tra le affermazioni in Costituente e le idee espresse negli scritti di taglio giuridico apparsi in precedenza su «Studium» e su «La rassegna» consentiva di mettere a fuoco l’opinione vaga e imprecisa del Moro professorino di provincia che era stato eletto e aveva agito obbedendo a un mero mandato ecclesiale. Essa cedeva il posto a quella ben più solida, sotto il profilo storiografico, di un giovane dotato di una cultura giuridica robusta, di un esponente di punta del cattolicesimo organizzato, e dell’Azione cattolica in particolare, della quale egli era stato un organico rappresentante alla Costituente, dove, non a caso, aveva svolto un tema cruciale per i cattolici come quello dell’educazione.
Lo confermava l’anno seguente Norberto Bobbio, in un saggio su Diritto e Stato nell’opera giovanile di Aldo Moro[29]. «Il giovane studioso – riconosceva Bobbio – non aveva aspettato la caduta del regime per formarsi liberamente un proprio pensiero politico, e anzi si era preparato seriamente per il momento in cui ciascuno avrebbe dovuto assumersi le proprie responsabilità dopo la catastrofe percepita come inevitabile e imminente»[30]. Un pensiero giovanile, dunque, e tuttavia maturo e consistente, che l’autore invitava a studiare anzitutto nella sua intensa ispirazione personalista. Per Bobbio, essa l’aveva orientato al superamento, da un lato, dell’individualismo classico, proprio delle correnti liberali, che non erano riuscite a difendersi, almeno in Italia, dall’urto con la società di massa e dalle richieste sempre più impellenti di un’azione da parte dello Stato; dall’altro, di quelle forme di collettivismo, di statalismo, di organicismo, che avevano finito per mortificare il singolo, per Moro sempre irriducibile all’ente collettivo, sino a calpestarne i diritti fondamentali. Di qui l’indicazione del filosofo ad analizzare la produzione giuridica e, insieme, quella giornalistica giovanile di Moro nelle loro reciproche contaminazioni, a scorgere il timbro della tradizione del pensiero sociale cattolico nella concezione della socialità del diritto e della pluralità degli ordinamenti giuridici, a leggere le prime dispense di filosofia del diritto non come trattazioni accademiche nel senso usuale, ma come opere ricche di un pathos etico e religioso che conferisce loro un fervore insolito, essendo la prima occasione per elaborare ed esporre non soltanto una persuasiva lezione cattedratica ma «la propria concezione della vita e del mondo»[31].
Sempre dalle pagine de «Il politico», anche Roberto Ruffilli[32], richiamando attraverso una puntuale ricognizione il progresso della storiografia negli ultimi anni e il conseguente venir meno di diversi pregiudizi sulla formazione della classe dirigente democristiana, evidenziava l’importanza di dissodare il retroterra religioso nel quale essa era cresciuta. Ciò avrebbe permesso di capire meglio la cultura giuridica e la capacità progettuale degli intellettuali impegnati nel perfezionamento in senso sociale della democrazia politica all’indomani della caduta del regime. Si sarebbe così aperta «la via per il chiarimento di risultati significativi e di contraddizioni di fondo nell’opera della democrazia cristiana per la direzione della Repubblica, per l’allargamento della base popolare della medesima, e in generale per il suo adattamento alla realtà in movimento nel paese»[33]. Il profilo del giovane Moro appariva a Ruffilli esemplare di questa positiva contaminazione tra ispirazione religiosa e maturazione giuridica, specialmente nelle sue ascendenze tomiste. Nella visione umanistica dello Stato e nella finalizzazione dei pubblici poteri allo svolgimento della persona, egli coglieva l’eco profonda del concetto di verità, del ruolo della coscienza, del rapporto tra la legge dell’amore e la legge morale nella società, della consapevolezza dell’imperfezione dell’uomo e delle sue realizzazioni. Verificata in questi nodi, evidenti negli scritti giovanili, secondo Ruffilli la formazione religiosa viene a costituire per Moro il tramite per l’accettazione di una evoluzione continua dell’uomo e dello Stato, con il riconoscimento della validità del cambiamento, della storicità dei risultati ottenuti, della possibilità del superamento e di perfezionamento degli stessi. Il che lo porta fra l’altro a valutare positivamente una “rivoluzione permanente”, quale via per realizzare un sempre maggior adeguamento dell’ordinamento positivo al diritto naturale e di un progressivo smantellamento delle assolutizzazioni ideologiche delle diverse forme ed esperienze di stato, comprese quelle relative allo stato fascista[34].
Per la mediazione tra l’umanesimo cristiano e l’idealismo dominante, tra la concezione elettorale e garantista della democrazia, basata sul primato della libertà, e quella organica e interclassista, alla riflessione giovanile di Moro sarebbe perciò spettato il merito, a giudizio di Ruffilli, di innestare le intuizioni dei movimenti intellettuali cattolici dentro una riflessione giuridica più vasta, laica e sfaccettata.
Come già anticipato, questi primi tentativi di indagine storiografica incontrarono la difficoltà di arginare le numerose altre interpretazioni poco aderenti alle fonti che fiorirono attorno al “caso Moro” e che si estesero in breve tempo a tutto il suo pensiero e alla sua biografia. Nel 1980 Giorgio Campanini poteva affermare:
Un’attenta e obiettiva ricognizione dell’opera di Moro sembra a noi costituire la chiave di volta per un’adeguata comprensione del suo pensiero e della sua figura. Si deve riconoscere, per altro, che si tratta di una strada sino ad ora scarsamente battuta: è prevalsa, infatti, una lettura nel migliore dei casi giornalistica e nel peggiore panflettistica della vicenda che al suo nome si ricollega. Ne è derivata una vera e propria colluvie di testi che poco o nulla contribuiscono alla ricerca storica ed anzi concorrono ad inquinarla[35].
Più incisivo ancora Francesco Traniello, in un intervento apparso nel 1981 sulla rivista «Appunti di cultura e politica». Egli invitava gli studiosi di Moro a compiere uno «sforzo di comprensione e d’interpretazione rigorosa e critica, rispettosa dei metodi e degli strumenti dell’analisi storica, capace di confrontarsi con i testi e i documenti senza cedere alla tentazione delle formule e degli slogan brillanti, ma talora devianti o semplicemente illusori, della pubblicistica»[36]. La preoccupazione di tener vivo il messaggio di Moro o di perpetuarne l’insegnamento non avrebbe dovuto contaminare l’opera degli storici. Traniello formulava l’auspicio, destinato a restare tale per quasi quarant’anni, di metter mano a una «raccolta sistematica dei numerosissimi scritti e discorsi»[37], uno strumento essenziale e prioritario rispetto allo studio della vastità e dell’intensità del suo impegno, del suo stile di scrittura, della sua personalità apparentemente indecifrabile. Le prime due raccolte di scritti e discorsi, pubblicate entrambe nel 1982, sembrarono fornire una parziale risposta a questo auspicio. Parziale non soltanto perché si trattava di antologie ma anche per alcuni limiti che si riscontrano nel modo con il quale i testi venivano presentati al lettore.
Per i tipi di Cinque Lune vedeva la luce una silloge di Scritti e discorsi il cui primo volume, curato da Giuseppe Rossini, raccoglieva i testi dal 1940 al 1947[38]. Leopoldo Elia, in un breve Poscritto alla sua lucida introduzione, evidenziava il valore degli scritti giovanili di Moro come testimonianza di una personalità già completa. Specialmente gli articoli de «La rassegna» facevano infatti scoprire «a tratti assolutamente nitidi il profilo di un leader»[39]. Nel pensiero del giovane Moro, espressione e al tempo stesso interprete della delicata fase di passaggio dalla dittatura alla democrazia, la presa di distanza da ogni radicalismo e giacobinismo, la ripulsa netta per il qualunquismo unita al distacco verso i partiti, la profonda ispirazione etico religiosa, il richiamo all’interclassismo cattolico e al valore del centro nel nuovo scenario politico, concorrevano a dar forma a quello che Elia, con una felice espressione, definiva un «umanesimo ecumenico»[40].
Nello stesso anno veniva pubblicata dall’editrice Studium la raccolta Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952[41]. Giovanni Battista Scaglia vi firmava un’introduzione nella quale difendeva la tesi di un’assoluta continuità tra gli scritti giovanili e quelli della maturità dello statista pugliese. A poco tempo di distanza dalla morte, egli, politico ed esponente di spicco nel mondo degli intellettuali dell’Azione cattolica, aveva scritto un ricordo breve ma intenso di Moro. Aveva segnalato con molta lucidità l’esigenza di liberarlo «dall’ombra sinistra e inquietante del mistero che avvolge la sua fine crudele, [di] ricomporre la sua fisionomia ideale con la maggiore possibile fedeltà, sulla base di quello che egli ha detto e fatto»[42] e di adempiere al «dovere di dare a Moro quello che è di Moro: solo, ma tutto, quello che è di Moro»[43]. Per farlo aveva suggerito di cominciare proprio da uno studio della sua giovinezza, della sua vocazione universitaria, dell’idea di una progettualità che lo studioso del diritto aveva portato nella politica come abito mentale di cautela, di intelligenza e di severità. Occorreva cominciare, cioè, dai suoi scritti giovanili, «pagine – aveva scritto Scaglia – nelle quali si sono trovate alcune delle espressioni giudicate più idonee a dare un’idea meno inadeguata della sua personalità di uomo e di cristiano»[44].
Nondimeno, cinque anni più tardi, leggendo l’ampia introduzione alla raccolta di scritti su «Studium», si ha l’impressione che al proposito di «dare a Moro tutto e solo quello che è di Moro» si fosse sostituito un altro, implicito, intento apologetico. Quello di difenderne l’appartenenza alla storia dell’Azione cattolica, di rimarcare un’identità primigenia, di scovare una sorta di impronta originale negli scritti giovanili che, invariabilmente, sarebbe stata la misura di tutti quelli successivi. Il discorso di Scaglia non era sleale né polemico, ricco anzi di dettagli nella ricostruzione del percorso biografico di Moro dagli anni dell’infanzia alla Costituente. Ma stupisce per almeno due sottolineature. La prima è il fermo richiamo a una presunta continuità nella direzione della Fuci tra Aldo Moro e Igino Righetti, del quale il primo sarebbe stato «certo, il continuatore più convinto e conseguente»[45]. Righetti aveva assunto la presidenza della Fuci quindici anni prima di Moro. Anche solo a uno sguardo d’insieme alla storia dell’associazione in quei tre lustri, appare evidente la distanza che aveva separato le loro esperienze. Il conflitto con la dittatura emergente a metà degli anni Venti, le conseguenze del Concordato sull’associazionismo cattolico e sull’educazione dei giovani, le due crisi del 1931 e del 1933, l’allontanamento di Montini dovevano apparire al giovane Moro come fatti sicuramente importanti, ma consegnati alla storia. Una storia che imponeva a lui sfide radicalmente diverse: la guerra, il nuovo pontificato di Pio XII, la lenta rinascita della cultura cattolica, la riflessione clandestina sul futuro dell’Italia, la democrazia. Mi limito, come ovvio, a citare gli eventi principali che segnarono la storia della Fuci, e che nel 1982 erano noti agli studiosi, tralasciando le tante e profonde modifiche che il profilo culturale e sociologico del sodalizio e la sua posizione rispetto alla Chiesa e alla nazione avevano subito nel corso degli anni Trenta. Naturalmente non si vuole disconoscere la fedeltà di Moro come presidente nazionale a ciò che vi era di essenziale nella pedagogia fucina e che resisteva al mutare dei tempi. Ma la difesa, sguarnita di prove, di una logica del tutto consequenziale tra la Fuci di Righetti – locuzione che nel gergo associativo già allora designava una sorta di mito fondativo – e la sua, non lasciava intendere l’implicita rivendicazione di esserne gli autentici custodi della memoria? Non vi era sottesa l’ambizione di associarlo a un ideale pantheon dell’Azione cattolica? Il tentativo di inserire Moro e i suoi scritti giovanili entro questa specie di canone dei movimenti intellettuali non spiegherebbe anche l’altra sottolineatura di Scaglia, ancor più insistita, sulla «coerenza e la perfetta continuità»[46] tra gli editoriali del periodo fucino e quelli successivamente pubblicati su «Studium»?
Anche Giorgio Campanini, autore della nota critico-bibliografica che accompagnava la pubblicazione degli scritti[47], ne presentava il significato complessivo secondo un punto di vista duplice ma ugualmente convinto della loro perfetta continuità, della loro nitida coerenza. Visti dall’esterno, gli scritti giovanili rappresentavano infatti per lui un «documento di quel non sempre agevole cammino che portò, insieme a Moro, tanta parte degli intellettuali cattolici di quegli anni dall’azione religiosa all’impegno politico»[48]. Studiati all’interno dell’opera globale di Moro «anticipano e precorrono quelli che saranno i temi dominanti della sua azione di politico e di statista»[49]. Le stesse idee Campanini le esprimeva, in modo ancor più netto, nella coeva voce biografica compilata per il Dizionario storico del Movimento cattolico[50], qualificando esplicitamente gli anni giovanili trascorsi nella Fuci e nei Laureati cattolici come un apprendistato nel corso del quale Moro «prende decisamente posizione a favore dell’opzione politica»[51]. Giudicando finanche «scontato il suo inserimento nella Dc»[52], lo studioso scriveva che «all’attività politica il giovane docente giunge in naturale continuità con il suo impegno sociale e culturale, secondo una linea comune, del resto, a tutta una generazione di cattolici maturati nei movimenti intellettuali di quegli anni»[53].
La naturalezza, la méta scontata, la comunanza di questa linea che portava direttamente dall’impegno religioso e intellettuale a quello politico furono confutate dai nuovi contributi della storiografia.
Nel 1983 la rivista «Storia contemporanea» pubblicava infatti un saggio di oltre centocinquanta pagine, La formazione giovanile di Aldo Moro[54], nel quale Renato Moro offriva una ricostruzione complessiva della vicenda, aggiornava in modo significativo la storiografia sui movimenti intellettuali dell’Azione cattolica e correggeva le tante inesattezze scritte in proposito. Essendo, a tutt’oggi, la ricognizione più completa sul giovane Moro, su di essa occorre insistere.
Considerati gli studi sino ad allora pubblicati, il periodo della formazione giovanile di Moro appariva allo storico «trascurato e di conseguenza pressoché ignoto»[55]. Tuttavia la ricerca era ispirata da un interesse più ambizioso e più rilevante sotto il profilo storiografico della sola necessità di colmare una lacuna nella conoscenza della biografia. Quello cioè di comprendere meglio, attraverso il percorso formativo compiuto dal giovane Moro, i caratteri della congerie culturale in cui ebbe a formarsi la sua generazione e, al tempo stesso, studiare attraverso di esso i segni e gli effetti delle trasformazioni subite dal movimento cattolico durante il fascismo. Il primo segmento della biografia morotea non veniva perciò analizzato in sé ma alla luce delle acquisizioni più recenti sullo specifico contesto civile ed ecclesiale in cui essa si era svolta, in un reciproco e costante confronto tra fatti biografici e fatti storici che si illuminano a vicenda restituendo, come in un prisma, impressioni e verifiche su una significativa porzione di storia italiana. Per comprenderla si suggeriva, all’inizio del saggio, un necessario cambiamento di paradigma interpretativo.
Sino ad allora si era posta la lente sul comportamento dei cattolici italiani durante gli anni Trenta e i primi anni Quaranta considerando le loro vicende come racchiuse entro una lunga parentesi tra la tramontata esperienza del Partito popolare e quella nascente della Democrazia cristiana. In questa prospettiva, quasi esclusivamente politica, allo storico era spettato di dire quanto della prima fosse sopravvissuto, sotto traccia, in quel lungo intermezzo che preludeva alla seconda e reperirne le tenui testimonianze sepolte sotto la spessa coltre del consenso al regime che aveva conquistato le masse durante il ventennio. Così facendo, secondo Renato Moro, erano paradossalmente sfuggite dall’obiettivo degli storici le macroscopiche mutazioni subite o compiute dal cattolicesimo in quegli stessi anni. Tra di esse lo sviluppo dell’Azione cattolica e del laicato organizzato durante il pontificato di Pio XI, la mobilitazione delle masse, il nuovo rapporto con lo Stato dopo la Conciliazione, l’aggiornamento degli strumenti e dei progetti culturali dei cattolici per “entrare” nella società, l’adeguamento concettuale alle nuove realtà economiche e industriali. Estraneo, per radici familiari, provenienza geografica e ragioni anagrafiche, alla realtà del cattolicesimo preesistente al fascismo, estraneo alla sua tradizione politica e culturale, eccentrico per riferimenti culturali, per formazione e per sensibilità intellettuale al resto della sua generazione, il giovane Aldo Moro poteva e doveva allora esser compreso in quanto immerso in questo guado del mondo cattolico, in questa peculiare, profonda e feconda cesura col passato.
Il saggio principiava con un’indagine dell’ambiente familiare, degli orientamenti politici e delle sensibilità professionali dei genitori e, in particolare, della religiosità della madre, destinata ad avere una fortissima influenza sul profilo spirituale di Moro.
Si trattava – scriveva Renato Moro – di una pietà tipicamente meridionale, ma robusta e soda, radicata su letture devote, ma anche animata dalla frequenza con il Vangelo e le lettere paoline, priva di preparazione teologica ma non di una forte consapevolezza culturale. Suo carattere fondamentale risulta l’ispirazione pressoché esclusivamente individuale e quasi intima, basata su di una adesione tutta coscienziale al Vangelo ed all’esempio di Cristo ed in particolare centrata su di un forte sentimento del mistero salvifico del dolore e dell’accostamento confortatore di Dio all’uomo attraverso la croce e l’eucarestia[56].
Oltre all’educazione familiare, non precettista, non formale, intesa come una forma di personale elevazione morale, Renato Moro, collegandosi in particolare agli studi di Pietro Borzomati[57], poneva attenzione al ruolo svolto in quegli anni dall’associazionismo cattolico meridionale, focalizzandosi dapprima su quello tarantino, nel quale Aldo Moro visse le sue prime esperienze. Un ruolo che, alla verifica delle fonti, risultava marginale, svolto con una pedagogia esclusivamente religiosa e a un’intensa vita di pietà ma privo di una significativa incidenza sulla formazione sociale e sull’orientamento politico del giovane Moro. Anche dell’ambiente cattolico di Bari, dove egli si trasferì nel 1934, lo storico coglieva le posizioni e le reazioni suscitate dal confronto con il regime, concentrandosi in particolare sul profilo pastorale e spirituale dell’arcivescovo Marcello Mimmi, che ebbe una «profonda influenza sul giovane fucino rafforzandone soprattutto la tendenza – già tipica dell’ambiente familiare e di quello dell’Azione cattolica meridionale – all’approfondimento di cultura e di spiritualità interiore, del tutto separate, però, dal riferimento alla dottrina sociale od alla “civiltà cristiana”, da una visione intransigente e comunque “ideologica” del cattolicesimo»[58]. Una tendenza che sarà corroborata dall’adesione di Moro alla spiritualità domenicana, di cui Renato Moro coglieva sfumature e intuizioni peculiari. Osservava così, da un lato, come alcune classificazioni di recente proposte dalla storiografia risultassero troppo rigide e univoche[59], dall’altro come il tomismo venisse reinterpretato e concepito da Moro e dalla sua generazione più come una duttile cornice a un cristianesimo mai inteso come sprone alla militanza o come riferimento ideologico, più come il modello teologico per la responsabilità dell’intellettuale cristiano che come un’architettonica sistemazione filosofica nella quale incardinare tutto il pensiero e la prassi dei credenti.
Il saggio forniva un chiarimento ancor più particolareggiato sulla posizione assunta dal giovane Moro rispetto al fascismo. Spiegate le ragioni che avevano consolidato il rapporto tra la Chiesa e il regime e le tensioni, riesplose nel 1938, che rischiarono di incrinarlo, Renato Moro riusciva a cogliere nell’atteggiamento e nella riflessione giovanile di Moro elementi utili per capire meglio anche quella fase di crisi. Per rettificare, inoltre, le grossolane letture sino ad allora date alla partecipazione di Moro, coronata da un discreto successo, ai Littoriali della cultura e dell’arte organizzati nel 1937 a Napoli e nel 1938 a Palermo. La circostanza aveva già parecchio tempo addietro suscitato alcune polemiche[60]. Ma l’oggetto delle considerazioni dello studioso non era, di nuovo, la presenza di Moro in sé a quegli agoni. Prima ancora egli approfondiva le motivazioni che avevano portato la Fuci stessa, in quanto associazione, a confrontarsi, grazie a una partecipazione intensa e significativa anche sotto un profilo numerico, con quel momento culturale e nazionale di aggregazione dei giovani e con le tematiche che vi venivano discusse. Motivazioni che prescindevano dal tentativo di infiltrarsi e di condizionare il regime all’interno di in una delle sue più peculiari espressioni. Piuttosto lo storico vi coglieva il desiderio di non rimanere estranei a una rilevante occasione di confronto culturale e generazionale, nella quale, non da ultimo, era possibile entrare in contatto con le tendenze dell’anticonformismo universitario. La partecipazione di Moro ai littoriali era perciò illuminata nel contesto che l’aveva determinata. Veniva indagato il modo con cui l’associazione sviluppava sulla stampa il tema posto a oggetto delle diverse gare letterarie, con quali sensibilità, con quali riferimenti, con quali perplessità e reticenze; il modo con cui lo stesso Moro, in altri articoli di taglio giuridico su «Azione fucina» rifletteva su temi analoghi; il modo con cui conciliava con inedite prospettive la riaffermazione dei principi della dottrina cattolica con un’accentuazione del valore di completamento e di potenziamento delle possibilità individuali fornito dallo Stato, con l’insistenza sulla soluzione costituzionale, con la centralità dei rapporti tra l’individuo e lo Stato, con il valore autonomo della persona[61]. Lo studio della partecipazione ai littoriali consentiva insomma a Renato Moro di verificare la presa di distanza culturale di Moro dalla generazione precedente, incomprensibilmente ferma, per lui e per i suoi coetanei ormai pienamente inseriti nell’universo del consenso, a osservare dal di fuori un mondo in fermento. Ferma, in ultima analisi, al passato. Sotto un profilo storiografico, quindi, a rilevare non era la definizione della posizione di Moro dinanzi al fascismo in termini precisi quanto l’abbandono, in lui evidente, di ogni atteggiamento strumentale o di ogni ansia di riconquista di posizioni nei confronti del fascismo, pur con riserve sostanziali nei confronti delle tendenze più radicali del regime e con considerazioni critiche molto personali[62]. Nella partecipazione ai littoriali lo studioso coglieva così il segno di una storia più grande e più complessa di quella di un agone culturale fascista e di un suo partecipante. La storia di una laica e problematica ricerca di raccordo tra due mondi, di una potenziale diaspora verso temi e verso sfide che gli intellettuali cattolici, sul finire degli anni Trenta, avvertirono di dover affrontare nella crescente consapevolezza di non avere più una soluzione univoca ed esclusiva alla crisi della civiltà ormai in pieno corso.
Il saggio di Renato Moro passava al vaglio delle fonti anche il significato della militanza di Moro nella Fuci. Su di essa, lo si è visto, autorevoli esponenti e studiosi del movimento cattolico avevano espresso la tesi di un’assoluta continuità di posizioni con l’esperienza precedente e con quella successiva. La tesi veniva ora attentamente confutata. Emergevano, anche in questo caso, elementi di grande novità rispetto al passato e rispetto alla tradizione legata a Giovanni Battista Montini che, insieme a Igino Righetti, aveva contribuito a plasmare l’identità dell’associazione. Il loro era stato un duttile lavoro di mediazione culturale perché un cattolicesimo rinnovato fosse messo in condizione di inserirsi anche nelle forme più avanzate della civiltà moderna e perché le soluzioni della dottrina sociale non rimanessero mere affermazioni di principio ma potessero incidere nella società[63]. Pur proseguendo lungo questa linea, lo stile e gli obiettivi di Aldo Moro nella Fuci furono sensibilmente diversi e risentirono in misura determinante della sua personalità e della sua indole spirituale. Emerse in modo chiaro il rifiuto di ogni contrapposizione tra il cattolicesimo e la cultura laica, in uno sforzo di mediare, sempre cercandone la verità profonda, posizioni lontane e talvolta antitetiche, di preservare la fede cristiana da ogni tentativo di ridurla a ideologia, di conciliare, in modo organico e consapevole, motivi culturali differenti, influssi ricevuti dentro l’atmosfera nella quale era cresciuto, intuizioni in equilibrio tra la tradizione tomista e il clima idealista che dominava la cultura[64]. Questi elementi concorrevano a disegnare il quadro di un umanesimo cristiano che a ragion veduta Elia aveva definito «ecumenico», eterogeneo nelle sue fonti letterarie, filosofiche e teologiche. Ma non era solo questa sorta di eclettismo a segnare una differenza rispetto al passato.
Anche nella organizzazione e nella programmazione culturale della vita della Fuci la presidenza di Moro aveva segnato – scrisse Renato Moro – una «svolta consistente rispetto all’impostazione montiniana»[65]. Da un lato, egli documentava come l’attenzione per l’articolazione dei circoli nel meridione d’Italia e per i nuovi rapporti tra le associazioni e i segretariati, la cura per la presenza nelle università, la riorganizzazione della vita federativa nel periodo bellico avessero introdotto effettive novità nella gestione del sodalizio. Dall’altro, spiegava l’originalità dell’indirizzo culturale che aveva qualificato questo lavoro: il richiamo alla vita interiore e ai suoi valori e il primato assegnato all’impegno morale non erano stati, per lo storico, l’espressione di un intimismo vago o sprovveduto ma gli strumenti di un’operazione culturale lungimirante e complessa. Il discorso non era stato più concentrato sulla sola definizione del corretto rapporto tra la fede e la ragione. Aveva avuto l’ambizione di animare un confronto tra la cultura cattolica e il mondo moderno e di ispirare un apostolato della verità richiamando alle ragioni ultime della vita dell’intellettuale e del suo impegno. Un richiamo che – precisava ancora Renato Moro – non era stato ideologico né presumeva che la dottrina potesse essere la fonte di un potenziale programma politico e sociale. Le ampie citazioni degli scritti giovanili cui l’autore ricorreva dimostravano in modo eloquente come lo sforzo di un impegno morale nella storia fosse rimasto per Moro estraneo all’idea di dover preparare il futuro o di dovere almeno costruire le premesse ideali di una presenza politica dei cattolici.
L’ampio saggio di Renato Moro, in definitiva, confermava quanto fosse indispensabile ritornare ai testi di Moro per restituirne la giovinezza alla sua complessità dentro un quadro più ampio di ascendenze, per cogliere le sue sfumature, per mettere a nudo le radici nel contesto storico in cui essa si era svolta. Il necessario passaggio dall’immagine della politica e della cronaca all’immagine della storia, almeno per gli anni giovanili, era stato dunque aperto[66].
Più in generale negli studi sul movimento cattolico cominciava a crescere la consapevolezza di una necessaria distinzione tra la sensibilità storica dei suoi esponenti e il distacco critico richiesto per vagliarne le testimonianze in sede storiografica. L’intensificarsi delle ricerche portava al superamento di una visione corporativa della presenza cattolica nella società e nella storia italiana. Si cominciava inoltre a comprendere come fosse tendenzioso continuare a ragionare sulla storia dei movimenti intellettuali in cui Aldo Moro si era formato come orientati e ispirati da un univoco, definito, organico progetto. Occorreva piuttosto – lo ricordava Pietro Scoppola nel 1982 a proposito della storia del Movimento laureati – «verificare l’efficacia e l’incidenza reale di un patrimonio culturale ricco e sfaccettato, e di verificare anche le smentite che esso ha avuto dalla realtà del secondo dopoguerra»[67]. In un intervento tenuto nel 1984 a San Pellegrino nel corso del convegno Con Aldo Moro a San Pellegrino dopo vent’anni, lo stesso Scoppola giudicava maturo il tempo per una «ricerca propriamente storica su Aldo Moro, sul tempo che è legato al suo nome, con una maggiore attenzione filologica»[68]. E applicando le richiamate distinzioni, indicava nella sua formazione giovanile, aperta alle influenze laiche e immersa nel mondo universitario meridionale segnato dal pensiero storicistico, il modello perché si potesse recuperare, in sede storiografica, il valore di una cultura dei comportamenti, piuttosto che una cultura del progetto, una cultura cioè attenta al momento «della tensione interiore, della tensione morale, della spinta etica, attenta al rigore della razionalità»[69]. Nello stesso convegno la relazione di Renato Dall’Andro, tra gli uomini politici più vicini a Moro, confermava come fosse impossibile ridurre la formazione di Moro, «prettamente scientifica, nel doppio senso della tecnica scientifica e dell’umanità della scienza»[70], entro una singola matrice, e come fosse, al contrario, possibile conciliare il calore della testimonianza e la citazione alle fonti, traendo dalle pagine di «Azione fucina» le chiavi di lettura per cogliere due aspetti determinanti della personalità di Moro: l’unità di vita e l’apertura al dialogo nel reciproco riconoscimento di una comune ricerca della verità.
A metà degli anni Ottanta il periodo giovanile di Moro trovava spazio anche nelle ricerche di Mario Casella sull’Azione cattolica, sulla Costituente e sul fervore di attività e di discussioni fiorite in seno all’associazione all’indomani della caduta del regime[71]. Anche in questo ambito, il ricorso a un’ampia documentazione inedita portava alla luce, da una parte, l’immersione di Moro in un contesto segnato da una spiritualità complessa e multiforme[72], dall’altra la difficoltà dell’Azione cattolica ad assumere una posizione chiara nei confronti del partito democristiano. Risaltava tutta la difficoltà dell’associazione a distinguere la sfera dell’impegno politico in senso stretto da quella dell’intervento nel sociale in un senso più comprensivo, e a fare in modo che le aspirazioni di una fetta importante degli iscritti trovassero attenzione e considerazione all’interno del progetto ricostruttivo del partito[73]. Il ruolo di Moro risultava ancora più incisivo alla vigilia del referendum e delle elezioni per l’Assemblea costituente. In una ricognizione delle iniziative dei cattolici in quel delicato frangente, Casella poteva infatti verificare l’efficacia del lavoro di Moro nel dare impulso alle Unioni professionali, nel definire i loro statuti, nell’ispirare il loro apostolato verso una più articolata opera di comprensione delle esigenze delle classi sociali e lavorative all’interno del nuovo scenario democratico[74]. Si era trattato di un lavoro, ancora nei primi mesi del 1946, da intendersi in una prospettiva aperta sì all’impegno crescente nella vita pubblica ma sempre segnata da una tonalità religiosa. Lo confermava l’intenso scambio di idee della primavera seguente sulla posizione che l’Azione cattolica avrebbe dovuto assumere nelle imminenti elezioni. Il carteggio di Moro con Vittorino Veronese, presentato e commentato da Casella, dava la misura del ritmo intenso delle decisioni e delle possibilità apertesi in corso d’opera, delle opzioni sul tavolo, anche rispetto alla situazione di Moro come segretario dei Laureati e direttore della rivista «Studium», mentre prendeva corpo la possibilità di una sua candidatura[75]. Aggiornando con documentazione nuova le conoscenze sul giovane Moro e sul suo complicato avvicinamento alla politica, il quadro interpretativo fornito da Casella era però basato sulla convinzione che si potesse cogliere in quei fermenti un progetto, seppure abbozzato, una linea condivisa all’interno dell’Azione cattolica nei confronti della nuova fase che l’Italia si apprestava a vivere tra la liberazione e la Costituente. Qualcosa che assomigliava a una sorta di scelta religiosa ante litteram. Un indirizzo generale, insomma, che Moro avrebbe contribuito a elaborare in modo decisivo e che era condiviso sia dai rami intellettuali che da quelli di massa. Questo progetto era volto non a instaurare un’egemonia confessionale nell’Italia postfascista ma a «fare più cristiana la società italiana e a contribuire, accanto e possibilmente in collaborazione con le altre forze, alla ricostruzione morale e materiale del paese»[76]. La tesi non sembrava convincente a Renato Moro. In un convegno del novembre 1986 – ma gli atti saranno pubblicati cinque anni più tardi – egli ribadiva la necessità di ragionare invece a partire proprio dall’assenza di un progetto politico preciso da parte dei movimenti intellettuali in quegli anni, frutto di prospettive distinte e conflittuali, tali da rendere impossibili opzioni politiche determinate[77]. Mentre si discuteva della consistenza e degli esiti di un più ampio e specifico «progetto maritainiano-montiniano», tratteggiato ne La nuova cristianità perduta di Scoppola[78], Renato Moro richiamava gli elementi peculiari dei cattolici nella stagione della ricostruzione. Sottolineando il valore dell’autonomia del sociale dal politico e del pluralismo visto come un elemento costitutivo della vita civile e non solo di quella politica, egli introduceva la suggestiva immagine di una koinè[79] degli intellettuali dell’Azione cattolica, della quale Aldo Moro, accanto a Sergio Paronetto, sarebbe stato il più lucido esponente. Una koinè che si era confrontata con il tema della crisi di civiltà che non viene letta né nella chiave in cui la ripropone il magistero pontificio, né nella chiave tutta politica degasperiana che ne fa il preambolo alla fondazione della funzione centrale del cattolicesimo politico, ma viene intesa, in chiave religiosa, come invito all’impegno del cristiano nel temporale, come elemento che scuote ogni separatezza dell’uomo di cultura. È solo in questo senso che il cattolicesimo integrale, il cattolicesimo cioè integralmente vissuto, si presenta come unica risposta ormai possibile, come unica alternativa al totalitarismo[80].
Se si stacca lo sguardo dal tavolo di lavoro degli storici del movimento cattolico, ci si accorge però come la pubblicistica, ancora a metà degli anni Ottanta, fosse quasi del tutto impermeabile alle loro considerazioni e alle tante e sfumate interpretazioni dell’impegno e del pensiero giovanile di Aldo Moro che essi stavano scoprendo. È appena il caso di ricordare la brutale liquidazione dei suoi scritti giovanili contenuta nel pamphlet di Italo Pietra Moro, fu vera gloria?, pubblicato da Garzanti nel 1983. Scopo del libello era provare l’«eccezionale grigiore del personaggio»[81] e l’abulia dimostrata già negli anni della guerra, alla quale Moro – scriveva l’autore – «assiste tranquillamente dalle finestre di casa»[82], come uno spettatore tra «quelli che decidono di lasciarsi vivere, in attesa degli eventi»[83]. Il fuoco della critica pioveva, indistintamente, e sugli scritti di «Azione fucina» e su quelli de «La rassegna»; i primi «grondano di buone intenzioni, di luoghi comuni accuratamente vestiti a festa, di sentenza logorate dall’uso come il fondo dei pantaloni stravecchi»[84], i secondi
sono splendidi, come bolle di sapone. Dentro, non c’è niente. Il professorino ventisettenne appare consumato nell’arte di predicare con sussiego le cose ovvie e di scansare con parole circospette i problemi concreti, i drammi, i bivi di quei giorni. Le sue argomentazioni sono come i sentieri in un giardino, fatti per allungare, non per accorciare i percorsi. Ha la calma degli arcieri che nei dipinti antichi assistono al supplizio di san Sebastiano guardando al di fuori del quadro[85].
Tutto un “altro” Moro, insomma, da quello documentato e studiato con pazienza dagli storici. Un altro ancora – già nel titolo – quello che il giornalista Antonio Rossano raccontò due anni più tardi[86]. Egli esordiva riconoscendo come la vita di Moro sino ad allora fosse «stata più volte ampiamente descritta, in alcuni casi con episodi inventati, in altri con la piaggeria di chi vuol compiacere i potenti, talvolta con la superficialità di chi non ha tempo e voglia di documentarsi»[87]. Ma se l’obiettivo era proporre un’immagine alternativa di Moro – un tentativo che tanti presunti esegeti della sua figura avevano e avrebbero compiuto prima e dopo Rossano – l’esito risultava sicuramente scarso. Nonostante la giusta premessa appena richiamata, anche il libro di Rossano finiva per essere più attento agli episodi che ai documenti. Dal ciuffo di capelli bianchi alla profezia di Agostino Gemelli su un futuro politico luminoso, dagli esami universitari agli episodi spicciola della vita militare, il florilegio di citazioni degli scritti giovanili si mescolava, senza interpretazioni e con qualche grossolano errore – basti, su tutti, il cenno a «Jean Maritain»[88] – a una serie di pittoreschi aneddoti sulla sua giovinezza. E si esauriva in una immagine tutt’altro che alternativa, impantanata, sin da allora, nelle «sabbie mobili dei tempi lunghi»[89] o, peggio,
l’immagine di un Moro che pare sentirsi “unto dal Signore”. Consapevole, certo, degli inevitabili errori dell’umana natura ma anche deciso a compiere fino in fondo il suo dovere, quella “preziosa funzione” attribuita alla “parte più evoluta politicamente” e insieme “più devota del laicato cattolico”. La funzione di un moderno “monarca” che, non potendo trasferire sulla terra il regno di Dio, cerca di farne, almeno, un luogo di vita pienamente umana, le cui strutture sociali abbiano come misura la giustizia e la dignità dell’uomo[90].
La pubblicistica sembrava inoltre affezionata all’opinione che gli scritti giovanili di Aldo Moro fossero da considerare come la premessa del pensiero e dell’impegno politico successivo, lo strumento per capire, anche in questo caso, un “altro” Moro, quello più noto e celebrato. Lo confermava, ad esempio, l’antologia di testi curata nel 1988 da Giovanni Di Capua, con l’inclusione di diversi scritti giovanili[91]. Pur riconoscendo la forte diffidenza del giovane Moro verso la politica, pur contestualizzando, nei corsivi di introduzione, il suo impegno e quello dei «professorini baresi»[92] raccolti attorno a «La rassegna» e «Pensiero e vita» all’interno delle dinamiche dell’università e della chiesa meridionale, l’autore affermava che
una lettura attenta degli scritti politici, diciamo giovanili di Aldo Moro, può concorrere a dissipare taluni dubbi sulla vocazione partitica di Moro nella fase costruttiva della nuova democrazia postfascista. E serve ad accertare se esiste, e sino a che punto, una linea di coerenza fra il Moro della fase d’avviamento del nuovo regime ed il Moro grande mediatore dei contrasti partitici degli anni settanta, il Moro più noto e celebrato[93].
Il decimo anniversario dalla morte di Moro, come avverrà per tutte le successive, analoghe ricorrenze, fu segnato dall’intensificarsi dell’interesse e delle pubblicazioni su di lui. Nel 1988, oltre alla ristampa in versione anastatica degli articoli apparsi su «La rassegna» curata da Giuseppe Lamaddalena e propiziata dall’Università degli studi di Bari[94], nella collana di biografie curata da Jean-Dominique Durand e Régis Ladous presso l’editore parigino Beauchesne usciva, dopo le prime due dedicate a Edmond Michelet e Konrad Adenauer, una biografia di Aldo Moro a firma di Giorgio Campanini[95]. Nel libro, pur riprendendo alcune riflessioni già espresse nella nota storico-critica alla raccolta Al di là della politica e altri scritti e pur riscontrando «nessuna brusca rottura, nessun improvviso salto di qualità, ma piuttosto una sostanziale coerenza fra due ambiti di impegno – quello religioso e quello politico – che, pur nella distinzione dei piani, venivano colti quasi come due dimensioni di una stessa testimonianza»[96], l’autore considerava adesso la militanza di Moro nella Fuci quale un «indiretto apprendistato della politica»[97]. Egli commentava gli scritti giovanili assegnando loro un’importanza fondamentale nella biografia intellettuale e nella fondazione religiosa e morale dell’impegno politico della sua generazione. «L’aspetto che maggiormente colpisce il lettore di questi testi giovanili di Moro – scriveva – è la vastità degli orizzonti, per molti aspetti inconsueta nell’ambito della cultura cattolica di quegli anni»[98]. E insisteva sull’attenzione alla stampa laica, sulla capacità di informarsi, sull’interesse per le vicende che accadevano al di fuori della Chiesa, segno di un «dialogo serrato con gli altri umanesimi che, all’indomani della caduta del fascismo, si proponevano come risposte diverse (ma non sempre, sottolineava Moro, necessariamente incompatibili con quella cristiana) alla stessa crisi di civiltà che coinvolgeva credenti e non credenti»[99].
Nell’ambito delle commemorazioni, è degno di nota anche quanto Italo Mancini ebbe a ricordare a proposito degli scritti giovanili di Moro in un convegno tenuto a Fabriano quell’anno[100]. Essi meritavano, a giudizio del filosofo, uno scavo sempre più approfondito e scrupoloso, in grado di individuare i riferimenti culturali mai in essi espliciti, le fonti, le ascendenze così abilmente nascoste dal loro autore quasi che egli avesse voluto rendere arduo il cammino agli studiosi. Egli riteneva che la concezione del diritto del giovane Moro andasse intesa, prima che come una definizione concettuale, come una rigorosa realizzazione vivente dell’ideale di giustizia. Anziché cedere all’impressione destata dalla sua prosa, da tanti ritenuta complicata e oscura, formulava l’invito, non banale, a insistere piuttosto sulla costruzione dei periodi negli scritti giovanili, sulla scansione organica e articolata in capoversi, all’interno dei quali, disse, «c’è sempre un’onda fra gli estremi che si respingono e si ritoccano»[101].
Sempre più corposi riferimenti alla giovinezza di Aldo Moro prendevano intanto posto nella storiografia sul partito democristiano e in quella sul cattolicesimo meridionale e pugliese. Un posto decisamente marginale nella Storia della Democrazia Cristiana, nel cui primo volume Silvio Tramontin si limitava a un cenno trascurabile alla militanza di Moro nella Fuci e agli scritti su «Azione fucina»[102]. Più larga attenzione dimostrava invece Agostino Giovagnoli nella sua opera su La cultura democristiana[103]. Nel solco della tesi già difesa nei suoi precedenti lavori, egli si dichiarava convinto del cospicuo ruolo svolto dalla spiritualità nella formazione degli intellettuali cattolici che nel dopoguerra si sarebbero ritrovati alla guida del paese. La dimensione religiosa, contribuendo a trasformare la professione in mezzo di cambiamento del proprio status con una disciplina, un rigore, una motivazione propria, in un costante adattamento alla realtà del mondo moderno, avrebbe contribuito a dare a questa classe dirigente particolari doti di flessibilità. E aggiungeva a proposito di Moro:
La prospettiva del perfezionamento, della crescita spirituale, dell’evoluzione interiore suggeriva anche una qualche apertura alla dimensione del cambiamento e dello sviluppo storico, in genere carente nella cultura cattolica dell’epoca. In intelligenze sistematiche, come quella di Aldo Moro, la dimensione della spiritualità rafforzava una lettura degli avvenimenti nella chiave di processi storici complessi e contraddittori di disvelamento progressivo “nella vita” di costanti principi di “verità”. La spiritualità in altre parole ha spesso rappresentato l’elemento coagulante di una classe dirigente che non ha avuto una sua organica prospettica ideologica[104].
Quest’ultimo elemento veniva ribadito: la generazione di Moro non aveva maturato una proposta di egemonia culturale complessiva. Erano stati, sì, intellettuali nel senso proprio del termine ma privi di un’utopia politica netta, motivati piuttosto dal desiderio di ispirare il loro impegno a partire dalla specifica congiuntura storica e in essa, nella storia, esprimerlo con una testimonianza della verità. «Da una formazione religiosa di tipo prevalentemente interiore, – scriveva Giovagnoli – Moro traeva nei primi anni Quaranta un’idea della verità non sempre chiara ed evidente, ma spesso nascosta dalla vita. Compito del cristiano era cogliere questa verità e farla emergere: c’era dunque anche, implicitamente, un rapporto tra verità e storia, che passava per l’azione dei protagonisti, con implicazioni anche politiche»[105]. La distanza di questa generazione dalla precedente, quella degli ex popolari, nella costruzione del progetto democristiano, emergeva in modo sempre più circostanziato, accanto al forte legame con l’istituzione ecclesiastica che, nel caso dell’esordio in politica di Moro, si configurava agli occhi dello storico come un vero e proprio mandato[106].
Come già accennato, la sede di altre considerazioni sul pensiero giovanile di Moro era la storiografia sul meridione e, in particolare, sulla Puglia. Già Gabriele De Rosa, pochi mesi dopo la sua morte, ne aveva tentato Una prima lettura del pensiero meridionalista[107]. Egli aveva suggerito come la sua formazione e quella di una larga fetta della gioventù cattolica pugliese fossero comprensibili solo se inserite dentro il peculiare ambiente della borghesia del Sud. Un ambiente di provincia ma lontano dagli stereotipi del laicato tradizionale meridionale segnato da uno spirito di congrega, dal frazionamento parrocchiale e dal clericalismo. Il pensiero giovanile di Moro, discorsivo, dialettico, ricco di duttilità, attento all’evoluzione della società e pronto a ricondurre sempre il fluire del reale dentro un discorso storico, avrebbe cioè risentito in modo determinante della visione dello Stato tipica del Sud e, in questo, sarebbe stato ancora più coraggioso, proprio perché sin nelle sue prime lezioni invitava a ripensarlo. Già allora De Rosa aveva individuato nel rapporto dialettico tra questa specifica realtà e Roma uno dei momenti più interessanti sotto il profilo storiografico per comprendere il giovane Moro, «Roma che, per un giovane cattolico degli anni Trenta, vuol dire Giovanni Battista Montini e la sua scuola di modernità, di presenza attiva nella vita delle associazioni universitarie, vuol dire cultura e filosofia spiritualista europea, vuol dire linguaggio del personalismo cristiano»[108].
Dieci anni dopo, nel 1988, uno studio di Vito Antonio Leuzzi chiariva i contorni della fase di rinascita democratica a Bari e della ricostituzione della Democrazia cristiana locale[109]. Si cominciava così a intuire il ruolo della generazione intellettuale che operò, insieme a Moro, nel capoluogo pugliese, in una continua sovrapposizione di ruoli e di funzioni, articolandosi in nuclei redazionali che, animando i periodici armistiziali, si confrontarono vivacemente con i nuovi gruppi dirigenti dei partiti democratici. Emergeva il loro compito di informare e formare un’opinione pubblica disgregata, di riannodare i fili del dibattito tra la sfera civile e quella politica, in un contesto denso di aspettative.
Ad esso, nel 1997, Vincenzo Robles, mettendo a sintesi le acquisizioni della storiografia sulla Puglia durante il Regno del Sud, dedicò un’analisi di grande importanza per contestualizzare l’opera e il pensiero di Moro[110]. Egli osservava come, per lungo tempo, avesse goduto di credito l’immagine di una Puglia isolata, silenziosa, lontana dalla guerra e dal fervore della resistenza, ancora chiusa entro un’ottica provinciale e municipale. Essa aveva invece conosciuto un profondo mutamento durante il conflitto e la guerra civile che ne era scaturita. «Motore e anima di questo cambiamento che seppe operare senza clamori, ma semplicemente con una presenza capillare e costante»[111], scriveva Robles, era stata la Chiesa. Essa si era impegnata a realizzare nuove iniziative di presenza pastorale, a superare le mere forme di devozione e di pietà popolare nel culto, ad assistere concretamente attraverso una miriade di opere il mondo dei reduci e quello agricolo e bracciantile. Le fonti dimostravano, inoltre, uno specifico contributo della regione pugliese alla ricostruzione democratica del Paese. Era quello che anche Aldo Moro, su «La rassegna» aveva definito «vento del Sud», non contrapposto ma concorrente a quello del Nord, foriero di proposte e di riflessioni che, mentre al settentrione si combatteva, al meridione orientavano il futuro dell’Italia, discutevano sulle nuove forme di partecipazione democratica e sull’educazione della coscienza civile, che si impegnavano a porre correttivi ad alcune esagerazioni e ambiguità sul ruolo dei partiti, secondo una logica chiarissima negli scritti di Moro[112]. Egli si era perciò collocato in questo preciso contesto regionale, privo di entusiasmi popolari ma dedito a creare una mentalità, lontano dalle azioni di guerra ma consapevole del rischio dei radicalismi della politica e della necessità di fissare i presupposti di una pace duratura. Moro – scriveva Robles – «invitava alla calma, alla riflessione; sottolineava e difendeva i più profondi valori umani; condannava qualsiasi estremismo; diffidava delle strutture di partiti. Egli discuteva sulla opportunità o meno di un partito democratico cristiano, ma non per questo avversava quel partito o ne preferiva qualche altro»[113]. Nel confronto con le posizioni assunte o propiziate dalla Chiesa in quei mesi, e nelle distinzioni tra l’impegno religioso e quello politico, il pensiero di Moro veniva illuminato dalla generale considerazione che «più che offrire completa credibilità a un partito che si andava costituendo e che andava precisando il suo pensiero e le sue strategie, era più opportuno creare una opinione cattolica a garanzia di alcuni principi inalienabili»[114]. Il giovane Moro, conscio e partecipe di questo ruolo guida dei cattolici nel ripristino delle garanzie democratiche, era insomma stato un protagonista di quella che Roberto Paolo Violi, nell’introduzione al volume e proprio a proposito della chiesa di Puglia, aveva definito una «pedagogia prepolitica della democrazia»[115].
Nel 1993 sugli anni giovanili trascorsi da Moro a Bari aveva inoltre scritto un volume, ricco di testimonianze e di confidenze, Donato De Leonardis[116]. La dovizia dei ricordi sull’esperienza fucina e militare condivisa con Moro incrementava senz’altro la conoscenza su tante vicende e momenti del tratto iniziale del suo itinerario biografico. Ma anche in questo caso l’autore finiva col raccontare un “altro” Moro. L’obiettivo esplicito del libro era infatti quello di correggere la percezione della sua immagine giovanile, narrare la sua vera «umanità» a partire dai ricordi di un’antica e intima amicizia. Non l’indole circospetta, riservata e cupa sino ad allora conosciuta dai più. L’autore descriveva, al contrario, un giovane immerso nella gioiosa atmosfera goliardica degli anni universitari «a volte pensieroso e assorto quando occorreva prendere decisioni od illustrare complessi temi, ma aperto e cordiale nelle relazioni quotidiane in una semplicità di atteggiamento che suscitava simpatia e confidenza»[117].
Sul meridionalismo nel pensiero del giovane Moro si tornò poi a riflettere in un importante convegno di studi tenuto a Bari nel 1998, in occasione del ventennale della morte. In senso più generale Pietro Scoppola poté allora constatare: «Il paradosso è che Moro torna sotto la spinta delle stesse ragioni che hanno portato alla sua rimozione. Le circostanze della sua morte hanno contribuito alla rimozione. Ma ora proprio quella zona d’ombra che circonda ancora la sua morte è diventata e sta diventando un motivo di più per parlare di lui»[118]. Si poteva, cioè, tracciare un primo bilancio storiografico e soppesare i giudizi vari e perfino discordi sino ad allora emersi: da quello di una sostanziale incomprensione nella prima storia organica della Repubblica scritta dell’inglese Paul Ginsborg[119] a quelli più articolati ed equilibrati di opere successive. A proposito della formazione giovanile di Moro, Scoppola introduceva il neologismo della «meridionalità» come tratto distintivo dei suoi primi scritti. Una meridionalità da intendersi non come una forma di dipendenza da un costume locale, ma in senso dialettico, come reazione a una mentalità apatica, rivolta pigramente allo sfruttamento del privilegio sociale, come segno e eredità di una borghesia seria, colta, dedita al servizio dello Stato, in particolare nel mondo della scuola, esattamente come era stata la famiglia di Moro. Proprio questi erano stati, infatti, i caratteri dell’ambiente in cui egli era nato e si era formato, caratteri di serietà e di rigore, che avevano fondato il senso di una sua forte responsabilità personale nell’impegno e nel servizio sociale.
Nel convegno barese del 1998 Renato Moro approfondiva la sua riflessione sulla formazione giovanile di Moro in una relazione poi sviluppata nel corposo saggio incluso negli atti [120]. Il quadro del suo impegno e dello sviluppo del suo pensiero negli anni della Fuci, analizzato nell’articolo del 1983, veniva ora ampliato concentrando l’attenzione sulla fase successiva, quella della rinascita democratica, della collaborazione editoriale a «La rassegna» e «Pensiero e vita» e del lento percorso di avvicinamento alla politica. La tesi storiografica di fondo veniva confermata già nella premessa: lo studio della formazione giovanile di Moro non andava compiuto per rintracciarvi, spesso in modo del tutto schematico, intuizioni e spiegazioni di successivi percorsi politici. Esso diventava rilevante se compreso all’interno di un problema storico, quello della formazione di una nuova classe dirigente, intesa come espressione peculiare di un nuovo movimento cattolico italiano. Nuovo nel suo rapporto con lo Stato, con le masse, con la modernità, con la nazione. Nuovo perché un’intera generazione, cresciuta nell’universo del consenso, aveva smarrito ogni traccia di una memoria storica del prefascismo e, di ciò, il profilo di Moro appariva largamente rappresentativo. Era possibile verificarlo immergendosi, come faceva il saggio, nel laboratorio culturale delle riviste baresi tra il 1943 e il 1945. Gli scritti su «La rassegna» risentivano della scelta di Moro di collocarsi sul terreno del commento e della partecipazione alla politica attraverso una riflessione culturale, priva di ogni interesse o propensione per un impegno diretto nella politica. Il suo discorso appariva invece orientato a mitigare gli eccessi dell’opinione pubblica, a dare voce alle resistenze della società meridionale non tanto verso la democrazia dei partiti che stava allora prendendo forma quanto verso la loro conflittualità ideologica e verso gli eccessi in cui poteva degenerare la polemica antifascista. Studiando tutto questo, sullo sfondo dell’evoluzione complessiva del giovane Moro nella Fuci e durante la guerra già a suo tempo ripercorsa[121], Renato Moro arricchiva il quadro cogliendo ora la coerenza della sua concezione della politica e del ruolo degli intellettuali cattolici nei confronti di essa. Anche qui l’elemento della cesura rispetto al passato appariva pienamente confermato, se non radicalizzato: la priorità assegnata alla scelta morale rispetto a quella partitica, al pluralismo delle opzioni cattoliche rispetto a una rappresentanza politica unitaria, ai problemi concreti del presente rispetto ai modelli ideali del passato prefascista erano tutti aspetti che segnalavano una sfiducia profonda e generalizzata verso le forze degli ex popolari e, di conseguenza, avevano reso l’approdo alla Democrazia cristiana di Moro e della sua generazione controverso e per nulla scontato e naturale rispetto a quanto si era creduto.
Così come lo era stata la partecipazione giovanile alle iniziative del regime durante gli anni della Fuci, un altro aspetto di grande rilievo era rappresentato dalle argomentazioni di Moro attorno all’eredità del fascismo. Renato Moro sottolineava infatti l’acuta sensibilità del giovane scrittore de «La rassegna» per i guasti che il crollo dell’illusione fascista aveva inferto all’identità civile e nazionale degli italiani ma anche l’esigenza di discernere con cura il peso delle responsabilità e la necessità di formulare un giudizio ben ponderato, senza affrettate liquidazioni, di preservare sopra ogni cosa la dignità morale e spirituale dell’Italia e degli italiani. Se questo obiettivo era possibile rintracciare con chiarezza negli scritti del periodo, molto più complesso, per lo studioso, ricondurre la posizione di Moro a una netta opzione politica. Renato Moro ricostruiva l’ampio spettro delle sue considerazioni sulle questioni più scottanti nel magma culturale e politico di quei mesi: le tendenze reazionarie dei monarchici e quelle velleitarie dei ciellenisti, le imprudenze dell’antifascismo e il disimpegno dei qualunquisti, il valore delle ideologie e l’assolutizzazione della politica, le aberrazioni della pedagogia fascista e la mistica delle sinistre. Immerso in queste polemiche, il pensiero di Moro si presentava alla lente dello studioso impossibile da connotare in modo circostanziato, sincretico e ricco di sfaccettature e di intuizioni apparentemente divergenti, sempre bisognoso di essere contestualizzato alla luce di singoli episodi e di specifici dibattiti sulla stampa del periodo. Pregno, ancora, di un’originale attenzione al tema dei rapporti tra il popolo e lo Stato, rivolto a conciliare dialetticamente valori contrapposti, quali Stato e individuo, autorità e democrazia, potere e libertà, secondo una spinta che veniva dalla sua formazione giuridica. La stessa concezione della democrazia si qualificava come un processo oscillante e continuo di sintesi tra libertà e autorità, con una solida consapevolezza della necessità di educare le coscienze al valore e alla prassi del tutto inedita della democrazia stessa. Il punto fermo di questo caleidoscopio di idee era la professione di un cristianesimo integrale, che rendeva i cattolici fautori della sola rivoluzione efficace, quella appunto interiore, delle coscienze, capace di dare fondamento, nell’umanesimo cristiano, alla più vasta comunità internazionale, contro le astrazioni di un internazionalismo ideologico e sterile.
Il saggio di Renato Moro individuava, in quegli stessi scritti, il significato del punto di vista culturale e geografico di Moro e, perciò, il più ampio disagio del mondo intellettuale e della società meridionale di fronte allo sviluppo complessivo della storia italiana in quei mesi. La percezione della lotta che si stava compiendo nell’alta Italia, il senso attribuito alla liberazione, la visione dell’antifascismo resistenziale e degli azionisti si rivelavano profondamente diversi tra Nord e Sud. Sebbene inserito in un discorso più filosoficamente articolato e poco incline agli eccessi polemici del periodo, Moro avvertiva l’odore di radicalismo e di miracolismo che portava con sé il «vento del Nord», oltre alla necessità di ripensare daccapo i rapporti tra la capitale e il resto del Paese.
Renato Moro indicava, infine, la necessità di lavorare ancora a lungo e con una corretta metodologia storica nel precisare l’evoluzione del giovane Moro verso l’impegno politico, per capire più di quanto già si conoscesse del suo complicato legame con la Democrazia cristiana di Bari[122] o delle circostanze che lo spinsero candidarsi all’Assemblea costituente. L’analisi degli scritti giovanili del 1944-1946 avrebbe dovuto tenere in considerazione anche il significato della riflessione di Moro sul «centro». Senza negare una certa ritrosia, non priva di ingenuità e condivisa da una parte consistente della sua generazione, ad accettare la politica di parte a tutto vantaggio della sintesi, della conciliazione, dell’incontro, il «centro» andava interpretato, secondo lo storico, nelle differenti accezioni assunte nel linguaggio di Moro. Come riferito cioè alla posizione del partito cattolico, oppure a quella di un’eventuale formazione politica nuova e aconfessionale o, ancora, alla funzione del cattolicesimo stesso. Occorreva inoltre tenere a mente il ruolo che il giovane Moro aveva rivestito come dirigente nazionale del Movimento laureati e di come l’urgenza di lasciare questi ultimi fuori dalla mischia avesse accentuato la tendenza alla disponibilità e alla mediazione tra tutte quelle forze che accoglievano la bontà dell’ispirazione cristiana. In questo senso, lo studioso poteva constatare come il «centro» avesse lentamente assunto un significato più ampio, di apertura al pluralismo dei cattolici e Moro, smussando le asperità e le iniziali diffidenze verso la politica dei partiti, avesse cominciato ad avvertire preoccupazioni nuove, legate a potenziali reazioni conservatrici del mondo cattolico rispetto alle minacce di rivoluzione, alle ansie di inserimento nel dibattito pubblico delle masse o alle rovinose inerzie di quanti sceglievano la strada dell’apolitica e del qualunquismo[123].
Il 2008, segnato dalle celebrazioni per i trent’anni dalla morte di Moro, coincise con una svolta significativa nella storiografia su di lui[124]. Da allora in avanti hanno infatti cominciato ad apparire lavori storiografici sulla sua figura umana o su aspetti della sua attività politica e culturale che, per la prima volta, hanno consentito al numero dei contributi sulla sua vita prima del 1978 di superare quelli concentrati sul suo rapimento e sull’assassinio. Ma non è, ovviamente, solo una questione di numeri. Vediamo perché.
In quell’anno usciva, per i tipi di Sellerio, un profilo biografico di Corrado Guerzoni che poco aggiungeva alla conoscenza del periodo giovanile e della tormentata adesione alla politica, se non la testimonianza di un’influenza del pensiero di Maritain su Moro decisamente marginale rispetto a quanto sino ad allora si riteneva, sulla quale si tornerà più avanti[125]. L’Accademia di studi storici Aldo Moro organizzava un convegno internazionale nel corso del quale Maria Serena Piretti argomentava attorno ai temi che avrebbero costituito, a partire dagli scritti giovanili tra il 1943 e il 1944 sino a quelli della prigione brigatista, l’ossatura del pensiero moroteo: l’antifascismo, il popolo, il partito, il rapporto tra la democrazia e la libertà[126]. Il primo segnale del cambiamento di approccio allo studio del giovane Moro mi sembra vada tuttavia recuperato altrove.
Mi riferisco al lavoro L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo 1943-1948[127] nel quale Luca La Rovere collocava molto opportunamente la riflessione di Moro all’interno di un più complesso esame di coscienza generazionale sul fascismo. Già Emilio Gentile, dieci anni prima, in una sua opera sul mito della nazione[128], aveva preso in considerazione il contributo degli scritti di Moro nel momento seguito all’8 settembre, in cui la condanna del nazionalismo fascista aveva rischiato di travolgere la stessa idea di patria[129]. Nel generale disfacimento dei valori, egli aveva sottolineato il carattere esemplare della distinzione fatta propria da Moro tra patriottismo e nazionalismo, qualificando quest’ultimo unicamente come esaltazione della nazione, autoritarismo, imperialismo, superiorità razziale. Dalle colonne delle riviste baresi e di «Studium» aveva invitato i cattolici all’opera di restaurazione della patria per ridare una fiducia e un orientamento al popolo italiano, per riscoprire, senza retorica, una vita dello spirito ordinata, sostanziata in una civica e operosa concordia. «Nel sostenere le ragioni del patriottismo, Moro – aveva infatti scritto Gentile – si avvaleva di argomenti e toni, nei quali si avverte l’eco della concezione gentiliana della nazione. Molto più che su motivi storici e culturali, nel definire la patria e il patriottismo Moro insisteva su un essenziale motivo umano, riconducendo l’idea di patria alla concreta esperienza di vita sociale»[130].
Nella ricerca di La Rovere gli scritti giovanili di Aldo Moro spiccavano come un’interessante eccezione dentro il mondo cattolico, per il modo col quale avevano colto e interpretato lo smarrimento delle coscienze prodotto dalla grave crisi morale determinata dalla pedagogia del fascismo. Il mondo cattolico, secondo La Rovere, si era dimostrato disponibile, con una certa facilità, a riconoscere l’ampiezza delle adesioni al fascismo e a esprimere l’aspirazione comune a una rigenerazione etica dell’uomo e della società, finendo per riprodurre l’immagine rassicurante e auto assolutoria di un’Italia che aveva silenziosamente resistito al regime. Era mancata, insomma, un’analisi puntuale delle connessioni profonde dell’ideologia fascista con il tessuto sociale e politico della nazione. A partire dalla recensione che nel 1945 aveva scritto del volume di Herbert Matthews, I frutti del fascismo[131], La Rovere registrava invece una significativa eccezione proprio in Moro. Ne sottolineava la consapevolezza che l’aspetto liberticida e poliziesco avesse rappresentato solamente la parte manifesta del regime, mentre occorreva insistere sui frutti subdoli e marci della diseducazione morale e della mistica totalitaria. Esse avevano attecchito nelle menti degli italiani non già per un capriccio della storia ma per l’inerzia di molti e per la precisa responsabilità di altri. In questo senso andava compreso il richiamo di Moro al dovere dell’introspezione, come il contributo che ognuno avrebbe dovuto rendere alla ricomposizione delle ferite inferte alle coscienze. La Rovere coglieva poi le connessioni tra le considerazioni di Moro e il clima di profonda sfiducia che aveva segnato le giovani generazioni in preda alla sconsolata e quasi incredula constatazione di quanta immaturità vi fosse stata nell’adesione al regime ma anche di indifferenza verso i problemi e di incapacità di emanciparsi dai miti del fascismo[132].
Quella di Moro era perciò studiata come una «testimonianza particolarmente significativa, perché compiutamente argomentata e documentata, del travaglio di una generazione che aveva sperimentato esclusivamente la politica del fascismo»[133]. La lettura degli scritti tra il 1944 e il 1945 consentiva infatti all’autore di rintracciare il senso della denuncia dei limiti e delle derive dell’antifascismo politico, l’allarme per l’inadeguatezza a superare la crisi spirituale del paese, la necessità di una mobilitazione ideale nella quale l’opzione etica restava sempre superiore a quella politica. «La critica di Moro – proseguiva La Rovere – dava voce alla disillusione dei giovani per un antifascismo che avevano sognato diverso, per un regime di libertà che superasse realmente il fascismo e non ne riproducesse, come molti ritenevano che stesse accadendo, gli aspetti più deteriori»[134]. L’elemento ancora più interessante che l’analisi riusciva a documentare era nella qualità e nell’ampiezza del disincanto in cui erano cadute le nuove generazioni nel momento stesso in cui si erano confrontate con la concreta dialettica della lotta politica. Esse avevano sperimentato una sorta di renitenza etica che sfociava nella sconfitta, nel fallimento, nella convinzione che esistesse una irriducibilità dell’uomo alla politica e che pertanto il distacco dai partiti fosse persino la testimonianza di un «eroismo morale»[135]. Argomentando sulle ragioni di questo scetticismo verso la possibilità di riversare esigenze etiche così acutamente avvertite in un concreto impegno politico, La Rovere si chiedeva se l’integralismo dei giovani intellettuali cattolici fosse il prodotto di una particolare formazione religiosa o qualcosa di nuovo, che superava il loro ambiente, un dato proprio di un’intera generazione. A questa seconda opzione egli si dedicava, dimostrando come l’esigenza di una rigenerazione morale vissuta non soltanto contro i rigurgiti del vecchio fascismo ma anche contro le ambiguità e i rischi del nuovo antifascismo fosse condivisa da diversi altri gruppi. E come, quindi, a partire dall’esempio di Moro fosse possibile risalire a una problematica ben più ampia e avvincente sotto il profilo storiografico: quella dell’avvicinamento alla democrazia di tutta la sua generazione. Un percorso lento, faticoso, che aveva conosciuto soste e accelerazioni. Un processo di maturazione nel quale i fantasmi del passato sarebbero tornati a lungo. È proprio per questa capacità di collegare e leggere gli scritti giovanili di Moro in maniera fedele ma entro dinamiche storiche e generazionali sempre più complesse, ma anche puntualmente documentate, che la ricerca di La Rovere mi sembra possa essere segnalata come un esempio di quella svolta storiografica su Aldo Moro che, nelle pagine che seguono, mantenendo fisso lo sguardo al periodo giovanile, vorrei brevemente ripercorrere[136].
La consapevolezza di un opportuno cambiamento di paradigma traeva conferma anche dagli esiti del bilancio storiografico complessivo su oltre trent’anni di studi su Aldo Moro che tracciava, nel 2011, un numero monografico della rivista «Mondo contemporaneo»[137]. I giudizi su Moro nelle ricognizioni globali della storia italiana del Novecento lasciava spazio a pochi equivoci, come si è in parte richiamato all’inizio. Ma anche nella storiografia più recente, osservava Renato Moro[138], quella seguita alla cesura del 1992 e alla fine della cosiddetta prima Repubblica, l’opera di Moro compariva sì come il simbolo del fragile e complesso cammino di maturazione della democrazia dell’Italia ma anche oggetto di perduranti giudizi negativi, come la metafora della costruzione progressiva di un sistema bloccato e privo di alternanza, in una prassi deterioratasi nel trasformismo e nel consociativismo. Il tempo in cui l’ansia per la crisi italiana, il desiderio di comprenderla sotto un profilo politico e di capirla sotto quello storico sembrava, tuttavia, lasciare spazio, nel nuovo secolo, a una stagione non più segnata dalle approssimazioni, dalle logiche di schieramento, fedele ai documenti, capace di esprimere un giudizio equilibrato sui contesti culturali e istituzionali in cui si era svolta la vicenda biografica e intellettuale di Moro[139].
Come anticipato all’inizio, a uno sguardo d’insieme gli anni giovanili erano rimasti i meno conosciuti ma, paradossalmente, erano stati quelli studiati con più cura. Essi costituivano perciò una «notevole eccezione»[140]. Lo scriveva Paolo Acanfora in un saggio nel quale vagliava i risultati e le ipotesi di ricerca sul legame tra Aldo Moro e il dossettismo. L’articolo, insieme a un volume sugli scritti di Moro su «Studium» tra il 1945 e il 1948, pubblicato nello stesso anno[141], mi sembra presenti elementi importanti per capire le modalità di un’onesta interpretazione storiografica del giovane Moro. Si può ricavarne un esempio nel modo con il quale lo studioso confutava la tesi, espressa come già anticipato nel volume di Corrado Guerzoni, della scarsa dimestichezza del giovane Moro con gli scritti e con il pensiero di Maritain. A dispetto delle diverse acquisizioni storiografiche sul rapporto con il tomismo e con il filosofo francese, prova ne sarebbe stata, per Guerzoni, la difficoltà sperimentata da Moro nello stendere un ricordo di Maritain al momento della sua morte, nel 1973. Una prova costruita sulla base di un ricordo. Una prova che Acanfora analizzava, e decostruiva, partendo da tutt’altra pista, quella dello studio critico dei documenti. Scriveva: «in realtà la preparazione del testo mostra un travaglio che più che essere espressione di una scarsa frequentazione delle opere maritainiane testimonia, a mio modo di vedere, un “metodo di lavoro” sui testi tipicamente moroteo»[142]. Ancora: «Analizzando i documenti preparatori, le stesure con relative annotazioni autografe (sempre molto meticolose), si può notare una partecipazione sentita ed un riconoscimento non formale al ruolo svolto dal filosofo francese nella formazione degli intellettuali cattolici, a partire naturalmente dalla propria»[143]. Mi sembra un piccolo ma significativo esempio di come la testimonianza personale e lo studio delle fonti possano portare a visioni alternative e di come sia possibile confrontarle senza polemica e in modo sereno, per arrivare a una comprensione sempre più accurata di singole vicende.
Più in generale Acanfora ribadiva l’opportunità di avviare un’analisi del percorso politico di Moro non sulle basi di una impostazione teorica complessiva o di una visione ideologica del cattolicesimo quanto in una peculiare ricerca di punti di contatto, di minimi comuni denominatori, di progressive sintesi tra posizioni anche radicalmente diverse perché «la imponente pluralità di fonti nella formazione religiosa e culturale morotea – scriveva – induce a ritenere assai complessa l’individuazione di una appartenenza chiara ed inequivocabile capace di spiegare e comprendere in modo univoco i passaggi che successivamente caratterizzeranno la biografia politica di Moro»[144].
Degno di nota anche il volume di Acanfora sugli scritti di Aldo Moro su «Studium»[145]. Il lettore non vi trovava, infatti, un esame degli articoli in sé, quanto una rilettura analitica della linea del periodico nella temperie culturale che segnò gli anni che vanno dalla liberazione all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, in un accurato confronto tra gli scritti, la personalità di Moro e la fisionomia della rivista. L’autore spiegava come l’avvicinamento del mondo degli intellettuali e dei professionisti cattolici alla democrazia fu una delicata operazione culturale propiziata e ispirata da Moro ma in un contesto plurale, in cui occorreva ricomprendere la modernità criticamente nelle sue potenziali coerenze con la verità cristiana. In ciò la rivista, restando su un piano apartitico, risentì e al tempo stesso accompagnò l’evoluzione di un disegno politico sempre meno sfocato. Negli scritti di Moro venivano perciò indagate da Acanfora le coordinate di un modo di fare politica da cristiani, attento alle coerenze e alle distinzioni tra le ragioni della fede e quelle della militanza, alla dimensione ideologica della modernità politica, all’uso critico del linguaggio del mito, alla dimensione sociale della democrazia, alla definizione di un’architettura dello Stato che non fosse più il mero regolatore ma un attore in dinamico confronto con la società e con i suoi bisogni. Lungo queste linee e ascendenze culturali, nel modo con cui quegli intellettuali risposero sul terreno dei contenuti alle sfide in atto, si sviluppava lo studio degli scritti di Moro, della personalità che in essi egli aveva espresso e, attraverso di essi, si spiegava un milieu più ampio e complesso. Moro infatti, scriveva Acanfora, non solo mantenne la tradizionale sensibilità culturale della rivista ma s’indirizzo verso forme di apertura alla modernità progressivamente sempre più esplicite. In questa direzione Moro portava anche il contributo della sua personale formazione, fortemente caratterizzata da un confronto continuo con le diverse culture filosofiche e giuridiche contemporanee di cui egli cercava una personale elaborazione sintetica[146].
È in questo laboratorio di una nuova cultura democratica e cristiana capace di indicare i valori per l’azione dei cattolici dapprima nella società, e quindi nella politica, che Acanfora poteva chiarire la crescente attenzione di Moro verso i dossettiani e la maturazione del suo legame con loro.
Sempre nel 2011 l’accresciuto interesse storiografico su Moro aveva conferma ed espressione nella realizzazione di un importante convegno, articolato in due sessioni, nel giugno presso l’Università del Salento, sul tema Aldo Moro e le relazioni internazionali dell’Italia e nel dicembre successivo presso la Luiss «Guido Carli» di Roma sul tema Aldo Moro nella politica italiana[147]. In quella occasione Renato Moro tornava a riflettere sulla formazione politica di Moro[148]. Egli confutava, ancora una volta, la diffusa immagine secondo la quale la generazione dei cattolici cresciuti sotto il fascismo fosse giunta all’impegno nel partito democristiano dopo un’autonoma formazione politica nell’associazionismo. Ribadiva come non fosse possibile riferirsi alla giovinezza di Moro come a un apprendistato politico, quanto come a un peculiare processo di formazione di una cultura politica. Dopo aver richiamato l’esclusivo valore civile e morale dell’esperienza nella Fuci e la linea di prudenza e di distacco nei confronti della politica, si concentrava in modo particolare sulle vicende della Dc di Bari e dei contrasti con la dirigenza del partito locale. Un conflitto da cui ricavava la conferma della frattura generazionale intercorsa tra gli ex popolari e la nuova generazione, dell’esigenza, avvertita da quest’ultima di una discontinuità col passato, delle reciproche perplessità. Non iscritto alla Dc ma collaboratore indipendente alla vita del partito, veniva alla luce, nella posizione di «democristiano atipico»[149] ante litteram di Moro, la mutua influenza tra le sue vicende personali e le riflessioni portate avanti nei suoi scritti, in particolare nella polemica contro l’intransigenza dimostrata dalle forze antifasciste, nella priorità assegnata agli uomini e non ai programmi, nell’auspicio di una pacificazione ideologica. Renato Moro accostava questo itinerario ai diversi e altrettanto accidentati percorsi di avvicinamento al partito di De Gasperi dei giovani della seconda generazione, analizzando il caso speculare di Amintore Fanfani, del quale evidenziava affinità e differenze attingendo alla lettura dei diari[150]. A proposito della cultura politica di Moro ne sottolineava il valore laico, unito alla profonda ispirazione religiosa:
i due versanti, quello religioso e quello laico, in Moro non sono disgiunti, né contraddittori, ma sostanzialmente indipendenti. Molti altri giovani cattolici intellettuali di quegli anni (giuristi, economisti) avranno un approccio laico alla cultura, cercheranno una sintesi tra dimensione religiosa e dimensione politica. Nessuno probabilmente avrà una cultura politica che ha una radice, almeno parzialmente, completamente e autonomamente laica come Moro[151].
Anche Piero Craveri, nella voce pubblicata nel 2012 sul Dizionario biografico degli Italiani, nel richiamare l’approccio teologico e non filosofico al tomismo del giovane Moro e la sua peculiare nozione di diritto naturale, né apologetico né contrapposto al moderno, sottolineava proprio i
tratti eterodossi della sua formazione cattolica rispetto a quelli abituali della coeva generazione. Tanto più forte il carattere intimistico della sua fede, volto a permeare e a costituire l’essenza stessa dell’attività sociale e politica, tanto alieno dal chiudersi in un cerchio preordinato, che la stessa dottrina sociale della Chiesa è considerata come parte di un divenire, in cui il termine “vita” ne segna la natura reale e spirituale e insieme il carattere di contemporaneità propria della storia[152].
Negli stessi anni, a partire dal 2008, un contributo all’arricchimento degli studi su Moro e alla promozione di un sistematico impegno degli storici sul suo pensiero e sulla sua figura è stato dato dalla costituzione del «Gruppo di lavoro per la ricerca storiografica su Aldo Moro». L’iniziativa ha stimolato l’attività di ricerca da parte di un nutrito gruppo di giovani studiosi e di ricercatori e ha incoraggiato una riflessione interdisciplinare sulle strategie di ricerca più efficaci per accostarsi alla sua vicenda biografica e intellettuale, favorendo così un’analisi storiografica più matura. Ne è stata prova eloquente l’ideazione e l’organizzazione del convegno, tenuto a Roma nel maggio 2013, i cui atti, curati da Renato Moro e Daniele Mezzana, sono stati pubblicati dall’editore Rubbettino l’anno seguente[153]. Il titolo dell’iniziativa, Studiare Aldo Moro per capire l’Italia, mi sembra sintetizzi in modo efficace un nuovo approccio, fedele alle fonti e motivato da un’inscindibile attenzione allo sviluppo della personalità e al fluire storico che essa vive, influenza e interpreta. Ciò ha segnato un passaggio importante in quella svolta storiografica che ho sopra richiamato. Il passaggio cioè dalla dimensione della cronaca e della riflessione culturale a quello dell’analisi propriamente storica, nella consapevolezza che la maggior parte dei luoghi comuni, delle rappresentazioni e dei giudizi sulla figura di Moro fosse stata formulata con pretese di completezza senza che fossero maturate le condizioni scientifiche che rendevano possibile un’indagine specifica sui documenti. Ora che quelle condizioni si stavano lentamente presentando, appariva finalmente possibile accostarsi a Moro con serenità per studiare, attraverso il suo percorso, la sua riflessione, la sua attitudine a registrare, interpretare e reagire alle sfide del proprio tempo, un segmento ampio e complesso della storia italiana ed europea. Il convegno, affrontando con ricerche di prima mano nuclei tematici e snodi fondamentali del Novecento, coglieva infatti nella poliedrica figura di Moro il profilo di un protagonista della storia del Paese, un acuto osservatore delle dinamiche che l’attraversarono, un prodotto significativo di quella storia.
Negli atti del convegno, oltre a un mio saggio dedicato agli scritti su «Azione fucina», al quale mi permetto di rinviare[154], il periodo della formazione giovanile di Moro era toccato nella relazione di Alberto Melloni sul rapporto tra Aldo Moro e la Chiesa, «un grumo complesso sul quale è facile equivocare»[155]. L’analisi di Melloni si muoveva lungo tre direttrici, indagando dapprima il modo col quale la militanza nell’associazionismo ecclesiale aveva plasmato il giudizio di Moro, quindi il suo pensiero sulla Chiesa, infine il profilo personale di credente. Sull’esito della sua formazione giovanile Melloni scriveva: «Moro esprime, appartiene e rappresenta un cattolicesimo politico che deve guadagnare la propria legittimità davanti a quella parte dell’autorità ecclesiastica che dopo il 1944 non immagina che la democrazia repubblicana possa consolidare una egemonia cattolica sul Paese che esonera tutti, e in primo luogo la Chiesa, dal riflettere sugli errori commessi prima e durante il regime fascista»[156]. Le distinzioni ormai chiarite dalla storiografia venivano riprese da Melloni per ribadire come la priorità del giovane Moro non fosse stata la politica in sé quanto la giusta animazione di una dialettica democratica. L’autore sottolineava come Moro avesse intuito sin dagli anni giovanili la profondità storica della questione della Chiesa rispetto alla società italiana e il compito della cultura cattolica di curare le arretratezze del Paese e guarirlo dalle pulsioni autoritarie, che egli sentiva incombere negli scritti del 1944-1945 e che avrebbe continuato a registrare con grande acume anche in seguito. Avvertiva quindi, in toni netti, di non considerare la dimensione della fede in Moro come una patina papalino-romanesca, come un cinismo continuamente rivendicato quasi fosse un titolo di nobiltà e la prova della propria appartenenza a una cultura millenaria del potere. Moro non è un politico con addosso abiti cristiani, portati per convenienza o per convinzione, ma è un credente che si distingue anche dal tessuto ordinario del cattolicesimo del Mezzogiorno italiano perché la sua professio alimenta dimensioni politiche e intellettuali[157].
Per una piena comprensione del personaggio invitava infine a ripartire proprio dallo studio della formazione giovanile, dal modo col quale egli si era formato dentro un orizzonte cattolico e dentro le sue contraddizioni partecipando, insieme a una generazione, al «tentativo di una formazione delle coscienze che educa a leggere e a pensare e convince molti che l’esatta analisi dei processi politici, l’abitudine a trarre le conseguenze delle premesse, sia lo strumento vitale che può incidere sulla società e addirittura modificarne assetti profondi»[158].
Attingeva agli scritti giovanili anche il saggio di Paolo Acanfora dedicato alla rilevanza assunta nel pensiero di Moro dal tema della nazione e dell’unificazione europea[159]. Dalla loro interpretazione affiorava l’impegno a ridare valore alle parole dopo la retorica del fascismo, a recuperare il significato della patria declinando l’idea di nazione in termini umanistici e non più eroici, a preservare alla comunità nazionale la sua dimensione spirituale. In un costante confronto tra la personale riflessione di Moro e il dibattito civile in corso, Acanfora notava come in lui la «naturalezza dell’amor patrio nasceva dal senso di responsabilità, da un sereno e fisiologico svolgimento del proprio dovere all’interno della comunità nazionale, da un riconoscimento della e nella umanità dell’altro e dalla composizione delle diverse esperienze umane»[160]. Il rifiuto di un’idea esclusiva della nazione, da un lato, e l’elogio dell’intimità del sentimento patriottico, dall’altro, motivavano una ferma condanna dei nuovi miti dell’internazionalismo seguiti alla tragedia della guerra, ritenute da Moro delle astratte e pericolose ideologie, cui solo l’ispirazione cattolica avrebbe saputo opporre il fondamento di un globale equilibrio tra gli stati.
Nel 2016 il centenario della nascita ha visto accrescersi ancor di più l’interesse su Moro e moltiplicarsi le iniziative editoriali, tra le quali spicca una ricognizione complessiva del suo legame con l’Università di Bari[161] ma soprattutto la pubblicazione delle due importanti biografie di Massimo Mastrogregori[162] e di Guido Formigoni[163]. Entrambe queste opere hanno riservato grande spazio alla trattazione della formazione giovanile e allo studio dei primi scritti.
L’analisi di Mastrogregori si basa sulla convinzione che nella personalità di Moro continui ad esservi qualcosa di enigmatico, che sfugge a una piena comprensione. Non si tratta più però, dell’alone di mistero che – lo si è visto – è rimasto a lungo avvolto attorno alla sua figura nell’immaginario collettivo e che gli storici negli ultimi tempi hanno ormai sollevato, quanto della difficoltà a capire nello scenario politico attuale i tempi, le strategie, l’indole che a un leader odierno gioverebbero poco o punto consenso. Aldilà di ciò, per quanto attiene il periodo giovanile, l’indagine del libro è costruita attorno a una tesi: la guerra e soprattutto il crollo del regime fascista e dello Stato nel 1943 avrebbero rappresentato per il giovane Moro uno spartiacque tale da costringerlo a orientare in una direzione completamente diversa il suo pensiero e ad abbandonare tutto, o quasi, il «bagaglio ideologico inservibile»[164] degli anni precedenti, «trasformando i primi trent’anni della vita in una preistoria abbastanza oscura, quasi invisibile, ma non assente. Tutto sta a non perdere di vista del tutto quel “prima” – scrive l’autore – e a cercare di capirlo»[165]. Un prima e un dopo nettamente separati, dunque, che condizionano l’interpretazione degli scritti giovanili, in particolare degli editoriali di «Azione fucina» nel periodo dell’entrata dell’Italia nel conflitto. Mastrogregori insiste inoltre sulle diverse reti di contatti – dagli ambienti della Fuci a quelli dei Laureati, da quelli accademici a quelli domenicani, da quelli militari a quelli vicini alle riviste baresi – nelle quali il giovane Moro era inserito e che egli contribuì a tessere, smistando attraverso di esse una gran quantità di informazioni. In questa prospettiva Moro appariva dapprima immerso senza apparenti tensioni negli universi compatti del fascismo, del mondo cattolico e dell’impegno universitario. Essi ebbero il loro naturale e emblematico momento di congiunzione nella partecipazione ai littoriali e dentro di essi, almeno sino alla fine del 1942, pur battendo un terreno cosparso di mine ideologiche, egli si sarebbe mosso con assoluta naturalezza. Tutto era destinato a cambiare dopo l’8 settembre, quando si era aperta nella biografia di Moro una fase unica, a giudizio di Mastrogregori, nella quale egli si trovò a essere contemporaneamente commentatore, intellettuale, opinionista, editorialista[166]. Aldilà delle sfumature semantiche che il termine può assumere, suscita perplessità l’insistenza dell’autore nel qualificarlo esplicitamente e ripetutamente come un «ideologo», considerando che gran parte della storiografia ha evidenziato, come si è visto, il carattere fortemente e consapevolmente anti-ideologico di tutto il suo pensiero. Ad ogni modo, durante il periodo della rinascita democratica Moro appare a Mastrogregori come il fulcro di altre tre e distinte reti di contatti e di poteri, ciascuna legata alle riviste alle quali egli collabora e sulle quali scrive al plurale, adottando un «noi» che lascia intendere una sensibilità condivisa e ben ponderata rispetto ai problemi dell’ora: il mondo di «Studium», legato al Vaticano; l’ambiente de «La rassegna», vicino agli Alleati; la redazione di «Pensiero e vita» prossima all’arcivescovo Marcello Mimmi e al mondo ecclesiale pugliese. Dagli articoli su queste testate, elaborati su un piano descrittivo dell’incombente realtà sociale e con un distacco critico che avrebbe reso l’approdo alla politica enigmatico e paradossale, emerge per l’autore l’immagine di «un naufrago, come tanti altri della sua generazione cresciuta durante il fascismo. In questi scritti – prosegue – c’è il bagaglio che è riuscito a portare in salvo, l’attrezzatura ideale che gli servirà a iniziare la vita nuova, politica, nel tempo della democrazia»[167].
La biografia di Guido Formigoni, opera di sintesi che condensa con intelligenza quanto emerso dalla storiografia su Moro e che si dimostra aperta alle questioni comparative e alla dimensione internazionale, ha un altro obiettivo e un altro impianto rispetto al lavoro appena citato. Sonda infatti con cautela le diverse espressioni della personalità di Moro nella convinzione che «al di là della misurabile ma fredda esteriorità della politica, si deve tentare con rispetto e cautela di far emergere la vivente e misteriosa dimensione di una profonda umanità»[168]. Non più e non solo quella umanità che De Leonardis, lo si è visto, aveva riportato alla luce sull’onda del ricordo, fissandola in sé, per restituire un’immagine più veridica del giovane Moro. Di un “altro” Moro. Oppure un’umanità recuperata in modo curioso e occasionale dall’angusto ripostiglio del privato, come tanta letteratura ha fatto senza conseguire alcun risultato scientificamente apprezzabile. Un’umanità invece immersa nella storia, vissuta entro una complessa relazione psicologica tra lo statista e il suo progetto politico, ricavata non più da una ipotesi interpretativa generale ma da uno scavo analitico delle fonti. Il quadro generale della formazione di Moro, dall’infanzia trascorsa a Taranto[169] sino all’Assemblea Costituente, è ricomposta da Formigoni attraverso un rigoroso inquadramento storico degli eventi e degli scritti. Osserva Formigoni:
Influenzato da molte letture, egli procedeva a costruire la sua trama concettuale puntando a riscoprire la “verità interna” di posizioni anche molto differenziate. Verità che poi ricollegava in modo creativo al suo fondamentale “umanesimo cristiano”, in modo molto meno rigido rispetto a qualsiasi quadro concettuale o ideologizzante di una “cultura cattolica”. Si trattava comunque di tutta una costellazione culturale e teorica accomunata da scelte di tipo moderato e antitotalitario: erano una serie di impulsi e di motivi che convergevano a riferirsi al diritto per limitare il totalitarismo fascista[170].
Moro viene così compreso entro lo specifico segmento della generazione formatasi nella seconda metà anni Trenta, per la quale rafforzare un’identità forte sul piano religioso e morale fu la premessa di scelte successive ma anche il motivo per tentare un’emancipazione dalla cappa del totalitarismo attraverso una sensibilità, un atteggiamento, un’indole morale che faceva la differenza. Spiegando come la preparazione del futuro di quei giovani andasse intesa in un’ottica molto ampia, mirata su un livello esigente di formazione umana, culturale, spirituale e religiosa, Formigoni opportunamente postdata al periodo della Costituente, senza più equivoci, il vero e proprio «apprendistato politico»[171] del giovane Moro. Prima, egli analizza il ruolo svolto come dirigente dei Laureati cattolici in difesa della ragion d’essere dell’Azione cattolica nel nuovo scenario democratico. Intuisce le differenti prospettive adottate per l’analisi delle vicende in corso dalle colonne de «La rassegna» e quelle di «Studium» che «in quel convulso dopoguerra divenne una delle più fini tra le voci che si sforzavano di guidare l’apprendistato interiore alla democrazia di un mondo cattolico incerto e timoroso, in cui erano forti ancora l’eredità antidemocratica e il peso delle collusioni autoritarie»[172]. Il suo profilo intellettuale, prima che politico, la capacità di interpretare il proprio tempo e l’originale maturità cristiana sono i tre elementi che emergono nel periodo della formazione e che corrispondono ad altrettanti livelli d’indagine del globale itinerario biografico ripercorso da Formigoni[173].
La crescente attenzione per la complessità della vicenda biografica e intellettuale di Moro e soprattutto l’auspicato ritorno alle fonti mi sembra possano essere colte anche in altre due opere pubblicate nel 2016. Sebbene non siano curate da storici di professione, recano traccia del clima positivo e costruttivo che si respira negli studi più recenti. La prima raccoglie gli articoli su «La rassegna»[174] e, attraverso delle note di ambientazione, riassume il contesto e il significato dei testi che nella silloge anastatica di Lamaddalena erano rimasti del tutto privi di commento. Scrive opportunamente il curatore, Lucio D’Ubaldo, nella sua introduzione:
Pretendere di capire “tutto Moro”, in fretta e furia, attingendo alle prime riflessioni giovanili, sarebbe un errore di superficialità. L’evoluzione fa parte della vita e dipende da fattori imprevedibili. Molto spesso le circostanze, specialmente se determinate dalle alterne vicende della lotta politica, comportano modificazioni e perfezionamenti che rispondono all’esigenza di afferrare e, per quanto possibile, indirizzare il corso degli avvenimenti. A rovescio, però, è incongruo ignorare o sottovalutare il momento della formazione personale, con i suoi effetti sul carattere e sullo stile di vita. Allora, sarebbe egualmente superficiale supporre che il percorso di crescita, nell’orizzonte di una più robusta maturazione esistenziale, non abbia un suo cominciamento, meritevole di attenzione. Occorre, perciò, un approccio misurato[175].
Un approccio misurato dimostra anche l’introduzione alla raccolta di scritti, estesa lungo un arco di tempo che va dal 1944 al 1978, curata da Michele Dau. Anch’egli, a proposito dei pochi scritti giovanili che include nella silloge, si sofferma sull’esigenza di accompagnare «il lettore a esplorare maggiormente talune pieghe meno note della riflessione di Moro» per «conoscere meglio le basi non ideologiche della sua visione dinamica» e per capire ciò che egli fece sin da giovane «per tessere una tela robusta e libera della nostra originale democrazia»[176].
Il percorso attraverso la storiografia sul giovane Moro ci porta, dunque, sin sulla soglia del presente[177]. Che bilancio trarre dalle ipotesi interpretative sinora messe in campo dagli studiosi? E, soprattutto, quali nuove prospettive apre, per il loro lavoro, la pubblicazione degli scritti giovanili, nella loro completezza e organicità, entro l’Edizione Nazionale delle Opere?
È indubbio, se non ovvio, che gli scritti recano un elemento di assoluta importanza per proseguire nella ricerca storica e per farle acquisire la giusta profondità. Essi si affiancano e si aggiungono alla disponibilità delle fonti primarie sensibilmente accresciutasi negli ultimi anni: le carte già versate presso l’Archivio Centrale dello Stato; la sezione dell’archivio personale conservata presso l’Archivio Flamigni di Oriolo Romano; la mole di materiale archivistico resa disponibile dall’archivio storico dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, con le carte della segreteria politica e quelle dei gruppi parlamentari, sino a quelle private di numerose personalità di primo piano nella vicenda personale e politica di Moro; la possibilità, che si auspica prossima, di consultare l’archivio della Fuci e del Movimento laureati di Azione cattolica conservato presso l’Isacem di Roma, in fase di riordino. Tutto questo contribuirà, insieme ai successivi volumi dell’Edizione nazionale e al lavoro attualmente in corso per una biografia politica di Moro, a strutturare finalmente una storiografia su di lui completa e approfondita.
Sugli anni giovanili, lo si è detto più volte, si può contare su un quadro già messo a fuoco dagli studiosi a partire proprio dagli scritti giovanili che sinora si conoscevano. A questi testi se ne aggiungono ora molti altri che, rispetto al materiale che si aveva a disposizione, corrispondono, in via del tutto approssimativa, a un quarto di più. Ma certamente non è solo l’aspetto quantitativo a qualificarne il valore storiografico.
I contributi sulle riviste dell’Azione cattolica del giovanissimo Moro, la sua presa di parola su «Il risveglio» di Bari, nel novembre 1943, nella quale delineò il ruolo che avrebbe dovuto svolgere il cattolicesimo democratico nella nuova stagione politica, le circolari con le quali si rivolse ai Laureati cattolici, tra il 1944 e il 1946, accompagnandone e ispirandone la formazione di un’autentica coscienza democratica, le recensioni pubblicate su «Studium», la scoperta dei dattiloscritti delle conversazioni che egli tenne a Radio Bari su un vasto spettro di problemi urgenti per il Paese diviso dalla guerra, sono soltanto alcune tra le novità più significative della silloge.
Gioverà inoltre agli studiosi l’opportunità di leggere ricomposti insieme e accostati, seguendo un ordine cronologico, scritti di diverso tenore e di diversa provenienza. Specialmente nella fase della rinascita democratica dell’Italia è possibile, ad esempio, studiare in sequenza gli articoli tratti da «La rassegna», da «Pensiero e vita», da «Studium». Ci si può accorgere così come Moro, a seconda dei potenziali destinatari delle diverse testate e delle loro differenti priorità nelle linee editoriali, a seconda delle reti entro le quali egli assorbiva e rielaborava intuizioni e informazioni sull’attualità, riesca a sfumare il linguaggio, a calibrare in modo accorto le sue considerazioni, ad assegnare priorità ai diversi problemi, a trasmettere sensibilità peculiari, a reagire con acume ai dibattiti in corso sulla stampa dell’epoca. In una parola a esprimere, con registri diversi, una medesima intelligenza degli avvenimenti.
Gli scritti giovanili consentono inoltre di approfondire come si è costruito il linguaggio di Moro. Di accostarlo in modo scientifico o almeno ben più circostanziato di quanto hanno fatto, ormai da decenni, le persistenti polemiche o le ironie su un modo di esprimersi considerato retorico, artificioso, involuto, verboso. Quali tratti emergono dalla scrittura giovanile di Moro e come aiutano a intuire il formarsi e il consolidarsi del suo rapporto con la scrittura? Attorno a questo interrogativo agli studiosi si aprono diverse piste di riflessione. Anzitutto è da esplorare il linguaggio nella sua dimensione argomentativo-retorica. Occorrerà valutare l’importanza che ha avuto l’apprendistato giornalistico nella ricerca di una lingua capace di interagire con i lettori, di sviluppare un discorso, di elaborare abilità comunicative ad ampio raggio come le strategie di inclusione del “noi”, che egli utilizza con grandissima frequenza. Ancora, vi è l’aspetto, per così dire, didattico della sua scrittura: allo studioso spetterà di considerare, specialmente in quei passaggi che possono apparire complessi, come Moro si sforzi di spiegare i temi con alcune strategie linguistiche di presentazione, di ripresa, di riformulazione. Di indagarne la sintassi, ricca di incisi e di specificazioni e la consapevolezza che l’autore stesso ha della sua complessità, di come se ne serva per far emergere il filo del discorso, per fissare alcuni punti che vuole mettere in risalto. Vi è, infine, la ricerca di una terza dimensione, quella culturale che, già colta da diversi studiosi e da loro stessi auspicata, consentirà di specificare i riferimenti, concettuali e quindi anche lessicali, che celano e rinviano alle possibili fonti scritte della sua formazione intellettuale.
Gli scritti giovanili si sviluppano lungo un arco di tempo che supera i tre lustri. Ripercorrerlo nella sua interezza consentirà di individuarne e studiarne da vicino le linee di fondo, i passaggi intermedi, le coerenze e le smentite. Di verificare se e quanto, ad esempio, sia stata incisiva e drastica la cesura di cui ha scritto Mastrogregori nella sua biografia, se il 1943 e la crisi di un sistema di valori avesse davvero reso interamente inservibile tutto il bagaglio culturale degli anni precedenti. Oppure se alcune coordinate intellettuali abbiano resistito al mutare burrascoso degli eventi, in che misura, con quali revisioni. È, questo, un altro aspetto che affascina chi voglia intraprendere attraverso gli scritti giovanili di Moro un itinerario attraverso la storia che in essi è impressa e, inscindibilmente, espressa. In nessun altro segmento della sua vita si ritroveranno tali e tanti cambiamenti storici così radicali come quelli che egli visse nell’età giovanile. L’Italia, la Chiesa, la società: paragonato a quindici anni prima, il mondo del 1946 è letteralmente un altro. Capire come dentro di esso sia cambiato anche Moro, il suo pensiero, il suo ruolo e, al tempo stesso, come egli sia stato capace di registrare questo cambiamento è un’altra, non meno affascinante sfida che il lettore e lo studioso incontreranno in questi scritti.
Per entrambi la letteratura che è stata ripercorsa può essere una bussola preziosa.
Conosciamo ormai con sufficiente chiarezza i connotati della formazione spirituale e religiosa del giovane Moro. Essi affondano nella realtà familiare e vengono temprati da una lunga e feconda esperienza nei movimenti intellettuali dell’Azione cattolica. Alla luce dell’interesse crescente che la storiografia sta dimostrando per l’universo esistenziale, interiore e familiare, ridimensionando l’attenzione quasi esclusiva verso la dimensione politica, mi sembra possibile definire ancor meglio i tratti della sua umanità, leggerne le tracce negli scritti, riscoprire una personalità ben più ricca e poliedrica dell’animale politico che la memorialistica e l’immaginario collettivo hanno, troppo a lungo e senza fedeltà alle fonti, considerato.
Una raccolta sistematica degli scritti offre inoltre un campo promettente di indagine nel quale rintracciare con pazienza ed effettuando tutti i possibili collegamenti intertestuali, quella pluralità di riferimenti culturali del tutto eterogenei che, sin dalla giovinezza, vi è nel pensiero di Moro, che egli mette a sintesi e che rielabora. Ciò significherà accettare la sfida, non semplice, più volte lanciata da chi si è cimentato senza superficialità e senza pregiudizi con i documenti sparsi di cui disponeva, di rintracciarne le fonti, le letture, i rinvii, le ascendenze.
Le ricerche sulla Chiesa e sulla società meridionale ripercorse rammentano allo studioso che vorrà immergersi in questi testi di tenere sempre a mente il punto di vista dal quale Moro scrive. Quello di un intellettuale meridionale, formatosi in un determinato contesto civile ed ecclesiale e, per larga parte degli scritti, immerso nella specifica realtà barese durante il Regno del Sud. Le perplessità sulle possibili degenerazioni dell’antifascismo, i richiami a smussare le spigolosità ideologiche del dibattito civile, la fatica ad animare una nuova coscienza democratica nei cittadini, la dialettica con Roma e con il «vento del Nord», e molti altri argomenti affrontati in quei mesi possono essere compresi solamente portando a nudo le radici di questa riflessione nel determinato contesto che le ha nutrite, le polemiche con la dirigenza democristiana del capoluogo, le indicazioni che provenivano dall’episcopato pugliese, le suggestioni ricavate dalla stampa locale e una congerie di altri elementi e vicende, ancora in larga parte da collegare tra loro e da approfondire.
Un’altra significativa acquisizione della storiografia richiamata è aver confermato, contrariamente a quanto si è a lungo creduto, quanto il percorso di Moro verso il diretto impegno in politica sia stato accidentato e per nulla scontato sino all’ultimo. Il primo volume degli scritti si conclude proprio alla vigilia dell’inizio di quella nuova esperienza, nella primavera del 1946. Sappiamo da studi sempre più precisi e approfonditi che il caso di Moro non fu affatto un’eccezione tra gli intellettuali cattolici e che nella stragrande maggioranza gli uomini della seconda generazione suoi coetanei condividevano le medesime perplessità e ritrosie verso il partito democristiano. Alla luce degli studi più recenti, scavando negli scritti, è possibile evidenziare affinità e differenze tra questi percorsi biografici, di sicuro interesse sotto il profilo storiografico. Più in generale appare promettente esplorare ancora più a fondo la frattura generazionale nella quale si colloca la formazione giovanile di Moro, verificando quanto già noto a proposito della cesura col passato introdotta nella loro educazione cattolica ma anche ampliando lo sguardo all’ancora più affascinante universo esistenziale dei giovani cresciuti immediatamente a cavallo della seconda guerra mondiale, le loro frustrazioni e le loro speranze, la difficoltà a conciliarsi con il nuovo costume democratico dopo tante disillusioni, la loro «paura di essere uomini»[178], come la definì Moro, che di questo magma di suggestioni fu acuto interprete, oltre che protagonista. Prima ancora, la riflessione sul suo rapporto con lo Stato e con la politica, ancora negli anni del regime e della guerra, andrà inserita in quel campo d’indagine che ancora la storiografia non ha battuto: non quello della minoranza che durante la guerra si schierò contro il fascismo, non quello dei giovani che diedero credito sino all’ultimo ai miti dell’eroismo e della violenza, ma quello del rifiuto esistenziale e morale del regime e della sua guerra, un rifiuto che non conobbe la clandestinità ma che, non per questo, fu meno incisivo o meno consapevolmente argomentato ed esercitato.
Gli scritti giovanili contribuiranno, infine, alla conoscenza del profilo ecclesiale di Moro e soprattutto della sua responsabilità ai vertici della Fuci e del Movimento Laureati. Anche in questo ambito occorrerà considerare con la massima attenzione l’itinerario intellettuale che egli vi ha svolto lungo un ampio arco di tempo, con le sue coerenze e le sue discrasie, le assonanze e le peculiarità con il più generale discorso che gli intellettuali cattolici articolarono in quegli anni attorno alla crisi di civiltà, ai temi dell’università, della cultura professionale, dell’impegno del credente negli anni della guerra, della laicità, e molti altri, senza trascurare quegli elementi che aiutano a capire meglio la cura organizzativa che egli ebbe nei loro confronti.
Come si è visto, per lungo tempo la ricerca è apparsa viziata dal desiderio di trovare un “altro” Moro, fosse quello caro a un certo milieu del cattolicesimo democratico lesto a difenderne la memoria, quello che in virtù di ricordi, di confidenze e di aneddoti si presumeva più autenticamente umano oppure, semplicemente, quello che sarebbe venuto dopo, ma già tutto compreso e comprensibile nella sua giovinezza, considerata, essa stessa, come un preludio a qualcosa di “altro”. In conclusione, mi sembra che questi scritti possano, invece, finalmente restituire il giovane Aldo Moro a se stesso.
La disponibilità dei testi nella loro articolata completezza offre l’opportunità di una corretta operazione storiografica, in grado di continuare a riempire di significati, di voci e di sfumature il “nulla” da cui egli, all’inizio, sembrava reclusa la sua gioventù, senza che essa sia considerata il “tutto” di ciò che il suo pensiero e la sua vita sarebbero state. L’impegno di una generazione di giovani studiosi aliena da tare ideologiche, il progressivo affievolirsi di polemiche implacabili e di insidie attorno all’interpretazione della figura di Moro e del suo messaggio politico e morale, il venir meno di una certa visione corporativa, se non parrocchiale, del mondo cattolico e degli studiosi ad esso legati o interessati appaiono come una buona garanzia di una lettura dei fatti e dei testi non più alternativa, teleologica, divisiva.
L’immagine di Moro, anziché sovrapporsi e condizionare gli studi, come per lungo tempo ha fatto, né è diventata un oggetto peculiare. La letteratura su di lui, anziché alimentare slogan e pregiudizi, è diventata una fonte perché la storiografia, guardando a se stessa, possa comprendere meglio la discussione sulla storia della democrazia italiana negli ultimi quarant’anni.
Nel 1963 Montanelli aveva scritto che Aldo Moro sarebbe rimasto per lungo periodo di tempo un personaggio sfumato e di difficilissima comprensione. Quel periodo sembra, oggi, concluso.
I. Montanelli, I protagonisti. Aldo Moro, in «Il corriere della sera», 5 dicembre 1963, p. 3. ↑
Ibid. ↑
Ibid. ↑
Tra gli studi recenti mi limito intanto a citare il lavoro collettaneo, sul quale insisterò più avanti nel saggio, R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un paese. Aldo Moro e l’Italia del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, che presenta un’ampia sezione di saggi dedicata proprio all’immagine di Moro. ↑
A. Moro, Un uomo così, Rizzoli, Milano 2003, p. 27. ↑
G. Acquaviva, Aldo Moro. Un italiano diverso, Editrice Magna Grecia, Taranto 1968. ↑
Cfr. R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura della rivista «Mondo contemporaneo», Franco Angeli, Milano 2011, pp. 17-69, in particolare le pp. 20-29. Il saggio offre una ricognizione complessiva e approfondita delle interpretazioni che la figura e il pensiero di Moro hanno avuto nelle storie d’Italia e ripercorre la discussione sulla storia della democrazia italiana negli ultimi quarant’anni leggendovi in controluce il mutare del giudizio su Moro, nel susseguirsi delle diverse stagioni storiografiche. ↑
G. Acquaviva, Aldo Moro. Un italiano diverso, cit., p. 8. ↑
Ibid. ↑
Ibid., p. 9. ↑
Ibid., p. 17. ↑
Ibid., p. 15. ↑
Scrisse Acquaviva: «E quanti lo conobbero ed ebbero dimestichezza con lui, intuivano già allora che Aldo Moro sarebbe diventato un personaggio importante, di primo piano, un protagonista. Perché era importante già allora, in tutti i campi nei quali si cimentasse, ed era la personificazione del giovane serio, dell’uomo impegnato»: ibid., p. 13. ↑
Ibid., p. 15. ↑
Ibid., p. 23. ↑
Ibid., p. 53. Un altro topos, indicato già nel volume di Acquaviva, che sarà ripetuto a lungo e con insistenza nella pubblicistica riguarda il presunto coinvolgimento di Moro nei lavori che portarono alla pubblicazione del cosiddetto Codice di Camaldoli. In realtà egli non partecipò al convegno dell’estate del 1943 in cui esso fu abbozzato e, meramente consultato, risulta che neppure inviò il commento che gli era stato richiesto alla bozza finale del documento. La vicenda, già chiarita a suo tempo in P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana, Il Mulino, Bologna 1979, p. 130 è stata ulteriormente precisata in A.A. Persico, Il Codice di Camaldoli. La DC e la ricerca della “terza via” tra Stato e mercato (1943-1993), Guerini e Associati, Milano 2014, p. 120. Moro, semmai, si impegnò nel promuovere il lavoro culturale del Movimento laureati sulla base del Codice all’indomani della sua pubblicazione, nel 1945, in modo da garantirne la diffusione e favorire lo sviluppo della discussione, incontrando tuttavia una tiepida adesione: ibid., p. 105. ↑
G. Fanello Marcucci, Storia della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, Studium, Roma 1971. ↑
Ibid., p. 174; le vicende legate alla presidenza di Moro sono ricostruite alle pp. 171 e ss. ↑
Ibid., pp. 177-178. Un rapido cenno agli scritti giovanili di Moro lo faceva Gianni Baget Bozzo nel suo lavoro sulla Democrazia cristiana, con riferimento alla critica che il giovane intellettuale aveva rivolto nel 1945 contro il qualunquismo e che avrebbe efficacemente rappresentato, a suo giudizio, l’ostilità del partito democristiano verso il pensiero di Giannini e l’iniziativa politica in cui esso aveva preso forma: G. Baget Bozzo, Il Partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti (1945-1954), vol. I, Vallecchi, Firenze 1974, p. 91. ↑
È appena il caso di ricordare il volume di G. Pallotta, Aldo Moro. L’uomo, la vita, le idee, Editrice Massimo, Milano 1978. A proposito degli scritti del giovane Moro su «Studium» il giornalista si limitava a scrivere: «Non traspare da quegli articoli una fantasia facilmente entusiasmabile. Era, piuttosto, l’intellettuale meridionale che vede le cose del mondo con antica prudenza, senza indulgere a comode illusioni perché tante altre volte la sua terra si è illusa e ha pagato»: ibid., p. 8. ↑
P. Scoppola, Per molto tempo la politica si farà nel suo nome e nelle sue intuizioni, in «La discussione», 15 maggio 1978, p. 11. ↑
Delineata nel saggio R. Moro, Afascismo e antifascismo nei movimenti intellettuali di Azione Cattolica dopo il ’31, in «Storia contemporanea», n. 4, dicembre 1975, a. VI, pp. 733-799, e anticipata in Id., Religione e politica nella formazione del gruppo dirigente democristiano, in «Il Mulino», n. 1, 1979, pp. 87-109 essa era ampiamente sviluppata nel volume Id., La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Il Mulino, Bologna 1979. ↑
Id., I movimenti intellettuali cattolici, in Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, a cura di Roberto Ruffilli, vol. I, L’area liberal-democratica, Il mondo cattolico e la Democrazia cristiana, Il Mulino, Bologna 1979, pp. 159-261, p. 181. Cfr. anche Id., Il modernismo buono. La modernizzazione cattolica tra fascismo e postfascismo come problema storiografico, in «Storia contemporanea», n. 4, agosto 1988, a. XIX, pp. 625-716, specialmente le pagine iniziali, dedicate all’approfondimento sulla storiografia e sulle categorie interpretative adottate dalla storia del movimento cattolico di quegli anni. ↑
Id., I movimenti intellettuali cattolici, cit., p. 211. ↑
Ibid., p. 205. ↑
Scriveva nel 1979 Roberto Ruffilli che la riflessione degli intellettuali cattolici in quel frangente «ripropone la centralità della democrazia sociale, nella linea del tradizionale interclassismo cattolico. A questo si aggiunge però il progressivo riconoscimento del ruolo decisivo della democrazia politica, elettorale e garantista» e, precisava, «ridimensionata appare la tendenza a finalizzare il nuovo sistema democratico ad una stabilizzazione in senso organicista degli equilibri politici e sociali esistenti nello Stato borghese e nella società capitalista, alla luce della spinta in tal senso affermatasi nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa. L’attenzione è rivolta alle possibilità offerte dallo Stato per un mutamento degli equilibri a favore delle masse subalterne, sulla base dell’accentuazione della carica riformistica anticapitalista»: R. Ruffilli, La formazione del progetto democratico cristiano nella società italiana dopo il fascismo, in G. Rossini (a cura di), Democrazia Cristiana e Costituente nella società del dopoguerra: bilancio storiografico e prospettive di ricerca, Atti del convegno di studio, Milano 26-28 gennaio 1979, vol. I, Le origini del progetto democratico cristiano, Cinque Lune, Roma 1980, pp. 31-114, p. 61. ↑
U. De Siervo, Il contributo di Aldo Moro alla formazione della Costituzione Repubblicana, in «Il politico», XLIV, n. 2 (1979), pp. 193-224. ↑
Ibid., p. 197. ↑
N. Bobbio, Diritto e Stato nell’opera giovanile di Aldo Moro, in «Il politico», XLV, n. 1(1980), pp. 7-26. ↑
Ibid., p. 8. ↑
Ibid., p. 16. ↑
R. Ruffilli, Religione, diritto e politica negli anni Quaranta: Aldo Moro, in «Il politico», XLVI, n. 1-2 (1981), pp. 5-40. ↑
Ibid., p. 12. ↑
Ibid., p. 20. Il saggio compare anche in P. Scaramozzino (a cura di), Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia-Giuffrè, Pavia-Milano 1982, pp. 41-78 e in R. Ruffilli, Istituzioni Società Stato, vol. III, Le trasformazioni della democrazia dalla Costituente alla progettazione delle riforme istituzionali, a cura di Maria Serena Piretti, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 349-387. ↑
G. Campanini, Cristianesimo e democrazia. Studi sul pensiero politico cattolico del ‘900, Morcelliana, Brescia 1980 p. 194. Nel 1980 veniva pubblicato anche il libro di E. Cutolo, Aldo Moro. La vita, l’opera, l’eredità, Teti, Milano 1980 poi Id., Aldo Moro, [collana: Il pensiero dei padri costituenti, n. 16], Il Sole 24 ore, Milano 2013; l’autore insisteva sul significato religioso della vocazione alla politica e sull’immagine di Moro, negli anni della formazione, come «uomo delle anticipazioni, [che] studiava per approntare i mezzi atti a trasformare la società, non solo, ma voleva trasformarla senza che perdesse le dimensioni del divino e senza che l’uomo, nella sua complessità, avesse ad essere fagocitato dagli organismi e dalle istituzioni della civiltà moderna»: ibid., p. 24. ↑
F. Traniello, Partito e società nel pensiero di Aldo Moro, in «Appunti di cultura e politica», n. 5-6, maggio-giugno 1981, pp. 32-37, ora in Id., Da Moro a Gioberti. Percorsi di una cultura politica, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 235-245, p. 235. ↑
Ibid. ↑
A. Moro, Scritti e discorsi, vol. I, 1940-1947, a cura di Giuseppe Rossini, Edizione Cinque Lune, Roma 1982; nella sua Prefazione, Flaminio Piccoli, affezionato alla persistente immagine di Moro enfant prodige della Democrazia cristiana, scriveva che «la sua giovanile formazione sembra prefigurare la preistoria della D.C. negli anni di incubazione e di maturazione attraverso l’impegno della Fuci e del Movimento Laureati, all’alba dell’età montiniana»: ibid., p. VII. ↑
L. Elia, Poscritto 1982, ibid., p. XXXIII. Qualche anno dopo Elia riprenderà gli editoriali che Aldo Moro, presidente della Fuci, scriveva all’inizio di ogni anno accademico alle matricole su «Azione fucina», per sottolineare il rispetto della coscienza e della personalità di ognuno che egli dimostrava e che, divenendo «visione superiore e civilissima di relazione con i membri del genere umano», sarà, a suo avviso, la cifra del suo impegno: Id., Il pensiero politico di Aldo Moro, in Associazione culturale Aldo Moro (a cura di), Aldo Moro, l’intellettuale, il cristiano, il politico, Ave, Roma 1987, pp. 39-51, p. 41. Nello stesso volume Scoppola rintracciava diversi «stimoli culturali legati alla tradizione dello storicismo meridionale» nella sua formazione giovanile e, rispetto al suo impegno successivo nel partito, riteneva Moro come «l’uomo più capace di realizzare quel raccordo generazionale che era la condizione stessa di tenuta e di efficacia dell’azione politica della Democrazia cristiana»: P. Scoppola, Aldo Moro nella tradizione democratico cristiana, pp. 25-37, p. 31; Alberto Monticone sottolineava la centralità, già nei suoi scritti giovanili, della laicità di Moro e dell’«interrogativo intorno ai perché fondamentali ed esistenziali di un uomo politico che non inseguiva gli avvenimenti e che, pur nel mezzo della mischia non rinunciò, neppure nella prigione brigatista, a sorvegliare la realtà con spirito d’intelligenza»: A. Monticone, Il contributo di Aldo Moro al movimento cattolico italiano: cultura e spiritualità, ibid., pp. 83-97, p. 86. Più in generale, chiariva: «Nell’iniziativa cristiana e laica di Moro, si mostra ulteriormente inadeguata l’interpretazione trasformistica o solo mediatrice della sua opera politica. Egli ha fatto sì mediazione, ma l’ha risolta in sé ed efficacemente quanto al rapporto tra appartenenza cristiana e vocazione politica. Nel concreto, Moro non è stato il mediatore che raccorda le diversità: è stato, invece, il portatore d’iniziative che scaturivano dalla raggiunta soluzione interiore. Egli, anzi, si configura come il portatore di una riserva di valori non tutta risolvibile nell’azione politica, eppure fortemente impegnata e motivante nella politica»: ibid., pp. 96-97. ↑
L. Elia, Poscritto 1982, cit., p. XXXIV. ↑
A. Moro, Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, a cura di Giorgio Campanini, Studium, Roma 1982. ↑
G.B. Scaglia, Aldo Moro: rigore e lucidità di una politica difficile, in «Studium», a. LXXIV, 1978, n. 6, novembre-dicembre, pp. 731-747, p. 731; anche in Id., La stagione montiniana. Figure e momenti, Studium, Roma 1993, pp. 195-220, p. 194 ↑
Ibid. ↑
Ibid., p. 197. ↑
G.B. Scaglia, Introduzione. Aldo Moro dall’Azione cattolica all’azione politica, in A. Moro, Al di là della politica e altri scritti, cit., pp. 11-48, p. 17. ↑
Ibid., p. 34; aggiungeva: «nessuna soluzione di continuità è percepibile tra le riflessioni e le indicazioni del giovane studioso che scrive nel settimanale della Fuci e quelle che il presidente del Movimento laureati e, ben presto, l’uomo politico, affida alla rivista “Studium” dal 1945 al 1948. […] La situazione radicalmente mutata, con la nuova libertà di movimento che essa consente, così come le nuove e diverse responsabilità di chi scrive, non comportano alcun mutamento sostanziale nel tono e nell’ispirazione degli scritti che ci troviamo ad esaminare». Ancora, l’anno seguente, su «Studium» ripeteva che agli scritti giovanili «occorre rifarsi per cogliere nella sua ispirazione più genuina il senso profondo di una visione del mondo e di una direttiva di pensiero e di vita che, senza soluzione di continuità, spiega insieme il pensiero del giovane dirigente di Azione cattolica e gli atteggiamenti più impegnativi del leader politico definitivamente affermato»: Id., Moro. Dall’«apostolato della verità» alla politica della verità, in «Studium», a. LXXIX, 1983, n. 3, pp. 322-338, ora in Id., La stagione montiniana, pp. 221-239, p. 225; poco più avanti insisteva sul valore esclusivamente individuale della sua formazione « ma che, nel suo implicito impegno a capire e a giudicare con libertà di spirito, acquista un evidente significato sociale. Discorso religioso; ma di una religiosità aperta al mondo, capace di investire la vita e la storia»: p. 226. ↑
G. Campanini, Nota critico-bibliografica, in A. Moro, Al di là della politica e altri scritti, cit., pp. 49-59. ↑
Ibid., p. 56. ↑
Ibid., p. 57. Poco avanti, lungo questa linea interpretativa, aggiungeva: «A trent’anni di distanza l’ultimo Moro pubblicista raggiunge il giovane editorialista di “Studium”». A proposito degli osservatori firmati da Moro su «Studium», evidenziandone il linguaggio asciutto e graffiante rispetto ad altre pagine più raffinate, scriveva che in essi Moro esprimeva una «autentica vocazione di “moralista”»: ibid., p. 58. ↑
G. Campanini, Moro, Aldo, in F. Traniello, G. Campanini (dir.), Dizionario storico del Movimento Cattolico 1860-1980, vol. II, I protagonisti, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 400-409. ↑
Ibid., p. 403. ↑
Ibid., p. 401. ↑
Ibid. ↑
R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, in «Storia contemporanea», a. XIV, 1983, n. 4-5, pp. 803-968; una versione ridotta della ricerca comparve anche in Id., La formazione di un intellettuale di Azione Cattolica, in Aldo Moro: cattolicesimo e democrazia nell’Italia repubblicana, Istituto per la storia della Resistenza in Provincia di Alessandria, quad. 11(1983), Atti del Convegno di Alessandria, 29-30 maggio 1982, pp. 11-42. ↑
Id., La formazione giovanile di Aldo Moro, cit., p. 805. ↑
Ibid., p. 816. ↑
P. Borzomati, I “Giovani Cattolici” nel Mezzogiorno d’Italia dall’Unità al 1948, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1970 e Id., Chiesa e società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Studium, Roma 1982. ↑
R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, cit., p. 833. ↑
Proprio alla luce delle tante sfumature che emergevano nei profili spirituali di Moro e degli intellettuali a lui più vicini, Renato Moro osservava come risultasse troppo rigido lo schema interpretativo dei diversi filoni della spiritualità dei movimenti cattolici tra le due guerre proposto poco tempo addietro dal volume di Agostino Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Nuovo Istituto Editoriale Italiano, Milano 1982. Nella sua ricerca Giovagnoli individuava nel processo di maturazione della classe dirigente democristiana una «via cattolica al capitalismo» analoga a quella protestante, e analizzava le ragioni che portarono i cattolici all’abbandono di antiche pregiudiziali verso la modernità. Più che sul piano della cultura e dell’ammodernamento ideologico, ciò sarebbe avvenuto nel vissuto, nella spiritualità. Per questo egli considerava in modo speciale l’esperienza religiosa, intesa non soltanto come un connotato culturale ma come una scelta di coscienza degli intellettuali cattolici tra le due guerre. Vi indicava il punto di saldatura tra le premesse spirituali e la loro esperienza politica, per ricostruire da una parte l’unità della loro vita e della loro azione, analizzando le analogie intellettuali, i ragionamenti e le abitudini mentali che permisero loro di conciliare le esigenze della formazione con la realtà; dall’altra per rintracciare una linea di continuità sottile e sotterranea, ma non per questo meno incisiva, lungo la quale si era sviluppato, e radicalmente trasformato, il loro atteggiamento verso il mondo moderno. ↑
Nell’estate del 1960, nel pieno della crisi del governo Tambroni, la notizia della partecipazione di Moro ai littoriali, desunta dal volume, fresco di stampa, di Nino Tripodi, Italia fascista in piedi! (Memorie di un littore), Borghese, Roma 1960, aveva acceso le polveri di una violenta polemica in Parlamento da parte degli esponenti dell’estrema destra, poi proseguita in un serrato battibecco tra «Il popolo» e «Il secolo d’Italia»: cfr. R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, cit., p. 864, n. 191. ↑
Ibid., p. 883. ↑
Ibid., p. 894. ↑
Ibid., p. 898. Giova riportare per intero il giudizio che Renato Moro esprimeva sul «montinismo»: il suo nucleo stava «non nell’ispirazione ad una rifondazione teorica e sistematica della cultura cattolica in termini adeguati ad una moderna società industriale (era questa semmai l’operazione che si tentava di compiere alla Cattolica di Milano), quanto nella ricerca di una corretta prassi, nel fondare cioè culturalmente un corretto “agire” del cattolico di fronte agli strumenti messi a disposizione dal mondo e dalla cultura moderna»: ibid., p. 900. ↑
Ibid., p. 946. ↑
Ibid., p. 948. Il corsivo è dell’autore. ↑
Lo intuiva in questi stessi termini, con riferimento alla versione parziale del saggio di Renato Moro comparsa nei quaderni dell’Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Alessandria, Jean-Dominique Durand in una recensione apparsa su «Annales. Histoire, Sciences sociales» nel 1985; il contributo di Renato Moro, «vraiment historique», aveva il merito di aver colto l’originalità di Moro, sotto un profilo storiografico, «par sa formation dans un contexte culturel différent par rapport à la génération précédente (Moro, produit des transformations profondes subies par le mouvement catholique sous le fascisme, a peu de liens avec la tradition populaire) et par rapport aux autres régions (il est un bon représentant du catholicisme méridional, plus particulièrement des Pouilles). Il porte une attention presque exclusive à la formation et à l'élévation individuelle, spirituelle et intérieurer» : J.D. Durand, [Recensione], in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», XL, n. 3(1985), pp. 554-556. ↑
P. Scoppola, Il progetto degli anni ’30 fra realizzazioni e contraddizioni nel secondo dopoguerra, in AA.VV., L’idea di un progetto storico. Dagli anni ’30 agli anni ’80, Studium, Roma 1982, pp. 73-109, p. 73. Scoppola, intervenendo a un convegno sui cinquant’anni del Movimento laureati, ribadiva la necessità di trarre un bilancio della prima storiografia degli intellettuali cattolici, sulla qualità dei testi nei quali la seconda generazione aveva parlato di se stessa, sull’eterogenesi dei fini che il loro rapporto con la politica aveva conosciuto, giungendo a definire i Laureati come «una minoranza intensa che offre un efficace retroterra culturale alla Democrazia cristiana negli anni decisivi della sua formazione e della sua affermazione»: P. Scoppola, Il Movimento Laureati nelle ricerche storiche, in AA.VV., In ascolto della storia. L’itinerario dei “Laureati cattolici” 1932-1982, Studium 1984, pp. 9-24, p. 21. ↑
P. Scoppola, [Intervento], in Con Aldo Moro a San Pellegrino dopo vent’anni, Atti del convegno nazionale di studio di San Pellegrino Terme, 4-6 settembre 1984, Edizioni Cinque Lune, Roma 1986, p. 225. Cfr. anche A. Gotelli, Dall’Azione Cattolica alla Costituente, ibid., pp. 49-53, con una ricca serie di ricordi personali specialmente a proposito del periodo Costituente. ↑
Ibid., p. 226. ↑
R. Dell’Andro, Aldo Moro e la filosofia del diritto, ibid., pp. 55-60, p. 57. ↑
Cfr. M. Casella, L’Azione Cattolica alla caduta del fascismo. Attività e progetti per il dopoguerra (1942-’45), Studium, Roma 1984, p. 30. ↑
Cfr. ibid., p. 132. ↑
Cfr. ibid., pp. 257-259. ↑
Cfr. Id., Cattolici e Costituente. Orientamenti e iniziative del cattolicesimo organizzato (1945-1947), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987, pp. 93-95. ↑
Cfr. ibid., pp. 166-167. Casella pubblicava una lettera di Moro a Vittorino Veronese del 13 marzo 1946 nella quale era riepilogata la sua posizione: mantenere a un livello ufficiale una posizione indipendente dalla dialettica partitica, coltivare uno sguardo critico sulla situazione politica in generale, immettere alcuni elementi nelle liste senza impegnare formalmente l’associazione, svolgere un’opera di mediazione tra le forze politiche che aiuti la Democrazia cristiana a diventare un naturale centro di attrazione del quadro politico. Casella riteneva il giudizio di Moro, in tutto questo, «distaccato e realista»: ibid. Cfr. anche Id., Azione Cattolica e Democrazia Cristiana negli anni di passaggio dal fascismo alla Repubblica, in «Archivio storico italiano», vol. 155, n. 2-3, 572/573, aprile-settembre 1997, pp. 419-463. ↑
Id., L’Azione Cattolica alla caduta del fascismo, cit., p. 30. ↑
R. Moro, Il contributo culturale e politico dei cattolici nella fase costituente, in M.C. Giuntella, R. Moro, Dalla Fuci degli anni ’30 verso la nuova democrazia, Ave, Roma 1991, pp. 31-89. ↑
Cfr. P. Scoppola, La nuova cristianità perduta, Studium, Roma 1985, p. 12. ↑
R. Moro, Il contributo culturale e politico dei cattolici nella fase costituente, cit., p. 57. ↑
Ibid., pp. 50-51. Nel 1987 lo stesso Renato Moro ricostruiva un profilo approfondito e dettagliato di don Franco Costa, vice assistente della Fuci negli anni della presidenza di Moro, proponendo un’analisi complessiva della sua pedagogia ma soprattutto mettendo in rilievo il ruolo che egli svolse non già, come sino ad allora si credeva, nei confronti della formazione politica della generazione di Moro, ma specie nella sua direzione religiosa e spirituale. Il primato della formazione interiore, l’impostazione unitaria di vita che fonde insieme spiritualità e cultura, la coerenza personale nel distacco dal fascismo, l’insistenza sulla natura sociale del movimento cattolico, il richiamo al valore formativo del personalismo cristiano, la responsabilità dello studio erano tutti elementi che trovavano profonda eco nello sviluppo della personalità di Moro. Costa, e non quest’ultimo, emergeva come il vero «promotore e garante principale di una continuità, di una vera e propria identità della FUCI “montiniana”»: R. Moro, Franco Costa vice-assistente della FUCI (1933-1955), in AA.VV., Don Franco Costa. Per la storia di un sacerdote attivo nel laicato cattolico italiano. Studi e testimonianze, Colloquio storico di Roma 6-8 novembre 1987, Ave, Roma 1992 pp. 149-299, p. 172. ↑
I. Pietra, Moro, fu vera gloria?, Garzanti, Milano 1983, p. 20 ↑
Ibid., p. 32. ↑
Ibid. ↑
Ibid., p. 29. ↑
Ibid., p. 40. ↑
A. Rossano, L’altro Moro, Sugarco, Milano 1985. ↑
Ibid., p. 25. ↑
Ibid., p. 55. ↑
Ibid., p. 39. ↑
Ibid., p. 35. ↑
G. Di Capua, Aldo Moro. Il potere della parola (1943-1978), Ebe, Roma 1988. ↑
Ibid., p. 23. ↑
Ibid., p. 12. ↑
G. Lamaddalena, Aldo Moro. Alle radici della nuova democrazia italiana (raccolta di articoli scritti per “La Rassegna” negli anni 1943-1944-1945), Università degli studi di Bari, 1988. Maria Amendola, moglie del fondatore della testata, Antonio, vi firmava una breve introduzione “La Rassegna” un atto di fede ed una speranza di libertà, pp. 11-13 in cui, di Moro, ricordava l’immagine «velata di malinconia e di pessimismo» «di un uomo introverso che ai drammatici temi di quei terribili anni dedicava pagine sofferte nella sostanza e nello stile, da cui tuttavia cominciava ad emergere la filosofia ispiratrice di tutte le sue azioni. Una filosofia non semplice, anzi spesso tormentata nonostante la fede, espressione di una personalità complessa, fisicamente fragile»: ibid., p. 12. ↑
G. Campanini, Aldo Moro, Beauchesne, Parigi 1988, tr. it. Aldo Moro: cultura e impegno politico, Studium, Roma 1992. Le note che seguono sono ricavate dall’edizione italiana. ↑
Ibid., p. 38. ↑
Ibid., p. 23, il corsivo è mio. ↑
Ibid., p 34. ↑
Ibid. ↑
I. Mancini, La filosofia del diritto di Aldo Moro, in Id., G. Moro, G.M. Spacca, Aldo Moro nella cultura e nella società italiana, Atti del Convegno di studio, Fabriano, 17 dicembre 1988, Centro studi don Giuseppe Riganelli, Fabriano 1989, pp. 17-23. ↑
Ibid., p. 18. ↑
Il testo era ripreso quasi integralmente dalla citata opera di Fanello Marcucci: «Prima ancora dell’entrata in guerra dell’Italia, ma con la sensazione netta che prima o poi ciò sarebbe accaduto, Moro pensava già alla ricostruzione […] lavorava per il futuro. Gettava le basi per risvegliare la sensibilità dei cattolici all’impegno di costruire un ordine sociale nuovo, perché il disinteresse dei fucini per la vita pubblica, il loro rinchiudersi in se stessi non desse la possibilità ad altri di edificare una società in netto contrasto con la visione cristiana della vita. Lavorava per preparare i cattolici ad una ripresa della vita democratica, in cui il rispetto delle idee altrui, pur nell’impegno di comunicare la verità posseduta, non significasse rinuncia o compromesso, ma valorizzazione dell’individuo e del suo personale contributo»: S. Tramontin, La Democrazia Cristiana dalla Resistenza alla Repubblica (1943-1948), in F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia Cristiana, I, Dalla Resistenza alla Repubblica 1943-1948, Edizioni Cinque Lune, Roma 1987, p. 20. ↑
Cfr. A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana, 1918-1948, Laterza, Bari-Roma 1991, pp. 94-96. ↑
Ibid., p. 96. ↑
Ibid., p. 209 ↑
Giovagnoli sottolinea il rapporto molto stretto dei giovani intellettuali con Montini e precisa che «l’origine del loro itinerario politico aveva in genere una connotazione ecclesiastica, rappresentata da un’influenza clericale quando non da un vero e proprio “mandato” del vescovo, come nel caso di Moro»: ibid., p. 186. Sul legame tra Montini-Paolo VI e Moro cfr. anche A. Giovagnoli, Religione e politica in Aldo Moro, in, Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, a cura di Camillo Brezzi, Carlo Felice Casula, Agostino Giovagnoli, Andrea Riccardi, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 479-502. ↑
G. De Rosa, Una prima lettura del pensiero meridionalista di Aldo Moro, testo della relazione tenuta a Napoli il 22 aprile 1979 al Seminario di studi La cultura del Mezzogiorno e il suo modello di sviluppo, ora in Id., Da Luigi Sturzo ad Aldo Moro, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 191-204. ↑
Ibid., p. 192. ↑
Cfr. V.A. Leuzzi, Partiti e forze democratiche a Bari nel 1943-44, in Id., L. Cioffi, Alleati, Monarchia, Partiti nel Regno del Sud. Stampa e forze politiche in provincia di Bari tra restaurazione prefettizia e libertà, Schena Editore, Fasano 1988, pp. 21-154, in particolare le pp. 67-70; cfr. anche L. Cioffi, Bari centro editoriale dell’Italia liberata, ibid., pp. 157-214. Cfr. anche V.A. Leuzzi, La città in guerra. Problemi della ricerca nel contesto pugliese, in Id., M. De rose (a cura di), Problemi di storia del Novecento tra ricerca e didattica. Bari e la Puglia negli anni della guerra 1940-1945, Quaderno n. 24, Irsae-Puglia, Bari 1995, pp. 61 e ss. Per un quadro più ampio cfr. anche N. Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, Franco Angeli, Milano 1985, specialmente i saggi di Ennio Cornaglia, Crisi di regime e questione contadina in Puglia 1943-1945, alle pp. 283-302, e di Marina Comei Crisi di regime e agitazioni popolari in provincia di Bari, alle pp. 301-314. ↑
V. Robles, Le Chiese di Puglia dalla guerra alla prospettiva democratica, in R.P. Violi (a cura di), La Chiesa nel Sud tra guerra e rinascita democratica, Bologna, Il Mulino 1997, pp. 205-246. ↑
Ibid., p. 206. ↑
La riflessione di Moro appariva, ad esempio, consentanea a quanto espresso nella pastorale collettiva dei vescovi pugliesi del 25 novembre 1943, pubblicata da Robles, dove si leggeva: «State attenti perché essendo cessata una dittatura non ne abbia a sorgere un’altra; attenti perché essendo scomparso un regime di forza, non si abbia a cadere in balia della violenza; attenti perché avendo desiderato la libertà, questa non abbia a degenerare in licenza; attenti perché deplorando l’egoismo di altri tempi non si debba assistere all’affermarsi di altre forme di egoismo»: ibid., p. 228. ↑
Ibid., p. 243. ↑
Ibid., p. 244. ↑
R.P. Violi, Introduzione, ibid., p. 14. ↑
D. De Leonardis, L’umanità di Aldo Moro, Cappetta, Foggia 1993. ↑
Ibid., p. 12: «Cercherò attraverso la descrizione di episodi significativi, di rendere noti alcuni aspetti della sua personalità, cogliendo la sua umanità in circostanze lontane dalle implicazioni delle vicende politiche». ↑
P. Scoppola, La “meridionalità” di Moro, in AA.VV., Convegno di studi in memoria di Aldo Moro nel ventennale della sua scomparsa, Bari, 28 maggio 1998, Servizio Editoriale Universitario, Bari 2001, pp. 23-33, p. 23. ↑
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, vol. II, dal “miracolo economico” agli anni ’80, Einaudi, Torino 1989, pp. 346 e ss.; per una riflessione storiografica sulla questione cfr., ancora, R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., pp. 35 e ss. ↑
Id., La formazione giovanile di Aldo Moro. Dall’impegno religioso a quello politico, in AA.VV., Convegno di studi in memoria di Aldo Moro nel ventennale della sua scomparsa, cit., pp. 51-96. ↑
Dopo il citato saggio dedicato a Franco Costa, la riflessione di Renato Moro sul periodo della presidenza fucina di Moro aveva trovato un ulteriore motivo di approfondimento in un’indagine storiografica sull’altro vice assistente della Fuci di quegli anni, Emilio Guano. Anche in questo caso, l’analisi aveva permesso di mettere a fuoco la decisiva e misconosciuta importanza del suo ruolo, ben oltre il solo impegno di educazione teologica e spirituale con il quale sostanzialmente lo ricordava una diffusa vulgata. Insistendo sul legame e sulle consonanze tra Moro e Guano quanto alla priorità della formazione interiore, al giudizio sui doveri del cristiano chiamato alle armi, sulla ritrosia a un impegno diretto in politica dell’associazionismo cattolico, Renato Moro poteva individuare nel sacerdote genovese l’artefice di un profondo rinnovamento dell’associazione durante gli anni della guerra: «Tutta la linea della Fuci, largamente basta sul recupero dei valori dell’interiorità, su quelli dell’obbedienza e del sacrificio di fronte alla guerra (anche nel dubbio del suo significato) sulla necessità di un ritorno ai valori fondamentali, e quindi al cristianesimo, ma non come ritorno al corpus dottrinale, ideologico e politico del cattolicesimo, bensì essenzialmente come riscoperta, anche nel tempo di guerra e nella vita militare, di alcuni elementi costitutivi, semplici e perenni, dell’uomo, parte dunque dalla riflessione di Guano»: R. Moro, Cristianesimo e politica negli anni della seconda guerra mondiale, in M.L. Paronetto Valier (a cura di), Emilio Guano. Coscienza, libertà, responsabilità, Atti del convegno di studio su Don Guano, la Chiesa genovese e il laicato cattolico nella prima metà del Novecento, Genova 8-10 marzo 1996, Studium, Roma 1998, pp. 137-156, p. 144. ↑
Ai problemi legati alla partecipazione di Moro al congresso dei Comitati di liberazione nazionale di Bari del gennaio 1994 e, più in generale, ai contrasti con la dirigenza locale del partito avrebbe fatto riferimento R.P. Violi, La Dc nell’Italia liberata. La dirigenza napoletana e la formazione del partito nel 1943-1944, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006, spiegando che, in Moro, «era soprattutto la sua concezione poco militante di un cattolicesimo vissuto in chiave eminentemente religiosa a non disporlo immediatamente verso un diretto impegno di partito né ad una pressante sollecitudine per la configurazione del futuro sistema politico»: ibid., p. 107. Il confronto con la Dc barese rivelava la diversità di impostazioni tra le nuove componenti cattoliche cresciute tra le due guerre, espressioni altresì di un ceto borghese intellettuale e meridionale molto peculiare, e i vecchi quadri politici di matrice sturziana. ↑
Una sintesi dell’analisi di Renato Moro, con un’ulteriore precisazione del valore esclusivamente prepolitico della militanza del giovane Moro ai vertici degli universitari cattolici compariva in R. Moro, Aldo Moro negli anni della Fuci, Studium, Roma 2008: «La ricerca di un impegno nella storia caratterizza la linea della presidenza fucina di Moro ma non è legata alla preparazione del futuro o a preoccupazioni di ordine politico. Piuttosto, la posizione personale di Moro, pur ormai chiaramente collocata sul versante critico nei confronti della dittatura, prescinde dall’operare un diretto lavoro di preparazione culturale e politica teso a costruire le premesse ideali di una presenza politica dei cattolici nella crisi del fascismo»: ibid., p. 33. ↑
Per una puntuale ricognizione dei lavori pubblicati negli ultimi dieci anni cfr. G. Formigoni, Il rinnovamento della storiografia su Aldo Moro dopo il 2008, in A. D’Angelo, M. Toscano (a cura di), Aldo Moro. Gli anni della “Sapienza” (1963-1978), Studium, Roma 2018, pp. 27-38. ↑
Cfr. C. Guerzoni, Aldo Moro, Sellerio, Palermo 2008, p. 24. Nel 2007 era anche stata pubblicata l’antologia curata da A. Di Mario, L’attualità di Moro negli scritti giornalistici 1937-1978, Pironti, Napoli 2007. ↑
Cfr. M.S. Piretti, Il progetto politico di Aldo Moro dalla Costituente alla Terza Fase, in Atti del Convegno Internazionale, Il governo delle società nel XXI secolo. Ripensando ad Aldo Moro, Roma 17-20 novembre 2008, Accademia di studi storici Aldo Moro, Roma 2008, pp. 3-11. Piretti osservava come, negli scritti giovanili, l’uomo in quanto persona e la promozione della solidarietà sociale e conseguentemente l’attenzione alle masse fossero i temi che sarebbero serviti a Moro per declinare nel tempo la sua idea di «Stato di popolo». L’autrice riteneva questo una pietra angolare dei suoi interventi tra il ’43 ed il ’45 quando Moro afferma nei suoi articoli la necessità di affrancare il popolo da un punto di vista politico non meno che sociale al fine di renderlo capace di un autentico esercizio democratico. Le chiavi di volta di tutta la linea politica morotea venivano però enucleate nei due concetti di democrazia e libertà: nella loro declinazione passava per Moro il difficile confine tra fascismo e antifascismo che si sostanziava nel pluralismo delle forze politiche, nell’attenzione alle formazioni sociali, nel dialogo tra la società civile e quella politica, nella progressiva affrancazione di tutte le classi sociali verso il governo della cosa pubblica. ↑
L. La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo 1943-1948, Bollati Boringhieri, Torino 2008. ↑
E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel Ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997. ↑
L. La Rovere, L’eredità del fascismo, cit., pp. 285-287. ↑
Ibid., p. 285. ↑
Il riferimento era a (a.m.) [A. Moro], “I frutti del fascismo” di Herbert L. Matthews, in «Studium», XLI, 1945, n. 5, maggio, pp. 136-137. ↑
L. La Rovere, L’eredità del fascismo, cit., p. 167. ↑
Ibid., p. 183. ↑
Ibid., p. 185. ↑
Ibid., p. 188. ↑
È chiaro che, se di svolta è possibile parlare a proposito della complessiva riflessione storiografica su Moro, quanto al periodo giovanile gli studi di Renato Moro qui abbondantemente richiamati ne avevano costituito, per molti aspetti, già un modello, rappresentando perciò, sino ad anni più recenti, una vera e propria eccezione. ↑
Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura della rivista «Mondo contemporaneo», Franco Angeli, Milano 2011. Piero Craveri segnalava una positiva discrasia nella formazione intellettuale di Moro emersa dagli studi: «Moro è un militante dell’Azione Cattolica, della Fuci, assorbe quindi quelli che sono gli elementi portanti di quella tradizione, che in virtù di una serie di buoni lavori storiografici conosciamo ormai con esattezza; ma, in parallelo, è un giurista, il quale elabora una concezione del rapporto tra la società e lo Stato che è peculiare e che non appare del tutto coincidente con quella che è la tradizione della sua generazione di uomini usciti dall’esperienza dell’Azione cattolica […]. Esiste una maturazione intellettuale in Moro che corre parallela all’approfondirsi della sua militanza nella fede cattolica, nelle organizzazioni del laicato cattolico. E questo costituisce un doppio percorso di straordinario carattere, che non credo abbia altri equivalenti»: P. Craveri, Aldo Moro e la storia della Repubblica, ibid., pp. 9-16, pp. 9-10. ↑
Cfr. R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit. ↑
Renato Moro concludeva la sua ricognizione storiografica constatando: «L’esame dei giudizi riservati a Moro nelle storie dell’Italia repubblicana ha finito per dirci di più sui loro autori, sulle loro simpatie e antipatie, sulle loro culture politiche di riferimento, sulle congiunture attraversate dal paese che, spesso, su Moro stesso»: ibid., p. 65. ↑
P. Acanfora, Aldo Moro “politico dossettiano”. Problemi storiografici e percorsi di ricerca, ibid., pp. 81-104, p. 81. ↑
Id., Un nuovo umanesimo cristiano. Aldo Moro e “Studium” (1945-1948), Studium, Roma 2011 ↑
Id., Aldo Moro “politico dossettiano”, cit., p. 85, n. 20. ↑
Ibid., p. 85. ↑
Ibid., p. 86. ↑
Agli scritti su «Studium» aveva dedicato attenzione anche A. Ferrari, Dalla democrazia liberale alla democrazia cristiana, ovvero “la virtù del libero ubbidire”, in «Storia Contemporanea», numero monografico dedicato a Liberalismo e democrazia nelle riviste politiche e culturali italiane del secondo dopoguerra (1944-1948), a. XVII, n. 6, dicembre 1996, pp. 931-954, che vi aveva letto «una sorta di sapienzialità metapartitica» e, nel milieu raccolto attorno alla redazione, aveva riscontrato «la necessità di superare il concetto laico di individuo, mutilo di consapevolezze sociali, in favore del concetto di persona, o il congiunto attacco all’equiparazione implicita fra verità ed errore ritenuta il frutto più velenoso della tolleranza liberale. Soprattutto era comune la convinzione che solo una cultura religiosa a fondamento trascendente fosse depositaria di valori e strumenti atti a mediare fra i poli della libertà e dell’autorità, altrimenti destinati, in una democrazia di massa guidata da istituzioni agnostiche, a entrare in una permanente incomponibilità dagli intuibili esiti destabilizzanti»: ibid., pp. 935-936. ↑
P. Acanfora, Un nuovo umanesimo cristiano. Aldo Moro e “Studium” , cit., p. 20. ↑
Cfr. F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca (a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, Le Lettere, Firenze 2011. Le sezioni in cui si articolavano gli atti, frutto delle due sessioni del convegno, riguardavano la politica interna, a cura di Francesco Perfetti e Andrea Ungari, e la politica estera, a cura di Daniele Caviglia e Daniele De Luca. ↑
R. Moro, La formazione politica di Aldo Moro, ibid., pp. 27-48 ↑
Cfr. A. Giovagnoli, Aldo Moro. Un democristiano atipico, in «Contemporanea», vol. 11, n. 1, gennaio 2008, pp. 95-100. ↑
Cfr. A. Fanfani, Diari, vol. 1, Quaderni svizzeri 1943-1945, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. ↑
R. Moro, La formazione politica di Aldo Moro, cit., pp. 46-47. Nello stesso volume si vedano i cenni fatti nel saggio di Augusto D’Angelo alla riflessione del giovane Moro sulla guerra e sulla capacità del pensiero di Moro di ispirare un «protagonismo collettivo compartecipe delle sorti della storia, anzi, coautore della storia medesima» che si fa poi «dimensione politica, che pur rispettosa della propria ispirazione religiosa, deve misurarsi con la concretezza di una realizzazione storica che ha i suoi tempi e le sue modalità rispetto ai quali l’ispirazione può contribuire ad animare, ma non deve turbare il terreno della politica»: A. D’Angelo, Moro e il mondo cattolico, ibid., pp. 81-103, p. 82. Anche Luciano Tosi accennava alle riflessioni di Moro su «La rassegna» a proposito degli ideali personalistici che avrebbero dovuto orientare la comunità internazionale: L. Tosi, Le Nazioni Unite nella politica estera di Aldo Moro, ibid., pp. 337-368. ↑
P. Craveri, Moro, Aldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXXVII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 16-29, p. 18. ↑
Cfr. R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un Paese, cit. ↑
T. Torresi, Aldo Moro nei suoi scritti giovanili: radici e prospettive di una cultura politica, ibid., pp. 157-175. Il saggio approfondiva un segmento di una precedente ricerca sulla Fuci alla quale pure mi permetto di rinviare: Id., L’altra giovinezza. Gli universitari cattolici dal 1935 al 1940, Cittadella, Assisi 2010. ↑
A. Melloni, Appunti su Moro, la Chiesa, l’Italia. Educare l’invadenza dell’assente, in R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 105-128, p. 105. ↑
Ibid., p. 106. ↑
Ibid., p. 110. ↑
Ibid. ↑
P. Acanfora, Le due patrie. Coscienza nazionale e unificazione europea in Aldo Moro (1944-1961), pp. 177-199. ↑
Ibid., p. 181. ↑
Cfr. A. Massafra, L. Monzali, F. Imperato (a cura di), Aldo Moro e l’Università di Bari. Fra storia e memoria, Cacucci, Bari 2016. Nella loro Introduzione i curatori sottolineavano il significato della presenza di Moro negli ambienti universitari baresi ma in particolare nella redazione de «La rassegna» una esperienza breve «ma importante, perché rappresentava un tentativo, forse ingenuo ma sicuramente interessante, di un gruppo di giovani intellettuali meridionali di estrazione politica piuttosto eterogenea, di superare la confusione dominante negli ultimi, tragici, anni di vita del regime fascista tenendo fermo un patriottismo che si esprimeva in termini moderati e senza esasperazioni retoriche, combinato ad un afflato democratico che non celava critiche e diffidenze nei confronti della troppo eterogenea coalizione del Comitato di Liberazione Nazionale»: ibid., p. 10. A proposito degli studi più recenti osservavano: «Sempre più ricca diventa, peraltro, la memorialistica e la letteratura storica in senso lato, edita ed ancor più inedita, che può servire se viene usata con prudenza e con gli idonei strumenti della critica storico-documentaria, lontana dalle preoccupazioni censorie, giustificazioniste o auto-assolutorie dei protagonisti. Sempre preziosa risulta, infine, la ricchissima documentazione a stampa la cui attendibilità però, come sempre nella ricerca storia, è tutta da verificare»: ibid., p. 12. Cfr anche F. Imperato, Aldo Moro e l’Università degli Studi di Bari. Note e documenti, ibid., pp. 13-39, specialmente le pp. 13-26 che offrono una puntuale ricognizione del rapporto del giovane Moro con l’Università di Bari; le considerazioni sul legame del pensiero di Moro con la filosofia di Maritain in M. Indellicato, Il fondamento etico-sociale del diritto nel pensiero di Aldo Moro, ibid., pp. 47-56 e, infine, la ricostruzione del legame tra Moro e Pasquale Del Prete in V. Caputi Jambrenghi, Aldo Moro e Pasquale Del Prete: due vite per l’Università di Bari, ibid., pp. 69-75. Nello stesso anno usciva anche il volume di L. Pomante, “Fiducia nell’uomo e nell’intelligenza umana”. La Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI) dalle origini al ’68, Eum, Macerata 2016. Pomante ripercorreva le scelte di politica universitaria e in materia di organizzazione dell’istruzione superiore adottate dalla Fuci nel corso della sua storia e scarsamente considerati dagli studiosi e, descrivendo la linea della presidenza fucina di Moro, insisteva sugli scritti di quest’ultimo che richiamavano alla funzione educatrice e formativa dell’università e alla centralità del rapporto tra i docenti e gli studenti. Sottolineava poi l’impegno di Moro nel favorire la ricostruzione della vita universitaria al fine di renderla più adeguata alle sua finalità, senza ideologizzare il dibattito politico interno: cfr. pp. 183-204 e 209-211. ↑
M. Mastrogregori, Moro, Salerno Editrice, Roma 2016. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino, 2016. ↑
M. Mastrogregori, Moro, cit., p. 8. ↑
Ibid., p. 48. ↑
Ibid., p. 56. ↑
Ibid., p. 58. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 8. ↑
Al legame tra Taranto e Aldo Moro è stata dedicata di recente una mostra fotografica: cfr. M. Alfonzetti, V. De Marco, L. D’Ippolito, M. Durante (a cura di), “Taranto città a me cara…”. Moro e Taranto: dagli anni della giovinezza alle visite istituzionali, Catalogo della mostra, Taranto 6 maggio – 4 luglio 2017 Roma 18-25 settembre 2017, a cura del Comitato per le celebrazioni in Taranto del centenario della nascita di Aldo Moro, Stampasud, Mottola (TA), 2017. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 44. ↑
Il terzo capitolo, dedicato alle vicende seguite all’elezione del 1946, si intitola: Il lavoro costituente e l’apprendistato politico. ↑
Ibid., p. 63. ↑
Ibid., p. 56 e ss. L’analisi degli scritti su «La rassegna» e «Pensiero e vita» è alle pp. 60 e ss. Agli scritti di Moro del 1944-1944 dedica attenzione anche F. De Giorgi, La Repubblica grigia. Cattolici, cittadinanza, educazione alla democrazia, La Scuola, Brescia 2016. Nell’ambito della sua riflessione sulla pedagogia democratica all’indomani della caduta del fascismo, De Giorgi sottolinea il valore delle considerazioni di Moro contro il qualunquismo e a favore del recupero di un sentimento civico di solidarietà. Egli ritiene il pensiero di Moro un esempio di questa aspirazione alla normalità democratica, aldilà di ogni retorica, come pure, più avanti nel libro, sottolinea il ruolo che egli svolse nel richiamare, attraverso le unioni professionali, alla funzione sociale dell’intelligenza come un coerente svolgimento delle precedenti posizioni antifasciste: cfr. pp. 76, 86 e 383-385. ↑
Nel 2015 è stato pubblicato un saggio che ne ricostruisce la storia, la linea editoriale e le principali prese di posizione entro il quadro più ampio della ripresa della libertà di stampa nel Regno del Sud: A. Gervasio, «La Rassegna». Settimanale d’opinione, in G. Esposito, A. Gervasio, V.A. Leuzzi, R. Pellegrino, C. Vitulli, La stampa libera in Puglia. Informazione, opinione pubblica, partiti, 1943-1945, Edizioni dal Sud, Bari 2015, pp. 137-183. La collaborazione di Moro e i suoi articoli sono richiamati in modo specifico alle pp. 164-175. ↑
L. D’Ubaldo, Introduzione, in A. Moro, La vanità della forza. Gli articoli su “La Rassegna” di Bari (1943-1945), a cura di Lucio D’Ubaldo, Eurilink, Roma 2016, p. 22. ↑
A. Moro, Governare per l’uomo, a cura di Michele Dau, Castelvecchi, Roma 2016. ↑
Nel maggio 2018, in occasione dei quarant’anni dalla morte, l’Istituto Luigi Sturzo di Roma ha organizzato un convegno dedicato in modo particolare al legame di Moro con le istituzioni repubblicane nelle quali svolse la sua attività e alla sua riflessione a proposito dello Stato e della politica. Sotto questo particolare profilo Renato Moro ha richiamato gli elementi della formazione della sua cultura politica, il percorso tormentato che lo portò a un diretto impegno nel partito e la visione dello Stato che egli nutrì sin da giovane: R. Moro, La formazione intellettuale di Aldo Moro, in N. Antonetti (a cura di), Aldo Moro nella storia della Repubblica, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 42-57. ↑
A. Moro, Paura di essere uomini, in «Ricerca», I, 1945, n. 4, 15 giugno, p. 1. ↑