I cinque anni della segreteria di Aldo Moro si chiusero con il raggiungimento di un traguardo niente affatto scontato nel momento in cui aveva assunto la direzione politica della Democrazia cristiana: il varo del primo governo di centro-sinistra dell’Italia repubblicana con la partecipazione organica dei socialisti, da lui presieduto[1].
Moro fu eletto segretario al Consiglio nazionale che si era tenuto il 14-17 marzo 1959 presso la casa per convegni Domus Mariae a Roma[2]. La seduta si svolse in un «momento» che Moro stesso definì «doloroso per tutti» a causa della spaccatura interna al nucleo dirigente maturata da alcuni mesi[3]. Le dimissioni di Amintore Fanfani da presidente del Consiglio il 26 gennaio e, pochi giorni più tardi, anche da segretario della Dc, testimoniavano uno stato di crisi che rischiava di risolversi nella frantumazione tra le diverse anime del partito. A Moro fu perciò affidato il compito, alquanto gravoso, di ricomporre gli equilibri interni. Si trattava, ha osservato Francesco Malgeri, della «reazione fisiologica» di un partito lacerato, intenzionato ad evitare divisioni e a ricomporsi su basi nuove[4].
Malgrado gli sforzi di Moro, la frattura andata in scena alla Domus Mariae all’interno della componente maggioritaria del partito non si sarebbe più ricomposta. Uniti dal 1951 nella corrente Iniziativa democratica, ma divisi ormai da tempo come aveva definitivamente dimostrato l’operazione dei franchi tiratori alla Camera che, a cavallo tra il 1958 e il 1959, aveva mandato più volte il governo in minoranza su provvedimenti di scarsa rilevanza, dorotei e fanfaniani reagirono negativamente ai tentativi di mediazione del nuovo segretario.
Le ragioni della rottura interna alla corrente maggioritaria sono state ampiamente indagate dalla storiografia, che ha individuato nel Consiglio nazionale di Vallombrosa del luglio 1957, ricordato per la relazione di Fanfani impostata sulla necessità di aprire alla prospettiva di dialogo con i socialisti, la prima manifestazione di divergenze politiche nel vertice iniziativista. Le interpretazioni in merito appartengono ad un patrimonio ormai consolidato: conduzione accentratrice di Fanfani nei giudizi di una parte crescente della dirigenza nazionale; tensioni nei rapporti tra partito, esecutivo e rappresentanza parlamentare; difforme lettura dei flussi elettorali delle consultazioni politiche del 25 maggio 1958. Sul piano più generale della dialettica interna alla Dc, tutto ciò si intrecciò trasversalmente con un confronto aperto e pubblico, e in quanto tale inedito, sugli indirizzi politici del partito tra la linea moderata orientata ad un ritorno al centrismo e la linea riformista indirizzata ad una cauta apertura nei confronti dei socialisti[5].
Contrariamente alle iniziali speranze di Moro, la nascita dei dorotei dalla spaccatura di Iniziativa democratica rappresentò la definitiva affermazione del protagonismo delle correnti nelle dinamiche interne ad un partito caratterizzato fin dalla sua fondazione da una natura composita, originata dalla compresenza di orientamenti politici differenti, derivanti dalla complessità del mondo cattolico e dalla varietà di interessi da esso rappresentati, intenzionati tuttavia a convivere dentro la cornice unitaria del partito dei cattolici. Dopo il fallimento della riforma elettorale maggioritaria del 1953, la spinta unitaria non venne meno, ma fu messa alla prova da un nuovo modello di partito che affidava alla comparsa delle correnti il mantenimento della propria centralità nel sistema politico, nelle istituzioni, nella società. In un primo momento limitata a dissensi politico-ideologici, l’affermazione di una logica correntizia centrata sull’articolazione di strutture organizzate di potere si sarebbe perciò verificata alla fine degli anni Cinquanta a partire dalla costituzione dei dorotei alla vigilia del consiglio alla Domus Mariae[6].
Che la linea di divisione non passasse più semplicemente attraverso differenziate correnti di opinione fu reso esplicito dall’attacco rivolto ad esse dal presidente Adone Zoli in apertura della seduta del Consiglio nazionale. Moro non affrontò l’argomento in quella sede; lo avrebbe fatto tuttavia spesso nei mesi immediatamente successivi, consapevole che il partito si stava avviando di fatto ad essere una federazione di correnti, con significativi riflessi su base regionale[7].
Del resto erano stati proprio i dorotei − che come è noto derivavano il proprio nome dalla riunione svolta presso il convento di Santa Dorotea la sera del 13 marzo 1959, durante la quale fu deciso di non respingere le dimissioni di Fanfani − gli artefici della sua investitura alla guida della Dc. A tale proposito, le relazioni di Moro con i dorotei sono state oggetto di interpretazioni storiografiche discordanti, che rinviano ai complessivi rapporti di Moro con le correnti del partito. Se alcuni studi hanno ritenuto organica la sua partecipazione ai gruppi, in ordine temporale, dossettiano, iniziativista e doroteo, altri hanno invece posto l’accento sull’autonomia di Moro, pur riconoscendone vicinanza e legami di collaborazione[8]. In un contributo di alcuni anni fa, Agostino Giovagnoli ha definito «atipica» la collocazione di Moro nella geografia delle correnti democristiane[9], tanto da attribuire tale connotazione alla sua intera azione politica[10]. Ma già Nicola Antonetti e Pietro Scoppola all’inizio degli anni Ottanta avevano evidenziato tratti di autonomia nel suo pensiero, comprovati anche dal non aver mai raccolto attorno a sé una corrente strutturata[11].
Il sistema correntizio si sarebbe definitivamente stabilizzato nei primi anni Sessanta. A Moro non restò che prenderne atto, ma la sua non fu un’accettazione passiva. Piuttosto, ha scritto Guido Formigoni nella sua recente biografia, essa fu il prezzo che il segretario si rese disponibile a pagare per tenere unito il partito, e per questa via controllarlo attraverso l’utilizzo di un sistema al quale non partecipava direttamente[12]. Su questo punto, che risulterà decisivo nella «svolta» del 1962, si tornerà in maniera dettagliata più avanti; per quanto riguarda i primi mesi della segreteria di Moro, alcune analisi basate su nuove evidenze documentarie si sono concentrate sul suo tentativo di ricucire, tramite colloqui riservati, lo strappo tra i due tronconi in cui si era divisa Iniziativa democratica[13]. Nell’ottica dell’impostazione dell’Edizione Nazionale, finalizzata alla ricostruzione del profilo pubblico del politico pugliese, sembra invece interessante richiamare alcune delle occasioni durante le quali Moro si espresse pubblicamente sull’argomento in quel periodo. Dalla lettura dei suoi discorsi emerge infatti quanto il tema delle correnti pesò nel dibattito che precedette, attraversò e seguì il congresso del 23-28 ottobre 1959, un’assise per altro rinviata dalla primavera all’autunno proprio a causa della spaccatura nel gruppo maggioritario.
La prima di queste occasioni fu un’intervista rilasciata a maggio al mensile «Successo», di cui si è trovata copia tra le carte della Segreteria politica conservate presso l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo. A partire dalla volontà di far sentire pienamente partecipi del dibattito congressuale anche le minoranze democristiane, Moro affermò di non condividere «le posizioni troppo rigidamente negative nei confronti delle cosiddette correnti interne del Partito». Tale atteggiamento interlocutorio era tuttavia bilanciato dalla deplorazione degli «eccessi organizzativi e polemici» e soprattutto dal richiamo all’articolo 6 dello statuto della Dc, la norma che non consentiva la costituzione di «gruppi, tendenze o frazioni organizzate»[14]. In altre parole, Moro non intendeva proporre un superamento delle correnti, una prospettiva del tutto impraticabile, quanto semmai chiedere di «modificare il modo di lotta tra le correnti» per garantire un’azione politica unitaria[15].
Nei mesi successivi continuò regolarmente ad esprimere il suo personale giudizio sulla presenza delle correnti nel partito, dichiarando loro fiducia ma sempre definendole «di opinione». Fu così ad esempio al convegno della stampa periodica della Dc[16] e all’incontro con i dirigenti regionali e provinciali del 3 luglio, l’unico tra i discorsi da segretario ai quadri locali frequentemente citato dalla storiografia. In un lungo intervento volto a riavvicinare il centro del partito alla sua periferia, uscita dalle vicende di quei mesi fortemente amareggiata per l’autosufficienza mostrata dai vertici, Moro volle precisare il significato da lui attribuito alle correnti:
Qualcuno mi ha detto che sono stato poco severo con le correnti. Intanto io sono un realista e quindi accetto la realtà, cercando di migliorarla. Secondo, credo nella validità non delle correnti organizzate, ma delle correnti di opinione. E già in una intervista ho messo in guardia contro i pericoli e gli eccessi delle correnti, contro la faziosità, contro gli eccessi, anche di carattere organizzativo, delle correnti[17].
Negli incontri dei mesi successivi, da ultimo al congresso di Firenze, continuò ad ammonire di non trasformare le correnti in «raffinati strumenti organizzativi»[18] e quindi in «partiti dentro il partito»[19]. Alla fine del 1959 fu sollecitato a tornare nuovamente sull’argomento da Giorgio Vecchietti in un’intervista per il settimanale «Epoca», che si chiudeva con una nota personale nella quale Moro parlava dello «stato d’animo di continua tensione» provato nell’essere il segretario della Dc: al giornalista, che lo incalzava sulle posizioni della sinistra del partito, rispose difendendo la legittimità delle correnti di opinione ma anche chiarendo l’intenzione di far rispettare la norma statutaria[20].
I discorsi riportati nel presente tomo dell’Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro offrono perciò, in questo come in altri casi, elementi utili ad una ricostruzione il più possibile esaustiva della sua strategia comunicativa. Offrono anche spunti per riflessioni di carattere più generale sul meccanismo di funzionamento dei partiti, in questo caso sotto il profilo della regolamentazione interna; dal punto di vista delle norme disciplinari, i democristiani presentavano tratti comuni con l’altro grande partito di massa, quello comunista, alle prese fino alla fine degli anni Sessanta con la gestione di fenomeni di «frazionismo», sebbene esistessero divergenze sostanziali sul piano dell’applicazione di quelle norme. Ad ogni modo, in questa sede le parole di Moro sulle correnti risultano interessanti perché complementari al tema che più di ogni altro ha caratterizzato la sua segreteria, quello dell’unità del partito, una questione da lui costantemente evocata nei cinque anni alla guida della Dc e sulla quale la storiografia si è diffusamente soffermata. Il suo sistematico richiamo all’unità si spiega del resto con motivazioni sia interne che esterne: da una parte, il fatto che la sua segreteria fosse nata da una frattura; dall’altra, la convinzione di Moro che fosse suo dovere garantire la tenuta, e di conseguenza la forza, del partito che si era assunto la responsabilità di assicurare stabilità al Paese.
Infine, la sua posizione nei confronti delle correnti pare interessante in quanto parte integrante di un altro fondamentale aspetto dibattuto in ambito storiografico contestualmente a quello dell’unità, ovvero la sua concezione del partito e del suo ruolo nella società. La prima articolata ipotesi interpretativa in merito, ripresa da alcuni storici anche in anni recenti[21], risale a Giorgio Campanini, che alla fine degli anni Ottanta individuò due principali elementi di differenziazione tra il segretario uscente Fanfani e Moro: più attento all’aspetto organizzativo il primo per la sua concezione di partito come strumento per guidare il processo di trasformazione del Paese; incline ad un partito di mediazione e di opinione che favorisse la «circolazione delle idee» il secondo. A giudizio di Campanini, autore del primo sintetico profilo biografico di Moro, a differenziare i due era anche il rapporto con l’opposizione di sinistra, rappresentata nel 1959 sia dal Pci che dal Psi: Fanfani riteneva necessario portare avanti una politica socialmente avanzata capace di conquistare gradualmente la base di consensi tradizionalmente rivolta alle forze di sinistra; al contrario, Moro – prima con i socialisti e più tardi con i comunisti − fu orientato alla ricerca di una intesa da raggiungere attraverso un paziente dialogo a partire dal riconoscimento della diversa ispirazione tra partiti e relativi elettorati[22].
La capacità di mediazione politica è ciò che ha qualificato principalmente Moro secondo un giudizio immutato nel tempo e ampiamente condiviso, dalla pubblicistica alle indagini storiche e alla memorialistica: la sua massima espressione sarebbe stata raggiunta all’inizio del 1962, quando riuscì ad unire il partito attorno alla prospettiva di collaborazione con i socialisti. Tuttavia, tale qualità gli era già stata riconosciuta in precedenza dagli stessi leader democristiani, risultando decisiva per la sua nomina alla segreteria nel marzo 1959. Tale dato emerge ad esempio dalle testimonianze di due dirigenti con sensibilità diverse come Giovanni Galloni[23], esponente della sinistra democristiana, e l’allora vicesegretario Mariano Rumor[24], quest’ultimo fermo nel motivare l’insofferenza maturata in ampi settori del partito nei confronti di Fanfani con la sua «volontà accentratrice» e non a causa della proposta di aprire ai socialisti: «Ho molto riflettuto sulle cause remote e prossime della Domus Mariae e sono fermamente convinto che la ribellione nacque da lì»[25]. In ambito storiografico, Paolo Pombeni ha contestato questa spiegazione, evidenziando la complessità delle dinamiche che avevano determinato l’ascesa di Moro[26]. Tornando ad una lettura dall’interno, nei suoi diari risalenti a questo periodo − pubblicati nel 2012 con una interessante introduzione di Vera Capperucci che esamina le logiche sulle quali il politico aretino aveva costruito la propria leadership − Fanfani non commenta l’elezione del suo successore, ma si limita a riportare una frase detta a Moro in cui si diceva dispiaciuto di «vederlo usato per operazioni non degne della Sua persona»[27].
Nel 1995, nel volume che Renato Moro ha individuato come il punto di svolta per l’avvio di una storicizzazione della figura di Aldo Moro[28], Piero Craveri aveva scritto che il politico pugliese era conosciuto e stimato per il suo carattere riflessivo; era considerato non un leader ma un «punto di incontro comune per i dorotei e poteva esserlo anche per altri», così che la profonda divisione nel partito non si risolvesse in una spaccatura[29]. Conferma questa lettura la successiva pubblicazione del diario di Luciano Dal Falco, dirigente doroteo poco più tardi decisamente polemico nei confronti del nuovo segretario, che nei giorni della Domus Mariae scriveva:
La scelta della sua persona è anche il frutto di un certo tacito compromesso avvenuto all’interno del gruppo di Iniziativa democratica, dopo che quest’ultimo era stato privato della guida di Fanfani a seguito dell’autodecapitazione. Fra Rumor e Gui, fra Colombo e Taviani, Moro è la risultante media, è il “terreno neutro” sul quale ciascuno dei quattro si sente relativamente tranquillo. È una soluzione che non pregiudica eccessivamente il futuro. Moro è stato il meno esposto, fra tutti, negli ultimi tempi, nella polemica aperta e occulta contro Fanfani e la sua politica di centro-sinistra[30].
Un’altra motivazione sulla quale si è insistito molto per spiegare le ragioni che portarono i dorotei a convergere su Moro è il carattere provvisorio di quella scelta. Sia pure con sfumature diverse, questa tesi è stata acquisita in maniera generalizzata e come tale si è consolidata al pari della sua riconosciuta capacità di mediatore politico. A sostenere che la segreteria di Moro era stata considerata provvisoria nel marzo 1959 sono stati per primi alcuni studi usciti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta sebbene, tra questi, i volumi di Francesco Malgeri e di Pietro Di Loreto sulla storia della Dc tendessero a proporla più come una ipotesi che come un dato certo[31].
Anche in questo caso tale ipotesi ha avuto un riscontro in due libri di memorie pubblicati entrambi nel 2008: il già citato testo di Giovanni Galloni[32] e quello di Corrado Guerzoni[33], assistente alla comunicazione e portavoce di Moro dal 1959, che definiscono la candidatura transitoria e finalizzata a traghettare il partito al congresso d’autunno.
D’altra parte, lo stesso Moro ironizzò sulla sua condizione di «provvisorietà» partecipando ad un incontro del comitato nazionale del Movimento giovanile democristiano, dove disse:
Ha detto De Stefanis che io non dovevo temere di essere considerato come un Segretario provvisorio; dico la verità, che questa preoccupazione, né io, né Salizzoni mai abbiamo avuto. Credo che, insieme, abbiamo accettato di fare questo lavoro convinti che in un certo momento questo fosse il nostro dovere, ma credo di poter dire, anche a nome suo, che in nessun momento noi abbiamo spinto il nostro sguardo, la nostra prospettiva, la nostra attesa al di là dell’attimo fuggente nel quale adempivamo il nostro dovere. Da questo punto di vista, direi che questo è stato ed è il mio vero stato d’animo[34].
Le due biografie politiche pubblicate nel 2016 in occasione del centenario della nascita di Moro, che hanno offerto un importante contributo per colmare quella che ancora pochi anni prima veniva segnalata come una lacuna in ambito storiografico[35], hanno rivisto criticamente questa interpretazione in un solo caso: mentre Massimo Mastrogregori sembra riproporre l’immagine di un segretario transitorio («una specie di tregua» nell’ottica dei dorotei) che aveva palesato l’intenzione di sostituire Fanfani[36], Guido Formigoni ne prende invece le distanze. Lo storico milanese, già autore alla fine degli anni Novanta di un sintetico profilo biografico del leader democristiano[37], mette in discussione la tesi di «una scelta provvisoria e in qualche modo occasionale»:
Parliamo ormai nel 1959 del quarantaduenne professore come uno dei leader emergenti del partito, già autorevole capogruppo di mediazione, in predicato per cariche come la presidenza della Camera, ipotizzato anche come primo ministro. La fiducia di una parte cospicua del partito nei suoi confronti non va sottovalutata. Certo, Moro non si presentava con una propria linea originale. Ma questo elemento non toglie rilevanza alla sua ascesa[38].
A questo proposito, un’altra sintesi efficace di quelle dinamiche viene proposta da Malgeri nel suo saggio sul ruolo di Moro nella storiografia sulla Democrazia cristiana: «In realtà Moro, eletto alla segreteria politica dalla nuova corrente dorotea, molto probabilmente come soluzione provvisoria e temporanea, riuscì a diventare l’interprete più convinto di un progetto di svolta politica verso il centro-sinistra, rovesciando non tanto gli obiettivi politici di Fanfani, quanto il modo di essere del partito di fronte a quella scelta»[39].
Tutte le analisi fin qui considerate convergono tuttavia sulla piena affermazione di Moro come guida della Dc nell’arco di pochi mesi. Tra gli studi recenti, un contributo di Pierluigi Totaro ha sottolineato la personale, per quanto inaspettata, capacità del nuovo segretario di sapersi proporre come riferimento essenziale per la coesione del partito[40]. Al Consiglio nazionale del 19 novembre 1959 egli fu infatti confermato a grande maggioranza segretario e da allora in avanti, per quasi un decennio, avrebbe indiscutibilmente esercitato la propria leadership[41].
Contrariamente a quanto è stato talvolta sostenuto, Moro non pronunciò il suo primo discorso da segretario politico della Dc al convegno nazionale dei quadri provinciali e regionali del 3 luglio 1959. Egli svolse infatti il suo primo intervento a Bari, sua circoscrizione elettorale, dove il 5 aprile parlò ad un convegno di dirigenti provinciali del partito. Come al momento della sua elezione alla segreteria, anche in questa sede ribadì l’importanza dell’unità della Dc, ponendo questa volta la questione in stretta relazione sia alle elezioni regionali che si sarebbero svolte a breve in Valle d’Aosta e in Sicilia sia all’apertura del dibattito precongressuale[42]. Questo fu il primo di una serie di discorsi tenuti da Moro fino all’autunno nei quali molto spazio è dedicato all’identità della Democrazia cristiana, all’insieme cioè dei valori unificanti di un partito articolato ma impegnato a salvaguardare la propria unità. Nel discorso pubblico, tutto ciò era connesso al più volte evocato «dovere» della Dc di governare il Paese, per assicurare ad esso stabilità nel contesto della guerra fredda interna e internazionale.
La focalizzazione sui tratti identitari del partito sarebbe stata esposta in maniera sistematica nel vivo del dibattito precongressuale. Nei primi mesi, il neosegretario fu invece particolarmente impegnato nella campagna per il rinnovo dell’Assemblea regionale siciliana, un’attività lasciata ai margini dalla storiografia. La specificità della situazione politica nell’isola rendeva la Sicilia un caso particolarmente problematico, nel quale si intrecciavano complesse dinamiche di natura locale e di ordine nazionale, anche rispetto alla competizione interna tra personalità del gruppo dirigente. Come è noto soprattutto a chi si occupa della storia della Democrazia cristiana, nell’autunno del 1958 Silvio Milazzo fu espulso dal partito e fondò con un gruppo di scissionisti una nuova organizzazione politica di ispirazione cattolica, l’Unione siciliana cristiano-sociale. Dopo aver ricoperto numerosi incarichi nei governi dell’isola, Milazzo era infatti entrato in conflitto con buona parte della Dc locale e nazionale − a cominciare dall’allora segretario e presidente del Consiglio Fanfani − per essersi distinto come uno dei maggiori difensori dell’autonomismo siciliano, catalizzando di conseguenza su di sé i consensi dell’ala anti-fanfaniana e delle forze della sinistra. La rottura si consumò in ottobre, a seguito dell’elezione di Milazzo alla presidenza della regione. Fino alle elezioni del 7 giugno 1959 ebbe il sostegno di una maggioranza ampia e eterogenea, composta da dissidenti democristiani, monarchici, missini, indipendenti di sinistra, socialisti e comunisti[43].
Gli sviluppi di quella che è rimasta conosciuta come «operazione Milazzo» salirono alla ribalta della cronaca nazionale, non solo per l’inusuale composizione della maggioranza governativa ma anche per la costituzione, per la prima volta nell’Italia repubblicana, di un secondo partito cattolico. La potenziale estensione del fenomeno su scala nazionale spiega l’intenso impegno di Moro nella campagna elettorale siciliana, diversamente da quella valdostana dove si era votato alcune settimane prima. Sebbene anche in questo secondo caso la Dc si trovasse all’opposizione di un governo retto da una coalizione eterogenea con la partecipazione delle forze di sinistra[44], la situazione siciliana era considerata di gran lunga più pericolosa per le possibili ripercussioni sugli equilibri interni al partito nonché sulle evoluzioni della politica nazionale.
Moro si mosse in anticipo. Già prima dell’avvio della campagna elettorale, scrisse un lungo articolo per «Il Popolo» nel quale il caso siciliano assumeva un significato politico nazionale. Le complesse vicende verificatesi nell’isola venivano commentate con un giudizio molto severo dal punto di vista morale ancora prima che politico, poiché le tensioni tra una parte della Dc locale e il gruppo dirigente nazionale avevano determinato «una dolorosa frattura nel mondo dei cattolici operanti nella vita politica». Ancora una volta, si poteva uscirne solo tramite l’unità, «la più sicura diga contro l’avanzata del comunismo»[45]. Nel deprecare l’«operazione Milazzo» anche nelle settimane successive, fece perciò leva soprattutto sul sentimento anticomunista dell’elettorato democratico-cristiano (ma non solo), presentandola come il preludio dell’ascesa al potere del Pci in Italia. Spinto dall’obiettivo di far fallire il progetto degli scissionisti siciliani, nei comizi elettorali Moro sovradimensionava evidentemente sia i benefici tratti dai comunisti dalle manovre di Milazzo (il Pci era rappresentato come «l’unico vero beneficiario dell’operazione Milazzo»[46]) sia le loro reali ambizioni rispetto al governo del Paese, più verosimilmente limitate al tentativo di uscire dall’isolamento politico in cui erano confinati dal 1947.
I risultati delle elezioni siciliane confermarono Milazzo alla guida dell’assemblea regionale e l’«operazione» che portava il suo nome, in verità sempre più confusa e accidentata con il trascorrere dei mesi, continuò ad occupare un grande spazio nei discorsi di Moro per tutto il 1959 e oltre, anche in contesti apparentemente distanti come un convegno di studio organizzato dalle dirigenti del Movimento femminile della Dc a dicembre[47]. Dal suo punto vista, era infatti in gioco il futuro non di una regione, ma dello Stato, come ebbe a spiegare al convegno dei dirigenti provinciali e regionali del 3 luglio. Quest’ultimo è uno tra i più importanti discorsi di quella fase; non a caso è presente tra quelli selezionati da Giuseppe Rossini ed è stato ripreso da alcuni studiosi[48]. Qui Moro anticipa di fatto molti dei temi che sarebbero stati al centro del dibattito democristiano nei mesi a venire; inoltre cercò di ripristinare il dialogo con una periferia che non nascondeva una certa insofferenza per l’autosufficienza con la quale i leader avevano risolto la crisi di inizio anno, come si è sopra ricordato. Indicò pertanto alcune priorità: rafforzare l’unità del partito, sia pure nel rispetto della convivenza di opinioni diverse al suo interno; salvaguardare il ruolo della Dc nel sistema politico, a causa del suo «dovere indeclinabile di governare» un paese pienamente inserito nel contesto euro-atlantico ma caratterizzato dalla presenza del più forte partito comunista del mondo occidentale; valorizzare il lavoro svolto dai quadri nei rispettivi territori[49].
Con un intento pedagogico, Moro parlò anche del passaggio dal governo Fanfani (un centro-sinistra retto dall’alleanza Dc-Psdi con astensione repubblicana) all’esecutivo in carica guidato da Antonio Segni (un monocolore Dc con l’appoggio esterno di Pli, monarchici, Msi) e del rapporto della Democrazia cristiana con gli altri partiti. Inoltre, accennò un tema che avrebbe ripreso più volte negli anni della segreteria e che ebbe modo di approfondire nelle settimane successive. In agosto, per i cinque anni dalla scomparsa di Alcide De Gasperi, egli scrisse infatti un lungo articolo commemorativo per «Il Popolo» nel quale, anche in questo caso con un fine pedagogico, si soffermò su quella che riteneva la corretta interpretazione della sua politica centrista. In questa lettura, la concezione del centrismo di De Gasperi assumeva contorni dinamici e aperti alle esigenze di rinnovamento della società italiana, malgrado la rigidità dei confini politici imposti alla formula di governo dalle dinamiche di politica interna e internazionale[50].
Fin dai primi discorsi da segretario, nel difendere la «scelta di centro-sinistra» rappresentata dalla collaborazione tra Dc e Psdi espressa dal governo Fanfani, sembrò voler dare una copertura retrospettiva all’apertura a sinistra, ponendola in continuità con l’azione politica di un indiscusso punto di riferimento per tutti i democratici cristiani. Moro avrebbe infatti regolarmente ricordato in quegli anni che la Dc era «un partito di centro che muove verso sinistra», parafrasando De Gasperi per riconoscergli la paternità di una connotazione ritenuta irreversibile e, pertanto, legittimante l’azione dello stesso Moro. È stato inoltre osservato che il richiamo a questa lezione di De Gasperi fu costante nella sua strategia comunicativa, essendo ancora presente in scritti e discorsi risalenti al 1977[51].
L’intenzione di garantire la continuità etica e politica dell’ispirazione ideale e della tradizione democristiane assume grande rilevanza perché attiene ai nodi identitari della Dc − e nel discorso pubblico di Moro sono essi a determinarne la linea politica. Non potendo però prescindere dal fatto che il partito si trovava in una complessa fase di ridefinizione della propria fisionomia a causa del progressivo rafforzamento della logica correntizia, egli impostò il dibattito precongressuale a partire da una piattaforma programmatica in 14 punti pensata come base per la discussione. Essa fu esposta il 12 settembre 1959 ad una manifestazione pubblica al Teatro Verdi di Trieste, in un importante discorso che lui stesso avrebbe più volte richiamato nella relazione al congresso di Firenze. L’intervento viene spesso citato in sede storiografica perché qui Moro pose l’accento sulla «originaria vocazione democratica, popolare, antitotalitaria e perciò anticomunista ed antifascista» del partito, «in piena aderenza con l’idealità cristiana e sociale a cui si ispira»: la necessità di garantire un assetto democratico all’Italia e di promuovere un «compiuto inserimento delle masse popolari nello Stato» rendeva «insostituibile» la funzione della Dc nel sistema politico italiano. Per rassicurare l’ala moderata, distinse inoltre nettamente il processo di distensione bipolare − visto con favore sia per evitare la distruzione che sarebbe derivata da un nuovo confitto mondiale sia per permettere all’Europa di progredire nel suo percorso unitario − dalle prospettive della politica nazionale, dove la «pregiudiziale anticomunista» non era minimamente messa in discussione[52].
Altrettanto frequentemente citato è il discorso tenuto da Moro il 24 settembre 1959 al teatro Eliseo di Roma in occasione della cerimonia di commemorazione di Luigi Sturzo, che era deceduto l’8 agosto. In questa circostanza, egli riprese un importante concetto enunciato a Trieste, secondo il quale l’area democratica non dovrebbe esaurirsi tutta nell’area del governo, ma estendersi oltre quest’ultima in una democrazia consolidata. Dato il contesto, questo discorso si distingue tuttavia soprattutto per la riflessione sulla funzione politica dei cattolici nello Stato, tema che avrebbe affrontato anche poche settimane più tardi intervenendo ad un convegno ad esso appositamente dedicato. Per Craveri, il discorso di commemorazione di Sturzo è «basilare dal punto di vista dei concetti fondamentali della reciproca interdipendenza tra società e Stato, della separazione tra Stato e Chiesa», ed è esemplificativo del procedere parallelo in Moro di maturazione intellettuale e approfondimento della militanza nella fede cattolica, «un doppio percorso di straordinario carattere»[53]. Nel rievocare i momenti più significativi della vita politica di Sturzo, compresi i poco conosciuti anni dell’esilio, egli sottolineava, con un chiaro rinvio al presente, autonomia e aconfessionalità del Partito popolare, un partito di ispirazione cristiana ma laico e dal forte contenuto democratico. Diversamente dalla Dc, il Ppi non si era però posto come obiettivo il conseguimento dell’unità dei cattolici attorno ad esso, considerando − lo aveva precisato Sturzo nel 1919 − «partito» e «cattolico» due termini antitetici; «il sogno dell’unità politica dei cattolici», concludeva Moro, era stato tuttavia raggiunto attraverso l’esperimento del popolarismo, malgrado alcune «defezioni» di fronte al fascismo[54].
Risultato di una lunga preparazione alla quale aveva contribuito lo storico Gabriele De Rosa, il testo commemorativo può considerarsi fondamentale per l’indirizzo politico e culturale stabilito in vista del congresso di Firenze[55]. Come si è detto, negli interventi di questi mesi Moro si focalizzò infatti sui tratti identitari della Dc, sulla sua natura popolare e antifascista, nell’ottica che fosse l’identità a dettare l’indirizzo politico e, come diretta conseguenza, le alleanze, o quanto meno la ricerca di collaborazioni con i soggetti che aderivano, anche in prospettiva, alla cosiddetta «area democratica». Sotto questo profilo assume rilevanza anche il discorso pronunciato a Milano il 3 ottobre, nel quale egli rifletteva sull’essenza dello Stato democratico, individuando nella libertà, eguaglianza e solidarietà i suoi fondamenti, secondo una visione dinamica ed equilibrata del rapporto tra la «persona umana» e la collettività. Il concetto di «persona», attorno al quale si era creata una convergenza in fase costituente tra dossettiani e sinistra socialista contestualmente all’elaborazione dell’articolo 3[56], era posto perciò alla base della vocazione popolare e dell’«impeto rinnovatore» della Democrazia cristiana, della sua volontà cioè di attuare allo stesso tempo uno sviluppo sociale il più possibile rapido e uno sviluppo democratico che non fosse basato su una «impostazione anticomunista rabbiosamente negativa»[57].
Moro arrivò perciò al congresso di Firenze del 23-28 ottobre 1959 avendo alle spalle un lungo lavoro di definizione degli aspetti distintivi della Democrazia cristiana e delle sue priorità politiche e programmatiche, intorno alle quali intendeva raccogliere un’ampia condivisione. Svolgimento ed esiti del congresso sono stati ampiamente commentati in ambito memorialistico, pubblicistico e storiografico. Fermo restando la diversità di giudizi, viene generalmente riconosciuta la definitiva affermazione della leadership morotea a partire dalla capacità di restituire una dimensione unitaria al partito, ormai in mano ai dorotei, malgrado il perdurare di visioni dissonanti rispetto agli equilibri politici futuri. Ad essere infatti sottolineata da molti come particolarmente significativa è la dimensione collegiale della direzione del partito, impressa fin dall’elezione di Moro e consolidata al Consiglio nazionale del 19 novembre, che lo confermò quasi all’unanimità segretario ed elesse la nuova Direzione centrale secondo questa impostazione[58]. A tale proposito, già molti anni fa Scoppola e Pombeni avevano messo in rilievo una differenza sostanziale emersa nel passaggio di testimone alla segreteria da Fanfani a Moro: il «primato del governo», che il primo aveva sviluppato da De Gasperi, veniva sostituito dall’assegnazione al partito di un ruolo essenziale, in linea con la tradizione dossettiana; questo rovesciamento di prospettiva era stato fortemente voluto dai dorotei e Moro sembrò in quel momento la figura più adatta per attuarlo[59].
Della lunghissima relazione di Moro al congresso di Firenze vengono per lo più citate le sue parole in merito alla questione della collaborazione con il Psi, tema ormai al centro del dibattito politico e culturale dalla metà del decennio. Il segretario la definiva un «problema», ma indicava anche le condizioni che avrebbero consentito il superamento dei principali ostacoli per avviare un dialogo, fondamentalmente ricondotte ad un distacco netto dei socialisti dal Pci e ad un loro riposizionamento in politica estera[60]. Nel 1977, Gianni Baget Bozzo aveva parlato di una situazione «schizofrenica»: da una parte, la Dc ratificava il governo di centro-destra guidato da Segni (del quale Moro non taceva però il carattere transitorio); dall’altra, presentava il recupero democratico del Psi come un «problema di risolutiva importanza» per il partito[61]. Rielaborando questa tesi, Marchi ha evidenziato che, nel figurare l’«apertura a sinistra» come rilevante per la crescita civile del Paese, Moro ne depotenziava il contenuto ideologico e ciò gli permetteva di ampliare i margini di autonomia nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche[62]. Questa strategia, delineata a Firenze nei punti essenziali, sarebbe stata approfondita e perseguita con una crescente convinzione per tutta la durata della sua segreteria; questa fase viene infatti identificata da Pombeni con il «secondo atto» della «rappresentazione di cui Moro si era assunto la regia»[63]. Calata nella quotidianità della vita politica, tale strategia si misurò con un tracciato tutt’altro che lineare.
L’antifascismo era un elemento costitutivo della fisionomia della Democrazia cristiana per Moro. Come si è visto, nei discorsi pronunciati nell’ambito della campagna precongressuale egli aveva individuato nella vocazione antifascista, democratica e popolare l’essenza originaria del partito e la sua principale connotazione insieme all’ispirazione cristiana. Nei sei mesi che intercorsero tra le dimissioni dell’esecutivo Segni e la nascita del terzo governo guidato da Fanfani, e quindi tra febbraio e agosto 1960, la questione avrebbe ricoperto un ruolo centrale. In quell’arco temporale, caratterizzato da una crisi politica particolarmente lunga che era stata aperta dal ritiro della fiducia al governo da parte dei liberali, si era infatti consumata l’esperienza del governo Tambroni, monocolore democristiano che aveva ottenuto la fiducia grazie ai voti determinanti del Movimento sociale italiano alla Camera. Seguirono forti tensioni nel gruppo dirigente democristiano, tentativi di Segni e Fanfani di formare nuovi esecutivi con astensione socialista, il completamento dell’iter parlamentare e l’insediamento del governo Tambroni, imponenti mobilitazioni di piazza in buona parte d’Italia innescate dall’autorizzazione ai missini di tenere il congresso a Genova e sfociate in durissimi scontri con le forze dell’ordine. La vicenda è molto nota e ad essa sono stati dedicati alcuni studi monografici, anche in anni recenti[64].
A margine dei fatti del luglio 1960, è stato soprattutto Giovagnoli a riflettere in più occasioni sull’antifascismo di Moro, individuandolo come uno dei suoi «punti fermi», diversamente da quelli enunciati contemporaneamente dall’«Osservatore romano» centrati sull’opposizione alla collaborazione tra cattolici e socialisti[65]. Ancora a distanza di molto tempo, durante il sequestro da parte delle Brigate rosse, Moro continuava a considerare la crisi del governo Tambroni uno dei passaggi più rischiosi nella storia della democrazia italiana poiché essa «aveva seriamente messo in discussione uno degli elementi portanti della costituzione materiale repubblicana: l’antifascismo»[66]. Del resto, fin dall’avvio della sua segreteria egli aveva posto la «chiusura a destra» come un dato irreversibile, il solo che poteva garantire uno sviluppo democratico della società italiana insieme ad una contrapposizione al comunismo altrettanto netta ma condotta con metodi democratici. Fu ciò che rese Moro, a giudizio di Giovagnoli, il migliore interprete del sistema politico italiano negli anni in cui la Democrazia cristiana ne rappresentò il cardine[67]. Contro tendenze presenti nel suo stesso partito favorevoli ad un’alleanza con la destra in funzione anticomunista, nella commemorazione di Sturzo e poi al congresso di Firenze, Moro sottolineò che il carattere popolare e antifascista della Dc non era stato acquisito solamente durante la lotta contro la dittatura − evidenziando con ciò una partecipazione cattolica al movimento resistenziale − poiché esso aveva radici più profonde che attingevano alla coscienza cristiana[68].
Con queste premesse, nel 1960 Moro «saldò cattolicesimo e democrazia»[69]. Lo fece intervenendo in contesti molto diversi, compresi alcuni incontri con dirigenti provinciali riportati nel presente volume dell’Edizione Nazionale, fin dal mese di gennaio. A Foggia, ad esempio, l’«esigenza inderogabile dell’unità del Partito» era presentata come il risultato della saldatura tra «componente democratica» e «componente cristiana»[70]; a Messina respinse attacchi di segno opposto precisando: «La doppia fatale suggestione che opererebbe nella D.C., verso un’apertura a sinistra, con compiacenze filocomuniste, e verso un orientamento a destra d’ispirazione fascistoide, questa suggestione non ha presa sulla D.C., come dimostra la sua storia e il suo sforzo di oggi per essere fedele alle sue origini e alla sua funzione»[71].
Il più noto e commentato tra i discorsi di questo periodo è quello che Moro tenne in occasione del Consiglio nazionale del 22-27 maggio, citato dalla storiografia principalmente per il passaggio in cui spiega che l’obiettivo della Dc di allargare progressivamente le basi della vita democratica in Italia (un «problema storico») implicava un dialogo con il Psi: esso non era quindi «espressione di una caparbia volontà di collegare marxismo e cristianesimo o marxismo e democrazia», ponendosi al contrario in linea con la tradizionale impostazione della Dc come «partito di centro che marcia verso sinistra»[72].
È stato evidenziato da più parti che le parole di Moro intendevano essere una risposta indiretta all’articolo dell’«Osservatore romano» sopra richiamato. Michele Marchi, che ha dedicato un’attenzione particolare nei suoi studi al rapporto del segretario con gli ambienti ecclesiastici, ha sottolineato l’«accerchiamento religioso» a cui egli era stato sottoposto insieme a Fanfani[73]. In uno scenario caratterizzato dall’insediamento del nuovo pontificato e dal prodursi di nuovi equilibri nei vertici ecclesiastici, in particolare in quelli vaticani, Moro condusse una strategia duplice, diretta all’allargamento dell’area di governo e al contemporaneo affrancamento del partito dalle gerarchie ecclesiastiche, garantendo allo stesso tempo alla Dc il ruolo di forza politica di riferimento della Chiesa e dell’elettorato cattolico. Le interferenze e i freni posti già alla segreteria di Fanfani dai settori più conservatori del Vaticano e della Conferenza episcopale italiana all’ipotesi di aprire l’area di governo ai socialisti, assunti tra l’altro come una sponda dai dirigenti Dc contrari a questa strategia, furono però controbilanciati da posizioni emergenti dentro la Chiesa orientate ad un arretramento dalle dispute della politica interna italiana. Di fatto, aggiunge Marchi, queste nuove dinamiche produssero in tutti i soggetti coinvolti un ripensamento del rapporto tra religione e politica, in un contesto come quello italiano che aveva indubbie specificità[74]. Nei primi anni Duemila è stato pubblicato anche un altro contributo dedicato alla «politica ecclesiastica» di Moro. Augusto D’Angelo ha infatti condotto uno studio, basato su documentazione archivistica, sulla consultazione promossa dal segretario all’inizio del 1962 tra l’episcopato italiano in merito all’«apertura a sinistra»; il volume mostra come tale iniziativa, sebbene non nuova, contribuì a far guadagnare consensi all’operazione politica tra i vescovi[75].
La centralità dell’antifascismo nella strategia discorsiva di Moro di quel periodo è attestata anche dal fatto che egli costruì su questo tema buona parte del proprio intervento alla Camera il 5 agosto 1960 in occasione del dibattito sulla fiducia al governo Fanfani. Al centro dell’attenzione pubblica per la dura repressione delle manifestazioni di piazza e sfiduciato dal proprio partito, Tambroni era stato infatti costretto a dimettersi il 19 luglio. Alla Camera, il leader democristiano pose l’accento sull’intenzione della Dc di liberarsi dai condizionamenti di una destra dichiaratamente neofascista e in quanto tale non democratica («liberare la democrazia cristiana dall’abbraccio soffocante della destra fascista e parafascista») e di salvaguardare la sua ispirazione cristiana «autentica», contrariamente a quella cui il Msi pretendeva di richiamarla con l’obiettivo di sbilanciare il partito a destra attraverso nuove alleanze.
La lunga crisi apertasi a febbraio, che la vicenda Tambroni aveva definitivamente esasperato, trovava finalmente una soluzione sul terreno dell’antifascismo. Ciò, precisava Moro, permetteva alla Dc di svolgere «la sua naturale funzione equilibratrice e mediatrice, il suo compito di garante delle istituzioni democratiche» in un paese esposto a pericoli provenienti dalla potenziale radicalizzazione della lotta tra gli «opposti estremismi» di destra e sinistra a causa della insufficiente stabilità delle strutture democratiche e della «incompiuta penetrazione delle istituzioni nella coscienza dei cittadini». D’intesa con il segretario, Fanfani assumeva così la guida di un monocolore democristiano − che assimilava tutti i leader della Dc, compresi i più diffidenti verso l’apertura a sinistra − con l’appoggio esterno dei partiti di «tradizione democratica», ovvero Psdi, Pli e Pri. Si trattava appunto del governo delle convergenze «democratiche». Nel descriverne le caratteristiche, Moro affermava che esso era sostenuto da partiti dotati ognuno di un diverso programma e patrimonio ideale ai quali avevano tuttavia anteposto la «difesa della libertà» e della democrazia contro una minaccia del pericolo fascista percepita come reale. Una convergenza democratica contrapposta in sostanza all’«azione convergente degli opposti estremismi». Qui introduceva però un’importante distinzione: quando l’antifascismo era inteso come insieme dei valori fondativi della Repubblica non era «possibile porre un’equazione […] tra fascismo e comunismo»; se considerato come spazio politico, come fattore trainante della convergenza tra soggetti che si riconoscevano reciprocamente un’appartenenza democratica, i comunisti erano invece collocati indiscutibilmente al di fuori.
La nuova maggioranza non si configurava pertanto come una coalizione: i partiti non convergevano tra di loro, ma verso la Dc. La novità politica più rilevante era però rappresentata dal fatto che le convergenze tra i partiti «democratici» erano affiancate da quelle «di non opposizione al Governo»: oltre ai monarchici, per la prima volta dal 1947 il Partito socialista si era astenuto sul voto di fiducia. Su questo punto Moro offrì rassicurazioni: «Le convergenze oggi verificatesi in forma problematica e di cauta attesa non possono poi destare alcuna preoccupazione, in quanto avvengono intorno ad uno schieramento di partiti i quali costituiscono una sicura e stabile maggioranza democratica»[76].
Si tratta di uno dei discorsi del leader democristiano più noti, ricordato ancora oggi non solo nel campo degli studi storici ma nella memoria collettiva. In quest’ultimo caso, però, attraverso una distorsione. A Moro, che come si è visto aveva parlato di convergenze «democratiche» e di «non opposizione» al governo, è stata erroneamente attribuita l’espressione delle «convergenze parallele», coniata invece da Eugenio Scalfari per sintetizzare in una formula un luogo comune sul politico pugliese, ovvero l’utilizzo di un linguaggio contorto e poco comprensibile[77]. In un contributo recente, Francesco Di Donato ha ribaltato quella immagine di senso comune che imputa a Moro un «linguaggio criptico», ritenendo al contrario la sua prosa, in particolare quella della maturità, «di una chiarezza cristallina, ancorché venata da un costante tormento»[78]. Anche Guido Formigoni, in una breve analisi della sua retorica, dissente dalle critiche rivolte al leader pugliese dai suoi contemporanei relative ad una esposizione «oscura o vuota»[79].
Formule a parte, il terzo governo Fanfani viene riconosciuto in ambito storiografico come un concreto avvio della politica di centro-sinistra. I diari di Fanfani hanno inoltre confermato il ruolo di regista di Moro nelle complesse concertazioni che riguardarono tanto gli accordi tra le forze politiche «convergenti» quanto gli equilibri interni alla Dc rispetto alla composizione del nuovo esecutivo[80]. Nell’esaminare la leadership morotea di quegli anni, Marchi ha aggiunto un ulteriore elemento per la comprensione del quadro in cui essa fu esercitata. A suo giudizio è infatti necessario tenere presente che Moro svolse sostanzialmente il ruolo di presidente del Consiglio «ombra» a partire perlomeno dal Governo Fanfani III: la maggior parte dei provvedimenti legislativi passò attraverso il controllo della sua segreteria e ad essa si rivolsero abitualmente i deputati interessati alla promozione di specifici interventi governativi[81].
Rispetto a quanto detto in precedenza sull’antifascismo, è stato inoltre notato che Fanfani fece esplicitamente riferimento alla Resistenza e ai suoi valori nel presentare il programma di governo, un fatto senza precedenti nella storia repubblicana[82]. Per quanto riguarda Moro, l’antifascismo fu un tema che rientrò costantemente nella sua comunicazione pubblica. Almeno fino alla metà degli anni Settanta, in un clima aggravato da stragi e attentati di matrice neofascista, egli continuò a denunciare i pericoli rappresentati dalla destra – in quel caso eversiva − per istituzioni democratiche ritenute ancora fragili[83].
Restando al periodo considerato, il segretario tornò sull’argomento a poche settimane dall’insediamento del nuovo governo con un discorso che intendeva porsi in sintonia con le spinte spontanee emerse dalle manifestazioni di luglio, le quali dimostravano quanto fossero radicati nella grande maggioranza dell’opinione pubblica sentimenti antifascisti. Al Consiglio nazionale del 19 agosto ribadì infatti la «radicale inconciliabilità» tra politici cattolici ed eredi del fascismo, colpevoli questi ultimi di esaltare «una vicenda storica condannata, prima che dalla sensibilità politica, dalla coscienza morale del popolo italiano». Per lo stesso motivo, proseguiva Moro, la «resistenza al comunismo» non poteva che essere combattuta su «basi democratiche e di progresso sociale»[84].
Si tratta di concetti regolarmente enunciati da Moro negli anni in cui fu a capo della segreteria e che spiegano, a parere di Giovagnoli, il significato da lui attribuito al «centrismo» della Dc: non equidistanza, morale e politica, tra due estremi ma piuttosto centralità del partito nel sistema. Moro intendeva costruire un’opposizione al comunismo diversa da quella delle destre e un antifascismo specifico dei cattolici, tale da rendere la Dc una presenza politica «altra» e decisiva per la democrazia italiana[85]. Non a caso, nel discorso di commemorazione di Adone Zoli pronunciato a Firenze nella primavera del 1961 – un testo inedito recuperato presso l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo – Moro si soffermò a lungo sulla «vocazione antifascista» del presidente del Consiglio nazionale scomparso da un anno, ascrivendo la sua opposizione alla dittatura e la sua concezione della democrazia a una dimensione «sacrale» prima ancora che ideologica e politica:
A proposito, dunque, del suo antifascismo, sarebbe una grave ed erronea limitazione restringerne la portata e il significato alla pura e semplice manifestazione di un contrasto politico, adeguandone cioè il significato e la sostanza ai termini formali e cronologici dell’avventura e della dittatura mussoliniana. Vogliamo dire, insomma, che l’antifascismo dello Zoli non si può né si deve ridurre a un fenomeno di pura resistenza ideologica e politica indotto da una precisa circostanza storica […] Bisogna piuttosto − è anzi addirittura indispensabile, qualora si voglia valutare nella sua pienezza umana la figura politica di Adone Zoli − prospettare l’antifascismo che così irriducibilmente lo qualificò nella interezza di quell’atteggiamento morale, che solo può darci la misura non difettiva dell’uomo, del militante cattolico: insofferente alla negatività di ogni posizione antagonistica, per quanto storicamente giustificata e moralmente degna essa fosse[86].
Al Consiglio nazionale di maggio, Moro si era soffermato sulla necessità che i socialisti approdassero ad una decisione definitiva rispetto ad una piena assunzione dei metodi democratici, una scelta che la Dc si impegnava a favorire purché essa non conservasse margini di ambiguità che il suo partito non era disposto a coprire. Dal suo punto di vista non c’erano forzature: come la Dc non intendeva mettere in discussione la propria «natura di partito di centro che muove verso sinistra», allo stesso modo non chiedeva al Psi di «perdere la sua carica di sinistra, la sua complessa visione degli interessi popolari», quanto piuttosto di giungere ad una netta differenziazione dai comunisti, una questione posta come centrale per le «sorti del paese»[87].
Contestualmente all’astensione sulla fiducia al governo Fanfani, un primo banco di prova del dialogo con i socialisti, finalizzato a rafforzare il carattere democratico delle istituzioni, furono le elezioni amministrative dell’autunno. Le consultazioni, previste inizialmente in primavera, furono rimandate anche per favorire questo dialogo. Il rinvio era infatti dipeso dai tempi necessari all’approvazione della riforma in senso proporzionale della legge per l’elezione dei consigli provinciali (Legge 10 settembre 1960, n. 962). Introdurre il sistema proporzionale anche per le provinciali (per le comunali era già in vigore) rispondeva all’esigenza di rafforzare l’autonomia dei singoli partiti, liberandoli da alleanze preventive. La riforma era stata sollecitata dalle forze laiche di centro; nel caso dei socialisti, la Dc sperava che la maggiore autonomia offerta dalla nuova legge avrebbe incoraggiato la loro definitiva presa di distanza dalla logica frontista.
I discorsi elettorali di Moro − puntualmente riportati dal quotidiano «Il Popolo» e in parte presenti tra le sue carte politiche conservate presso l’Archivio centrale dello Stato, ma finora trascurati in sede storiografica − si concentrarono su alcuni punti essenziali. Il primo tra questi era la natura «non classista, ma popolare» della Democrazia cristiana, che intendeva evidenziare la capacità del partito di rappresentare politicamente differenti categorie sociali, di non identificarsi con nessun settore specifico della popolazione senza per questo ignorare i bisogni di quelli più svantaggiati. Come puntualizzò alla vigilia dell’apertura della campagna elettorale al convegno dei dirigenti provinciali e regionali, l’interclassismo della Dc, la sua funzione di rappresentanza del mondo cattolico e di sintesi di una società sempre più articolata, era un aspetto da tenere in grande considerazione per la formazione delle liste dei candidati, che dovevano ispirarsi al principio dell’«unità nella diversità». In quella occasione, il segretario pronunciò un ulteriore ammonimento: l’opportunità offerta dalla nuova legge di non dover stringere accordi preelettorali andava sfruttata evitando tensioni a livello locale con i partiti che sostenevano il governo nazionale[88]. La rinuncia al sistema maggioritario, che penalizzava la Dc, seguiva infatti la logica del consolidamento della collaborazione con i partiti della sinistra «democratica», e si sperava che soprattutto il Psdi, per il suo ruolo rispetto ai socialisti, potesse uscire rafforzato da queste elezioni[89]. D’altra parte, a prescindere dalle esigenze propagandistiche, era sincera la preoccupazione di Moro per una dimensione ancora «ristretta» dell’area democratica in Italia[90]. Le basi democratiche, scrisse ad esempio in un articolo per il settimanale «Epoca», non erano solide e «larghe zone d’ombra» permanevano a destra e a sinistra dello schieramento democratico: «la democrazia in una parola non è ancora un bene sicuro»[91].
Un altro aspetto strettamente connesso all’interclassismo sul quale Moro richiamò in più occasioni l’attenzione fu la valorizzazione delle autonomie locali. Lo fece in particolare in un articolo scritto per il settimanale «Oggi», nel quale le definì «presidio di libertà e momento essenziale della vita democratica». Fin dal congresso di Firenze il segretario aveva del resto sottolineato l’importante funzione svolta dagli enti locali, la cui autonomia era considerata «parte essenziale» della dottrina della Dc, in quanto espressione di una concezione pluralistica della società fondata sulla tradizione sociale cristiana[92].
Un’altra questione lungamente dibattuta in quelle settimane riguardò il significato politico delle elezioni, che interessarono pressoché l’intero corpo elettorale[93]. Moro addebitò agli altri partiti la responsabilità di aver politicizzato la campagna amministrativa, ma lui per primo non si sottrasse a questa impostazione. Pur richiamandone sistematicamente il carattere amministrativo, tese ad inserire le consultazioni nel contesto dei nuovi sviluppi di «collaborazione democratica» che avevano permesso la formazione dell’esecutivo. Nei contributi scritti e nei comizi, con un chiaro intento pedagogico, focalizzò infatti l’attenzione sulle motivazioni che avevano determinato la nascita del governo delle «convergenze democratiche». Inoltre, chiudendo la campagna amministrativa, si appellò direttamente agli elettori invitandoli a non considerare quelle votazioni come un appuntamento secondario rispetto alle elezioni nazionali, rendendo esplicito il loro inevitabile significato politico e il loro conseguente riflesso sul piano degli equilibri di governo[94].
A margine, è interessante ricordare che quella fu la prima campagna elettorale ad avere una tribuna televisiva. Tutti i partiti rappresentati in parlamento acquisirono infatti per la prima volta il diritto di accesso in tv. Oltre a concedere alla Dc una tregua dalle pressioni della sinistra per una riforma che trasferisse il controllo della Rai dal governo al parlamento, l’ideazione di «Tribuna elettorale», seguita l’anno successivo da «Tribuna politica», era funzionale alla gestione della difficile transizione verso l’alleanza con il Psi[95]. Come ha evidenziato Riccardo Brizzi, era inoltre fondamentale per la Dc, per avviare quella strategia, instaurare un nuovo dialogo tra classe politica e opinione pubblica basato sulla normalizzazione di un confronto politico che si rendeva quanto mai necessaria all’indomani dei drammatici fatti di luglio[96]. Proprio dall’esperienza del governo Tambroni, ha precisato Brizzi, Moro trasse utili insegnamenti applicati all’uso del mezzo televisivo. Quest’ultimo poteva infatti rispondere a tre principali esigenze per la realizzazione del progetto di apertura a sinistra: la progressiva legittimazione del Psi; la rivendicazione della centralità del partito rispetto al governo; la crescente autonomia della Dc dalle gerarchie ecclesiastiche[97].
Partecipando il 12 ottobre 1960 alla nuova trasmissione televisiva «Tribuna elettorale», Moro rispose alle domande dei giornalisti dopo aver svolto una breve introduzione sui temi della campagna della Dc per le elezioni amministrative del mese successivo. Nella storia della Rai, la puntata è stata a lungo ricordata per la domanda del cronista di «Paese Sera», Augusto Mastrangeli, sulla presenza del mafioso Giovanni Genco Russo nella lista dei candidati della Dc di un piccolo comune siciliano, Mussomeli[98]. Più significativo fu il suo intervento alla puntata del 3 novembre: qui Moro dichiarò esplicitamente che la specificità del contesto politico italiano rendeva priva di alternative la collaborazione tra la Democrazia Cristiana e i partiti assimilabili alle «convergenze democratiche»[99].
I risultati delle elezioni amministrative del 6-7 novembre 1960 furono accolti positivamente dalla Dc. Malgrado una lieve flessione, il partito restava sopra il 40%; buoni risultati erano stati ottenuti da Pli, Psdi e Pci, mentre socialisti e repubblicani rimanevano stabili. Moro rilasciò una dichiarazione nella quale esprimeva soddisfazione per i buoni risultati ottenuti non soltanto dalla Dc ma anche dai partiti con cui essa aveva stabilito «convergenze democratiche». Sottolineando il significato politico della consultazione, il segretario democristiano li presentò come la conferma di un ampio consenso popolare al governo guidato da Fanfani[100]. Inoltre, in un articolo scritto per «Oggi» invitò a considerare il risultato elettorale come un punto di partenza del percorso che dalla «convergenza democratica» sarebbe potuto approdare a forme di collaborazione con i socialisti, sia pure senza porre la questione in termini espliciti[101].
Iniziò allora il dibattito che avrebbe occupato le cronache politiche dei mesi successivi, quello sulle «giunte difficili». L’espressione, lo spiega tra gli altri Pombeni, rimandava alla complicata gestione degli equilibri e dei rapporti di forza tra i partiti della maggioranza: in molti contesti la vecchia formula centrista non aveva i numeri ma, soprattutto, repubblicani e socialdemocratici non erano più disponibili a sostenerla e facevano pressioni per includere i socialisti nelle giunte comunali e provinciali, una prospettiva che suscitava allarmi sia all’interno che all’esterno della Dc[102]. La Direzione dette comunque il via libera ad alleanze di questo tipo nei casi in cui non si presentassero alternative percorribili e, a cavallo tra gennaio e febbraio del 1961, furono varate giunte di centro-sinistra a Milano, Genova e Firenze, mentre altre si sarebbero costituite nelle settimane seguenti; più di rado, le «giunte difficili» riguardarono accordi con i monarchici.
Moro gestì questo passaggio con estrema prudenza. Al Consiglio nazionale del 20-22 febbraio 1961, non solo presentò queste giunte come un «esperimento», una «prova» tra forze politiche che fino ad allora non si erano «mai incontrate», ma ricondusse tutta l’operazione alla netta distinzione tra intese amministrative e intese politiche. Presentando tale distinzione come una questione decisiva, che poggiava oltretutto su uno «stato di necessità», egli riuscì a raccogliere attorno alla sua segreteria i consensi necessari per far progredire, con la necessaria cautela, la strategia di apertura a sinistra[103]. Anche nel rivolgersi all’opinione pubblica, Moro tenne ferma la distinzione tra collaborazioni amministrative e collaborazioni politiche, volendo in primo luogo offrire rassicurazioni sulla saldezza della delimitazione a destra e a sinistra: non si sarebbero verificati «pericolosi cedimenti», né «tradimenti» o «imprudenze» da parte del gruppo dirigente democristiano[104]. L’atteggiamento cauto e rassicurante non intendeva però ridimensionare la difesa di quella scelta, né contraddire un aspetto qualificante della Dc dal punto di vista di Moro, la sua natura cioè di partito «innovatore»:
Noi siamo un partito, lo abbiamo detto, profondamente innovatore, perché popolare, un partito che non conserva, che non immobilizza, un partito che rappresenta tutta questa vita sociale nel suo inevitabile ascendere. Però la nostra non è un’azione di totale cambiamento, è un’azione che vuole cambiare quello che dev’essere cambiato, ma intende conservare le tradizioni. Naturalmente il ritmo della realizzazione è sempre quello determinato da una realtà sociale e politica difficile. Quindi vi è sempre un ritardo nelle realizzazioni di fronte alle intenzioni e qualche volta anche di fronte alle esigenze. Ma noi intendiamo dirvi che non misuriamo quello che si deve fare alla stregua di una mediocre possibilità di compromesso, ma alla stregua delle esigenze proposte in questo momento nella collettività nazionale, esigenze le quali devono essere soddisfatte[105].
Tra le altre, questa citazione ripresa da un discorso pronunciato in primavera ad un convegno sul comune rurale contribuisce a confermare le ipotesi interpretative proposte da alcuni studiosi in merito alla visione che Moro aveva in quella fase del processo politico in corso. Nella sua recente biografia, Formigoni sostiene ad esempio che il significato attribuito dal leader democristiano alla prospettiva dell’«apertura a sinistra» andava ben oltre il superamento delle ristrettezze parlamentari seguite alla dissoluzione del centrismo, una posizione condivisa con le sinistre interne del partito. Questa strategia politica, che combinava l’eredità dei dibattiti dei primi anni Cinquanta sull’espansione economica e sulla piena occupazione con il retaggio dossettiano, intendeva sia favorire un allargamento delle basi della democrazia italiana, e permettere una redistribuzione dei redditi derivanti dall’impetuosa crescita economica di quegli anni, sia consolidare sul piano democratico l’alternativa al Partito comunista. In linea con l’obiettivo di stabilizzare il blocco occidentale nell’ottica di un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, modernizzazione economica e migliore distribuzione dei redditi potevano rappresentare un argine al progressivo aumento dei consensi a favore dei comunisti. Complessivamente, tale strategia poteva risolvere quello che Moro aveva definito sin dal congresso di Firenze un «problema immane», ovvero «la piena immissione delle masse nella vita dello Stato»[106]. Anche secondo Marchi il processo di «apertura a sinistra» non può essere inteso solamente come la sostituzione di un centrismo ormai logoro con una nuova formula di governo basata su un accordo politico e programmatico strutturato tra Dc e Psi, ma semmai come il tentativo della leadership morotea di ripensare il ruolo del suo partito nella vita politica italiana[107].
Un discorso inedito pronunciato da Moro nel giugno 1961 − rinvenuto tra le sue carte politiche conservate presso l’Archivio centrale dello Stato − può essere ritenuto l’avvio informale del lungo dibattito precongressuale in preparazione dell’assise di Napoli del gennaio 1962. Si tratta della trascrizione dell’intervento tenuto in chiusura di un convegno con dirigenti locali della Dc, al quale aveva preso parte anche qualche parlamentare per dare un segnale di ritrovata unità tra strutture del partito e rappresentanza parlamentare dopo la fase burrascosa che aveva condotto due anni prima alle dimissioni del governo bipartito Dc-Psdi di Fanfani. Il discorso appare particolarmente interessante per due ragioni: da una parte perché Moro usa un linguaggio colloquiale e diretto nell’esposizione del proprio punto di vista, certamente favorito dalla sede informale; dall’altra perché restituisce i toni del dibattito interno alla periferia della Dc, per quanto filtrati dalle parole del segretario.
Nella sostanza, Moro compì un’analisi delle dinamiche politiche che reggevano l’esecutivo basato sulla «formula di convergenza», associandovi previsioni di evoluzioni future. A chi lamentava un allentamento del controllo del partito su quelle dinamiche, replicò che la centralità della Dc nel sistema politico non aveva subìto alcun indebolimento e che tutte le altre forze politiche, a cominciare da quelle all’opposizione, dovevano ancora calibrare le proprie strategie sulla base delle decisioni assunte dal partito. Altri avevano invece criticato una polarizzazione, ritenuta eccessiva, del dibattito politico attorno all’ingresso dei socialisti nella maggioranza governativa. Moro lo rivendicava al contrario come un successo della Dc, come la dimostrazione che il «gioco della vita democratica italiana» era ancora saldamente in mano al partito: era grazie alla sua iniziativa e alla sua capacità di offrire una «prospettiva reale di sviluppo democratico nel paese» che il Partito socialista si era misurato, certo non senza fatica, con la prospettiva di autonomia e di assunzione di responsabilità. Socialdemocratici e repubblicani potevano forse eccedere in ottimismo tuttavia, aggiungeva Moro, tutti i partiti «convergenti» condividevano una valutazione prudente rispetto alla possibilità di «recuperare» i socialisti alla vita democratica. Tra i presenti, qualcuno aveva disapprovato l’assenza di proposte alternative a questa prospettiva; il governo Tambroni, però, aveva definitivamente tracciato un solco per Moro, ma ovviamente non solo per lui, tra ciò che rientrava o meno nel «campo del negoziabile», tanto che egli ironizzava sulla impossibilità di affidarsi alla improbabile «virtù» dei programmi di «intrinseca purificazione delle forze politiche»: «Di questa gente buona credo ce ne sia stata sempre poca e ora ritengo sia ridotta in termini minimi». La chiusura a destra era insomma senza appello. E il comunismo andava combattuto con metodi democratici a partire dai territori, dalla competizione nelle autonomie locali, anche cercando di rivitalizzare, come avevano chiesto in molti, l’attività organizzativa del partito.
Per quanto riguardava nello specifico l’apertura della discussione precongressuale, Moro dettava la linea:
Non dobbiamo essere imprudenti, non dobbiamo essere irresponsabili, non dobbiamo essere intempestivi, non dobbiamo scambiare le speranze con la realtà in atto delle cose; questo è certo; ma non dobbiamo essere neppure così scettici da non proporre con vigore il tema dell’attuazione democratica del socialismo, e non dobbiamo essere così ciechi da non vedere che il recupero della vita democratica delle ingenti forze che fanno capo a questo partito operaio, per quanto un problema proponga, difficoltà offra, è certamente un tema di grande importanza per la vita democratica del nostro Paese[108].
Passando oltre la mozione di sfiducia al governo presentata da Nenni alla Camera pochi giorni prima, una mozione liquidata da Moro come «inutile»[109], egli avrebbe riproposto sostanzialmente negli stessi termini la questione in occasione dell’avvio ufficiale del dibattito precongressuale al Consiglio nazionale del 20-22 luglio 1961[110], dove sottolineò il «carattere positivo e costruttivo» del dialogo con il Psi, che aveva come obiettivo non solo l’isolamento dei comunisti quanto piuttosto l’arricchimento, allargamento e approfondimento della vita democratica attraverso la partecipazione ad essa di nuove forze popolari che trovavano nei socialisti il loro punto di riferimento. Diversamente da altre fasi della sua vita, il ruolo ricoperto in quegli anni lo indusse a concentrare i propri interventi sulla politica nazionale. Tuttavia in varie occasioni, e questa ne è un esempio, inserì il disegno per il governo nel più ampio contesto europeo occidentale, indicando unità e integrazione politica dell’Europa come traguardi fondamentali per l’Italia, come il futuro al quale avrebbero lavorato le giovani generazioni[111].
Nell’ambito delle analisi del dibattito di quei mesi dentro la Democrazia cristiana, è stata da più parti sottolineata l’importante decisione della Segreteria di stabilire un nuovo tipo di relazione tra il partito e il suo retroterra culturale. Durante il primo dei tre convegni «ideologici» di San Pellegrino, svolto nel settembre 1961 e al quale parteciparono politici e intellettuali di area cattolica, furono discusse le basi programmatiche del futuro centro-sinistra. La rapida crescita economica imponeva infatti un ripensamento del ruolo dello Stato e della sua capacità di intervento per guidare lo sviluppo e le trasformazioni in atto correggendo squilibri economici e sociali. La scelta di coinvolgere nel dibattito sia personalità favorevoli ad una significativa evoluzione del sistema sia altre che mostravano ancora forti riserve rispetto all’ipotesi di collaborazione con i socialisti, permise alla segreteria di tenere in equilibrio il richiamo alle radici storiche e ideali della Dc e il proposito di aggiornare la sua immagine affermando quella di un partito moderno, un obiettivo dichiarato dallo stesso Moro poco più tardi[112]. Già all’indomani della sua morte, Pietro Scoppola identificò i convegni di San Pellegrino come uno dei momenti più alti dello sforzo di progettazione della Dc, riconoscendo a Moro il merito di aver introdotto uno stile nuovo nel rapporto tra politica e cultura, un «rapporto che era rimasto a lungo sacrificato dalle esigenze della mobilitazione anticomunista e poi era stato in qualche misura schiacciato dalla spinta organizzativa che al partito aveva impresso Fanfani a partire dal 1954»[113].
In un clima storico, politico e culturale segnato inevitabilmente dalle nuove tensioni europee originate dalla crisi di Berlino, emersero due questioni di natura interna tra di loro collegate. La prima riguardò il progressivo esaurimento della formula di convergenza, con socialdemocratici e repubblicani che premevano per l’«apertura» e i liberali e una parte della Dc intenzionati al contrario a frenare quel processo. L’altra fu la duplice dichiarazione del segretario relativa all’autonomia del partito dalle gerarchie ecclesiastiche e all’assenza di «alternative concrete e stabili» ad un governo formato da una maggioranza Dc-Psdi-Pri con appoggio diretto o indiretto del Psi. Nella conferenza stampa televisiva del 22 novembre 1961 pose esplicitamente uno stretto nesso tra i due aspetti, negando tuttavia che in quel momento l’«apertura a sinistra» fosse argomento di discussione nel suo partito, nella sinistra democratica e perfino nel Psi, che era effettivamente vincolato all’astensione dalla mozione finale votata al congresso di Milano di marzo. Davanti ai giornalisti, pungolato soprattutto da Eugenio Scalfari («L’Espresso») e Angelo Gaiotti («La Gazzetta del Popolo»), Moro sostenne che «l’autonomia del partito» era già «stata rivendicata» e che essa sarebbe stata con tutta probabilità confermata al congresso di Napoli[114].
In realtà, Moro aveva fatto dichiarazioni analoghe un anno prima in un contesto simile. A «Tribuna elettorale» del 12 ottobre 1960, interrogato quella volta da Vittorio Statera («La Stampa»), aveva infatti risposto che le decisioni politiche prese dalla Dc erano «perfettamente autonome, così come richiede la Costituzione democratica italiana»[115]. Tuttavia, ad un anno di distanza, con il superamento di fatto dell’accordo di convergenza, la gestazione di un nuovo esecutivo di centro-sinistra (sebbene non ancora «organico») e il congresso alle porte, quelle parole assumevano certamente un significato diverso, anche perché nel secondo caso la gerarchia ecclesiastica era espressamente nominata dal segretario. È stato a questo proposito osservato che Moro si servì del mezzo televisivo, malgrado una certa difficoltà di adattamento al nuovo strumento comunicativo, «per lanciare le proprie dichiarazioni più significative»[116].
Ricordando i tentativi dei vescovi di ostacolare l’apertura ai socialisti, Giovagnoli ha avanzato una precisa interpretazione delle affermazioni di Moro al congresso di Napoli relative all’autonomia della Dc: più che come un diritto da rivendicare, egli avrebbe parlato di autonomia come un servizio da rendere. Una sua interpretazione radicale dell’autonomia dei cattolici impegnati in politica sarebbe pertanto da escludere, tenendo anche conto dei contatti cercati da Moro in Vaticano prima del congresso. In altre parole, per Moro, il senso dell’autonomia dei laici non si basava su una distinzione radicale tra piano spirituale e piano temporale; esso va semmai cercato nel richiamo alla Costituzione e dunque alla diversità, definibile anche sotto il profilo giuridico, tra gli ambiti di competenza della Chiesa e quelli di competenza dello Stato. «In sostanza», conclude Giovagnoli, «l’autonomia di cui parlava Moro coincideva con quella che la Chiesa riconosceva allo Stato»[117]. Come si è visto, egli si era già espresso su quest’ultimo punto oltre un anno prima, ma ripetere quel concetto in sede di congresso dava sicuramente a quelle parole una forza e una risonanza maggiori.
Il segretario democristiano cercò di dare concretezza allo spirito di San Pellegrino coniugando la fisionomia tradizionale del partito con la spinta che veniva dall’interno del mondo cattolico e della stessa Dc a raccogliere le nuove sfide poste da una società nazionale e internazionale in movimento. A partire dalla primavera del 1962 avrebbe riassunto questo proposito nella formula della «novità nella continuità», ma già la relazione tenuta all’VIII congresso nazionale può essere letta in questa ottica. L’intervento di Moro al congresso di Napoli del 27-31 gennaio è rimasto noto per la lunghezza oltre che per i contenuti, poiché parlò per oltre sei ore occupando praticamente per intero la prima giornata di lavori[118]. Il «Corriere della Sera» parlò di «lungo “assolo” di Moro»[119]. Un confronto con il discorso pronunciato al precedente congresso di Firenze lo rende tuttavia meno «eccezionale» di quanto viene generalmente ritenuto[120]; del resto, se misurati ai contesti in cui erano svolti, anche gli interventi ai consigli nazionali o in molte manifestazioni pubbliche appaiono di una lunghezza inusuale.
Oltre alla questione dell’autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche, il leader democristiano toccò tutti i principali temi che occupavano da mesi, quando non da anni, il dibattito politico. È noto che la relazione ruotò fondamentalmente attorno all’apertura ai socialisti, intesa in quella fase nei termini di un appoggio esterno del Psi ad un governo della Dc con socialdemocratici e repubblicani, una ipotesi che escludeva pertanto una collaborazione organica tra democristiani, sinistra laica e socialisti ma basata tuttavia su un programma concordato con questi ultimi[121]. Per la sua rilevanza, essa è stata analizzata e commentata da tutti gli storici che si sono occupati della figura di Moro in età repubblicana e anche da chi ha dedicato studi alla storia della Democrazia cristiana o alla politica italiana di quegli anni. A risaltare è la capacità di mediazione del politico pugliese, che riuscì a portare tutta la Dc, unita, alla collaborazione con i socialisti. Fu proprio l’impostazione unitaria basata sulla mediazione, un dato irrinunciabile per il segretario, a determinare la straordinaria lunghezza della relazione. Di recente, lo hanno evidenziato tra gli altri Pombeni e Formigoni: «La durata, certo inusualmente ampia, era parte essenziale della rappresentazione: il segretario intendeva mostrare ai suoi censori interni, ma soprattutto esterni, che ogni aspetto, ogni sfumatura era stata attentamente esaminata e valutata», ha scritto il primo[122]; «La relazione-fiume […] mostrava pazientemente l’assenza di alternative alla sua proposta» ha aggiunto più tardi il secondo[123].
Nelle settimane che avevano preceduto il congresso, Moro aveva già svolto un paziente lavoro pedagogico di rassicurazione rivolto all’elettorato cattolico e all’opinione pubblica moderata attraverso interviste e articoli su settimanali nei quali precisava i confini dell’area politica coinvolta nell’apertura a sinistra, e dell’operazione stessa, offrendo garanzie rispetto agli impegni assunti dalla Dc nella politica nazionale e internazionale, ed escludendo che in Italia si sarebbe verificata una «brusca inversione di rotta»[124]. Allo stesso tempo, ribadì concetti espressi nei mesi precedenti relativi alla dimensione collegiale con la quale il partito si accingeva ad assumere decisioni fondamentali per il futuro del Paese, insistendo sul fatto che il dialogo con i socialisti poteva avere seguito solo «con la democrazia cristiana tutta intera»[125]. Come si è visto in precedenza, fin dal suo insediamento alla segreteria per Moro fu molto importante che anche le minoranze si sentissero parte integrante della gestione unitaria del partito e che si sentissero libere di manifestare le proprie opinioni, fermo restando l’invito alla cautela rispetto ai modi e ai tempi in cui esprimerle per non compromettere l’unità del partito e, più tardi, l’azione del governo[126].
Se la capacità di mediazione è un tratto che ha generalmente trovato ampio consenso tra gli storici, dalle interpretazioni sulla relazione di Moro a Napoli, nonché sulla sua complessiva attività politica di quegli anni − e dei successivi, come si vedrà più avanti − sono al contrario emersi giudizi molto diversi in ambito storiografico. Tra le letture critiche, una delle più caustiche è quella di Paul Ginsborg, che nella sua prima monografia dedicata all’Italia repubblicana definì la relazione al congresso «un capolavoro di ambiguità»[127]. Circa dieci anni prima, nel 1977, e da una prospettiva culturale opposta, Baget Bozzo aveva fatto ricorso ad una definizione simile, ma attribuendogli un significato diverso che era connesso all’autonomia del partito dalla Chiesa: a Napoli, aveva scritto, Moro aveva portato a compimento il passaggio da un partito cristiano «classico» ad uno dalla forma «ambigua», nel quale la fede cattolica dei suoi membri aveva perso rilevanza[128]. Sostenere che Moro, nel 1962, avesse praticamente tagliato le radici della ispirazione cristiana della Dc significava però secondo Leopoldo Elia aver frainteso il senso dell’equilibrio affermato dal segretario tra l’ispirazione religiosa e morale del partito e la sua azione nella politica concreta[129]. È stato inoltre osservato che si trattava di un giudizio più politico che storico, condizionato dal clima della cosiddetta «terza fase», che rifletteva la forte contrarietà dell’autore al nuovo rapporto stabilito da Moro con i comunisti[130]. In un successivo volume scritto insieme a Giovanni Tassani, Baget Bozzo ribadì che il 1962 aveva decretato la fine del partito cristiano e la laicizzazione della Dc in una società ormai secolarizzata; dal loro punto di vista era stato Moro l’artefice di questa trasformazione, pur imponendosi come una figura «pastorale» che aveva saputo «prendersi cura» del partito[131].
Molti tra gli studi condotti negli anni Duemila hanno invece tendenzialmente confermato la valutazione positiva dell’operato di Moro già presente nei primi volumi sulla storia della Dc risalenti agli anni Ottanta e Novanta. Nella voce «Democrazia cristiana» scritta per il Dizionario storico del movimento cattolico in Italia diretto da Francesco Traniello e Giorgio Campanini (1981), Scoppola aveva definito la relazione di Moro all’ottavo congresso «uno dei documenti più significativi della sua opera politica»; recependo la lezione di De Gasperi, proseguiva Scoppola, la sua interpretazione del centro-sinistra si ispirava «ancora al concetto di un partito per il quale il ruolo di mediazione rispetto alle realtà sociali e alle forze presenti in parlamento è tutt’uno con la sua funzione programmatica». A Napoli le correnti uscirono rafforzate nel loro ruolo di componenti stabili nel partito; il segretario, lo si è già ricordato, non apparteneva a nessuna di esse e ne fu il mediatore, «l’elemento personale di sintesi nel partito». Lo storico di area cattolico-democratica presentava a questo riguardo una interpretazione di grande interesse, ripresa talvolta da altri studiosi, elaborata anche in questo caso a partire dal recupero moroteo della tradizione degasperiana nel reputare compito primario della Dc la mediazione fra le diverse forze politiche: «Così Moro estende alla vita interna del partito la sua concezione della mediazione come elemento essenziale della Dc»[132]. Dieci anni più tardi, nel suo celebre La repubblica dei partiti, Scoppola fissava le qualità essenziali del segretario nel suo essere «il grande mediatore e tessitore paziente degli equilibri possibili nel suo partito e nei rapporti con gli altri: la sua iniziativa per il centro-sinistra si svolge per gradi, attraverso accelerazioni e pause e conosce momenti drammatici». Egli faceva infatti notare che Moro, pur essendo stato eletto nel 1959 dalla nuova corrente dorotea, ostile all’apertura a sinistra, era riuscito in pochi anni a portare il partito unito alla scelta di centro-sinistra[133]. Tra gli studi recenti, è modellata ad esempio su questa linea interpretativa la biografia di Mastrogregori, che individua nella riunificazione della Dc a Napoli il «primo vero successo» della segreteria morotea, nata dalla divisione in due del partito a Firenze[134].
Pur non essendo del tutto condivisa, la linea politica tracciata da Moro a Napoli raccolse l’80% dei consensi, assimilando di fatto anche alcuni di coloro che fino ad allora erano stati tra i più critici, come Giulio Andreotti[135]. A tale proposito, Baget Bozzo aveva commentato: «il congresso è stato un capolavoro di arte politica del segretario Moro. Nessuno dei gruppi si è schierato sulle sue posizioni, ma tutti si sono in qualche modo riconosciuti»[136]. Come si è già ricordato, accettare la codificazione del sistema correntizio era un prezzo che Moro sapeva di dover pagare per difendere gli obiettivi di mantenere unita la Dc e innovare la democrazia italiana. Così facendo, ha scritto Formigoni, riuscì a controllare il partito utilizzando un sistema al quale non partecipava direttamente[137].
La sua immagine di guida della Dc ne uscì rafforzata, come avrebbe certificato la sua conferma alla segreteria al Consiglio nazionale del 5 febbraio 1962, avvenuta con una larghissima maggioranza (92%). Questo risultato, ha notato Pombeni, testimoniava l’intenzione delle opposizioni di ampliare la propria capacità di ricatto interno, non avendo la forza di imporre strategie alternative[138].
Dopo le giunte «difficili» di un anno prima, la «cauta apertura verso il Psi» veniva ancora indicata dal segretario come un «esperimento»; la collaborazione organica con i socialisti restava un tema proiettato nel futuro, ma il «cammino» era iniziato[139]. Subito dopo il congresso, Fanfani rassegnò infatti le dimissioni del suo ministero e formò rapidamente un nuovo governo basato sulla coalizione Dc-Psdi-Pri e sull’astensione del Psi sul voto di fiducia a seguito di una intesa sul programma di governo. Il 9 marzo, nel dibattito alla Camera sulla fiducia, Moro dichiarò definitivamente superate sia la formula centrista che quella della convergenza, strumenti non più adeguati di fronte alle profonde trasformazioni della vita politica e sociale, che richiedevano una più ampia base popolare delle forze di governo[140].
Nei mesi successivi, Moro girò l’Italia per spiegare i contenuti fondamentali della politica appena avviata. Per evidenziare la connotazione dinamica e innovatrice dell’operazione, ricorse spesso all’immagine del «cammino», presentato nel segno della «continuità nella novità» e della «novità nella continuità». L’occasione fu la campagna per le elezioni amministrative del 10 giugno 1962: tenne comizi in molte città, scrisse articoli, partecipò al congresso della Coltivatori diretti per rinnovare lo stretto legame del partito con una delle organizzazioni tradizionalmente più vicine alla Dc, intervenne nuovamente al programma televisivo «Tribuna politica». Si tratta di scritti e discorsi trascurati in ambito storiografico e adesso disponibili nella presente edizione critica.
Il nascente centro-sinistra, però, fu teso fino all’estremo. La Democrazia cristiana fu infatti nuovamente sul punto di spezzarsi posta di fronte alla elezione del capo dello Stato. La candidatura di Antonio Segni era stata accettata come contropartita per rassicurare la parte del partito meno convinta dall’apertura ai socialisti, ma produsse contrasti interni e si risolse positivamente solo grazie all’apporto determinante di liberali, monarchici e missini[141]. Un’altra fonte di tensione fu rappresentata dal dibattito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, punto fondamentale dell’accordo con il Psi sul programma di governo insieme alle riforme di scuola e regioni. La Direzione della Dc si era espressa a favore, tuttavia Moro dovette intervenire frequentemente per spiegare, soprattutto all’opinione pubblica moderata, il significato del provvedimento e chiarirne il carattere di eccezionalità. Il segretario marcò la coerenza della misura con la dottrina sociale cristiana: limitatamente a questo settore, lo Stato assumeva la gestione diretta nell’interesse della collettività; restavano inalterate fiducia nella iniziativa privata e opposizione a qualsiasi forma di «livellamento collettivistico della vita economica e sociale»[142]. In quei mesi, contestualmente all’approvazione della nazionalizzazione dell’energia elettrica e delle importanti riforme nei settori scolastico, edilizio e tributario, e al dibattito sulla «nota aggiuntiva» di La Malfa, Moro intese lanciare un messaggio di speranza e di fiducia nel futuro, restituendo nei suoi discorsi l’immagine di un paese in «cammino» verso una «evoluzione preziosa» per la democrazia italiana, e quindi verso una modernità accompagnata da giustizia, sicurezza, libertà. Moro intendeva in altre parole andare oltre lo «stato di necessità», che pure continuava a costituire la premessa della politica di centro-sinistra, associandovi una visione politica di più ampio respiro[143].
Quella da lui proposta era una «alternativa democratica» rispondente ai canoni occidentali e perciò fermamente contrapposta a quella della propaganda comunista. Questa immagine dinamica, che intendeva stabilire un legame tra rappresentanza politica e fermento sociale, ribadendo la centralità della Dc in quanto tradizionalmente «partito innovatore», non nascondeva incertezze né insidie per il futuro ma, quantomeno nella narrazione pubblica, tendeva a lasciare in ombra l’aspetto che più degli altri poteva compromettere la piena riuscita di quella strategia, ovvero il ritardo con cui si era giunti al suo avvio[144]. Si trattava di ritardi accumulati sul piano politico ed economico, mentre intanto si affacciavano i primi segnali di contrazione della forte crescita che aveva caratterizzato gli anni precedenti. Oltretutto, l’intensa attività del governo per l’attuazione del programma, alla quale la partecipazione dei socialisti stava aprendo la strada − sosteneva Moro − ad una collaborazione più stabile rispetto a quella prospettata al congresso di Napoli, subì una prima «battuta d’arresto» sul fronte dell’ordinamento regionale. Il segretario della Dc giustificò la linea della prudenza sulle regioni motivandola con la mancanza delle condizioni politiche ritenute necessarie per la loro attuazione, ovvero non soltanto la presenza di una organica maggioranza democratica a sostenerla ma il definitivo chiarimento del rapporto del Psi con il Pci anche a livello locale[145]. Il rinvio del provvedimento, fortemente condizionato dall’imminente apertura della campagna per le elezioni politiche della primavera, condensava tutta una serie di tensioni: quelle esistenti in seno alla Dc, tra chi intendeva accelerare e chi frenare la collaborazione organica con i socialisti, con conseguenti ripercussioni nei rapporti tra Moro e Fanfani; quelle interne al Psi, tra favorevoli e contrari ad una crisi di governo; infine, quelle tra i due partiti[146].
Consapevole dei timori e delle perplessità suscitati dalle novità politiche dell’ultimo anno nella tradizionale base elettorale della Dc, Moro fu molto attivo nella campagna per le consultazioni politiche del 28 aprile 1963. La sua partecipazione da segretario a tutte le campagne amministrative e regionali era stata particolarmente assidua, come si è già ricordato. La posta in gioco in questo caso, però, era ovviamente più alta e ciò si riflesse in un intenso impegno quotidiano tra interviste, articoli per periodici, comizi per tutta la penisola, partecipazione ad iniziative del variegato mondo dell’associazionismo cattolico, incontri con dirigenti e amministratori locali democristiani. Anche questa grande mole di materiali, raccolta nel presente tomo dell’Edizione Nazionale, non ha trovato finora spazio nella produzione storiografica. Da essa emerge soprattutto la preoccupazione per una probabile flessione di voti che si prevedeva in uscita in direzione del Pli, anche alla luce dei risultati poco confortanti alle amministrative dell’anno precedente. In quegli interventi Moro insistette perciò sulla solidità degli argini alzati contro i comunisti. Continuò inoltre ad indicare l’allargamento dell’area democratica attraverso la futura acquisizione del Psi alla maggioranza di governo come uno dei principali obiettivi della Dc, ma impostò la comunicazione elettorale sugli aspetti identitari del partito, in primis la sua «politica popolare», e sulla sua responsabilità di assicurare stabilità al Paese. Nella rappresentazione del segretario, «ardimento» e «prudenza» erano i due poli che avevano guidato la Democrazia cristiana dal congresso di Napoli in avanti: egli ricorse sempre più di frequente alla formula della «continuità nella novità, novità nella continuità» per indicare una linea politica che intendeva porsi in sintonia con le trasformazioni della società e guardare al futuro, ma allo stesso tempo restare ancorata ai propri valori e ispirazioni tradizionali[147].
Nessuno dei partiti di maggioranza aveva affidato il proprio successo elettorale alla difesa della strategia del centro-sinistra e ognuno si mosse in maniera autonoma, ma anche competitiva. In più di una occasione Moro lamentò l’aggressività con la quale non solo i partiti all’opposizione ma anche quelli «democratici» e la stampa indipendente di area laica stavano criticando la Dc. E, ancora una volta, riportò al centro l’importanza dell’unità del partito, una unità composta da sensibilità diverse, ognuna delle quali con diritto di cittadinanza, ma riunite dall’ispirazione cristiana. Una ispirazione cristiana, precisò ad esempio in un articolo scritto in aprile per il settimanale cattolico «Orizzonti», non «compromessa» dalla necessaria collaborazione con laici e socialisti per lo sviluppo del Paese; né tantomeno tale collaborazione avrebbe dovuto mettere in dubbio la funzione della Dc di rappresentanza politica unitaria dei cattolici italiani[148]. Oltre che nel contesto elettorale, queste parole vanno inquadrate nel clima di grande fermento che stava attraversando il mondo cattolico, da una parte per gli animati dibattiti stimolati dal Concilio Vaticano II e dall’altra per lo stabilirsi di nuovi equilibri nella competizione bipolare che investivano direttamente l’Europa occidentale[149].
Per la Dc, i risultati elettorali furono peggiori del previsto, segnando una perdita del 4% rispetto alle precedenti consultazioni del 1958. L’esito deludente era inoltre aggravato dalla significativa crescita di comunisti e liberali, i partiti di opposizione al progetto di centro-sinistra. Nel commentare questo scenario al Consiglio nazionale del 17 maggio 1963, il segretario ritenne tuttavia necessario ripartire da quel progetto, malgrado «condizioni» rese «sensibilmente più difficili» dal restringimento dello spazio di manovra[150]. Lui stesso fu incaricato una settimana più tardi di formare un nuovo governo sostenuto da una maggioranza composta da Dc, Psdi, Pri e Psi. La mancata intesa con quest’ultimo, diviso al proprio interno rispetto alla modalità con cui appoggiare un nuovo esecutivo di centro-sinistra, fece fallire il tentativo di Moro. Ciò non fece tuttavia arrestare il dialogo tra i quattro partiti, che raggiunsero un accordo per la formazione del governo Leone, monocolore Dc con astensione degli altri tre, pensato proprio come un esecutivo di transizione in attesa che maturassero le condizioni per un centro-sinistra con la partecipazione organica dei socialisti. Il leader della Dc si attendeva tuttavia di raggiungere questo risultato in due tempi: una astensione del Psi in un primo momento, seguita dal suo voto di fiducia dopo il congresso in ottobre.
Moro espose la sua visione al Consiglio nazionale del 29 luglio. Sollecitato dai risultati elettorali e dalle frizioni interne al partito, in quella circostanza come in altri discorsi pronunciati fino alla fine del 1963, egli tornò sulla netta delimitazione dei confini della futura maggioranza a destra, liberali compresi, e a sinistra, escludendo categoricamente qualsiasi forma di ammorbidimento nei confronti dei comunisti. Con un equilibrio ancora altamente precario, la prospettiva di uno spostamento a sinistra dell’asse di governo richiedeva infatti una presa di posizione particolarmente dura verso il Pci: l’esistenza di un sistema democratico in Italia permetteva ad esso di esercitare una larga influenza nell’ambito dell’opposizione, uno spazio dal quale la Dc, in quanto garante della continuità del carattere democratico del sistema, non gli avrebbe però consentito di uscire. La situazione era tuttavia molto complessa anche dentro il partito e nella replica Moro affermò di sentirsi «nello stato d’animo del prigioniero»[151].
Il congresso del Psi del 25-29 ottobre 1963 approvò la partecipazione del partito al nuovo esecutivo di centro-sinistra ma non ricompose le divisioni interne, e la posizione di Nenni fu ratificata da una maggioranza ristretta. Leone rassegnò le dimissioni del suo ministero il 5 novembre e pochi giorni più tardi Moro ricevette l’incarico di formare un nuovo governo. Al termine di aspre trattative protrattesi per quasi un mese, il 4 dicembre, probabilmente anche sull’onda emotiva dell’omicidio del presidente americano Kennedy[152], Moro poté sciogliere positivamente la riserva e costituire il primo governo di centro-sinistra dell’Italia repubblicana formato da Dc, Psdi, Pri e Psi. Come aveva preannunciato il 21 settembre ad un incontro con i quadri della Dc a Bari, era giunto il momento di «dare inizio al secondo tempo della nuova storia dell’Italia democratica»[153].
L’edizione critica degli scritti e dei discorsi politici di Aldo Moro negli anni in cui ricoprì la carica di segretario della Democrazia cristiana intende essere un contributo allo studio di una delle personalità politiche più influenti dell’Italia repubblicana. Essa può essere ritenuta un apporto alle nuove ricerche dedicate al leader democristiano per due ragioni. In primo luogo perché mette a disposizione degli studiosi una grande quantità di materiali finora non conosciuti, sebbene nella maggioranza dei casi non inediti. Un rapido raffronto con l’antologia ad oggi considerata più completa, quella curata da Giuseppe Rossini nel 1982[154], è sufficiente a restituire l’ordine delle dimensioni: in riferimento al periodo considerato, ovvero marzo 1959-novembre 1963, Rossini aveva inserito 28 testi; il lavoro svolto per questo tomo dell’Edizione Nazionale ha permesso di recuperarne 170, per un totale di oltre 1500 pagine. In più, con la sola eccezione della breve nota redatta alla fine del 1959 per la rivista «L’osservatore politico letterario»[155], nel primo caso erano stati raccolti solamente discorsi, mentre qui vengono presentati anche 28 articoli scritti da Moro per la stampa, dei quali la storiografia non si è occupata. Accanto ad alcuni editoriali per il quotidiano della Dc «Il Popolo», del quale tra l’altro Moro fu direttore in quegli anni, figurano principalmente articoli scritti per i settimanali «Oggi» e «Epoca», ma anche per riviste di area cattolica con una diffusione minore come «Vita», «Orizzonti» e «Successo». Dalle parole pronunciate dallo stesso Moro a riunioni di partito si apprende che esistono altri editoriali da lui redatti oltre a quelli qui riportati. In coerenza con i criteri stabiliti dal comitato scientifico dell’Edizione Nazionale, che ha come obiettivo la raccolta di scritti e discorsi di sicura attribuzione a Moro, si è quindi proceduto alla trascrizione ed annotazione solo di quelli firmati. Il grande divario tra il numero di testi riportati da Rossini e da questa edizione si spiega tuttavia con il formato, che sottintende scelte editoriali molto diverse: cartaceo nel primo caso, che ha inevitabilmente costretto ad operare una selezione; digitale il secondo, che in virtù di uno spazio virtualmente illimitato ha consentito di impostare un lavoro il più possibile esaustivo.
L’accurato lavoro filologico svolto per l’Edizione Nazionale ha marcato differenze che vanno oltre il mero aspetto quantitativo. Tali differenze vanno attribuite solo in parte alla responsabilità di Rossini, il quale aveva tuttavia la tendenza ad intervenire sui testi operando tagli (non segnalati) e modificando aggettivi e sostantivi con il risultato di alterare in alcuni passaggi il significato delle dichiarazioni di Moro e il suo stile comunicativo. È comunque probabile che Rossini avesse avuto talvolta a disposizione solo i «resoconti sommari» redatti dagli uffici del partito, che lui trasformava in prima persona, e non le copie originali dei discorsi del segretario. Quanto detto fino ad ora vale infatti anche per «Il Popolo» che a sua volta, presumibilmente per esigenze di spazio, rielaborava i materiali inviati dall’Ufficio stampa della Dc. A questo meccanismo si può risalire, ad esempio, leggendo le avvertenze contenute nella raccolta dei discorsi pronunciati da Moro in occasione della campagna per le elezioni amministrative del 10 giugno 1962 e divulgati ad uso propagandistico[156].
La ricerca filologica ha perciò fatto emergere un numero significativo di incongruenze tra gli originali conservati presso l’Archivio centrale dello Stato e l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo, e i testi pubblicati dal quotidiano «Il Popolo» o nella edizione curata da Rossini, che non di rado divergono in modo sostanziale dai primi. Questo risultato della ricerca ha trovato una definitiva conferma da ciò che aveva scritto Giorgio Campanini nel già citato volume del 1988. Egli aveva posto esplicitamente il problema dell’autenticità dei testi dei discorsi pronunciati dal leader della Dc, specialmente per quelli «politici occasionali»: non di rado accadeva che di ciascuno di essi esistessero più versioni, tra di loro spesso contrastanti. Moro poteva infatti pronunciare un discorso sulla base di un testo redatto in precedenza – e successivamente pubblicato − in alcune circostanze, mentre in altre parlare con il solo supporto di una scaletta o di appunti che sono andati perduti. In questi ultimi casi, aggiungeva Campanini, i testi dei discorsi venivano riprodotti a partire da registrazioni audio, ma non è possibile verificare se prima della pubblicazione essi fossero stati personalmente revisionati da Moro. In sostanza, non sempre abbiamo a disposizione una «fonte diretta e controllabile». Meno rilevante, ma comunque da tenere in considerazione, è un altro problema relativo all’autenticità sollevato da Campanini. L’«inusitata ampiezza» di alcuni discorsi tenuti in sede parlamentare e di partito o l’inserimento in essi di elementi «fortemente tecnici» renderebbero evidente un contributo da parte della segreteria. In questo caso la responsabilità ultima di relazioni e discorsi è indubbiamente di Moro ed essi riflettono in ogni caso il suo pensiero. Campanini concludeva tuttavia che sarebbe utile valutare il peso e l’importanza di tali apporti esterni e analizzare anche il complesso dei collaboratori di cui egli si avvalse[157]. Per ciò che riguarda gli anni in cui fu segretario, ricaviamo adesso alcune informazioni dalla biografia scritta da Guido Formigoni, che riporta ad esempio uno scambio di battute a questo proposito tra Moro e il suo consigliere politico Tommaso Morlino[158].
Per raccogliere scritti e discorsi di Moro per l’Edizione Nazionale è stata dunque privilegiata la ricerca tra i documenti originali conservati presso l’Archivio centrale dello Stato e l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo. In particolare per i discorsi, ogni volta fosse presente tra le sue carte, è stata ricopiata ed annotata l’edizione stenografica, quella cioè trascritta dalla registrazione su nastro, poiché in assoluto la più fedele alle parole effettivamente pronunciate da Moro. In questa sorta di gerarchia dei materiali rinvenuti, in seconda battuta è stata data la precedenza alle copie diffuse dall’Ufficio stampa della Dc quando scritti e discorsi venivano esplicitamente riportati nella versione integrale. Pur ammettendo che l’Ufficio stampa possa aver apportato qualche aggiustamento, se non altro per rendere pubblicabile e fruibile ai lettori un discorso pronunciato a braccio, si tratta di una versione ufficiale proveniente da un organismo di partito, e in quanto tale ritenuto una fonte attendibile e, si può supporre, controllata da Moro. Di questi scritti e discorsi esistono inoltre molte bozze preparatorie, talvolta incomplete, sia dattiloscritte che manoscritte; in linea con i criteri di pubblicità stabiliti dal comitato scientifico dell’Edizione Nazionale, si è proceduto alla trascrizione della versione finale corrispondente a quella pronunciata da Moro poiché era quest’ultima ad essere resa nota e a circolare nel dibattito pubblico suscitando reazioni tra le altre forze politiche e nella società; sono state invece segnalate tra le annotazioni le variazioni tra bozze e testi definitivi nei casi in cui esse sono attribuibili a Moro (e non alla segreteria) e hanno rilevanza sul piano dei contenuti.
Dove non siano presenti documenti archivistici ma solo materiali a stampa, la priorità è stata assegnata alle pubblicazioni curate dall’ufficio Spes (Studi, propaganda e stampa). Come ha ricordato Marchi, con l’insediamento di Moro alla segreteria la macchina propagandistica fu potenziata grazie al rilancio dell’attività della Spes, che raggiunse il picco della mobilitazione in vista delle elezioni politiche dell’aprile 1963[159]. Tra i compiti ad essa affidati rientrava la pubblicazione dei discorsi pronunciati dai leader del partito. Presso l’Archivio centrale dello Stato e l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo sono stati recuperati una decina di opuscoli presentati in questo tomo dell’Edizione Nazionale. Analogamente, le relazioni di Moro ai congressi di Firenze e Napoli e alle molte sedute dei Consigli nazionali tenute in quegli anni sono state riprese quasi esclusivamente dalle pubblicazioni curate da Cinque Lune, l’editore di riferimento della Dc.
Da ultimo, dove non recuperabili da altre fonti, i testi dei discorsi di Moro sono stati ricopiati dalla versione presente sul quotidiano «Il Popolo», che nei cinque anni considerati li pubblicò regolarmente e con cadenza quotidiana nei periodi di campagna elettorale. Fanno parte di questo tomo i discorsi integrali e quelli riportati solo in alcune parti in forma di resoconto; gli articoli di sintesi, nei quali cioè non figura nessuna dichiarazione diretta del segretario, sono stati invece esclusi dalla raccolta perché mancanti di adeguato riscontro filologico. Al netto delle premesse esposte in precedenza, «Il Popolo» ha rappresentato una fonte molto importante per la realizzazione di questo lavoro. Grazie ad un accurato spoglio del quotidiano, gli studiosi hanno per la prima volta a disposizione, raccolti in un unico volume, i tantissimi interventi svolti da Moro in una grande varietà di contesti, ben oltre le sole sedi istituzionali − intendendo questa qualificazione con una accezione ampia che comprende anche le riunioni nazionali del partito.
Con l’eccezione dei già citati studi di Brizzi sugli interventi televisivi, non sono stati infatti finora analizzati i discorsi che il leader della Dc pronunciò giornalmente in occasione delle campagne elettorali, sia amministrative sia politiche. Si tratta di un numero considerevole di testi, dovuto ai frequenti appuntamenti elettorali di quel quinquennio. Dalla ricerca emerge inoltre la grande attenzione, anch’essa trascurata, riservata da Moro al mondo dell’associazionismo e alle organizzazioni di matrice cattolica. Relativamente a questo ambito, spiccano per quantità i suoi interventi a congressi e convegni della Coltivatori diretti, alle cui assemblee il segretario partecipava in media due volte all’anno con l’obiettivo di mantenere saldo il legame con una delle associazioni tradizionalmente più vicine alla Dc alla luce dei grandi cambiamenti intervenuti negli equilibri politici e parlamentari. All’interno delle strutture del partito, risalta poi l’impegno di Moro nei confronti della «periferia». Egli tenne infatti regolarmente incontri con i dirigenti provinciali e regionali, non mancando in ogni circostanza di valorizzare il loro lavoro nei territori e la funzione svolta dagli enti locali. Le autonomie locali erano del resto un tema caro alla tradizione del pensiero cattolico, che politicamente affondava le proprie radici nel popolarismo di Luigi Sturzo. Altrettanto rilevante appare la cura delle relazioni con i gruppi dei giovani democratici cristiani, un fatto tuttavia non sorprendente considerata la sua militanza giovanile nella Fuci, della quale fu anche presidente dal 1939 al 1941. Già alla fine degli anni Settanta, George L. Mosse aveva evidenziato l’attenzione di Moro verso i giovani nel contesto delle grandi mobilitazioni del Sessantotto[160], una questione ripresa in anni recenti dalla storiografia, che l’ha messa in relazione all’attenzione da lui contemporaneamente riservata al Partito comunista italiano[161]. I discorsi presentati in questa sede inducono però a retrodatare tale atteggiamento e a meglio inquadrare la sua vicinanza alle giovani generazioni, che fu sicuramente alimentata da uno scambio quotidiano vissuto nelle aule universitarie, prima a Bari e poi a Roma. Da segretario, Moro partecipò attivamente alle conferenze delle organizzazioni giovanili della Dc, sempre alla ricerca di un confronto che, pur tenendo fermi i ruoli, fosse impostato sul reciproco rispetto della diversità di esigenze e di opinioni.
A questi nuovi materiali che allargano notevolmente lo spettro delle conoscenze del Moro oratore, si aggiungono poi gli scritti, a loro volta non esaminati dalla produzione storiografica analogamente alle interviste riportate in questo tomo. Come si è detto, la maggior parte di questi contributi fu indirizzata ai settimanali «Epoca» e «Oggi». Non casualmente, essi si intensificarono tra il 1962 e il 1963: questi articoli testimoniano infatti la volontà di Moro di raggiungere un pubblico ampio, prevalentemente moderato e cattolico ma non necessariamente attivo politicamente, nelle fasi di avvio e consolidamento della cosiddetta «apertura a sinistra». Essi assumono una grande rilevanza sotto il profilo dell’analisi della sua comunicazione politica, poiché egli vi spiegava e motivava con grande pazienza ogni passaggio politico, proprio come aveva fatto al congresso di Napoli. In questi contributi Moro si incaricava di offrire solide rassicurazioni ai tradizionali elettori del suo partito in merito al fatto che, malgrado importanti novità politiche, non erano «cambiati» né la Dc, né il suo ruolo di perno nel sistema, né la collocazione internazionale dell’Italia, né essi sarebbero mutati in futuro: in altre parole, il dialogo con i socialisti non implicava ripensamenti o variazioni sul piano delle differenziazioni ideologiche. Di questi testi esistono riproduzioni sul quotidiano del partito e copie a cura dell’Ufficio stampa; per rigore filologico si è deciso tuttavia di trascrivere e editare gli articoli originali pubblicati su «Epoca» e «Oggi», riviste fortunatamente reperibili presso il Polo bibliotecario parlamentare.
La varietà di scritti e discorsi fin qui descritta rappresenta il secondo motivo per cui questo tomo costituisce, insieme agli altri volumi dell’Edizione Nazionale, un utile contributo alle nuove ricerche sul politico pugliese. Essa amplia infatti in maniera sostanziale la tipologia di documentazione a disposizione degli studiosi, limitata fino ad anni recenti – ovvero fino a quando le sue carte politiche sono diventate consultabili presso l’Archivio centrale dello Stato − agli atti depositati dalla Dc e ad antologie piuttosto datate come quella di Rossini. Oltretutto questi materiali concorrono a colmare una lacuna che riguarda uno dei periodi cruciali ma allo stesso tempo meno indagati della biografia politica di Moro, come hanno evidenziato Alessandro Sansoni, Pierluigi Totaro e Paolo Varvaro presentando i lavori del convegno L’azione politica di Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana (1959-1964), promosso nel 2016 dai Dipartimenti di Scienze Politiche e di Studi umanistici dell’Università Federico II di Napoli[162]. Dai primi anni Duemila in avanti sono stati tuttavia pubblicati alcuni studi rilevanti su quella fase, dei quali si è dato conto nel corso della presente nota storico-critica, a cominciare dalle prime riflessioni di Pombeni sull’argomento[163], per proseguire con suoi contributi più recenti[164] e con gli studi di Francesco Bello[165], Augusto D’Angelo[166], Michele Marchi[167], Salvatore Mura[168], Pietro Panzarino[169], Pierluigi Totaro[170].
L’occasione del convegno napoletano era stata offerta dalla celebrazione del centenario della nascita di Aldo Moro. Tale circostanza, congiuntamente al quarantennale della scomparsa nel 2018, ha stimolato l’organizzazione di altre giornate di studio e di nuove pubblicazioni sulla vita e sull’attività politica di Moro. Meritano di essere qui ricordati almeno due convegni organizzati a Roma: il primo, nel 2016, promosso dall’Università Sapienza intitolato Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978)[171]; il secondo, nel 2018, dall’Istituto Luigi Sturzo, i cui contributi sono confluiti in una raccolta curata da Nicola Antonetti[172]. Tra i volumi di taglio monografico occorre citare nuovamente le due biografie politiche di Guido Formigoni[173] e Massimo Mastrogregori[174].
Questo insieme di studi, che ha arricchito il quadro delle conoscenze sul politico pugliese, si inserisce nel complessivo rinnovamento storiografico sulla sua figura che è stato avviato nel 2008, contestualmente al trentennale della scomparsa, quando importanti iniziative collettive di ricerca e di dibattito hanno aperto la strada a indagini impostate su nuove chiavi di lettura. La distanza temporale, che ha favorito il superamento delle contrapposizioni polemiche del passato, e l’acquisizione di nuova documentazione che era stata resa da poco disponibile presso l’Archivio centrale dello Stato, hanno infatti concorso a determinare una svolta: il dato più significato è che, per la prima volta, il numero di contributi sulla fase che ha preceduto il 1978 ha superato quello delle analisi dedicate al rapimento e all’assassinio di Moro, come hanno rilevato Guido Formigoni[175] e Renato Moro. Quest’ultimo ha puntualizzato quanto a lungo sia stato il «caso Moro» a dominare il quadro, sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo, essendosi imposta in passato una tendenza retrospettiva che ha riletto l’intera vicenda di Moro a partire dalla sua fine piuttosto che dall’inizio. Pur essendo comprensibile che un evento così drammatico della storia repubblicana − rispetto al quale rimangono peraltro ancora molti aspetti da chiarire − abbia catalizzato per molto tempo l’interesse degli storici, a giudizio di Renato Moro «non è accettabile» non solo la sproporzione tra l’attenzione riservata ai 55 giorni del sequestro contro i 62 anni della sua vita, ma soprattutto il fatto che quel tragico epilogo abbia condizionato l’interpretazione del suo intero percorso politico, facendo proiettare all’indietro l’immagine dell’ultimo Moro, identificata con la sua nuova impostazione del rapporto con i comunisti. Nei primi decenni successivi alla sua scomparsa, i giudizi storiografici su Moro hanno inoltre continuato a riflettere i toni polemici propri del dibattito pubblicistico risalente agli anni in cui egli era ancora in vita, alimentando la «infinita discussione tra detrattori accaniti e sostenitori appassionati»[176]. Ciò è dipeso dal fatto, ha aggiunto Renato Moro, che memoria e politica hanno continuato a prevalere sulla storia, almeno fino al 2008. Da allora in avanti, lo sforzo innovativo applicato complessivamente alle nuove indagini sul leader democristiano è andato perciò nella direzione di superare ricostruzioni generiche o, a maggior ragione, ancora legate alle polemiche politiche e pubblicistiche degli anni Sessanta e Settanta. Queste ultime sono state l’oggetto di accurate ricognizioni da parte di Renato Moro, che ha ripercorso le immagini del politico pugliese emerse dai volumi che nell’ultimo cinquantennio si sono occupati dell’Italia repubblicana, contestualizzandoli nei periodi in cui essi sono stati scritti e negli orientamenti storiografici dei loro autori[177].
Rispetto al periodo preso in questa sede in esame, non si può quanto meno non ricordare che valutazioni storiche di segno opposto sulla figura di Moro furono spesso parimenti condizionate dalle aspettative deluse dall’alleanza tra democratici cristiani e socialisti, risultando di conseguenza ancora interne ai dibattiti pubblicistici e politici dell’epoca. Quanti hanno assunto un’ottica tesa ad attribuire a Moro la responsabilità del lungo intervallo di tempo intercorso tra la progettualità del centro-sinistra e la sua realizzazione, hanno perciò contrapposto il governo Fanfani retto sull’astensione socialista, promotore di importanti riforme per il Paese a partire dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, ai successivi esecutivi «organici» guidati da Moro, etichettati a lungo come quelli del «riformismo mancato»[178]; anche visioni diametralmente opposte sulla leadership morotea hanno tuttavia osservato che il mantenimento della formula di governo prese rapidamente il sopravvento sui contenuti programmatici[179]. In più, in linea generale, le impostazioni schematiche, pur rinviando ad una grande varietà di sfumature nei giudizi, hanno contribuito al radicamento di pregiudizi e luoghi comuni, come quelli sulla gestione passiva di Moro al confronto con l’attivismo organizzativo di Fanfani e sulla incomprensibilità del lessico moroteo.
La nuova stagione storiografica avviata dai primi anni Duemila, e dal 2008 in particolare, ha cercato di superare tali pregiudizi basando gli studi sulle nuove acquisizioni documentarie e allargando l’indagine a nuovi campi di ricerca. Se si prende a titolo di esempio la «svolta» del 1962, l’importanza di quel passaggio politico è stata contestualizzata nel quadro dei nuovi equilibri bipolari e ciò ha permesso di evidenziare interazioni e reciproche influenze tra i piani nazionale e internazionale, marcando anche di conseguenza le oscillazioni tra divergenze e riallineamenti tra i due processi di distensione[180].
Coloro che hanno concentrato lo sguardo sulla politica interna hanno continuato a sottolineare il ruolo di mediazione svolto da Moro. Tra i tanti volumi citati, possiamo ricordare la raccolta di saggi curata da Nicola Antonetti nel 2018, nella quale il politico pugliese è indicato come «l’uomo della mediazione» capace di conciliare idealismo e realismo, «il regista» della costruzione e poi della ricostruzione dell’accordo con i socialisti negli anni in cui fu alla guida dei governi di centro-sinistra[181]. Oltre ai lavori di Formigoni e Pombeni, un altro esempio sono i contributi di Marchi dedicati alla segreteria di Moro. Per l’autore, la peculiarità della leadership morotea negli anni della segreteria va individuata proprio nella capacità di farsi interprete e garante della complessa dialettica interna; egli avrebbe perciò agito come un «federatore» di sensibilità e opinioni politiche anche opposte, fino a portare la Dc unita al traguardo del centro-sinistra organico alla fine del 1963. La «carta vincente» del leader «federatore» sarebbe perciò consistita nel far convivere tutte le differenti anime del partito, scongiurando la rottura dell’unità politica dei cattolici e stabilendo allo stesso tempo un nuovo rapporto con la Chiesa. In conclusione, secondo Marchi, attraverso la sua leadership «volontaristica», Moro fornì una declinazione nuova all’operato dei cattolici in politica: al termine della sua segreteria, la Democrazia cristiana aveva assunto ancora più chiaramente la fisionomia di «partito nazionale»[182].
Infine, un’ultima segnalazione relativa a questo tomo dell’Edizione Nazionale riguarda il metodo utilizzato per la redazione degli abstracts e delle annotazioni di scritti e discorsi di Moro. Nelle introduzioni ai singoli testi, oltre alla sintesi dei contenuti e alla loro contestualizzazione, sono stati precisati tutti i riferimenti sulle fonti, mentre nella voce specifica della piattaforma digitale è stata inserita solo la fonte dalla quale il documento è stato trascritto, che è stata selezionata secondo il criterio descritto in precedenza. Raramente sono stati rinvenuti titoli originali, trattandosi quasi esclusivamente di titoli redazionali o attribuiti che, quando mantenuti, sono stati inseriti tra parentesi quadre; data la accentuata ripetitività dei titoli redazionali, si è deciso di fare frequente ricorso a titoli descrittivi che potessero meglio orientare il lettore. I molteplici titoli assegnati da fonti diverse allo stesso documento sono stati tuttavia indicati nelle introduzioni ai testi.
Poiché l’Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro si rivolge non solo agli specialisti ma ad un pubblico ampio, l’apparato di note è stato redatto con l’obiettivo di fornire al lettore tutte le informazioni utili per inquadrare ciascun documento, sia pure senza appesantire i testi con annotazioni lunghe e dettagliate. In particolare, sono stati indicati: i rinvii alle frequenti autocitazioni di Moro di scritti e discorsi; le leggi richiamate; sintetiche informazioni sui dibattiti parlamentari e sui congressi dei partiti politici; le legislature; gli estremi dei governi da lui menzionati, compresa la loro composizione politica e la maggioranza che li sosteneva; i riferimenti alle elezioni amministrative, regionali e politiche che si svolsero in quegli anni; sintetiche spiegazioni su eventi storici del periodo; dati essenziali sulle personalità citate, con piccoli approfondimenti nei casi in cui si tratti di figure non presenti nel Dizionario Biografico degli Italiani curato dalla Enciclopedia Treccani. Si è ritenuto che un lavoro di questo tipo possa agevolare la lettura dei non esperti della materia, specialmente tra le giovani generazioni, e favorire la piena comprensione e un’adeguata contestualizzazione delle parole di Moro. «Restituire» integralmente a Moro la sua voce è infatti il principale obiettivo dell’Edizione Nazionale.
Febbraio 2022
Il governo Moro I fu varato il 4 dicembre 1963; un mese più tardi, il Consiglio nazionale della Dc elesse Mariano Rumor nuovo segretario politico del partito. ↑
Il 17 marzo 1959, Moro fu eletto segretario della Dc con 64 voti favorevoli; 26 furono le schede bianche e 21 gli assenti, mentre un voto andò a Gui. Nella stessa seduta fu eletta la nuova direzione. ↑
Dichiarazioni del nuovo Segretario Politico, in Consiglio Nazionale D.C. del 15-18 marzo 1959, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1959, pp. 188-191, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.001 ↑
F. Malgeri, Gli anni di transizione: da Fanfani a Moro (1954-1962), in Storia della Democrazia cristiana, a cura di F. Malgeri, vol. III, Roma, Cinque Lune, 1989, p. 204. La tesi è stata riproposta più tardi dallo stesso autore, ad es. in Cambiamenti sociali e mutamenti politici: il partito di maggioranza, in Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), a cura di P.L. Ballini, S. Guerrieri e A. Varsori, Roma, Carocci, 2006, p. 348. ↑
Per un recente focus sul tema si rinvia a P. Totaro, Contro Fanfani. Partito e rappresentanza parlamentare nella crisi democristiana del 1958-59, in «Studi storici», 2018, n. 3, pp. 809-843. ↑
V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010. ↑
P. Pombeni, Moro e l’apertura a sinistra, in Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, p. 72. ↑
È di questo secondo avviso, tra gli altri, Francesco Malgeri. Per una puntuale ricognizione delle ricostruzioni storiche della Dc che assimilano al contrario Moro ai gruppi sopra citati si rinvia al suo Aldo Moro nelle storie della Democrazia cristiana, in «Mondo contemporaneo», 2010, n. 2, p. 75. ↑
A. Giovagnoli, Moro democristiano: dalla Domus Mariae alla solidarietà nazionale, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia e D. De Luca, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 70. ↑
A. Giovagnoli, Aldo Moro: un democristiano atipico, in «Contemporanea», 11, 2008, n. 1, pp. 95-100. L’intervento di Giovagnoli fa parte della tavola rotonda curata da Maria Serena Piretti Moro e la lunga crisi del sistema politico italiano, alla quale parteciparono anche A. Mastropaolo, M. Gervasoni, R. Gualtieri e S. Pons. ↑
N. Antonetti, La Democrazia cristiana negli anni di De Gasperi, in Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, vol. V, L’età di De Gasperi e il centrismo, Roma, Il Poligono, 1981, p. 241; P. Scoppola, Democrazia cristiana, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860-1980, direttori F. Traniello e G. Campanini, Torino, Marietti, 1981, vol. I, t. 2, pp. 266-268. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 154-155, con uno specifico riferimento alle dinamiche relative al congresso nazionale della Dc del gennaio 1962. ↑
P. Totaro, Ricostruire «Iniziativa democratica»? La Dc dalla Domus Mariae al congresso di Firenze, in «Studi Storici», 2014, n. 4, pp. 819-857. ↑
Si tratta dell’art. 6, Capo II (Diritti e doveri dei soci): «Non è consentito costituire in seno al Partito gruppi, tendenze o frazioni organizzate», qui ripreso dalla edizione digitalizzata dello statuto approvato dal Consiglio nazionale nelle sessioni del 4-5 febbraio e 11 novembre 1957, consultabile all’indirizzo: https://www.democraziacristiana.cloud/la-democrazia-cristiana/gli-statuti.html (ultimo accesso in data 1 maggio 2021). ↑
Intervista a «Successo», in Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo, fondo Democrazia Cristiana, Serie Segreteria Politica, 1959, scatola 84, fascicolo 8, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.009 ↑
Convegno dei direttori dei periodici democristiani, in «Il Popolo», 26 giugno 1959 ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.012 ↑
Discorso agli iscritti, a cura della D.C.-SPES, Roma, A.G.I., 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.3 ↑
Il discorso di Trieste, a cura della D.C.-SPES, Roma, A.G.I., 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.017 ↑
Relazione al VII Congresso nazionale, in 1954-1973. I Congressi della Democrazia Cristiana, Roma, Edizione Cinque Lune, 1976, pp. 111-207, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.027 ↑
A questo proposito Moro disse: «Io non posso perciò che inchinarmi alla norma statutaria e, per quanto sta in me, farla valere». Cfr. l’intervista in «Epoca», XI, 1960, n. 483, 3 gennaio, pp. 36-38, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.035 ↑
Cfr. ad es. F. Perfetti, L’Italia, Moro e il centro-sinistra: luci e ombre, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit. p. 14. ↑
G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma, Studium, 1992, p. 49 [ed. or. francese: Paris, Beauchesne Editeur, 1988] ↑
G. Galloni, 30 anni con Moro, Roma, Editori Riuniti, 2008, p. 91. ↑
M. Rumor, Memorie (1943-1970), a cura di E. Reato e F. Malgeri, Vicenza, Editrice Veneta, 2007, pp. 254-257 [Prima edizione N. Pozza, 1991]. ↑
Ivi, p. 244; cfr. anche p. 253. ↑
P. Pombeni, Moro e il partito, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, a cura di N. Antonetti, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 61-62. ↑
A. Fanfani, Diari, vol. III (1956-1959), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 515 (21 marzo 1959). Per l’introduzione di Vera Capperucci cfr. pp. 5-35. Della stessa autrice si veda anche Amintore Fanfani, in I presidenti e la presidenza del Consiglio dei ministri nell’Italia repubblicana. Storia, politica, istituzioni, a cura di S. Cassese, A. Melloni, A. Pajno, t. I, Roma-Bari, Laterza, 2022, pp. 139-170. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, in «Mondo contemporaneo», 2010, n. 2, p. 59. ↑
P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, p. 26. ↑
L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, p. 525 (14 marzo 1959). ↑
A titolo di esempio: C. Brezzi, Il cattolicesimo politico in Italia nel ‘900, Milano, Teti, 1979, p. 201; P. Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centro-sinistra 1953-1960, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 294; F. Malgeri, Gli anni di transizione, cit., p. 204. ↑
G. Galloni, 30 anni con Moro, cit., p. 91. ↑
C. Guerzoni, Aldo Moro, Palermo, Sellerio, 2008, p. 59. ↑
Il discorso è riportato dal quotidiano «Il Popolo», 26 settembre 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.019 ↑
F. Malgeri, Aldo Moro nelle storie della Democrazia cristiana, cit., pp. 71-72. ↑
M. Mastrogregori, Moro, Roma, Salerno Editrice, 2016, pp. 100-102. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. L’intelligenza applicata alla mediazione politica, Milano, Centro Ambrosiano, 1997. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 118 e 121; cfr. anche Id., Moro: intellettuale, credente, leader politico. I percorsi di ricerca, in Aldo Moro, la storia e le memorie pubbliche, a cura di M. Ridolfi, Roma, Viella, 2022, p. 40. Moro era stato presidente del gruppo democristiano alla Camera dal 1953 al 1955, quando lasciò l’incarico per assumere quello di ministro di Grazia e Giustizia nel governo Segni I. ↑
F. Malgeri, Aldo Moro nelle storie della Democrazia cristiana, cit., p. 77. ↑
P. Totaro, Il leader inatteso, in Il Segretario, lo Statista. Aldo Moro dal centro-sinistra alla solidarietà nazionale, a cura di A. Sansoni, P. Totaro e P. Varvaro, Napoli, Federico II University Press, 2019, pp. 29-51. ↑
In particolare sul periodo della segreteria cfr. su tutti M. Marchi, Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana. Una leadership politica in azione (1959-1964), in «Mondo contemporaneo», 2010, n. 2, pp. 105-136. ↑
Copia del discorso è conservata in Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo, fondo Democrazia Cristiana, Serie Segreteria Politica, 1959, scatola 84, fascicolo 8, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.006. Sull’influenza politica di Moro a Bari, specialmente in occasione delle elezioni amministrative del 7 giugno 1959, cfr. A Rossano, L’altro Moro, Milano, SugarCo, 1985, p. 118 e ss. ↑
Per un profilo politico complessivo di Silvio Milazzo si rinvia alla voce scritta nel 2010 da Giuseppe Sircana per il Dizionario Biografico degli Italiani a cura della Enciclopedia Treccani. Per un’analisi dettagliata del suo esperimento politico, basata sul carteggio tra Milazzo e Sturzo, si veda G. Portalone, Sturzo e l’operazione Milazzo, Firenze, Olschki, 2005. Cfr. anche R. Menighetti e F. Nicastro, L’eresia di Milazzo. Crisi del cattolicesimo politico in Sicilia e ruolo del Pci, 1958-1960, Caltanissetta, Sciascia, 2000; per una ricostruzione della vicenda dal punto di vista del Pci: M. Asta, Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento (1896-1977), Roma, Carocci, 2017, pp. 261-265. ↑
Le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale della Valle d’Aosta si svolsero il 17 maggio 1959; a seguito dei risultati fu formata una giunta basata sulla coalizione tra l’Union Valdôtaine (Uv), il Pci e il Psi. ↑
Responsabilità, in «Il Popolo», 21 aprile 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.004 ↑
Cfr. il discorso pronunciato a Trapani in «Il Popolo», 5 maggio 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.007 ↑
Il discorso alle donne D.C., a cura della D.C. – SPES, Roma, A.G.I., 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.034 ↑
A. Moro, Scritti e discorsi, vol. II: 1951-1963, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1982, pp. 555-573. ↑
Discorso agli iscritti, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.013 ↑
L’articolo fu pubblicato dal quotidiano «Il Popolo» il 19 agosto 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.016 ↑
Cfr. C. Guerzoni, Aldo Moro, cit. e, in anni recenti, F. Malgeri, Moro e il centrismo, in Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 58-59. ↑
Il discorso di Trieste, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.017. Su questo punto cfr. anche il discorso pronunciato al convegno dei dirigenti del centro-nord in «Il Popolo», 18 gennaio 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.037 ↑
P. Craveri, Aldo Moro e la storia della Repubblica, in «Mondo contemporaneo», 2010, n. 2, p. 10. ↑
Cfr. il discorso di commemorazione in «Il Popolo», 25 settembre 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.018 ↑
Così G. Galloni, 30 anni con Moro, cit., pp. 94-95. Gabriele De Rosa, profondo conoscitore della storia del mondo cattolico, aveva da poco pubblicato Storia del Partito popolare, Roma-Bari, Laterza, 1958. ↑
Su questo punto si rinvia a P. Pombeni, Individuo/persona nella Costituzione italiana. Il contributo del dossettismo, in «Parolechiave», 1996, n. 10-11, pp. 197-218. ↑
Il discorso di Milano, a cura della D.C.-SPES, Roma, A.G.I., 1959, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.022 ↑
I consiglieri nazionali eletti al congresso: 81 dorotei, 9 fanfaniani, 7 scelbiani, 3 basisti, 3 di Rinnovamento. Il nuovo Consiglio nazionale, nella seduta del 19 novembre, confermò Moro con 132 voti a favore, 7 schede bianche e una nulla. Sul passaggio nella Dc da una «gestione monocratica a una collegiale» cfr. P. Craveri, Moro, Aldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 77 (2012). ↑
P. Scoppola, Democrazia cristiana, cit., p. 266; P. Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in Storia d’Italia, vol. V, La Repubblica, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 209-210; cfr. anche Id., Moro e l’apertura a sinistra, cit., pp. 275-278. ↑
Relazione al VII Congresso nazionale, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.027 ↑
G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La Dc di Fanfani e di Moro (1954-1962), Firenze, Vallecchi, 1977, pp. 216-225. ↑
M. Marchi, Moro, la Chiesa e l’apertura a sinistra. La «politica ecclesiastica» di un leader «post-dossettiano», in «Ricerche di Storia Politica», 2006, n. 2, pp. 147-148. ↑
P. Pombeni, Moro e l’apertura a sinistra, cit., pp. 67-95. Nel travagliato percorso che avrebbe condotto alla svolta del centro-sinistra organico, il «primo atto» si era aperto con le dimissioni di Fanfani da presidente del Consiglio e da segretario della Dc; infine, il «terzo atto» iniziò con il congresso di Napoli del gennaio 1962. ↑
A titolo di esempio: L. Radi, Tambroni trent’anni dopo. Il luglio 1960 e la nascita del centro-sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990; P. Cooke, Luglio 1960. Tambroni e la repressione fallita, Milano, Teti, 2000; Tambroni e la crisi del 1960, a cura di G. Formigoni e A. Guiso, in «Ricerche di Storia Politica», 2001, n. 3, pp. 361-386; M. Franzinelli e A. Giacone, 1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile. Il racconto di una pagina oscura della Repubblica, Milano, Mondadori, 2020. ↑
Michele Marchi ha definito l’articolo Punti fermi, pubblicato il 17 maggio 1960 sull’«Osservatore romano», uno tra gli «attacchi più clamorosi» provenienti dagli ambienti ecclesiastici alla proposta di apertura a sinistra; M. Marchi, La Dc, la Chiesa e il centro-sinistra: Fanfani e l’«asse vaticano», 1959-1962, in «Mondo contemporaneo», 2008, n. 2, p. 59. ↑
A. Giovagnoli, Moro democristiano: dalla Domus Mariae alla solidarietà nazionale, cit., p. 74. ↑
Tra gli scritti di Agostino Giovagnoli sull’argomento: Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 96-99; Aldo Moro: interpretazioni della Resistenza e azione politica, in “La nostra lunga marcia verso la democrazia” (Aldo Moro 1975). Attualità della resistenza e futuro della democrazia in Italia, a cura di A. Ambrogetti e M.L. Coen Cagli, Napoli, Esi, 1997, pp. 123-150; Aldo Moro: un democristiano atipico, cit.; per un recente inquadramento generale: Introduzione a Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. IV, L’Ultima fase (1968-1978), t. 2, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973-maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021, p. 3 e ss. ↑
Cfr. il discorso di commemorazione di Sturzo DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.018; Relazione al VII Congresso nazionale, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.027 ↑
A. Giovagnoli, L’ispirazione cristiana della politica in Aldo Moro, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, cit., p. 178. ↑
Il discorso fu riportato dal quotidiano «Il Popolo», 12 gennaio 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.036 ↑
Il discorso di Messina, a cura della D.C.-SPES, Roma, A.G.I., 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.038 ↑
Cfr. relazione e replica al consiglio in Consiglio Nazionale D.C. del 22-27 maggio 1960, Roma, Cinque Lune, 1960, pp. 11-64 e pp. 208-221, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.040 + DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.041 ↑
M. Marchi, La Dc, la Chiesa e il centro-sinistra, cit., p. 59. ↑
M. Marchi, Moro, la Chiesa e l’apertura a sinistra, cit., pp. 147-179. ↑
A. D’Angelo, Moro, i vescovi e l’apertura a sinistra, Roma, Studium, 2005. ↑
Sulla fiducia al III Governo Fanfani, in Aldo Moro, Discorsi parlamentari (1947-1963), t. I, Roma, Camera dei deputati, 1996, Seduta del 5 agosto 1960, pp. 676-693, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.043 ↑
E. Scalfari, Il governo geometrico, in «L’Espresso», 24 luglio 1960, cit. in R. Moro, Un bilancio tra storiografia e politica, in Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), a cura di A. D’Angelo e M. Toscano, Roma, Studium, 2018, p. 18. ↑
F. Di Donato, Sul presunto linguaggio criptico nell’elaborazione politico-istituzionale di Aldo Moro, in Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 245-269. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 128. ↑
A. Fanfani, Diari, vol. IV (1960-1963), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 121-125 (19 luglio -1 agosto 1960). ↑
M. Marchi, Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana, cit., p. 119. ↑
A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, cit., p. 97. ↑
G.M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi e alle trame eversive (1969-1978), in «Mondo contemporaneo», 2010, n. 2, p. 176. Cfr. anche Id., La Democrazia cristiana, i terrorismi e la magistratura, in Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa. Storici e magistrati a confronto, a cura di C. Fumian e A. Ventrone, Padova University Press, Padova, 2018, pp. 311-329. ↑
Cfr. la relazione in Consiglio Nazionale D.C. del 19 agosto 1960, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1960, pp. 11-44, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.045 ↑
A. Giovagnoli, Religione e politica in Aldo Moro, in Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, a cura di C. Brezzi, C.F. Casula, A. Giovagnoli e A. Riccardi, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 482-484. ↑
Cfr. la commemorazione di Adone Zoli a Firenze, in Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo, fondo Democrazia Cristiana, Serie Segreteria Politica, 1961, scatola 91, fascicolo 18, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.069 ↑
Cfr. relazione e replica al Consiglio Nazionale D.C. del 22-27 maggio 1960, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.040 ↑
Cfr. l’intervento del 20-21 settembre 1960, in A. Moro, Scritti e discorsi, volume II: 1951-1963, a cura di Giuseppe Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1982, pp. 835-855, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.048 ↑
Cfr. il discorso pronunciato a dirigenti e amministratori della Dc di Latina, in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 2, fascicolo 11, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.046 ↑
Cfr. il discorso pronunciato al Teatro Nuovo di Milano pubblicato dal quotidiano «Il Popolo», 30 ottobre 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.059 ↑
La democrazia non è ancora un bene sicuro, in «Epoca», XI, 1960, n. 524, 16 ottobre, pp. 24-25, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.035 ↑
Un articolo di Moro sulle prossime elezioni, in «Oggi», XVI, 1960, n. 38, 22 settembre, pp. 3-4, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.065 ↑
Andarono al voto quasi tutti i comuni capoluogo di provincia. Oltre che per il rinnovo dei consigli comunali e provinciali, si votò per le regionali in Trentino-Alto Adige. ↑
Cfr. il discorso pronunciato a Bari per la chiusura della campagna elettorale pubblicato dal quotidiano «Il Popolo», 5 novembre 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.062 ↑
G. Guazzaloca, Una e divisibile. La Rai e i partiti negli anni del monopolio pubblico (1954-1975), Firenze, Le Monnier-Mondadori, 2011. ↑
R. Brizzi, Televisione e politica in Europa nella svolta degli anni Sessanta, in «Ricerche di Storia Politica», 2014, n. 2, p. 203. ↑
R. Brizzi, Aldo Moro, la televisione e l’apertura a sinistra, in «Mondo contemporaneo», 2010, n. 2, pp. 137-166. ↑
L’episodio era annoverato tra i più celebri all’interno della mostra «Cari elettori, care elettrici. Le immagini della Prima Repubblica nelle Tribune della Rai (1960-1994)», allestita nel 2015 presso Palazzo Montecitorio a Roma. Il catalogo della mostra è stato curato da Edoardo Novelli e Stefano Nespolesi per la Rai Eri (2015). Cfr. l’edizione stenografica della puntata pubblicata dal quotidiano «Il Popolo» il 13 ottobre 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.053 ↑
Cfr. l’edizione stenografica in «Il Popolo», 4 novembre 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.061 ↑
Cfr. la dichiarazione rilasciata da Moro, in «Il Popolo», 9 novembre 1960, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.064 ↑
Cfr. copia dell’articolo in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 2, fascicolo 17, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.065 ↑
P. Pombeni, L’apertura. L’Italia e il centrosinistra (1953-1963), Bologna, Il Mulino, 2022, p. 145. ↑
Cfr. la relazione in Consiglio Nazionale DC del 20-22 febbraio 1961, Roma, Cinque Lune, 1961, pp. 13-74, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.067 ↑
Che cosa chiede la DC a Pietro Nenni, in «Oggi», XVII, 1961, n. 10, 9 marzo, pp. 3-4, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.070 ↑
Cfr. il testo integrale del discorso pronunciato al convegno sul comune rurale, in «Il Popolo», 19 maggio 1961, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.072 ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 147. ↑
M. Marchi, Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana, cit. ↑
Discorso conclusivo dell’on. Moro al convegno dei dirigenti del partito, in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, Busta 1, fascicolo 3 (dattiloscritto s.d., ma giugno 1961), ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.074 ↑
Sulla mozione di sfiducia Nenni al governo Fanfani, in Aldo Moro, Discorsi parlamentari (1947-1963), t. I, Roma, Camera dei deputati, 1996, Seduta del 12 luglio 1961, pp. 694-716, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.075 ↑
«Il Popolo» segna esplicitamente l’avvio del dibattito precongressuale a partire da quella seduta, cfr. Unanime approvazione del Consiglio nazionale alla relazione Moro e all’opera del Governo, in «Il Popolo», 22 luglio 1961. ↑
Relazione al Consiglio nazionale della Dc del 20-21 luglio 1961, in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 3, fascicolo 24, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.076. Per approfondimenti sul tema si rinvia alla sezione «Europa» in Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 489-662. ↑
Cfr. l’edizione stenografica della conferenza stampa a «Tribuna politica» del 22 novembre 1961, in La documentazione italiana, 1961, n. 35, 4 dicembre, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.085 ↑
P. Scoppola, Aldo Moro nella tradizione democratico cristiana, in Aldo Moro. Il cristiano, l’intellettuale, il politico. Giardini Naxos 1979-1986, a cura dell’Associazione culturale «Aldo Moro», Roma, Ave, 1987, p. 34. Scoppola tenne la relazione pubblicata nel volume (pp. 27-37) il 22 marzo 1980. ↑
Cfr. l’edizione stenografica della conferenza stampa a «Tribuna politica» del 22 novembre 1961, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.085 ↑
Cfr. l’edizione stenografica della puntata pubblicata dal quotidiano «Il Popolo» il 13 ottobre 1960, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.053 ↑
R. Brizzi, Televisione e politica in Europa nella svolta degli anni Sessanta, cit., p. 203. ↑
A. Giovagnoli, Religione e politica in Aldo Moro, cit., pp. 486-488. ↑
Nei suoi diari, Fanfani scrive: «Moro parla per quasi sette ore in due tempi ed imposta bene i problemi politici, mentre esagera nei dettagli programmatici»; A. Fanfani, Diari, vol. IV (1960-1963), cit., p. 393 (27 gennaio 1962). ↑
A. Airoldi, Il sì cauto e condizionato dei “dorotei” alla prospettiva d’un incontro coi socialisti, in «Corriere della Sera», 30 gennaio 1962. ↑
La relazione al congresso di Firenze si compone di 206mila caratteri, quella a Napoli di 272mila. ↑
Cfr. relazione e replica di Moro al Congresso di Napoli in 1954-1973. I Congressi della Democrazia Cristiana, Roma, Edizione Cinque Lune, 1976, pp. 211-332, e in «Il Popolo», 1 febbraio 1962, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.090 + DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.091 ↑
P. Pombeni, Moro e l’apertura a sinistra, cit., p. 89; Id., Moro e il partito, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, cit., p. 66. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 152. ↑
Oltre agli articoli scritti nel gennaio 1962 per «Oggi», «Epoca» e «Orizzonti» nel presente tomo, cfr. l’intervista al settimanale «L’Europeo», in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 3, fascicolo 30, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.086 ↑
Sulla mozione di sfiducia Nenni al governo Fanfani, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.075 ↑
Cfr. la replica di Moro in Consiglio Nazionale DC del 20-22 febbraio 1961, cit., pp. 201-230, e la replica alla seduta del 3-5 luglio 1962, in «Il Popolo», 6 luglio 1962, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.068 + DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.113 ↑
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 356. ↑
G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., in particolare pp. 3-8. ↑
L. Elia, Il pensiero politico di Aldo Moro, in Aldo Moro. Il cristiano, l’intellettuale, il politico, cit., p. 44. Elia tenne la relazione pubblicata nel volume (pp. 41-51) l’11 aprile 1981. ↑
M. Marchi, Amintore Fanfani e Aldo Moro, in Il cattolicesimo politico nella storia dell’Italia repubblicana: le interpretazioni degli storici, a cura di «Mondo contemporaneo», 2018, nn. 2-3, pp. 131-132. ↑
G. Baget Bozzo, G. Tassani, Aldo Moro. Il politico nella crisi (1962-1973), Firenze, Sansoni, 1983; sulla «pastoralità» di Moro cfr. in particolare pp. 6-10. ↑
P. Scoppola, Democrazia cristiana, cit., pp. 267-268. ↑
P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 336. ↑
M. Mastrogregori, Moro, cit., p. 112. L’autore evidenzia tuttavia che un bilancio della segreteria di Moro deve tener conto anche dei risultati negativi, a partire dalla diminuzione di iscritti e voti in quegli anni, ibidem. ↑
T. Baris, Andreotti, una biografia politica. Dall’associazionismo cattolico al potere democristiano (1919-1969), Bologna, Il Mulino, 2022, pp. 221-224. ↑
G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 363. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., pp. 154-155. ↑
P. Pombeni, Moro e l’apertura a sinistra, cit., p. 89. ↑
Replica di Moro al Congresso di Napoli in «Il Popolo», 1 febbraio 1962, cit., DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.091 ↑
Sulla fiducia al IV Governo Fanfani, in Aldo Moro, Discorsi parlamentari (1947-1963), t. I, Roma, Camera dei deputati, 1996, Seduta del 9 marzo 1962, pp. 723-750, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.095 ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., pp. 156-157. ↑
Oltre alla relazione al Consiglio nazionale del 3-5 luglio 1962, si veda ad es. la dichiarazione alla Rai del 18 giugno 1962 in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 4, fascicolo 46, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.109 ↑
Cfr. ad es. il discorso al convegno nazionale dei dirigenti provinciali della Dc (24-25 luglio 1962), in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 4, fascicolo 49, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.115 ↑
Cfr. ad es. il discorso al congresso nazionale dell’Associazione italiana maestri cattolici (21-22 settembre 1962), in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 4, fascicolo 49, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.117 ↑
Sulla mozione di sfiducia Togliatti al governo Fanfani, in Aldo Moro, Discorsi parlamentari (1947-1963), t. I, Roma, Camera dei deputati, 1996, Seduta del 25 gennaio 1963, pp. 751-766, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.130 ↑
P. Pombeni, L’apertura. L’Italia e il centrosinistra (1953-1963), cit., pp. 210-217. ↑
Cfr. ad es. l’edizione stenografica dell’intervento di Moro a «Tribuna elettorale» del 21 febbraio 1963, in La documentazione italiana, III, 1963, n. 31, 12 marzo, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.135 ↑
Copia dell’articolo in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 5, fascicolo 73, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.141 ↑
Per un approfondimento si rinvia a G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 303-309. ↑
Testo integrale del discorso in L’impegno della D.C. per la ripresa democratica, a cura della D.C.-SPES, Roma, A.G.I., 1963, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.154 ↑
Relazione e replica in Archivio centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Serie Scritti e Discorsi, busta 6, fascicolo 81, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.159 ↑
Sia Guerzoni che Rumor attribuiscono a quell’evento un fattore di accelerazione per la chiusura del lungo negoziato: C. Guerzoni, Aldo Moro, cit., pp. 89-90; M. Rumor, Memorie (1943-1970), cit., pp. 265-266. ↑
Cfr. il testo del discorso, pubblicato il giorno successivo dal quotidiano «Il Popolo», ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di L. Nuti e P. Pombeni, t. I, Segretario della DC (1959-1963), edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2024, DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.1.163 ↑
A. Moro, Scritti e discorsi, vol. II: 1951-1963, cit. ↑
Ivi, pp. 719-721. ↑
A. Moro, Discorsi elettorali. Elezioni amministrative 10 giugno 1962, Documenti 53, Roma, Cinque Lune, 1962, p. 5. ↑
G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, cit., pp. 173-174. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 130. ↑
M. Marchi, Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana, cit., pp. 121-123. ↑
G.L. Mosse, L’opera di Aldo Moro nella crisi della democrazia parlamentare in Occidente, intervista a cura di A. Alfonsi, in A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, a cura della Fondazione Aldo Moro, Milano, Garzanti, 1979, p. IX e ss. Ora in G.L. Mosse, Intervista su Aldo Moro, a cura di A. Alfonsi, prefazione di R. Moro, nota critica di D. Aramini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015. ↑
Su tutti cfr. G.M. Ceci, Moro e il PCI. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Roma, Carocci, 2013. ↑
Premessa, in Il Segretario, lo Statista. Aldo Moro dal centro-sinistra alla solidarietà nazionale, cit., p. 7. Il volume raccoglie gli atti del convegno riportato nel testo e della giornata di studi A 40 anni dall’assassinio di Aldo Moro. Inchieste giornalistiche e ricostruzioni storiche organizzato nel 2018 dal Dipartimento di Studi umanistici d’intesa con l’Ordine dei giornalisti della Campania. ↑
Di poco precedente: P. Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, cit., pp. 208-245. ↑
Oltre ai numerosi saggi citati in questa nota critica, si rinvia allo studio monografico appena pubblicato: P. Pombeni, L’apertura. L’Italia e il centrosinistra (1953-1963), cit. ↑
F. Bello, Aldo Moro, il centrosinistra e le relazioni Italia-Usa (1959-64), in «Nuova storia contemporanea», 2011, n. 5, pp. 99-114; Id., Aldo Moro e la formazione del centro-sinistra durante l’amministrazione Kennedy, in Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 423-442. ↑
A. D’Angelo, Moro, i vescovi e l’apertura a sinistra, cit. ↑
M. Marchi, Moro, la Chiesa e l’apertura a sinistra, cit.; Id., La Dc, la Chiesa e il centro-sinistra: Fanfani e l’«asse vaticano», 1959-1962, cit.; Id., Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana, cit. ↑
S. Mura, Aldo Moro, Antonio Segni e il centro-sinistra, in «Studi Storici», 2013, n. 3, pp. 699-742. ↑
P. Panzarino, Il centro-sinistra di Aldo Moro (1958-1968), Venezia, Marsilio, 2014. ↑
P. Totaro, L’azione politica di Aldo Moro per l’autonomia e l’unità della Dc nella crisi del 1960, in «Studi Storici», 2005, n. 2, pp. 437-513; Id., Il leader inatteso, in Il Segretario, lo Statista. Aldo Moro dal centro-sinistra alla solidarietà nazionale, cit., pp. 29-51. ↑
Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), cit. ↑
Aldo Moro nella storia della Repubblica, cit. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit. ↑
M. Mastrogregori, Moro, cit. ↑
G. Formigoni, Il rinnovamento della storiografia su Aldo Moro dopo il 2008, in Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), cit., pp. 27-28. Si rinvia a questo saggio per una ricostruzione puntuale delle iniziative che dal 2008 hanno inaugurato una nuova stagione di studi e delle corrispondenti pubblicazioni, ivi, pp. 27-38. ↑
R. Moro, Introduzione, in Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 17-18. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, in «Mondo contemporaneo», cit.; Id., Un bilancio tra storiografia e politica, in Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), cit., pp. 15-26. ↑
Cfr. almeno le interpretazioni storiografiche più note: P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 346-373; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 307-329; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996, pp. 201-203. ↑
P. Scoppola, Democrazia cristiana, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, cit., pp. 268-270; Id., La repubblica dei partiti, cit., pp. 344-353. ↑
Tra gli altri cfr. specialmente: Aldo Moro nella dimensione internazionale. Dalla memoria alla storia, a cura di A. Alfonsi, Milano, FrancoAngeli, 2013; G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, cit., pp. 295-303; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra (1958-1965), Bologna, Il Mulino, 1998; Id., Storia dell’Italia contemporanea 1943-2019, Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 87-97; R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica, Roma, Carocci, 2006, pp. 143-152; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Roma, Laterza, 1999; Una vita, un Paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 409-734; G. Vacca, L’Italia contesa. Comunisti e democristiani nel lungo dopoguerra (1943-1978), Venezia, Marsilio, 2018, pp. 224-230. Precedenti, ma impostati sul nesso nazionale-internazionale, i due saggi di Franco De Felice per il secondo e terzo volume dell’edizione einaudiana del 1995-1996 della Storia dell’Italia repubblicana curata da F. Barbagallo, ora in F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo. Nazione e crisi, a cura di L. Masella, Torino, Einaudi, 2003. ↑
In particolare: A. Bixio, L’idealismo realista di Aldo Moro, e G. Melis, Moro e la prassi di governo, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, cit., rispettivamente a pp. 33-40 e 153-174. ↑
M. Marchi, Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana, cit. ↑