L’avvento di Moro alla segreteria della Democrazia Cristiana non fu affatto un colpo di mano, ma non per questo costituisce un episodio chiaramente interpretabile. Nel Consiglio nazionale della DC del giugno 1958, dunque poco dopo il successo elettorale del partito nelle elezioni del maggio, il riconfermato parlamentare del collegio elettorale di Bari–Foggia, dove era sta il primo degli eletti con 154.411 preferenze, aveva sostenuto con forza la linea di Fanfani per un governo di “centro-sinistra”, ovvero fra DC e PSDI. Questo non lo connotava certo come un critico del politico aretino che stava incontrando opposizioni nel partito, un po’ per il suo carattere piuttosto egocentrico, un po’ per l’avversione a riconoscerlo come leader indiscusso e indiscutibile che portava la DC verso nuovi equilibri.
Forse anche per questo in quel torno di tempo Gronchi ed altri esponenti delle sinistre interne suggerirono a Fanfani di lasciare la segreteria del partito a Moro, piuttosto che al vicesegretario Rumor che aveva mostrato qualche tentazione per ritorni al vecchio centrismo. Il presidente del Consiglio (anche ministro degli Esteri) non aveva intenzione di raccogliere il suggerimento e rinviava la sua sostituzione alla segreteria al futuro Congresso del partito. Quali fossero le reazioni di Moro a queste velate profferte non si può stabilire con certezza. Secondo il diario di Fanfani, in data 3 giugno “a questi [Moro] dico dei disegni che si fanno sul suo nome per la segreteria politica, ma, aggiungo, che non intendo lasciarla prima del Congresso, anche perché la manovra è scopertamente contro Rumor. Moro dice che a ciò non si presterebbe”[1]. A riprova di questa posizione viene interpretata la decisione del politico barese di mantenere il dicastero della Pubblica Istruzione nel governo.
Contro questa ricostruzione starebbe la memoria di Rumor. “Moro non aveva fatto mistero del suo desiderio di assumere la segreteria. L’aspirazione di Moro era trapelata sulla stampa e Fanfani l’aveva duramente stroncata”[2]. Di fatto la posizione del nostro personaggio era piuttosto difficile da catalogare. Per degli osservatori come i funzionari dell’ambasciata statunitense a Roma egli “non è una personalità cospicua” [3], e, come vedremo, anche all’atto della sua assunzione alla segreteria non mancarono perplessità sulla sua figura.
In verità Moro aveva una sua storia niente affatto modesta. Anche lasciando da parte il ruolo che aveva rivestito in assemblea Costituente, di cui temiamo che all’epoca ci fosse scarsa memoria e poca consapevolezza, era stato capogruppo alla Camera, poi ministro, sempre presente negli organismi dirigenti del partito, ma da quando era diventato ministro nel governo Segni “aveva iniziato un lungo silenzio che dava i suoi frutti”. Questo almeno secondo il giudizio di Baget-Bozzo che è anch’egli un testimone diretto della nostra storia[4].
Per comprendere pienamente la dinamica che porta all’elezione di Moro alla segreteria, bisogna però inquadrarla nei mesi che precedettero il Consiglio Nazionale della Domus Mariae. Da giugno in avanti erano ripresi gli attacchi delle gerarchie cattoliche contro ogni ipotesi di aperture ai socialisti in ambito governativo[5]. Era sembrato che quel fronte potesse incrinarsi con la morte in ottobre di Pio XII e l’elezione a nuovo pontefice del patriarca di Venezia Angelo Roncalli, che molti dipingevano come non ostile ad intese fra cattolici e socialisti. L’allarme negli ambienti del conservatorismo dc non mancavano, come testimonia il diario di Luciano Dal Falco che sarà uno dei partecipanti alla rivolta contro Fanfani, che però irrideva alle speranze di La Pira e altri sottolineando come Giovanni XXIII avesse scelto come segretario di stato il cardinale Tardini, certo ostile all’apertura a sinistra[6], ma sul quale è da registrare un feroce giudizio di Fanfani al momento della sua nomina: “Lo conosco da ragazzo e non ho mai creduto all’eccezionale qualità diplomatica di questo sempliciotto che vuole apparire furbo. La confusione in Vaticano continuerà per mancanza di qualcuno che comandi”[7].
Di fatto gli attacchi del fronte conservatore vaticano e di vescovi italiani (Siri aveva la loro guida) si erano intensificati fra gli ultimi mesi del 1958 ed i primi del 1959, ciò che favoriva l’opposizione a Fanfani e alla sinistra all’interno della DC. In questo quadro il 17 gennaio 1959 si aveva una riunione di Fanfani alla Camilluccia con Rumor , Piccioni, Gui, Scelba, Segni, Pella, i quali propendevano per le sue dimissioni dalla segreteria per rafforzare il governo[8]. La situazione politica non era brillante: ci si era dovuti misurare con lo scandalo di un improvvisato banchiere, tal Giuffré, che aveva sperperato i risparmi di privati ed enti ecclesiastici in operazioni speculative senza copertura; in Sicilia era scoppiato il “caso Milazzo” dal nome di un esponente dc che guidava una giunta regionale contro il volere del suo partito e con una eterogenea maggioranza che includeva anche il PCI; dissidi interni ai socialdemocratici avevano portato alle dimissioni del loro ministro Vigorelli.
Fanfani il 26 gennaio faceva dimettere il governo e il 31 lasciava anche la segreteria del partito. Intendeva chiaramente forzare un chiarimento politico che snidasse i suoi avversari interni ed esterni. Nel partito la situazione venne congelata affidandone la reggenza ad una specie di quadrumvirato con Adone Zoli (presidente del partito), Luigi Gui, Attilio Piccioni e Mariano Rumor. Quanto al governo, dopo qualche manovra di corto respiro, si giunse all’incarico a Segni che il 15 febbraio presentava a Gronchi la lista dei ministri, impresa tutt’altro che semplice se diamo credito a quanto scrive Nenni: “due volte Segni è andato al Quirinale con la lista dei ministri. Due volte è uscito senza l’assenso del presidente”[9].
Che si stesse lavorando per sostituirlo alla segreteria del partito era piuttosto chiaro a Fanfani, che disse bruscamente a Segni “che ha lasciato fuori dal governo Moro perché mi sostituisca alla segreteria”[10]. Per tutto febbraio le manovre all’interno della corrente di Iniziativa democratica furono intense. La componente che si manteneva fedele a Fanfani lavorava perché il Consiglio Nazionale lo riconfermasse alla segreteria, ma cresceva la determinazione della maggioranza a rimuoverlo, anche a fronte della chiusura dell’ormai ex presidente del Consiglio per qualsiasi trattativa. Già il 20 febbraio Carlo Russo, fedelissimo di Segni, aveva avvicinato Dal Falco prospettandogli una direzione del partito con Moro segretario e Salizzoni e Dal Falco vice[11].
Iniziativa democratica in realtà era spaccata in tre: gli amici di Fanfani che volevano la prova di forza respingendone le dimissioni, l’ampio gruppo di quelli che non arretravano di fronte ad una rottura anche traumatica, e un piccolo gruppo di sostenitori di Moro che lo volevano segretario ma puntando decisamente ad evitare rotture. Da parte sua il politico barese non si esponeva, almeno non in pubblico.
L’11 marzo Malfatti e Forlani informavano Fanfani di una riunione di esponenti di “Iniziativa democratica” che volevano porgli condizioni per la sua riconferma. La sostanza era che accettasse di riconoscere che rappresentava solo una corrente, che era per il centrismo chiuso a destra e a sinistra e che appoggiava il governo Segni. Il 13 marzo Fanfani accettò un incontro a cena con Zaccagnini, Scaglia, Salizzoni, i quali tentarono di convincerlo ad una soluzione negoziata: indicasse lui Moro come successore. Ma l’invito venne respinto come scorretto, precisando che non avrebbe partecipato al Consiglio Nazionale[12].
Prima che si aprisse questa assise nel convento delle suore di Santa Dorotea sul Gianicolo si era riunito il blocco della vecchia maggioranza vincitrice del congresso di Napoli per decidere l’atteggiamento da tenere sulle dimissioni del segretario. La netta maggioranza dei convenuti (29 secondo alcune versioni, 32 secondo altre) si sarebbe espressa per accettarle, con solo 17 a favore del respingimento e 2 astenuti. Dal luogo della riunione al gruppo venne affibbiato dal giornalista parlamentare Vittorio Orefice l’etichetta di “dorotei”, destinata a divenire sinonimo di un peculiare modo di essere democristiani: conservatori, ma felpati e manovrieri, senza disdegnare di cavalcare se opportuno qualche slogan moderatamente progressista.
Il 14 marzo con questa decisione alle spalle iniziava i suoi lavori il Consiglio Nazionale con una relazione del presidente Zoli che attaccava la degenerazione correntizia nel partito: “non solo si sono costituiti gruppi e tendenze, ma esse hanno inteso assumere vera e propria dignità, assumendo dei nomi distintivi, avendo organi propri, avendo evidentemente fonti proprie di entrata”. Si trattò di lavori che si conclusero solo nella serata del 16: si affrontò prima la valutazione della situazione politica generale e della risposta che si era inteso dare a questa col governo Segni, per passare poi alla questione delle dimissioni del segretario[13].
Moro non parlò durante il Consiglio Nazionale. A sera del 16 marzo il Consiglio accettava le dimissioni del segretario: 54 sì, 17 no, 9 astenuti, 11 assenti. Questo il commento di Fanfani: “Segni e il mio discepolo Romani non hanno partecipato alle votazioni, con altri! Rumor, Gui, Moro, Piccioni, si sono astenuti con altri. Taviani, Magrì, Colombo, Dal Falco, Conci, Gotelli, Gullotti han votato contro: la ribellione dei beneficati”[14] .
Il giorno successivo veniva eletta la nuova direzione Dc: Moro, Ceschi, Salizzoni, Mattarella, Barbi, Malfatti, Morlino, Forlani, Cervone, Manzini, Dal Falco, Santoro Passarelli, Granelli, più come componenti di diritto Conci, De Stefanis, Branzi, Piccioni, Gui e Bernabei. Moro risultò eletto segretario con 64 voti favorevoli, 21 astenuti, 26 schede bianche (un voto andò a Gui). Era anche una piccola rivoluzione generazionale, perché Moro aveva 42 anni, ma nessuno inserì questo evento nel quadro di quella svolta giovanilista che l’anno successivo avrebbe attirato l’attenzione dei media internazionale con la vittoria di Kennedy alle presidenziali americane e poi a seguire con l’emergere di leadership nuove come quelle di Willy Brandt in Germania e di Harold Wilson in Gran Bretagna. Il fatto è che in Moro non si notava tanto la giovinezza. Come ebbe a scrivere in ottobre Nenni nei suoi diari commentando il congresso DC a Firenze: “L’uomo nuovo della situazione è l’onorevole Moro, un giovane pallido ed esangue che ha la saggezza e lo scetticismo degli anziani”[15].
Certamente il politico barese non era stato scelto per dare una guida forte al partito. Come scrisse retrospettivamente Baget-Bozzo, “Segni è il leader governativo, il ‘padre nobile’ della corrente dorotea: un leader di partito è di troppo. Moro è un isolato, non ha un gruppo nella corrente. Egli è scelto perché si vuole il presidente, tranquillo e remissivo, di un solido governo oligarchico; è preferito perché ritenuto il meno ‘capo’ tra i notabili dorotei”[16].
Del resto era più o meno simile il giudizio che nell’immediato dava uno dei membri influenti della rivolta dorotea, Luciano Dal Falco. “La scelta della sua persona è anche frutto di un certo tacito compromesso avvenuto all’interno del gruppo di Iniziativa democratica, dopo che quest’ultimo era stato privato della guida di Fanfani a seguito dell’autodecapitazione. Fra Rumor e Gui, fra Colombo e Taviani, Moro è la risultante media. È il ‘terreno neutro’ sul quale ciascuno dei quattro si sente relativamente tranquillo. E’ una soluzione che non pregiudica eccessivamente il futuro. Moro è stato il meno esposto fra tutti, negli ultimi tempi, nella polemica aperta e occulta contro Fanfani e la sua politica di centro sinistra”. Il giudizio non era solo ingeneroso, era politicamente sbagliato, ma Dal Falco si compiaceva di riportare un giudizio su Moro espresso da Rumor: “E’ un levantino intelligente, ma pigro; se Moro dovesse diventare segretario politico, la DC cadrebbe in un letargo che le sarebbe fatale"[17].
Davvero i dorotei non immaginavano cosa avrebbe significato la nuova segreteria politica, che non avrebbe soddisfatto le aspettative della loro ala più conservatrice e che avrebbe costretto quella più moderata a divenire parte di quella iniziativa programmatica che avevano voluto rendere impossibile a Fanfani.
Nel suo discorso in risposta alla designazione a segretario Moro pronunciava parole che sembravano da un lato confermare la sua immagine di persona priva della “grinta” di un leader politico, ma che dall’altro esplicitavano la visione del suo compito: ragionare nei termini del primato del partito, che andava preservato da pulsioni distruttive e lasciare il versante del governo ad una figura come quella di Fanfani.
Non accetto con gioia, non posso accettare con gioia questa designazione. Io ho sempre tremato di fronte a qualsiasi compito di responsabilità che mi sia stato affidato. Credo di non averne mai cercati; credo però di non averli mai rifiutati quando le circostanze potevano indicarmene il dovere. E se ho tremato sempre, credo che ho da tremare particolarmente in questo momento, anche se non ho creduto di potermi sottrarre ancora una volta. Perché il partito è una cosa così importante, così complessa, così vitale, un organismo così delicato e difficile, che sembra che le mie forze siano impari al compito. Quindi ho molta preoccupazione, di fronte a questa grande responsabilità. Cercherò di fare del mio meglio, con senso profondo di dedizione, e con spirito di cordialità e di fraternità nei confronti di tutti.
Lasciate che in questo momento, interprete sicuro del pensiero di tutti voi, rivolga innanzitutto il mio pensiero all’amico Fanfani, che io gli dica, in questo momento doloroso per tutti, la mia riconoscenza per la sua azione esemplare e generosa in questi anni. Che io gli dica a nome di tutti la certezza che egli è ancora, sarà sempre con noi in quella posizione assolutamente eminente che gli spetta per la sua intelligenza, per la sua altissima preparazione, per la sua opera generosa e feconda a favore della Democrazia Cristiana[18].
Moro aveva chiara la funzione del partito cattolico, in un’ottica che in un certo senso univa l’impostazione di De Gasperi e quella di Dossetti
Sento l’insostituibile funzione del partito come filtro delle esigenze complesse della vita politica, economica e sociale del Paese; la sento come strumento di selezione, di scelta in relazione alle varie esigenze della vita nazionale; la vedo come manifestazione efficace di opinioni, come strumento di educazione e di guida del popolo italiano. Cercherò di essere, con la vostra collaborazione, colui che riafferma la funzione del partito nel retto ordine costituzionale. Quindi il partito al suo posto nell’ambito del complesso meccanismo della vita sociale; ma questo posto tenuto con estrema dignità e con la necessaria efficacia per l’assolvimento dei nostri compiti nella vita del Paese.
Spero che questo senso di fraternità sostanziale ci sorreggerà nel comune lavoro. Io rendo omaggio al Consiglio nazionale del partito e al suo illustre presidente sen. Zoli assente in questo momento ma sempre guida sicura dell’organo massimo e permanente della D.C. Attraverso il Consiglio nazionale desidero inviare un saluto cordiale ed affettuoso a tutti i dirigenti e agli iscritti del Partito.
Il lavoro sul partito non si preannunciava certo semplice. La segreteria Fanfani l’aveva strutturato come un complesso corpo dotato di una sua autonomia rispetto alle originarie interconnessioni con le organizzazioni del laicato cattolico, ma lo aveva di fatto anche connesso con lo sviluppo delle correnti e quindi fatto divenire un loro terreno di insediamento (e questo Moro lo aveva anche sperimentato nella sua Puglia[19]). Tenendo anche conto del fatto che di lì a non molti mesi il partito sarebbe andato a congresso, il nuovo segretario ebbe un certo riguardo nel non toccare la presenza dei fanfaniani negli organismi dirigenti, il che non gli valse certo il plauso del doroteo Dal Falco, che così commentò: “La suprema saggezza diventa talvolta dabbenaggine”[20].
Il segretario voleva cercare di portare il partito al congresso, previsto per ottobre, evitando il perpetuarsi di uno scontro tra anime contrapposte e pertanto lavorava per una ricucitura della grande corrente di Iniziativa democratica che considerava un perno importante per la presenza della DC. Questo obiettivo si inseriva nella prospettiva che Moro ripeterà di continuo nei suoi interventi fino al congresso di Firenze secondo la quale egli, come disse in un discorso a Bari il 5 aprile, si impegnava in “un difficile lavoro che tende ad un solo obiettivo: conservare forte e unita la DC” promuovendo una “ripresa di contatto con l’elettorato”. A tale proposito dava una sua interpretazione del “centrismo”, interpretazione che certo non coincideva con la visione dei dorotei che aveva portato al governo Segni: “altro non è se non questa equilibrata visione della realtà sociale che permette di comporre nel Partito e ad opera del Partito la vasta gamma di interessi e posizioni della vita sociale”.
Moro iniziò un lavoro pedagogico sul partito secondo un costume che avrebbe mantenuto per tutta la durata della sua segreteria. Non si andava però nella direzione sperata da gran parte dei dorotei, perché, pur con prudenza, difendeva l’esperienza del governo Fanfani e una certa apertura a sinistra da parte della DC. Come disse nel suo discorso ai segretari provinciali nella riunione del 2-3 luglio 1959.
Mi pare sia giusto che il Partito senta dire nel momento nel quale i segretari provinciali si riuniscono per la prima volta dopo la crisi che quello fu un tentativo ardito di sfondare, come si diceva, a sinistra; un tentativo di realizzare una competizione mediante l’attuazione di una coraggiosa politica sociale; fu una iniziativa nuova, realizzata nell’intento di allargare l’area delle forze democratiche del Paese, attraverso la nostra azione secondo un autentico orientamento sociale.
[…]
E questo ha cercato di fare l’onorevole Fanfani quando ha costituito il suo governo di centro-sinistra. E in questo obiettivo, in questo tentativo coraggioso e meritorio, lo ha confortato, con il suo pressoché unanime consenso, il partito della Democrazia Cristiana. Ricordo solo l’astensione dell’on. Scelba. Mi pare che ci sia qualche accenno molto responsabile, molto sereno negli atti che caratterizzarono quella scelta del Consiglio Nazionale e nella stessa impostazione dell’onorevole Fanfani ad una scelta compiuta nella area democratica. Un’area democratica che era nelle nostre intenzioni più vasta di quella che risultava dalla nostra scelta. Una area democratica nella quale un più vasto impegno di collaborazione, quale si era realizzato nel corso del quinquennio, appariva progressivamente più difficile, man mano che si andavano accentuando alcune impostazioni economicistiche e classistiche della esperienza liberale.
Era una presa di posizione piuttosto chiara che arrivava a dire che “noi abbiamo operato la scelta di centro sinistra. Abbiamo cioè operato la scelta nel senso della riconosciuta omogeneità delle forze politiche che si accordavano per dar vita ad una esperienza di più ardito impegno sociale al di fuori di ogni ipoteca del comunismo e dei suoi alleati”. Aggiungeva di poter “dire che veramente quella fu una scelta che rispondeva allo stato d’animo del Partito e alle esigenze della Democrazia Cristiana e che poteva far accettare la posizione di coraggio e di rischio che quella scelta comportava”. E ancora: “questa esperienza coraggiosa, questo tentativo pieno di slancio e di senso di responsabilità è venuto meno, purtroppo, per un complesso di circostanze che dobbiamo in questo momento esaminare serenamente”.
I dorotei si irritarono parecchio perché il discorso suonava come poco simpatetico col governo Segni, tanto che il segretario il 7 luglio rilasciò una dichiarazione che cercava di smentire una sua mancanza di fiducia nel governo in carica.
Benché la lettera e lo spirito del mio discorso siano di per sé pienamente indicativi, ritengo opportuno chiarire ancora che le mie affermazioni circa l’inesistenza di un legame organico tra noi e le altre forze politiche che appoggiano il governo Segni, ed il mio richiamo agli ideali politici della DC non toccano, ovviamente, il rapporto di fiduciosa collaborazione e di leale fervido appoggio tra il nostro partito e il governo Segni. Governo democratico cristiano per gli uomini eminenti che, a cominciare dall’illustre presidente Segni, lo compongono e per il programma che esso attua con così intenso fervore.
Dal Falco si compiaceva di quella che giudicava una “andata a Canossa in maniera clamorosa e poco dignitosa”, ma capiva anche che il nuovo segretario non rispondeva alle aspettative del suo gruppo. “La somma saggezza è spesso dabbenaggine, oppure è tattica che nasconde una ben diversa strategia. Dunque l’on. Moro, come segretario del partito, è un uomo che non accetta le posizioni aperte, di lotta e di scontro. In tali condizioni la campagna ‘revanchista’ dell’on. Fanfani ha il compito agevolato e il terreno spianato”.
Ormai si operava nell’ottica del prossimo congresso nazionale. Se Moro lavorava per ricucire fra dorotei e fanfaniani, i primi non ne volevano sapere, trascinati dall’ala più intransigente guidata da Taviani. Questi nelle sue memorie, ammettendo di non avere “alcuno scrupolo a riconoscere che sono stato il maggior protagonista della secessione dorotea”, la interpretava che il modo per sostituire “la monocrazia fanfaniana con il metodo oligarchico che durò dal ’59 al ‘67”. Tuttavia poi sorprendentemente sostiene che “la frattura dorotei-fanfaniani fu più fittizia che reale”[21], il che può anche essere credibile a partire da metà anni Sessanta, ma non vale per la fase della segreteria di Moro.
L’impegno del segretario per ricostruire l’unità del partito si univa all’enunciazione di un abbastanza chiaro programma per il futuro: il congresso di Firenze avrebbe avuto questi due obiettivi, che non erano esattamente quelli che si aspettavano i dorotei che cominciarono ben presto a guardare con perplessità all’impostazione di Moro. Questi sin da un importante discorso a Trieste il 12 settembre espose il suo approccio alle problematiche in campo. Certo il partito “addomesticato al parlar politico” si trovava di fronte allo stile discorsivo “intellettuale e sofisticato delle aristocrazie letterarie e giornalistiche”, con un frequente ricorso “alla modulazione della sfumatura”[22]. All’epoca e anche in seguito venne ritenuto un modo di parlare oscuro e retorico, ma a rileggere oggi i discorsi non sembra proprio così.
A Trieste il 12 settembre Moro esordì ricordando il nostro come “un civile dibattito che vede il Partito in tutte le sue sfumature di pensiero ed articolazioni rispettose verso le idee degli altri, alieno dalla asprezza dei fatti personali e dalle impostazioni ultimative”. Questo gli pareva importante perché coglieva che le critiche alle scelte governative della DC tendevano a condizionarla richiamandola ad omogeneizzarsi alle componenti considerate classiche delle classi dirigenti italiane: o il conservatorismo del liberalismo moderato (di destra), o la tradizione delle élite più aperte del liberalismo progressista moderato (convinto di detenere una superiorità intellettuale). Il segretario comprendeva benissimo il pericolo che ciò costituiva per la posizione chiave che il partito aveva assunto con la Ricostruzione.
In attesa di sostituire la D.C. nella sua posizione autorevole ed efficace nello schieramento politico italiano, la si sollecita, tra un colpo e l’altro, a ridimensionarsi, a deformarsi, ad accedere a posizioni particolaristiche ed estranee alla sua natura. Una cattiva strada al termine della quale è la fine della DC come partito di popolo, propulsore di giustizia, garante di democrazia, equilibratore della politica italiana. Il dovere della D.C., quello che il Congresso di Firenze vuole aiutare ad assolvere, è di non cedere né a minacce né a sollecitazioni.
Il discorso è lungo e articolato secondo quella che sarà sempre la modalità degli interventi di Moro, ma la parte più rilevante è l’elencazione di 14 punti che di fatto lasciano intuire il programma di quella che sarà l’apertura a sinistra.
Si apre al primo punto con una dichiarazione che fissa la peculiarità della DC su due assi che il segretario continuerà a ripetere: “È la D.C., infatti, che, come perno e principale forza dello schieramento democratico, ha combattuto, sul terreno della lotta democratica, il comunismo e ne ha arrestato lo slancio espansivo […] la D.C. che ha impedito qualsiasi tentativo di rinascita in Italia del fascismo ed ha messo ai margini della vita nazionale le nostalgie totalitarie”. Il concetto sarà immediatamente replicato al punto successivo: “La DC considera essenziale, inalienabile e pienamente attuale la sua originaria vocazione democratica, popolare, antitotalitaria e perciò anticomunista ed antifascista, in piena aderenza con l’idealità cristiana e sociale a cui si ispira e con la sua partecipazione alla memorabile lotta contro l’oppressione esterna e la tirannide interna”.
Seguono due punti per affermare l’importanza dello stato democratico come perno dell’azione politica[23], ma nel quadro della “sua originaria impostazione personalistica e pluralistica”, che si declina nel “continuare con sempre maggiore efficacia la sua azione per l’attuazione della Costituzione”. Vengono a questo punto due passaggi essenziali per gli sviluppi che si dovranno affrontare nei tre anni successivi. Il primo è molto impegnativo e contiene un richiamo che non era esattamente usuale nei discorsi del partito.
La D.C., che ha contribuito, dalla partecipazione alla Resistenza, con efficace presenza, con autonoma azione, con costruttive collaborazioni, a risolvere il problema della conciliazione delle masse cattoliche con lo Stato democratico, della presenza rispettata ed efficace degli ideali sociali cristiani nella democrazia italiana, della insostituibile responsabilità dei cattolici nella difesa e nello sviluppo dello Stato democratico, dando alle altre forze politiche italiane, contro ogni pregiudizio, la garanzia della fedeltà democratica dei cattolici, si impegna a proseguire in questo cammino per la completa costruzione dello Stato fondato sulla Costituzione democratica e repubblicana
Il secondo enuncia quella ragione che giustificherà la apertura al PSI, ma per la verità riprende anche qui il tema dossettiano che era già stato presentato al Congresso di Venezia del 1949.
La D.C., fedele alla sua vocazione popolare, riafferma che il problema dominante per la democrazia italiana è quello relativo al compiuto inserimento delle masse popolari nello Stato democratico, all’attuazione della democrazia nel suo pieno contenuto, alla partecipazione di tutti, nella dialettica delle maggioranze e delle minoranze e nelle varietà del corpo sociale, alla vita dello Stato, alle articolazioni degli ordinamenti locali e particolari.
Ritornato a ribadire “ impegno di una politica di espansione di tutto il sistema economico, nel quale lo Stato si assuma le sue concrete e puntuali responsabilità ordinatrici, coordinatrici, propulsive ed attive di utilizzazione a fini generali e produttivi di tutte le risorse nazionali, di tutela dell’iniziativa privata, di giusta distribuzione del reddito, di perequazione fiscale, di tutela del mondo del lavoro”, e richiamata la scelta in politica estera per una collocazione atlantica ed europeista (il MEC è richiamato), si passa ad esaminare la questione della collocazione politica in un quadro di inevitabili coalizioni.
Il punto di partenza era molto impegnativo.
La DC deve “avere sempre, come premessa necessaria ad ogni intesa politica, piena consapevolezza della efficacia del suo programma, della importanza della sua funzione storica, della sua idoneità ad assolvere il compito di realizzare la giustizia, di attuare la democrazia, di assicurare il progresso e la pace nel nostro Paese. Deve essere ancora una volta superata la tendenza a proporre i problemi della presenza della D.C. in termini di alleanze politiche e di necessarie integrazioni e correzioni. Pur rispettando gli altri, la D.C. deve anzitutto rispettare sé stessa, la sua esperienza storica, il significato della sua missione, la coerenza programmatica
A questo punto doveva per forza spiegare la scelta del monocolore Segni fatta “per senso di responsabilità” non potendosi “sottrarre all’adempimento del dovere di governare quale Partito di altissima maggioranza relativa”. Pur prevenendo interpretazioni che potevano essere imbarazzanti in quel momento con il sottolineare un pieno apprezzamento per l’esperimento Segni, di fatto seguiva una altrettanto piena valorizzazione dell’esperienza del governo Fanfani che i dorotei avevano fatto cadere. “Quella formula di governo veniva meno per insufficiente appoggio parlamentare e per oscure debolezze interne del Partito nel voto parlamentare. Tali debolezze la D.C. ha inteso superare per profondo senso di responsabilità, per salvare la ragione preminente della sua forza e della sua unità, ma essa né le ha legittimate né le può legittimare. La D.C. è grata all’on. Fanfani della sua generosa ed efficace azione di Partito e di Governo e desidera averlo in fraterna collaborazione nella D.C. con il prestigio e l’efficacia persuasiva della sua personalità”.
Moro doveva allora trattare le due questioni più spinose che il Congresso avrebbe dovuto affrontare. La prima riguardava il tema della validità della coalizione centrista, soprattutto della sua componente liberale, che da più parti si tendeva a presentare come non modificabile per ragioni storico-politiche. Ma su questo il segretario non intendeva farsi intrappolare.
La D.C. riconosce, secondo la sua tradizione, tutto il significato della delimitazione di un’area politica e parlamentare, pur nella diversità delle forze politiche che la costituiscono, sicura della tentazione e della minaccia del totalitarismo. La D.C. non dimentica le benemerenze storiche dei partiti che in essa, sulla base di idee che si ricollegano alla tradizione risorgimentale, hanno combattuto per anni, secondo le possibilità e le necessità del momento, una solidale battaglia per la difesa delle istituzioni democratiche e la fondazione del nuovo Stato. Questo doveroso atteggiamento di rispetto e di riconoscimento non significa che tale piattaforma tutta intera possa e debba offrire in ogni momento storico un compiuto programma di governo, perché particolari condizioni e necessità storiche possono prospettare la opportunità o imporre la scelta di più agili ed omogenee articolazioni in vista di esigenze programmatiche, quando esse siano altrimenti inattuabili, ed in armonia con il moto storico di progresso sociale.
La seconda questione toccava il tema delicatissimo dell’espansione che nel partito aveva conosciuto il fenomeno delle correnti. L’appello all’unità e alla coesione era dovuto, ma fingere che il problema non esistesse sarebbe stato troppo.
Le correnti del Partito non devono essere perciò raffinati strumenti organizzativi e quindi partito nel Partito, ma solo veicolo delle idee, sforzo costante di tutti, secondo la propria convinzione e le solidarietà e le intese che così vanno raffigurandosi, per la ricerca della via migliore, della linea politica più idonea per fare assolvere alla D.C. il proprio compito nella comunità nazionale. Deve essere proposito comune in questo momento di ricondurre le correnti di opinione a questa loro vitale funzione, di farne elementi della dialettica interna del Partito, realizzatrice di unità. Deve essere proposito comune di bandire in questo momento ogni faziosità meschina, ogni eccesso polemico, ogni estremismo che renda più difficile e faticosa l’unità del Partito.
La chiusa del discorso era in un certo senso un auto da fé sul suo modo di intendere non solo il suo impegno attuale, ma anche il compito che affidava al Congresso. “Ho lavorato avendo presente, avendo di mira la linea unitaria del Partito, che è condizionata dalla chiarezza di solidarietà delle sue posizioni centrali. Predisponendo, con il più obiettivo rigore, una serena assise per il prossimo Congresso, ponendo le condizioni perché il più grande Partito italiano possa dal dibattito trarre conclusioni precise, ferme decisioni, compatta volontà per gli impegni che lo attendono, ho guardato sempre all’unità ed alla forza del Partito, ai diritti ed ai doveri di tutti, alla solidarietà profonda che è bene supremo ed inalienabile della D.C”.
Come si vede Moro non aveva alcuna intenzione di essere il moderatore di un sistema oligarchico, ma aveva un suo progetto politico. Si è molto insistito sulle caratteristiche del Moro “mediatore”. Che queste esistessero è indubbio, ma credo lo sia altrettanto il fatto le usò per ottenere l’adesione ad un suo progetto politico che non si muoveva come sintesi fra le diverse forze e proposte in campo, bensì come ricerca della via per giungere al suo obiettivo. Il fatto che lo ritenesse particolarmente complesso da conseguire in un paese come l’Italia che era percorso da molte fratture socio-culturali, economiche e dovute a pressioni internazionali lo rendeva cauto per il timore che bastasse poco a far deflagrare la situazione. Sempre per questa ragione riteneva che la particolare natura della DC la rendesse l’unico snodo possibile per governare una simile complessità sicché ad essa competeva quel “dovere di stare al governo” su cui continuerà ad insistere fino alla fine dei suoi giorni.
Una lettura attenta del suo discorso di apertura al Congresso di Firenze (23-28 ottobre 1959) credo confermi quanto ho affermato. Del resto Moro già in una dichiarazione del 20 ottobre aveva anticipato che si sarebbe trattato di un evento “particolarmente complicato e difficile”, perché “dal congresso di Firenze dovrà restare confermata la chiara fisionomia politica della DC e la unità profonda e sostanziale del Partito. Non un’unità indifferenziata, ma una unità ricca e viva, una unità che nasce dal dibattito, che esprime la libertà di valutazione dei democratici cristiani, ma poi si compone appunto come esigenza operativa della DC.”
Il discorso di apertura fu molto impegnativo anche in ordine di tempo (tre ore e mezza) secondo un costume retorico che si confermerà nel tempo. Partendo dal ribadire che era un appuntamento “complicato e difficile” apriva con una puntigliosa analisi della struttura organizzativa del partito. Prendeva subito di petto la questione del carattere che io, ma non certo Moro, definirei federativo del partito cattolico.
Ma quanto più stringente è, per la vastità degli interessi e per la varietà degli ideali, lo sforzo di coesione che la DC deve esplicare, altrettanto libero, vivo, efficace, originale deve essere il gioco delle opinioni, il confronto delle idee, la posizione di rilievo e di influenza assicurati a tutti i democratici cristiani. Il problema della democrazia interna del Partito è certamente dominante. La prima garanzia che il Partito deve dare, non contro la realtà, ma anche solo contro il sospetto della sopraffazione, è quella della piena cittadinanza dei democratici cristiani e della eguaglianza dei diritti e dei doveri, della permanente apertura a nuove tesi ed a nuove soluzioni, del libero e fecondo confronto delle idee. Tanta libertà insomma, quanta è necessaria per rendere l’unità non artificiosa, immobile, inefficace; tanta libertà, quanta è necessaria per spiegare e giustificare la più rigorosa disciplina; tanta libertà quanto basti per dare respiro a tutti gli uomini ed a tutte le idee che la ricchezza e la varietà della Democrazia Cristiana raccoglie nel suo seno.
Il segretario si rendeva conto che questa varietà interna offriva il destro agli altri partiti della coalizione centrista di scegliersi come interlocutori settori della DC per cercare così di portare tutto il partito cattolico su posizioni allineate alle loro. La conseguenza era che “la DC benché sostanzialmente salda ed equilibrata nella sua struttura, non poteva alla lunga, anche per la vivezza e varietà di fermenti che in essa operano, non risentire di queste difficoltà, non poteva sfuggire essa pure al problema di una propria più accentuata caratterizzazione, pur operata nell’ambito del suo tradizionale equilibrio e della sua larga rappresentatività”.
֤É importante notare come Moro si impegnasse molto nel riproporre come punto di svolta il governo Fanfani e il programma con cui si era andati alla prova elettorale del 1958, perché si trattava di un programma di “centrosinistra chiuso” come coalizione, ma al tempo stesso nettamente progressista nell’ispirazione. Due caratteristiche che dubito fossero gradite a tutto il gruppo dei dorotei.
Il programma elettorale del 25 maggio, che fu il culmine dell’azione organizzativa e politica dell’on. Fanfani, rappresentava, e come tale il corpo elettorale mostrò di accettarlo nel modo più largo, per la sua impegnativa complessità, per la modernità della impostazione, per la immediata aderenza a speranze ed attese dell’opinione pubblica e più per lo spirito che lo animava al di là della sua concreta articolazione, spirito che conquista le masse, promessa sincera di soddisfazione delle loro esigenze, impegno categorico ad attuare la completa ed efficace presenza del popolo nella vita dello Stato, rappresentava, dicevo, un grande impegno della DC di fronte ai problemi della instaurazione democratica in Italia, una tappa fondamentale nella evoluzione sociale e politica del nostro Paese.
Moro specificava che “è certo che la formula bipartita DC-PSDI, cui dette vita l’on. Fanfani, corrispondeva alle attese del Partito, alimentava la speranza di un allargamento a sinistra dell’area democratica, perseguiva una felice omogeneità come presupposto di un’agile e vigorosa politica sociale, sacrificava il margine discretamente largo di maggioranza di cui in astratto avrebbe potuto disporre l’intera coalizione per averne in cambio intensità ed efficacia di azione politica”. Seguiva una netta presa di distanza verso il PLI che aveva “preferito impostare un’azione di rottura e costruirsi per comodità polemica il bersaglio della progettata apertura a sinistra”. Come sempre il giudizio verso di esso era duro, ma cercando di essere alieno da rotture drastiche, trattandosi di una forza “che in determinate circostanze abbiamo il dovere di combattere, in quanto si ponga, per una sua irrigidita concezione, come un ostacolo obiettivo per l’adempimento di pressanti doveri dello Stato e per la piena apertura alle masse popolari del patrimonio sociale dei beni economici e della cultura, ma dobbiamo sempre rispettare per la sua dedizione alla libertà, per l’idea che esso ha del valore dello Stato”.
Sconfessando che ci potesse essere qualsiasi tolleranza per il fenomeno dei franchi tiratori dc che avevano messo in crisi il governo Fanfani, tornava a ribadire che il punto di svolta garantito da quell’esperienza non poteva essere cancellato.
Ma qual è per la DC la validità attuale, il significato permanente dell’esperienza di governo tentata dall’on. Fanfani? Ha il Partito sconfessato o almeno superato quella scelta che il suo Consiglio Nazionale aveva adottato quasi all’unanimità nel giugno scorso? Chi ha voluto vedere nell’insuccesso parlamentare di quella formula e negli eventi che ad esso hanno fatto seguito un pentimento, un ripensamento e una diversa o contraddittoria decisione della DC, non ha inteso il vero significato di questa complessa vicenda e delle decisioni che il dovere da assolvere verso il Paese ha dettato alla DC.
Veniva così a dare una dimensione precisa al governo Segni, che era di fatto ciò che stava dietro l’azione politica di una parte cospicua dei dorotei fra cui lo stesso presidente del Consiglio. Quell’esecutivo “riconfermava, come stringente necessità politica, il dovere della DC, come partito di maggioranza relativa, a dare un Governo al Paese, assumendone la esclusiva responsabilità politica; richiamava gli impegni programmatici fondamentali della DC dei quali dichiarava la permanente validità e che poneva come obiettivo essenziale all’azione di governo”. Per questo andava negato che gli appoggi delle destre prefigurassero “qualsiasi ipotetica pretesa ad un condizionamento del programma, ad un adattamento della linea politica, alla configurazione di un’alleanza organica parlamentare o politica”, sicché il governo Segni “dev’essere giudicato per quello che esso è e vuol rimanere, non un governo cioè di maggioranza a destra, ma un governo minoritario espresso esclusivamente dalla DC, espresso unilateralmente dalla DC”.
Le attestazioni di benemerenza all’esecutivo in carica rientravano nelle liturgie della politica unitaria del partito cattolico, ma chi voleva analizzare il discorso poteva ben dar loro il giusto significato. La questione fondamentale rimaneva pur sempre il problema dell’apertura a sinistra, alla cui analisi il segretario della DC non si sottraeva.
Le vicende di questi tredici anni tormentati di vita democratica in Italia, la scissione della socialdemocrazia, la lunga ed infeconda storia della unificazione socialista, i tre ultimi significativi Congressi del Partito socialista, i rapporti infine con i cattolici e la Democrazia Cristiana, sono tutti aspetti e momenti diversi di un unico travaglio, quello che dovrebbero dare al PSI piena coscienza della sua vera natura, della sua imprescindibile caratterizzazione, della sua effettiva disposizione a prendere con coraggio e chiarezza il suo posto nello schieramento democratico italiano con tutte le conseguenze e responsabilità che quella scelta comporta. E sono appunto questo coraggio e questa chiarezza a mancare; è questa scelta che non si riesce a fare.
Il PSI aveva fatto passi avanti dal suo congresso di Venezia, “ma in realtà, al di là delle impegnative dichiarazioni e forse delle buone intenzioni di un gruppo di vertice del PSI, la posizione del Partito socialista resta allo stato delle cose tutt’altro che chiara ed è ancora ben lontana dall’offrire quella piena disponibilità, senza riserve, né ombre, né possibilità, nell’equivoco, di conturbanti interventi di terzi, che la democrazia italiana attende da anni. Che significato ha infatti la permanente solidarietà di classe e quali necessari riflessi ed espressioni ha sul terreno politico, sul terreno degli strumenti politici da adoperare per realizzare le proprie finalità di ordine sociale e quindi corrispondere anche alla presupposta unità di classe?”
Era chiaro che sotto quella formula si ponesse il tema dei rapporti fra socialisti e comunisti così come quello delle posizioni socialiste in politica estera (ciò che Moro chiamava “i tatticismi” di Nenni). Il terreno era infido anche per le chiusure delle gerarchie cattoliche, chiusure che erano assai esplicite e che il pontificato giovanneo appena avviato non aveva ancora ridimensionato[24]. Perciò bisognava muoversi con cautela, auspicando l’evoluzione del PSI, ma garantendo che in presenza di questa la DC avrebbe continuato a marcare la specificità della sua fisionomia (si rispondeva così al timore che strumentalmente agitavano gli avversari, ecclesiastici e non, dell’apertura).
… è da aggiungere che è dovere della Democrazia Cristiana tenere aperto il problema del Partito socialista ed esprimere ancora una volta, al di fuori di ogni particolare considerazione ed interesse di partito, l’auspicio che il travaglio del Partito socialista, per difficili e lenti che ne siano gli sviluppi, abbia uno sbocco democratico. Questo sbocco non è un approdo di governo né significa eludere o dimenticare le grandissime differenze di ordine ideologico e politico che dividono il Partito socialista dalle altre forze politiche e in particolare dalla Democrazia Cristiana. Qualora fosse acquisito il punto della sicura accettazione del metodo democratico, si aprirebbe un grande dibattito circa le caratteristiche proprie della DC e la sua differenziazione dal socialismo. Ma non sarebbe confacente agli interessi, agli interessi in prospettiva della democrazia italiana, auspicare − e trarre dall’auspicio concreto spunto di azione politica − che siano ribaditi i legami tra socialismo e comunismo e che una così vasta area di elettorato sia posta sotto l’ipoteca del Partito comunista.
Moro avrebbe proceduto poi ad un esame della situazione delle altre forze politiche. Con le destre non c’erano possibilità di intesa, sul PLI si ribadivano le riserve che abbiamo già visto, di PSDI e PRI si mettevano in luce gli ondeggiamenti che non favorivano la comprensione con la DC.
Il tema fondamentale che tornava ad essere sottolineato era quello, come abbiamo ricordato di ormai lontana origine dossettiana, dell’inclusione delle masse nello Stato.
In una società democratica, come quella che noi abbiamo contribuito a delineare nella Costituzione e che vogliamo costruire nella realtà, vi è un problema fondamentale di valorizzazione generale e compiuta dell’intera società. Cioè generalità nell’esercizio del potere, generalità nei benefici dell’esercizio del potere. Nessuna persona ai margini, nessuna persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale. Nessuna zona d’ombra in un ritmo graduale, armonico, universale di ascensione. Niente che sia morto, niente che sia condannato, niente che sia fuori della linea vitale della società.
Questo è il problema immane della piena immissione delle masse nella vita dello Stato, tutte presenti nell’esercizio del potere, tutte presenti nella ricchezza della vita sociale. La conciliazione delle masse con lo Stato, il superamento dell’opposizione tra il vertice e la base: non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti; non la fortuna dei pochi, ma la solidarietà sociale resa possibile dal maturare della coscienza democratica ed alimentata dalla consapevolezza del valore dell’uomo e delle ragioni preminenti della giustizia.
Non sfugga questo richiamo alla Costituzione e al contributo che i cattolici avevano dato alla sua redazione: del resto Moro e Fanfani erano ormai i soli nel gruppo dirigente dc ad avere avuto un ruolo di rilievo nell’elaborazione del disegno della nostra Carta fondamentale. Il segretario DC userà spesso il rinvio alla Costituzione, senza più paura di scendere sul terreno caro alle varie opposizioni di sinistra (sono lontani i tempi dello Scelba che invitava a sapere che la nostra Carta non era il Corano!).
Peraltro un nuovo elemento chiudeva le ampie considerazioni di Moro, ed era la consapevolezza della trasformazione che stava interessando la società italiana e il più ampio contesto europeo (avrebbe esplicitamente richiamato anche la novità del Mercato Comune Europeo). Erano innanzitutto i problemi posti dallo sviluppo.
Di fronte a questa duplice prospettiva interna ed internazionale, è da ritenere che questo Congresso possa prendere precisa coscienza dei termini attuali del problema del nostro sviluppo economico, additare al partito e alla Nazione tutta l’obiettivo che, con la partecipazione di tutti, si vuole conseguire entro la scadenza fissata ed affermare la nostra volontà di cominciare a porre immediatamente in atto tutte le misure necessarie per tale conseguimento.
Seguiva un ampio esame delle molte riforme da fare e dei problemi da affrontare, nonché dei nodi internazionali inclusi quelli che ponevano gli accordi europei. Anche qui, a voler vedere bene, si preconizzavano temi che sarebbero divenuti centrali nella esperienza di avvio ai governi di centrosinistra. Moro aveva sperimentato un nuovo stile di comunicazione politica: molto argomentato, attento alla disamina di tutti i problemi rilevanti, ricco di sfumature e puntualizzazioni. E’ evidente che si tratta di uno stile per testi adatti più per essere letti, che per essere ascoltati. L’aver sottovalutato questo aspetto portò inevitabilmente Moro ad essere etichettato come un personaggio dalla comunicazione oscura e poco decifrabile: famosa la battuta che circolò più tardi per cui il suo ciuffo di capelli bianchi sul capo era l’unica cosa chiara che aveva in testa.
Il Congresso di Firenze fu chiaramente una assise che ruotava intorno a correnti organizzate: oltre ai dorotei, “Nuove Cronache” di Fanfani, “Centrismo popolare” di Scelba, “Primavera” di Andreotti, “Rinnovamento” dei sindacalisti e la “Base” di Galloni e Marcora. Non ci soffermeremo qui sulle dinamiche del Congresso. Fanfani aveva rifiutato un ricongiungimento dei due tronconi di Iniziativa democratica come avrebbe voluto Moro, e andò vicino a vincere nella competizione per il Consiglio Nazionale, non fosse che il sistema elettorale adottato (includeva il panachage) giocò a suo sfavore e Andreotti col suo pugno di 92 delegati (su 703) fece blocco col segretario e coi dorotei in accordo con la destra di Scelba[25]: in definitiva lo spirito anti-fanfaniano aveva prevalso al prezzo di appoggiare un segretario che di fatto rilanciava la linea politica tentata dal politico aretino col suo governo.
Il 19 novembre il Consiglio Nazionale riconfermò trionfalmente Moro alla segreteria con 132 voti su 140, ma il politico barese era riuscito a ricucire con Fanfani, la cui corrente entrava in direzione. Chi aveva fiuto avvertì subito la valenza della rinnovata segreteria: Baget-Bozzo, sul settimanale della destra clericale “L’Ordine Civile” parlò di “un rilancio più maturo, più prudente e più accorto del centro-sinistra”[26]; lo stesso Gronchi chiarì a Nenni di ritenere “inevitabile una crisi governativa a non lontana scadenza. Distingue tra Moro e dorotei e tra Moro e Segni. Giudica molto forte la posizione di Tambroni e di Fanfani”[27].
In fine d’anno crebbero le tensioni da parte di PSDI e PRI che premevano per andare ad un centrosinistra e la posizione del governo Segni si indebolì. Certo rimaneva il problema dell’ostilità di una parte almeno dei vertici ecclesiastici verso una qualsiasi apertura ai socialisti: l’8 gennaio “L’Osservatore Romano” in un suo fondo la condannò e quello stesso giorno dal pulpito il card. Ottaviani attaccò Gronchi che stava per recarsi in URSS in un viaggio di stato a stringere mani che secondo il porporato grondavano di sangue[28].
La situazione politica rimase tesa per tutto gennaio e febbraio. I liberali puntavano a sfilarsi dal sostegno a Gronchi e lo fecero ufficialmente il 21 febbraio, mentre socialdemocratici e repubblicani chiedevano un governo sganciato dalle destre, cosa che ovviamente Segni non gradiva. Moro affrontò questa situazione in un discorso del 3 febbraio 1960 a Messina rivolto ai dirigenti DC del centro-sud. Come era ormai suo costume il segretario tornò sulla sua visione del ruolo e della peculiarità del partito cattolico, polemizzando implicitamente con chi lo avrebbe voluto ridurre ad un partito d’ordine per quanto di massa.
Si deve invece andare avanti, approfondendo e intensificando la formula politica di impegno democratico del partito. Se l’ordinamento democratico del Paese, il suo sviluppo economico e sociale, l’inserimento delle masse nello Stato non saranno fatti, per quanto a noi spetta, da noi, nella situazione storica italiana, si può ben immaginare da chi e con quali fini eversivi questo compito sarebbe assunto, questo inevitabile processo storico sarebbe condotto. Nessun democratico può in buona fede respingere l’apporto unitario dei cattolici sul terreno democratico. Nessun cattolico può ritirarsi o isolarsi per una chiusa testimonianza dei propri ideali, perché senza presenza unitaria, senza impegno democratico la posizione dei cattolici è sterile e neutralizzata e non è assicurato l’avvenire di libertà e di progresso del nostro Paese. Tocca naturalmente alla D.C., nella sua concreta responsabilità (nell’atto in cui essa si inserisce nelle forze politiche, prende in mano, nella fedeltà alla Costituzione, i destini del Paese, assume al servizio delle sue alte ragioni le finalità, la responsabilità dello Stato) tocca alla D.C., dicevo richiamarsi alla sua ispirazione, rinvigorire la sua ideologia, assicurare, nella sua autonomia, quelle fondamentali idealità morali le quali sono il filo conduttore di ogni vicenda politica. Ciò facendo, la D.C. serve la democrazia, cammina con la storia del Paese, con la sua caratteristica fisionomia, nel moto irresistibile di libertà, di progresso, di valorizzazione dell’uomo che è proprio della nostra epoca. Così servendo la democrazia, la D.C. pone la formidabile forza della libertà a servizio degli ideali umani e sociali del Cristianesimo.
Consapevole delle accuse strumentali di cedimenti al pericolo comunista, il segretario da un lato garantiva “che l’opposizione, connaturale alla D.C., al comunismo, sia rigorosamente confermata”, ma aggiungeva che vi era “un’altra costante nell’azione politica della D.C., da Sturzo a De Gasperi, dai quali abbiamo ritratto un vitale e permanente insegnamento, e cioè l’opposizione alla destra reazionaria e totalitaria, alla quale invano da qualche parte si vorrebbe avvicinare la DC, fino a conglobarla in essa sulla base di presunte affinità, superficialmente valutate”.
Né Moro evitava di considerare come il problema centrale in quel momento fosse il rapporto con il PLI, verso cui si esprimeva con riguardosa cautela, senza rinunciare però ad illustrare quello che era e che sarà il punto di rottura col partito di Malagodi.
Ci si accusa di incomprensione verso il partito liberale, da noi presentato come contrario ad ogni progresso. Ma noi non facciamo nessun processo alle intenzioni, ed abbiamo solo constatato la difficoltà di far combaciare modalità di sviluppo economico e tecnico della vita sociale, così come sono rispettivamente prospettate dai liberali e da altri partiti democratici. E vorremmo chiedere, a nostra volta, di non essere mal compresi e presentati per quello che non siamo. La doppia fatale suggestione che opererebbe nella D.C., verso un’apertura a sinistra, con compiacenze filocomuniste, e verso un orientamento a destra d’ispirazione fascistoide, questa suggestione non ha presa sulla D.C., come dimostra la sua storia e il suo sforzo di oggi per essere fedele alle sue origini e alla sua funzione. La nostra spinta è invece verso una democrazia integrale che sappia affrontare senza debolezza e con successo tutti i problemi di sviluppo economico, di progresso sociale e di libertà umana nella nostra società.
Il 24 febbraio Segni, forte anche di inquietudini che erano arrivate dall’episcopato (in specie dal card. Siri), si dimetteva considerando che la direzione DC aveva preso spunto dalle fibrillazioni liberali per riconsiderare il quadro politico. Seguì una polemica, innescata anche dal presidente del senato Merzagora, sul fatto che il governo si era dimesso senza aver affrontato un dibattito parlamentare sulla fiducia.
Moro lavorava per un governo che riprendesse il filo del distacco del partito dall’abbraccio della destra, nonostante Gronchi avesse dato a Segni l’incarico per un nuovo governo, non proprio la persona adatta per una prospettiva del genere. La destra dc si metteva di traverso all’ipotesi che potesse esserci una qualche benevola attitudine socialista verso un governo che si muovesse su quella che veniva interpretata come la linea approvata dal congresso di Firenze.
Le vicende del marzo 1960 furono assai confuse. Il presidente della repubblica provò a manovrare per favorire una apertura verso una maggioranza di centrosinistra con cauta astensione del PSI (Nenni si era mostrato disponibile). Prima affidò un incarico esplorativo a Leone, subito fallito, poi a Segni, che però corse ad interpellare le gerarchie cattoliche contrarie all’apertura (Siri e Tardini) e quindi si ritirò, poi a Fanfani, anche lui ben presto vittima dell’opposizione congiunta della destra dc, di quella laica e di una parte della stampa. A questo punto Gronchi provò il colpo di mano affidando l’incarico a Tambroni, un suo uomo, per un monocolore di transizione in vista del maturare di un nuovo quadro politico.
La scelta del Quirinale si rivelò infelice, perché Tambroni si illuse di avere una grande occasione per accreditarsi come leader politico e si mosse bruciandosi a sinistra e compensando quel che aveva perso su quel fronte coi voti del MSI. Il risultato furono le dimissioni dei ministri che facevano parte delle correnti di sinistra dc (Pastore, Bo, Sullo). Di conseguenza il governo fu costretto alle dimissioni il 12 aprile.
Qui si apriva una prova difficile per la segreteria Moro. Il suo atteggiamento era stato definito “amletico” da Nenni, ma egli sapeva bene quali erano le difficoltà, soprattutto sul fronte ecclesiastico[29]. Nonostante questo Moro ottenne che nella direzione dc del 20-21 aprile ci fosse una decisione favorevole ad un governo DC-PRI-PSDI guidato da Fanfani che aveva ottenuto un incarico da Gronchi. Il dibattito era stato molto acceso, avevano votato contro lo sclelbiano Lucifredi e l’andreottiano Evangelisti. Quest’ultimo poi, di fronte alle chiusure di Fanfani verso liberali e monarchici chiese che si tenesse un congresso straordinario sulla linea del segretario accusato di aver ceduto agli “estremismi” interni[30]. Il tentativo di Fanfani abortì ben presto sotto l’opposizione dei gruppi parlamentari sobillati da Scalfaro e Andreotti (ben sostenuti dal fuoco di fila del conservatorismo ecclesiastico), sicché un Gronchi irritato decise di respingere le dimissioni di Tambroni invitandolo a presentarsi per la fiducia in senato, dove il 28 aprile ottenne la stessa risicata fiducia della Camera, forte di un sofferto via libera da parte della direzione dc.
Poteva sembrare che la linea di Moro uscisse sconfitta e che la destra dei dorotei uniti agli scelbiani e agli andreottiani potesse davvero cantare vittoria. In realtà il quadro era più complicato, perché il segretario non aveva intenzione di adeguarsi a quanto era accaduto come si vedrà con chiarezza nella sua relazione al Consiglio Nazionale del 22-27 maggio. Un esame accurato di questo lungo e molto complesso intervento segna davvero non solo una riconferma di quella prospettiva che Moro aveva presentato a Firenze, ma anche una sua presa di distanza dagli intendimenti con cui i dorotei lo avevano portato alla segreteria.
Non per caso esordiva ricordando che nella crisi del governo Segni ci si era trovati “immersi nell’azione e chiamati ad affrontare situazioni estremamente difficili senza una sufficiente preparazione psicologica e senza una chiara intesa tra noi”. Il punto di partenza non poteva che essere mettere nella giusta dimensione il governo Segni che si era retto coi voti delle destre. Qui però si era operato perché venissero “esclusi ogni contrattazione, ogni compromissione, ogni compiacente adattamento nei confronti di altre forze politiche le quali avevano voluto con autonoma decisione e con una propria visione della realtà politica e degli interessi nazionali consentire la vita di un Governo espresso unicamente dal partito di maggioranza relativa e con il suo programma.” Per comprensibili ragioni tattiche non mancava di riconoscere l’utilità del sostegno ricevuto dalle destre, “ma dal riconoscimento mi sono sempre rifiutato di passare alla accettazione di un vincolo anche solo psicologico, pericolosa premessa a legami politici inammissibili perché contrastanti con gli ideali della DC. La mia polemica non è stata mai ingiuriosa o sprezzante, anzi non è stata nemmeno dura salvo che in rari casi di legittima ritorsione e di fronte a sfacciate esibizioni di ispirazione totalitaria”.
Erano parole piuttosto chiare, che richiamavano anche il punto 9 del suo discorso a Trieste. Non si potevano accettare i tentativi delle destre di attrarre nel loro gorgo la DC, ma estendeva questo rilievo anche ai liberali, altrettanto interessati a portare il partito cattolico nel quadro del conservatorismo.
Il filo conduttore di questa polemica è da ricercare in un sostanziale disconoscimento della natura e della funzione politica della DC. Essa è mossa dalla speranza di vedere la DC allinearsi al PLI in alcune fondamentali visioni circa la vita sociale italiana e le sue esigenze di movimento e di sviluppo. È un misconoscimento della natura popolare e di massa del nostro Partito, una dimenticanza dei motivi che esso per coscienza, per aderenza alla realtà, per contrastare l’avanzata dei partiti marxisti, per garantire le istituzioni democratiche deve agitare e far valere nella vita sociale e politica del nostro Paese. L’aderenza all’anima popolare, la tutela degli interessi politici, sociali e culturali delle masse appaiono sovente al PLI espressione di demagogia.
I temi che agitava la polemica liberale erano quelli dei conservatori: “E sono i temi tipici del timore di una ristretta classe dirigente di fronte alle esigenze, ai problemi, se volete, anche ai rischi dello sviluppo democratico; quello sviluppo democratico però dal cui ordinato svolgimento soltanto e non dalla sua sterilizzazione che sembra talvolta essere perseguita da parte liberale può derivare un più sicuro assetto su basi di libertà della società italiana e l’isolamento e la messa fuori gioco del comunismo nel nostro Paese”.
Moro non dava peso alle diatribe sul mancato passaggio parlamentare per la caduta del governo Segni, nell’ovvia sottolineatura che con il quadro politico della democrazia di massa per conoscere le decisioni dei partiti non c’era bisogno di interrogare le Camere: il PLI si era espresso con chiarezza nei suoi organi, non serviva “una più grossa polemica tra i partiti, un irrigidimento di posizioni che non avrebbero favorito la soluzione della crisi”. La natura di questa non gli pareva dubbia.
Essa dunque veniva aperta dai liberali come rifiuto della autonomia del Governo della DC, in polemica contro la attuazione del nostro programma e su rivendicazioni e prospettive chiaramente di destra.
[…]
Con essa i liberali, pur polemizzando con l’estrema destra, indicavano motivi di agevole convergenza in quel settore e per converso, pur auspicando coalizioni democratiche, contribuivano ad approfondire il solco che da anni ormai divide i liberali dalle forze del centro tradizionale. Continuava cioè nei fatti quel processo di rigida caratterizzazione, di accentuata autonomia programmatica del PLI che era in corso, come abbiamo rilevato, già da anni e che aveva contribuito a generare instabilità nella situazione politica italiana. Il modo di apertura della crisi offriva una giustificazione alla pregiudiziale anticentrista della socialdemocrazia e del partito repubblicano e rendeva estremamente difficile, dopo una così lunga divergenza dei partiti democratici, una soluzione centrista.
A questo punto secondo Moro la DC aveva proposto una sua linea per la soluzione da dare alla crisi.
Era in senso largo, in buona sostanza, una piattaforma centrista, ma di un centrismo ovviamente aggiornato secondo le necessità del momento ed avente come propria ragion d’essere una irrinunciabile ragione programmatica in tutto aderente alle responsabilità della DC ed alle obiettive necessità del Paese. Tale piattaforma è stata delineata nei nostri cinque punti di quella deliberazione direzionale; i quali hanno costituito una buona guida in alcune fasi salienti della lunga crisi. Con quella deliberazione noi riconfermavamo la nostra opposizione alle forze totalitarie di sinistra e di destra, la nostra fedeltà atlantica ed europea e in essa il nostro concorso per ogni utile iniziativa di distensione e di pace; l’impegno per una politica costituzionale che assicuri la graduale ed ordinata attuazione della Costituzione (e qui vorrei precisare: attuazione graduale e non inattuazione dilazionata o indefinita); una politica di sviluppo che preveda i necessari interventi statali; una organica politica della scuola nella tutela delle libertà scolastiche.
A quel punto si era però visto che una coalizione centrista era “chiaramente improponibile” perché PSDI e PRI non volevano “stringere una alleanza di Governo che a loro parere avrebbe rappresentato uno spostamento a destra dell’asse politico e li avrebbe messi in difficoltà di fronte alla prevedibile polemica socialista”. Non essendovi spazio per una soluzione di centrodestra “non restava che tentare la via del centro sinistra; una via che tiene conto, nel fondo, del carattere popolare e dello slancio sociale della DC. Questa formula si ricollega ovviamente alla esperienza del governo Fanfani del 1958 della quale riconduce lo schema con qualche variazione”.
Come si vede qui si torna all’impostazione che Moro aveva presentato al congresso di Firenze. Di nuovo emergeva la centralità dell’esperimento del governo Fanfani, fallito non solo per un certo integralismo del PRI, ma anche per tensioni interne alla DC timorosa del significato di una astensione dei socialisti (non lo esplicitava, ma quei timori era abbondantemente sostenuti dalle gerarchie ecclesiastiche). Invece
Propriamente in questo caso non si sarebbe potuto in nessun modo configurare una collaborazione tra DC e PSI, un vincolo organico tra essi; tanto meno cedimento, abdicazione, accettazione di impostazioni marxiste, scivolamento con apertura a sinistra della DC. Ciò non era ammissibile per il partito che non avrebbe abbandonato il suo connaturale e beninteso centrismo, non si sarebbe trasformato in un partito di sinistra, ma sarebbe rimasto un partito di centro che marcia verso sinistra e che avrebbe fatto nel governo una politica coerente con questa sua impostazione. Non sarebbe stata vera neppure davanti all’elettorato come segno di cedimento e di disfacimento della DC o come indebito accreditamento del partito socialista come partito democratico. Tutto ciò sarebbe potuto avvenire solo se il partito fosse stato così diviso e perplesso sull’operazione da dare esso stesso al suo elettorato non la sensazione di una sua vittoria, di una nuova conquista democratica, di un cammino in avanti della DC nella sua azione di attrazione, ma la sensazione scoraggiante del cedimento e della irrimediabile decadenza.
Si era al contrario di fronte al “problema del consolidamento e dell’allargamento della vita democratica in Italia” che non era “espressione di una caparbia volontà di collegare marxismo e cristianesimo o marxismo e democrazia. Esso nasce dalla constatazione delle forze reali motrici della nostra storia e dalla necessità di convogliarle in modo che servano la democrazia, in modo che esse adoperino gli strumenti di persuasione e di determinazione di solidarietà sociali che sono proprie di ciascuna di essa per costruire una società democratica nella quale siano permanentemente garantiti il libero dibattito e in esso la libertà e dignità dell’uomo”. Di qui si era sviluppato l’appello al PSI a fare il passo avanti verso la democrazia.
Nessuno naturalmente pensa d’imporre ai socialisti un anticomunismo di tipo borghese, quale del resto non è neppure il nostro che non vuole essere difesa di privilegi sociali, ma un anticomunismo che scaturisca compostamente dalla stessa affermata differenziazione tra comunismo e socialismo, dalla stessa affermazione dell’adesione del PSI, assoluta e categorica, al metodo della democrazia, sia per quanto riguarda la conquista sia per quanto riguarda la gestione del potere. Affermazione polemica nei confronti del comunismo dalla quale non è possibile non trarre le conseguenze che hanno ricavato i partiti socialisti democratici senza per questo modificare la loro linea politica e la loro presenza nelle lotte sindacali e popolari. Come noi non desideriamo cambiare la nostra natura di partito di centro che muove verso sinistra, la quale è connaturale alla nostra funzione storica, così non pensiamo che il PSI debba perdere la sua carica di sinistra, la sua complessa visione degli interessi popolari. Chiediamo solo che questa carica sia immessa nell’alveo della democrazia e che questi interessi popolari siano tutelati senza l’equivoco di convergenze con i comunisti che obiettivamente e nella situazione storica italiana rischiano di andare al di là della solidarietà di classe e di rappresentare invece una compromissione con la politica di fondo comunista, coi suoi fini ultimi e con i mezzi sovente spregiudicatamente usati.
Se questo rimaneva lo sfondo in cui riteneva di dover operare, Moro non poteva ovviamente eludere il tema della controversia che si era aperta con l’avventura del governo Tambroni. Viene ricordato che esso doveva essere amministrativo, ma l’evolversi degli eventi finì “per attribuire al Governo al quale era andato tra tutti gli altri schieramenti politici il solo voto determinante del MSI, un significato politico in contrasto con le intenzioni, le finalità e l’obiettiva funzione politica della DC nella vita nazionale. Per queste ragioni la Direzione Centrale ritenne che fosse opportuno aprire la crisi, ciò che fu fatto con le dimissioni del Governo decise dal Consiglio dei Ministri”. Di qui il tentativo affidato a Fanfani, fallito il quale si era accettato di accogliere quanto deciso dal presidente Gronchi che aveva respinto le dimissioni e rinviato l’esecutivo all’esame del senato. Si era trattato di una scelta per non aggravare una situazione già tesa: "È stata una decisione che è costata alla Direzione ed è una cosa che certo pesa sul partito, senza che ciò significhi in nessun modo contestazione dei meriti del Governo e della rettitudine, fedeltà e spirito di sacrificio degli uomini che lo compongono. Ma è un sacrificio che abbiamo creduto di potere e dovere accettare per deferenza al Capo dello Stato, per considerazione dell’opinione pubblica, per non sottolineare ulteriormente le difficoltà del partito. Tutto è utilizzare bene questa pausa che il sacrificio dei nostri amici procura al Partito.”
Non si trattava certo di una legittimazione dell’avventura di Tambroni. Si deve notare come in chiusura Moro ponesse molta attenzione e molta forza a richiamare la fisionomia ideale della DC.
Criteri inconfondibili e vitali dotati di una forza profonda motrice delle coscienze e come tali originali ed insostituibili strumenti di realizzazione dell’ordine, nella libertà e nella giustizia, della vita sociale. Già nel mio discorso del luglio scorso ai Segretari provinciali, rivendicando la presenza determinante dei cattolici nel memorabile movimento della Resistenza, osservavo che le ragioni profonde dei nostri principii di libertà, di dignità e di solidarietà sociale, ragioni di fondo della nostra ispirazione antitotalitaria tutta intera, sono in qualche cosa di più antico e profondo, e cioè nella coscienza cristiana le cui esigenze intende esprimere nel nostro Paese con profonda fedeltà e lealtà la DC.
Ma il segretario esplicitava le ragioni della evoluzione necessaria al quadro politico, che erano nella esigenza di far fronte alla nuova stagione che si stava vivendo. “L’elettorato cattolico non ha nessun motivo per non essere profondamente interessato e legato allo sviluppo economico-sociale, al modo ascensionale del popolo, alla espansione della libertà, al progresso democratico, ma esso ha diritto di chiedere un tono, un rispetto, un linguaggio”. Il prendere in carico la gestione politica dello sviluppo era quanto preoccupava le gerarchie cattoliche che vedevano una concatenazione fra modernizzazione e laicismo (ovvero in linguaggio oggi più comprensibile, secolarizzazione). Per questo Moro aveva accennato alla esigenza che la modernizzazione non assumesse una connotazione di contrapposizione alla cultura cattolica e per questo ribadiva che “finora la DC ha sempre saputo trovare e saprà certo trovare in avvenire questo tono e questo linguaggio dando all’elettorato cattolico tutte le garanzie di ordine morale che esso giustamente richiede”.
Sottolineava con forza questo punto che sapeva bene essere cruciale e per questo respingeva una volta di più abbastanza esplicitamente l’argomentazione per cui solo una collocazione conservatrice potesse servire alla difesa della tradizione del cattolicesimo politico presentata come “centrismo”.
Questo bene inteso centrismo di fondo della DC è sempre da interpretare ed è stato del resto sempre interpretato in relazione alla essenziale preminente considerazione del mondo del lavoro, in relazione alla dominante vocazione popolare del partito la quale pone problemi stringenti di giustizia da realizzare, di progresso economico sociale da promuovere, ma anche e più di sviluppo politico e di attuazione concreta e completa di democrazia con la piena immissione delle masse lavoratrici nella vita dello Stato. Un partito di centro dunque che con strumenti responsabili, equilibrati e di libertà si propone finalità di profondo mutamento della società italiana e dello Stato che deve esprimerla nel suo sviluppo democratico
Non stupisce che in questa occasione il segretario perorasse la necessità di un convegno di studi che approfondisse l’ideologia dc: avverrà con il primo convegno di San Pellegrino, che costituirà un momento della massima importanza per evidenziare la presa di coscienza nella più giovane classe dirigente cattolica, ma soprattutto fra i suoi intellettuali di riferimento, che si era in presenza di una svolta economica, sociale e culturale da cui non si poteva prescindere.
Il Consiglio nazionale fu teatro dell’emergere delle contrapposizioni alla linea del segretario: incerte quelle dei dorotei, che probabilmente non coglievano la determinazione di Moro facendosi convincere dalle cautele con cui la esponeva, più esplicite quelle delle correnti di destra che invece mostravano di aver compreso dove si andava a parare. Ad esse il politico barese rispose nella sua replica. A Scalfaro, ma soprattutto a Carraro che già il 29 marzo aveva scritto a Moro per sostenere che il congresso di Firenze era stato vinto “contro il dogma fanfaniano del centro-sinistra”[31], ribatté che la loro richiesta di esplorare la possibilità di un accordo col PLI avrebbe significato spostarsi a destra, cosa che secondo il segretario avrebbe violato quanto esplicitamente statuito dal congresso di Firenze. A Scelba, Gava, Lucifredi, contestava di aver “configurato questa come un’autentica operazione di apertura a sinistra che in verità nella DC nessuno chiede né ritiene possibile”, sostenendo invece che una astensione non negoziata del Psi avrebbe allargato la democrazia.
Concludeva dunque, non senza affermare la fedeltà sua e del partito agli insegnamenti della Chiesa (in quei mesi c’erano state molte pressioni delle gerarchie), che era importante superare le tensioni fra le correnti: “io faccio più credito per temperamento alle ragioni dell’incontro e della persuasione, al lento processo di assestamento, di affinamento e di educazione che si svolge naturalmente nella vita del partito e si approfondisce nelle dure prove alle quali esso è sottoposto e che non sono certo prive di insegnamenti per noi.” Ciò non voleva però dire che si dovesse tornare indietro rispetto ad una linea di apertura a nuove fasi che fra il resto Moro implicitamente ricordava iniziate prima del suo avvento alla segreteria.
Comunque le considerazioni che sono state svolte nel corso di questo dibattito e le stesse difficoltà psicologiche e politiche di fronte alle quali ci siamo trovati nelle nostre precedenti esperienze saranno certo oggetto di responsabile meditazione in seno alla DC. La quale ritiene in questo momento di dover confermare come un indirizzo generale del partito e come una costante caratterizzazione di esso, e malgrado le difficili e spesso dolorose vicende parlamentari che, a partire dal Governo Fanfani del 1958, ne hanno finora frustrato l’attuazione, quella scelta che essa ha fatto in obbedienza alle indicazioni del corpo elettorale del 25 maggio 1958 in favore di una politica che assicuri, sulla base di un sicuro ancoraggio democratico, il pieno sviluppo democratico ed il progresso civile e sociale della nazione, di una politica popolare da attuare, quando appena ciò sia possibile, con gli strumenti parlamentari più idonei per il suo agile ed efficace svolgimento. Questo fu il significato del Governo Fanfani….
Nonostante le fibrillazioni interne, la linea di Moro venne approvata, anche con un sostegno un po’ ambiguo di Andreotti e dei suoi come si capisce da un intervento del suo uomo Evangelisti[32], mentre circolavano voci di manovre dei dorotei per sostituire Moro, con Segni e Rumor attivi in quella direzione senza peraltro arrivare a concludere. La strada per arrivare a schierare il partito sulle nuove prospettive che aveva in mente il segretario era però ancora lunga.
L’esperienza del governo Tambroni fu difficile sin dall’inizio, per diventare traumatica con gli eventi del luglio 1960 che portarono il paese ad un livello altissimo di tensione, tanto che Nenni parlò dello spettro di un ritorno alla guerra civile come nel 1922. Dopo i durissimi scontri innescati dalla vicenda del congresso del MSI a Genova, città simbolo della lotta resistenziale, conflitti fra forze di polizia e manifestanti antifascisti dei partiti di sinistra, ma non solo, che avevano registrato anche dei morti, la situazione si fece insostenibile con il presidente del senato Merzagora che si rese promotore di una tregua fra forze dell’ordine e partiti di opposizione. L’8 luglio c’era stato un incontro fra Fanfani e Moro in cui il primo avanzava la proposta di dimissioni di Tambroni senza trovare obiezioni da parte del secondo.
Il presidente del Consiglio si lamentò della mancanza di sostegno da parte del partito e dopo un dibattito parlamentare in cui era chiaro che il governo non aveva consensi a parte l’estrema destra, il 13 luglio si tenne una direzione DC a cui Tambroni non partecipò denunciando “un cedimento ai comunisti”. In quella sede Moro disse chiaramente che non si poteva evitare di tenere conto della situazione. “Il silenzio equivarrebbe ad una conferma dell’appoggio del Mis [sic] come scelta fatta dalla DC. Non pensa che si debba oggi parlare di dimissioni, ma trovare una base chiara per una scelta democratica con gli altri partiti, senza polemiche, senza cedere a nessuno, per un governo di fedeltà democratica, atlantica ed europea”[33].
Nella gestione parlamentare del distacco da Tambroni, Moro lasciò il campo al presidente del gruppo dc alla Camera Gui. Già dal 15 luglio Nenni aveva annotato nei suoi diari[34] che dopo una giornata “convulsa e inconcludente” “verso le 19 l’accordo si è fatto sulla formula delle convergenze parallele. I tre (socialdemocratici, repubblicani e liberali) si impegnano a dare il loro appoggio autonomo a un monocolore DC di emergenza e di tregua”. Si parlava di una presidenza Fanfani, ma “il gruppo liberale non ha accettato l’accordo e tutto si è sfasciato”. Tuttavia il 19 luglio Tambroni si dimetteva, il 22 Fanfani riceveva l’incarico e il 26 scioglieva positivamente la riserva avendo concluso per un monocolore DC con l’appoggio esterno di PSDI, PRI, PLI e monarchici nonché l'astensione del PSI.
Si può dire che Moro avesse raggiunto il primo dei suoi obiettivi: superare il tabù dell’astensione socialista, senza per ora rompere con la destra non revanchista. Per di più rimettendo alla guida del governo Fanfani, l’uomo delle realizzazioni. Non è un caso che il segretario intervenisse personalmente il 5 agosto alla Camera nel dibattito sulla fiducia al nuovo governo con quello che Nenni non a caso definì nei suoi diari “un forte discorso”[35]
Iniziava con “un caloroso saluto all’onorevole Fanfani, che ritorna a dirigere il Governo dopo molte prove e molte amarezze; ritorna, spiritualmente arricchito e affinato da un costruttivo travaglio, con serenità e distacco, in fedele adempimento d’un mandato del partito: un mandato non sollecitato, ma conferito per autonoma determinazione in considerazione d’una complessa realtà politica che suggeriva quella soluzione; un mandato accettato con pazienza, umiltà e spirito di disciplina.” Era una chiara presa di posizione per far cadere “le speculazioni avversarie circa le differenze di opinione delle persone e quindi le divergenze che minerebbero il Governo, oltreché dal di fuori, nell’interno stesso del partito che lo esprime”.
Moro si trincerava dietro il rilievo di un’unità di partito “non monolitica”, ma arricchita dal dibattito e dal confronto delle idee, ma sapeva bene che il risultato a cui si era giunti non era tranquillo, bensì trovava “la sua spiegazione nell’impreparazione ed immaturità della coscienza pubblica e dei partiti ad una svolta tutt’altro che rivoluzionaria, ma certo significativa nei rapporti politici, ad una nuova prospettiva di più netta differenziazione, di maggiore libertà, di migliore articolazione della vita democratica del nostro paese”.
Il varo del governo delle convergenze era dovuto al “progressivo deterioramento della situazione, [al]l’emergere di prospettive involutive che pareva dovessero ritenersi, dopo quindici anni di vita democratica, del tutto escluse; [a]l pericolo sempre più grave di una radicalizzazione della lotta politica, che compromette, a vantaggio delle ali estreme, dei loro metodi ed obiettivi, la normale dialettica democratica”. Per questo si era arrivati alle convergenze.
Essenziale ai partiti è dunque sembrata l’esigenza di difesa democratica, il mantenimento delle condizioni, che è proprio della democrazia, di ogni sviluppo politico, quella fondamentale azione di progresso civile e sociale che è contestuale ed essenziale a questa difesa, secondo che il momento storico e le condizioni della società lo vanno proponendo.
Avendo propri obiettivi ed ideali, coltivando essi diverse prospettive, questi partiti hanno trovato tuttavia, senza pregiudizio alcuno delle loro finalità ultime, un cemento comune, un comune impegno, un comune lavoro da svolgere in difesa della libertà del popolo italiano. Il fatto che non si tratta di una vera coalizione di governo, ma di appoggio esterno dato da ciascuno dei partiti mediante una autonoma convergenza fiduciaria verso la democrazia cristiana, vale a sottolineare l’innegabile difficoltà della situazione da cui usciamo e il complesso dei problemi che si propongono nella realtà politica italiana, ma nulla toglie alla fiducia nel vincolo comune in difesa della libertà che i quattro partiti hanno accettato in una situazione difficile, quasi drammatica, con piena consapevolezza delle responsabilità che esso comporta.
Come ebbi a dire annunciando l’accordo della nuova maggioranza, i partiti che appoggiano il Governo hanno programmi diversi ma sottolineano insieme la pregiudiziale importanza della difesa della libertà. Nessuno di essi rinuncia, quindi, al suo patrimonio ideale, ma ciascuno concorre oggi a sottolineare l’innegabile difficoltà della situazione da cui usciamo e il complesso dei problemi che si propongono nella realtà politica italiana, ma nulla toglie alla fiducia nel vincolo comune in difesa della libertà che i quattro partiti hanno accettato in una situazione difficile, quasi drammatica, con piena consapevolezza delle responsabilità che esso comporta.
La DC era stata promotrice e parte di questo disegno poiché “ha oggi le massime responsabilità per l’ordinato sviluppo della democrazia italiana […] e a tali responsabilità, per pesanti che possano essere, non intende rinunciare. Ha le massime responsabilità per la vastità e la varietà dei consensi che essa, in forza del suo programma e della sua ispirazione cristiana, riesce a raccogliere intorno a sé, per la funzione mediatrice che esercita tra esigenze e prospettive diverse, per la sua innegabile ed incomprimibile natura popolare, per la sua fede nella democrazia come metodo di lotta e sostanza stessa della vita sociale, per la sua chiara visione degli interessi permanenti del paese, che si rinnova nella pace sociale e procede sicuro nel vincolo delle alleanze”
Questa sottolineatura del dovere di governare da parte della DC sarà una costante nel ragionamento moroteo sino ai suoi ultimi giorni. Ma non era ragione sufficiente per accettare alleanze con l’estrema destra: già il problema si era posto col governo Segni, ma diventava cruciale col governo Tambroni che si era spinto in territori pericolosi.
Il pericolo è nell’insufficiente stabilità ed ampiezza delle nostre strutture democratiche, e nella incompiuta penetrazione delle istituzioni nella coscienza dei cittadini. Il pericolo non è perciò solo nel Movimento sociale, anche se in esso si manifesta in modo vistoso nella quotidiana sfacciata apologia del fascismo, con la cui continua esaltazione − che vuol dire accettazione di quel criterio per misurare la realtà sociale − è incompatibile l’affermata ispirazione democratica del Movimento sociale. […] Se esso è, come è, un movimento neofascista, non può per ciò stesso essere democratico. […]
Il Movimento sociale italiano in questi due anni si è inserito pesantemente nel gioco politico, ai cui margini per tanto tempo era rimasto, si è inserito fin nella maggioranza di governo per divenire in esso anche formalmente determinante.
Erano già parole molto chiare, ma il concetto sarebbe stato ribadito ed ulteriormente argomentato più volte, perché, come si vedrà dal passaggio successivo e da altri, Moro non aveva remore a porre accanto al tema della lotta al comunismo la necessità di “liberare la democrazia cristiana dall’abbraccio soffocante della destra fascista e parafascista […], a rispettarne la tradizione, a salvaguardarne l’autentica ispirazione cristiana, a garantire l’integrità del suo patrimonio ideale”. Nella crisi del governo Tambroni
Non era in discussione, evidentemente, un governo di democratici cristiani che, in condizioni di estrema difficoltà e con grande senso di sacrificio, ha fatto, come la direzione ha ripetutamente riconosciuto, tutto il suo dovere. Si trattava di provvedere alla evidente inidoneità, alla estrema pericolosità di una maggioranza che vedeva determinante un partito che non crede nella democrazia, che non serve la democrazia, una forza politica estranea ed opposta al filone storico, al patrimonio ideale della Resistenza dal quale prende le mosse la nuova storia dell’Italia democratica, della quale parte determinante, in funzione nettamente antitotalitaria, e perciò anticomunista e antifascista, è la democrazia cristiana. […]
Non si è ceduto alla piazza, come si è detto, perché da parte nostra nessun ostacolo è stato posto e nessuna censura è stata mossa alla doverosa azione del Governo per la tutela dell’ordine e della legalità
Non si può dire neppure che si sia ceduto al sentimento antifascista così vivo in una parte notevolissima della pubblica opinione, quel sentimento che certo in queste vicende il comunismo ha utilizzato per ritessere la sua trama frontista, perché di quel sentimento serenamente, compostamente è partecipe la stessa democrazia cristiana, perché è della democrazia cristiana quel profondo senso di disagio che condusse alle prime dimissioni del governo Tambroni.
Il segretario della DC non si sottraeva a misurarsi con le critiche che presentavano la caduta del governo Tambroni come una nuova crisi extra parlamentare, tutta gestita dai partiti per di più su pressioni della “piazza”. Poteva ragionare così chi il parlamento “se lo raffigura falsando la realtà secondo un superato schema individualistico e al di fuori dalla viva ed incomprimibile realtà dei partiti quali strumenti efficaci di guida della pubblica opinione, di naturale e libero coagulo delle opinioni dei parlamentari”. Neppure per la formula di governo che veniva varata si poteva parlare “propriamente di una coalizione, ma del verificarsi, nei confronti del Governo espresso dalla democrazia cristiana, di una significativa convergenza di sostegni parlamentari dati autonomamente dai partiti a seguito di singole intese da essi raggiunte con la democrazia cristiana”.
Si era fatto un lavoro che si inseriva nella necessità di stabilizzare il paese e di far progredire la vita democratica.
Tutto quello che rompe gli schemi delle ostilità pregiudiziali e le solidarietà anche parziali e tattiche con le forze totalitarie, tutto quello che contrasta il gioco degli opposti estremismi concordi nell’intaccare le basi del sistema, tutto quello che permette di instaurare e di svolgere più largamente il dibattito democratico, nel quale possono essere registrate anche le differenze più acute senza che sia intaccato nella sua assoluta validità il metodo democratico al quale tutte le forze politiche facciano riferimento, tutto quello che in questo senso sia fatto sinceramente, seriamente, durevolmente, garantisce i valori della democrazia, è un vantaggio per il paese e ravviva la funzione del Parlamento come organo di libera discussione dei problemi politici.
Le convergenze oggi verificatesi in forma problematica e di cauta attesa non possono poi destare alcuna preoccupazione, in quanto avvengono intorno ad uno schieramento di partiti i quali costituiscono una sicura e stabile maggioranza democratica.
Moro naturalmente riservava considerazione e appoggio all’iniziativa di Fanfani e al programma del suo governo, ma sapeva bene che il punto dolente su cui sarebbe stato attaccato da tutti gli oppositori dell’uscita della DC dal recinto del centrismo sostenuto dalla destra era quello del presunto cedimento al PCI che si sarebbe fatto ponendo fine in quel modo all’esperienza di Tambroni. Era un’accusa pesante che trovava più di un’eco nei Sacri Palazzi, cosa che il partito cattolico non poteva sottovalutare.
Poiché l’origine e lo svolgimento di questa crisi, per la falsa ed irresponsabile interpretazione delle forze di destra, sono stati presentati come frutto di una iniziativa comunista e quasi un cedimento a quel partito, non sarà inutile ripetere, benché sia già del tutto chiaro, che l’iniziativa comunista si è abilmente inserita in una situazione di reale disagio politico e di incertezza dell’opinione pubblica, e che proprio si è voluto togliere a quell’azione un’insperata condizione di lavoro e contrapporre una più solida struttura politica all’attacco comunista, al permanente attacco comunista allo Stato democratico.
Perciò riconfermiamo in questo momento, e proprio in rapporto alle vicende della crisi, la fondamentale ed irriducibile linea di opposizione democristiana al comunismo, poiché noi affondiamo le nostre radici nell’humus ideale della civiltà cristiana ed occidentale, poiché abbiamo un’alta concezione dell’uomo, irriducibile alle esigenze della macchina sociale e della stessa storia del mondo; poiché crediamo alla libertà come attributo permanente della dignità umana.
Tuttavia ai critici liberali e a quelli legati all’integralismo religioso il segretario ricordava che “il nostro anticomunismo non è un tortuoso e inefficace anticomunismo di tipo conservatore” bensì, “un anticomunismo democratico, che nasce dall’accettazione senza riserve della democrazia, si avvale delle armi della democrazia, ha di mira non una repressione, con la forza, di masse inquiete, ma la restaurazione di un’ordinata società democratica. Siamo per questo insensibili ai generici richiami dell’antifascismo, alla richiesta comunista di una sorta di solidarietà in nome dell’antifascismo”.
Il passaggio come si può notare era più che delicato. Moro sapeva bene che si trattava di un tema su cui il cattolicesimo politico si confrontava con qualche difficoltà, pressato com’era da tutto un versante del vetero-intransigentismo. Perciò affrontava di petto la questione.
Possiamo discutere dell’antifascismo dei comunisti, non esente da qualche debolezza e adattamento tattico, così come dobbiamo riconoscere che non sarebbe possibile porre un’equazione, malgrado il fondo comune di violenta sovversione, tra fascismo e comunismo; ma non possiamo prendere sul serio la pretesa di teorizzare l’incompatibilità tra antifascismo e anticomunismo. Noi siamo infatti anticomunisti ed antifascisti insieme, prima che per una opposizione a particolari soluzioni dei problemi sociali, per una ragione di metodo, per la ripulsa del comune dato della violenza e l’accettazione senza riserve del metodo della libertà. È la rottura della legalità democratica, è la messa in mora del metodo della libertà, e non importa in quale fase della vita politica e magari alla fine di un lungo processo di utilizzazione di strumenti democratici, che la Costituzione non solo in una ma in tutte le sue disposizioni e nel suo stesso spirito condanna. Ed è nello spirito della Costituzione che conduciamo oggi come ieri la lotta su due fronti per la difesa della libertà del popolo italiano.
Naturalmente ormai in controluce ogni questione finiva per concentrarsi sulla domanda se si andava o meno verso la cosiddetta apertura a sinistra. Il PSI per la prima volta aveva acconsentito all’astensione verso un monocolore dc e questo, come ben sappiamo, stava sollevando un’opposizione molto dura sia dentro la DC che in ambienti ecclesiastici per non parlare di una larga parte degli ambienti economici e delle alte burocrazie.
A tutti questi Moro ripresentava la sua proposta politica, cioè la necessità di muoversi verso un allargamento della base di consenso al nuovo sistema repubblicano, che non poteva avere solo un versante per così dire “formale”, ma doveva approfondire quello sociale. Per questo
noi ribadiamo l’interesse già espresso dalla democrazia cristiana, interesse non di partito ma in considerazione delle sorti del paese, all’allargamento dell’area democratica, alla netta differenziazione tra comunisti e socialisti, alla rottura dei vincoli di un frontismo esiziale, anche se mascherato. La democrazia cristiana ritiene che sia interesse della democrazia italiana invece che la battaglia indiscriminata contro un fronte di sinistra, che taluni vorrebbero omogeneo e compatto, una assunzione chiara di responsabilità democratica del partito socialista italiano, la quale, come dissi altrove, non ne annulli la carica di sinistra ma la riconduca nell’alveo democratico a servire efficacemente ad una dialettica delle idee senza ricorso ad indebite pressioni e a violenze.
Il segretario della DC aveva pronunciato un discorso tutt’altro che d’occasione, ma aveva iniziato a porre in chiaro quei percorsi che, pur come abbiamo visto già abbozzati a Firenze, avevano incontrato molte resistenze non solo nella stampa a vario titolo conservatrice, ma negli stessi ambienti cattolici e fra le Gerarchie.
Per questo Moro sarebbe tornato con molto vigore sulla valutazione complessiva della vicenda Tambroni e dei suoi sbocchi nel Consiglio Nazionale del partito presentando il 19 agosto 1960 una relazione non solo molto ampia (ma questo rientrava nel suo stile), bensì molto puntuta nel prendere in esame i passaggi delicati della crisi.
Più volte sarebbe tornato con lunghe citazioni testuali sul suo intervento parlamentare in occasione del dibattito sulla fiducia al governo Fanfani e avrebbe sempre cercato di negare che si volesse dare un giudizio negativo sugli uomini della DC che avevano servito nel precedente governo. Tuttavia da subito voleva mettere in chiaro quale avrebbe dovuto essere la natura del governo Tambroni così come promosso dal suo partito: un gabinetto “amministrativo” che era stato subito snaturato dal voto di fiducia determinante del MSI.
Sono note le vicende per le quali, malgrado il voto determinante del MSI, la DC fu indotta, restando tuttavia ferme le sue valutazioni e quindi anche quella della radicale inconciliabilità tra Democrazia Cristiana e fascismo o neofascismo, a mantenere in vita il Governo presieduto dall’on. Tambroni, votando al Senato la fiducia al Governo.
[…]
Determinante per il nuovo atteggiamento della DC era il doveroso rispetto per la persona e per i poteri del Capo dello Stato oltre che la preoccupazione, in tali circostanze, di restare scoperta di fronte ad una opinione pubblica già diffidente verso l’azione dei partiti e stanca per una crisi lunga e che a molti era riuscita scarsamente comprensibile nella sua origine e nel suo svolgimento.
Tuttavia questo non era riuscito a riportare l’esperimento nell’alveo del governo amministrativo di tregua, perché non l’aveva consentito il PCI, ma neppure gli altri partiti lo avevano fatto, sicché tutto aveva preso un’altra coloritura.
Ma in realtà sin dal primo istante, e formalmente a partire dai fatti di Genova, si manifestava con tutta chiarezza il modo proprio di essere del fascismo, o neofascismo che fosse, la sua contrapposizione di fondo ai temi vitali ed ai valori essenziali della democrazia, la sua accettazione ed anzi l’esaltazione di una vicenda storica condannata, prima che dalla sensibilità politica, dalla coscienza morale del popolo italiano, il suo favore per quella radicalizzazione della lotta politica, fatale della democrazia, che è auspicata da tutte le forze estremiste. Il neofascismo, dunque, presente nella maggioranza, non accettava sostanzialmente la tregua, tendeva a compromettere la DC e dava esca al fuoco della iniziativa comunista contribuendo a radicalizzare pericolosamente la lotta politica in Italia. Con ciò, del resto, il Movimento Sociale, con singolare incomprensione della realtà politica italiana e della vera natura e funzione della DC, continuava nella sua politica, la sola che, date le sue premesse, è capace di fare, in essa tentando costantemente di coinvolgere la DC, forse senza neppure rendersi conto del radicale squilibrio che questo fatto nuovo e negativo potrebbe determinare nelle pur sempre delicate strutture della democrazia italiana.
Il superamento della vicenda Tambroni era dunque nato “in una situazione di obiettivo pericolo per le istituzioni ed in relazione al profilarsi di una maggioranza democratica che faceva apparire felicemente concluso, con la realizzazione appunto dell’obiettivo che ci si era prefisso, il dialogo tra i partiti e induceva a ritenere esaurito lo stato di necessità nel quale era riposta l’unica giustificazione di una formula di governo che per libera scelta la DC non avrebbe mai accettato”.
Questa conclusione era pesante e di nuovo chiudeva a quelle tendenze, presenti nella DC e in parte del mondo cattolico, gerarchie incluse, che non vedevano problemi in una maggioranza di centro-destra. Lo chiariva esplicitamente:
Le ragioni della crisi del Governo Tambroni sono nella evidente impossibilità di fronteggiare con una maggioranza di quel tipo (la sola evidentemente in discussione, non già il governo di democratici cristiani) non tanto l’attacco violento, quanto quello psicologico e politico dei comunisti contro lo Stato democratico; attacco portato sulla base di significative solidarietà antifasciste ed isolando o, peggio, legando la DC alle forze reazionarie in ragione della sua presunta collusione con il movimento neofascista. Sono nel rischio obiettivo, alimentato dalla dissennata campagna neofascista per la svolta a destra nella vita politica italiana, di una involuzione reazionaria che si illuda d’ingaggiare la disperata gara con l’estrema sinistra, fronte a fronte, sulla base dell’estremismo di destra conservatore, chiuso, retrivo e tutto affidato a strumenti repressivi di assai dubbia e provvisoria efficacia.
Noi abbiamo inteso evitare questi gravi pericoli, dissociare la DC da ogni convergenza, anche solo di fatto, a destra, reinserirla in un libero gioco politico, farla operare come forza democratica.
Non evitava neppure il problema spinoso, ma chiave in questo contesto del richiamo all’antifascismo.
Non si può dire neppure che si sia ceduto al sentimento antifascista, apparso così vivo e spontaneo in larghissimi settori del popolo italiano proprio in questi giorni. Infatti proprio in questo sentimento, pur aliena come è da ogni faziosità ed angustia, è pienamente partecipe la DC, la quale, mentre ricava il suo patrimonio ideale dalla coscienza cristiana del nostro Paese nella quale essa affonda le sue radici, trae vita, quale movimento politico operante nella presente realtà italiana, da moto di resistenza alla oppressione esterna e interna, dal fermo e coraggioso rifiuto di ogni regime che comprima la libertà umana, il quale è il punto di partenza necessario della nuova storia dell’Italia democratica.
Il passaggio che ho evidenziato è di particolare importanza, perché mostra come Moro avesse colto bene, al contrario di quel che voleva far credere una interpretazione interessata delle manifestazioni del luglio, l’evidenziarsi di una sensibilità popolare che si credeva esistesse solo nella militanza dell’estrema sinistra.
Il segretario sottolineava ovviamente la positività del largo convergere dei partiti della antica maggioranza centrista che avevano ritrovato le ragioni di storiche cooperazioni pur mantenendo identità distinte e valutava positivamente le astensioni mettendo quasi sullo stesso piano quella dei monarchici e quella dei socialisti. Peraltro sapeva bene che il punto dolente era quest’ultima, perché su di essa si appuntavano le critiche e dunque si incaricava di affrontare direttamente il tema.
Per quanto riguarda il PSI, la cui posizione e le cui prospettive di azione politica furono oggetto di così largo ed appassionato dibattito nel precedente Consiglio Nazionale, rimangono valide le posizioni responsabilmente assunte dalla DC e cioè innanzitutto il nostro grande interesse − non interesse di partito, ma in considerazione delle esigenze del Paese e della democrazia italiana – all’allargamento dell’area democratica, alla netta differenziazione tra comunisti e socialisti, ad una netta assunzione di responsabilità democratica del PSI che ne riporti pienamente nell’alveo democratico la forza ideale e la capacità di guida di una parte notevole delle masse lavoratrici.
Pur tornando sul tema dell’allargamento dell’area democratica, che era chiave per la sinistra cattolica, era consapevole delle riserve che circondavano queste ancor cautissime aperture e dunque le prendeva apertamente in considerazione.
Inoltre, nel doveroso riconoscimento dei fermenti di vita democratica affiorati in modo progressivamente più chiaro nella tormentata vita di quel partito [il PSI], la DC ne rilevava tuttavia i legami di solidarietà ancora sussistenti con le forze totalitarie del comunismo in rilevanti settori della vita sociale e politica e ne auspicava la rimozione, indicando nella piena sicurezza della vita democratica e nella garanzia della libertà e dignità del Paese, nel vincolo delle alleanze i temi sui quali esercitare lo sforzo di chiarificazione politica e di realizzazione di una piena autonomia di quel partito. La DC, mentre ritiene di essersi assunte e di poter assumere in ogni caso, con la sua politica di rottura con la destra fascista e di difesa democratica, tutte le responsabilità che ad essa competono, rinnova la sua valutazione ed esprime il suo auspicio che una autonomia realizzata senza compromessi dal PSI renda definitivamente sicura la democrazia italiana. Essa non può del resto non rilevare che l’astensione socialista dinanzi ad un Governo di chiaro impegno democratico e con una sua maggioranza sia un atto di responsabilità e di buona volontà del quale onestamente va dato atto.
Non sono tanto importanti in questo discorso gli ampi passaggi dedicati ai temi contingenti delle scelte politiche da fare, quanto è significativo riportare quella che fu la vera conclusione prospettica, prima della scontata chiusura con la richiesta di approvazione della soluzione trovata con il governo Fanfani (approvazione che naturalmente vi fu senza significative difficoltà).
Il Paese ha respinto con una lunga e sofferta esperienza il fascismo come antidoto al comunismo, il gioco delittuoso della radicalizzazione della lotta politica, della concentrazione delle forze ai poli estremi, dei sistemi di compressione della personalità umana, dello scatenarsi della violenza che pretenda impedire e sostituire i costruttivi sviluppi della libertà umana e della libertà politica. Tentati troppe volte da questa confusione, sospinti più di una volta su questa strada, invitati con equivoci allettamenti ad affidare la causa della democrazia e della dignità umana, certo minacciata dal comunismo, all’illusoria pratica dell’arbitrio, della compressione, della chiusura ad ogni nuova forma ed esperienza di vita sociale, i cattolici operanti in sede politica hanno sempre respinto, e lo hanno fatto anche in questa occasione, questa illusione e questa tentazione. Hanno respinto ogni altra posizione anticomunista che non sia quella, veramente efficace, di una pratica larga e generosa della libertà, di una politica di progresso, di una fedele accettazione e di una fervida adesione ad una democrazia senza remore e senza compromessi, veramente fautrice ed esaltatrice della dignità umana.
Da quanto abbiamo esaminato si può ben capire perché Moro prendesse la decisione di mandare i verbali del Consiglio Nazionale ai vescovi, ricevendo per esempio da Siri una ambigua risposta in cui affermava di non avere mai voluto mettere in questione l’unicità del partito cattolico (il che era anche vero, ma il punto non era esattamente questo, sebbene l’accettazione che quel partito unico elaborasse da sé la sua linea politica)[36].
Il segretario era consapevole che la soluzione trovata alla crisi dell’esperimento Tambroni sarebbe stata inevitabilmente giudicata dal risultato della tornata di elezioni amministrative previste per gli inizi di novembre. La prova non poteva essere sottovalutata dato il contesto di accese polemiche in cui tutto stava avvenendo, polemiche che scuotevano anche il mondo cattolico. Per queste ragioni Moro si impegnò a fondo nella campagna elettorale, continuando con pazienza e tenacia a ripetere la sua lettura di quanto era successo: si trattava di contrastare le interpretazioni correnti, da destra (inclusa quella ecclesiastica) e da sinistra, circa il significato da dare alle “convergenze democratiche” che reggevano il governo Fanfani.
Si era varata una nuova legge elettorale per le amministrative il cui obiettivo era liberare i partiti dall’obbligo di alleanze elettorali, il che da un lato voleva favorire il distacco del PSI dal PCI, ma dall’altro consentiva maggiori spazi di manovra anche alla DC, soprattutto per quel che riguardava i condizionamenti interni delle sue correnti.
Intervenendo a Latina il 12 settembre, Moro iniziava ad esplicitare la sua visione del sistema politico italiano: “in Italia la concentrazione delle forze politiche in un dualismo costituito fondamentalmente di due soli grandi schieramenti politici, cioè la formula che è vitale e valida in altri paesi democratici, sarebbe pericolosa per il paese. Perché uno di questi grandi schieramenti, che potrebbe mano a mano assorbire altre forze, altre tradizioni e altri consensi, sarebbe la Democrazia Cristiana; ma l’altro schieramento, al quale la Democrazia Cristiana si opporrebbe, sarebbe il partito comunista”. Peraltro si doveva tenere ben presente l’esistenza di un’altra estremità dello schieramento politico. “Il pericolo della destra esiste nella realtà politica del nostro paese. È un pericolo che si combatte non con la reazione di tipo comunista, ma con la reazione di tipo democratico cristiano”.
Avendo presente un modo di ragionare che aveva larga circolazione negli ambienti della conservazione, inclusi quelli ecclesiastici, faceva notare che “non c’è niente che rafforzi tanto il partito comunista, che l’adoperare contro di esso lo strumento della repressione politica e dell’arresto dello sviluppo sociale del paese. Questo offre delle straordinarie possibilità al partito comunista. Un blocco a destra della Democrazia Cristiana, un blocco che sarebbe chiamato, anche se questa non fosse l’intenzione, blocco fascista o parafascista, offre straordinarie possibilità al partito comunista di saldare intorno a sé necessariamente la solidarietà di altre forze politiche”. Moro presentava ai militanti ed elettori della DC una diversa prospettiva identitaria per il partito:
Non solo non siamo un ostacolo, un regresso rispetto allo sviluppo della vita democratica nel paese, ma noi siamo una garanzia, perché assicuriamo una mobilitazione democratica di vaste masse; perché noi assicuriamo una collaborazione sociale della quale non facciano le spese le classi popolari; perché noi assicuriamo la mobilitazione sul terreno democratico dell’elettorato cattolico. Ecco la nostra caratteristica di questi anni. Se non concorressero queste tre condizioni, non sarebbe possibile la vita democratica in Italia: senza vaste masse, senza collaborazione sociale, senza mobilitazione democratica dell’elettorato cattolico, in Italia non è possibile la democrazia.
[…]
Non dimentichiamo che noi siamo non un partito marxista, non un partito classista, ma un partito popolare, un partito interclassista, cioè un partito che crede nella varietà della vita sociale, nella diversità della vita sociale, nella riconducibilità della vita sociale alla unità. E vive quindi esso, come partito in sé stesso, questa diversità. Quando parliamo di varietà delle opinioni, di diversità in seno al partito, e poi vediamo ricondursi l’unità, è perché il partito identifica in sé la sintesi unitaria del paese, che noi vogliamo accettare nella varietà delle sue espressioni e vogliamo ricondurre alla unità della sintesi politica, e senza che ciò sia a scapito delle classi popolari, poiché la nostra unità è in funzione di elevazione e di progresso proprio delle classi popolari. E questa sintesi noi vogliamo tradurla nel paese.
Su questa visione sarebbe tornato con un articolo pubblicato il 16 settembre sul settimanale “Oggi” (dunque un periodico a larga circolazione ed indirizzato a quel mondo moderato-borghese da cui venivano le critiche a cui abbiamo fatto riferimento). Qui, riprendendo il discorso di Latina, ribadiva che “la D.C. non è stata chiamata a tutelare la libertà degli italiani, a fermare le forze eversive dell’ordinamento sociale che sono alla sinistra dello schieramento politico, ad assicurare la solidarietà delle diverse categorie secondo l’aspirazione e i metodi propri di una destra reazionaria chiusa ed egoista, ma secondo una autentica ispirazione democratica, secondo una reale volontà di elevazione umana e di progresso sociale in una pratica larga e fiduciosa della libertà”.
Ampiamente il ragionamento di Moro, ribadito in altre occasioni, fu ripreso nel discorso del 5 ottobre a Roma dove prendeva in considerazione il significato decisivo che da molti si intendeva attribuire alla tornata di amministrative. “Con artificiosa polemica comunisti e fascisti ci hanno dipinti in questi mesi come timorosi del responso elettorale, hanno inventato la vergogna e la paura della Democrazia Cristiana, hanno cercato di trascinarla dinanzi al corpo elettorale come dinanzi ad un tribunale che debba pronunziare un verdetto di condanna. Per mesi hanno cercato di interpretare la nostra compostezza come preoccupata apprensione e di far passare la propria spavalda, quanto illusoria sicurezza come un pegno di vittoria e cioè della rottura e della sconfitta della DC. Ma le illusioni cadranno dinanzi alla realtà del voto popolare”.
Il segretario partiva da un tema che era molto dibattuto sulla stampa, il cosiddetto monopolio del potere da parte della DC, una questione che peraltro veniva agitata già un decennio prima.
La clamorosa polemica sempre condotta ed oggi ripresa dalle estreme totalitarie contro il presunto monopolio di potere della DC è, pur nella sua obiettiva ingiustizia, perfettamente comprensibile. È la polemica infatti di chi trova sbarrato il passo proprio dalla DC all’avventura totalitaria, così alla sovversione e deformazione comunista dello Stato democratico come alla battuta di arresto che il fascismo impone alla vita democratica con la mitologia nazionalistica e la conservazione sociale e di potere. Il presunto monopolio politico della DC non è che il possesso di una forza, di un consenso, di una capacità rappresentativa che fermano comunisti e fascisti sulla via della conquista del potere e contribuiscono a creare, nella varietà e nella collaborazione, solide strutture democratiche.
L’accusa aveva a che fare sia con una particolare natura del partito cattolico, che si faticava ad inquadrare, sia con una collocazione nell’arco parlamentare secondo un bipolarismo che iniziava ad essere presentato dalla scienza politica come caratteristica dei sistemi evoluti (secondo il modello inglese ed americano)
Certamente la DC non è un partito di destra, non è la più potente e temibile espressione della destra nella vita politica italiana secondo la stolta accusa comunista, riecheggiata dai socialisti. […]
E così neppure la DC è un partito di sinistra. La nostra ferma e costante decisione in questi anni di non allineare mai il nostro anticomunismo con quello profondamente diverso e per noi inaccettabile della destra fascista e parafascista, anche solo di attenuare le radicali differenze tra noi e questi partiti, di abbandonare il terreno della più rigorosa attuazione della democrazia e del progresso sociale, di rinunciare ad una impegnativa caratterizzazione come partito popolare, democratico, antitotalitario e quindi anche antifascista, non giustifica la polemica neofascista verso la DC quasi si trattasse di un partito di sinistra che rinuncia alla sua funzione e si schiera volentieri in un fronte marxista.
Peraltro non sfuggiva certo a Moro che al di là di queste pur non marginali problematiche si agitava da più parti il problema del significato dell’astensione concessa dal PSI al governo Fanfani. Era una questione molto agitata dalle gerarchie cattoliche, ma non solo. In questo intervento, come in altri che seguirono nel corso della campagna elettorale, il segretario cercò di tenere sotto controllo una tematica che in un certo senso egli stesso, come s’è visto, aveva aperto.
Da un lato non mancò di denunciare nuovamente le incertezze del percorso del PSI e soprattutto la reticenza di questo ad abbandonare le alleanze col PCI a livello di comuni e province.
Quel partito ama polemizzare intorno alle interne divergenze della DC ed alle ambiguità che sarebbero proprie del nostro partito. Ma a maggior titolo noi possiamo denunciare il permanente oscillare del socialismo italiano tra democrazia e totalitarismo, tra talune aspirazioni democratiche e la lunga e rilevante pratica di collaborazione con il partito comunista. Un settore nel quale più vasta e continua è questa collaborazione tra comunisti e socialisti è appunto quello delle autonomie locali per le quali sarebbe stato legittimo attendersi che il Psi avesse assunto una posizione autonoma, quanto meno non avesse pregiudicato le sue future decisioni, utilizzando così il meccanismo della legge proporzionale esteso anche alle elezioni provinciali.
Dall’altro lato si preoccupava di garantire l’elettorato che la DC non aveva intenzione di prepararsi a nuove formule di alleanza, il che sarebbe però stato smentito una volta che i risultati elettorali avessero aperto il capitolo delle cosiddette “giunte difficili”. Al momento tuttavia non si volevano mostrare aperture in questa direzione.
Questo non vuol dire naturalmente, come vanno dicendo avversari in mala fede e pronti per parte loro a chissà quali combinazioni, che la DC si riservi una completa libertà di movimento alla stregua delle più opportunistiche valutazioni. Perché proprio la caratterizzazione fondamentale della DC, il suo profondo ed immutabile significato della vita politica italiana costituiscono un limite insuperabile ed una garanzia essenziale per la risoluzione dei difficili problemi del governo locale. L’elettorato può avere la certezza che in nessun caso, in nessuna situazione la DC, affrontando questi problemi, tradirà sé stessa ed i suoi impegni di fondo con l’elettorato italiano. La profonda natura della DC esclude collaborazioni con le forze estreme e con quelle che ad esse in atto riconducano. Così come la natura della DC, oltre che una significativa esperienza storica di efficaci collaborazioni anche sul terreno amministrativo e nelle più varie circostanze, fa ritenere che avrà un notevole peso nelle scelte future per il governo locale la solidarietà che i partiti democratici di alta tradizione hanno a più riprese ed anche in questo momento difficile, assicurato alla DC.
Queste cautele vennero presentate al grande pubblico anche con un articolo pubblicato sulla rivista “Epoca” il 12 ottobre dove nuovamente denunciava “la deliberazione del comitato centrale di quel partito [il PSI] che ha confermato la solidarietà dei due partiti, dove si tratti di garantire le posizioni di potere della classe lavoratrice, riservando ad altre formule di governo locale, ove esse fossero ancora in tali condizioni configurabili, una possibile subordinata di fronte alla scelta di fondo fatta ancora una volta dal PSI nel senso di una larga pratica di solidarietà con il PCI”.
Questa accusa ai socialisti di non voler rompere l’alleanza a livello municipale con i comunisti Moro la rilanciava nel suo intervento alla “Tribuna Elettorale” televisiva del 12 ottobre (una sede nuova lanciata per l’occasione dalla nostra TV[37]) dove tornava ad escludere che il suo partito avesse tentazioni verso aperture a sinistra.
La Democrazia Cristiana ha già chiarito che essa definirà dopo le elezioni, ed avendo presente il risultato e il significato globale della consultazione, la propria linea per quanto riguarda la formazione delle giunte; ed ha sottolineato anche che con ciò essa non ha inteso riservarsi una indiscriminata libertà di azione, che essa appunto ritiene impegnative quelle linee essenziali e caratterizzanti della sua fisionomia politica e del suo programma che rendono impossibili collaborazioni con le forze estreme di sinistra e di destra e con quelle che ad esse in atto si riconducano; che essa si propone infine di dare nelle sue scelte un notevole peso ai partiti che, in sede politica come in sede amministrativa, hanno avuto fecondi contatti con la Democrazia Cristiana ed in atto ne sostengono il Governo, al quale il loro appoggio conferisce prestigio, autorità e rilievo democratico
Il segretario in un discorso il 24 ottobre a Venezia riconosceva un significato positivo ai dibattiti televisivi (nonostante la sua prima performance in essi non fosse stata brillante): “questa volta la libertà è diventata, per il tramite della Radio e della Televisione, più penetrante. Di ciò la Democrazia Cristiana non mena vanto, anzi riconosce che si tratta di un diritto in questa fase di più ricco collegamento con l’opinione pubblica; tuttavia mentre ricorda che essa non ha opposto alcun ostacolo al godimento di questo diritto, afferma contemporaneamente che a questa innovazione si è giunti non già attraverso la pressione delle altre forze politiche, ma per libera decisione del governo democratico”. Uno dei temi di fondo rimaneva però il rapporto con l’area del socialismo. Qui Moro insisteva che il partito aveva “cercato oltreché di difendere, anche di potenziare, di allargare l’area democratica, proponendo ai partiti ai confini di quest’area una serie di problemi che ne chiarissero la natura”, sebbene “malgrado i nostri sforzi l’area democratica [sia] ancora ristretta”.
La spiegazione di questo stato di cose era ancora individuata nella presenza nel sistema politico italiano di due polarità estreme che costringevano la DC a porsi come perno insostituibile per la formazione di coalizioni a sostegno della democrazia.
Noi deluderemo il PCI due volte non andando a destra e non cedendo di un passo nella politica di difesa democratica. Ma il comunismo non va battuto attraverso blocchi estremizzati, ma facendo leva sulla libertà e promuovendo i valori democratici con una più umana soluzione dei problemi economici, sociali e politici. Anche il fascismo è un sostanziale, efficace aiuto all’affermarsi del comunismo. Il Movimento sociale italiano svisa la realtà delle cose, quando afferma che la D.C. ha ceduto al marxismo. Mentre tutti sanno che essa nulla ha concesso al marxismo né dal punto di vista dottrinale né nei confronti delle forze che da questo derivano. Del resto, il neofascismo accusa prima la D.C. di essere di sinistra, e si pone come unica alternativa al marxismo, poi dice di essere disponibile per una alleanza con la D.C. stessa. Ma noi non accettiamo questa disponibilità per la netta differenza che ci divide e perché una alleanza con la destra reazionaria snaturerebbe la D.C. e la porterebbe fuori dal territorio democratico. In realtà vi è una collusione di fatto tra comunismo e fascismo (come dimostra la esperienza siciliana), ambedue tesi verso l’unico comune obiettivo che è quello di battere la D.C.
Questa lettura sarebbe a lungo rimasta tipica della strategia politica di Moro nel suo percorso di realizzazione e poi di gestione della cosiddetta apertura a sinistra. Lo avrebbe ripreso nel contesto di questa campagna elettorale in un discorso a Milano il 29 ottobre, dove aveva ribadito la scelta compiuta già da De Gasperi di rifiutare ogni cedimento alle estreme, specificando però che la DC puntava sempre sull’allargamento della base democratica.
In due modi la D.C. promuove l’ampliamento della democrazia: auspicando crescenti suffragi per i partiti democratici, e mediante la viva sollecitazione a quei partiti che si trovano a mezza strada tra democrazia e totalitarismo, perché rivedano la loro situazione e compiano passi decisivi. Per le estreme abbiamo innalzato muri invalicabili; per le forze che rivelano una possibilità di scendere sul terreno democratico c’è il nostro invito, il nostro pungolo, rispettoso delle specifiche ideologie, ma teso a far assumere agli altri quelle responsabilità che nel contempo la D.C. assume per parte sua.
Era un modo per tornare sulla questione dell’apertura al PSI ribadendo la chiusura verso i comunisti, il che però non contemplava, come da diverse parti si auspicava, arroccamenti anticostituzionali: “Noi siamo contro ogni forma di democrazia protetta, contro ogni collettivismo nazionalistico, contro la pesante bardatura mitologica che nasconde i problemi sotto una coltre addormentatrice, contro l’anticomunismo verboso e sterile di un totalitarismo che eccita e potenzia l’altro totalitarismo”. Del resto due giorni dopo a Firenze Moro avrebbe rivendicato con orgoglio il lavoro suo e dei cattolici per la stesura della nostra Costituzione.
Chiudendo la campagna elettorale il 4 novembre a Bari (dunque nel suo collegio storico) il segretario, dopo aver riconosciuto che vi era un significato generale in quell’appuntamento, perché “quando è il corpo elettorale quasi intero che si muove ci si trova di fronte ad una espressione della sovranità popolare, che non può non incidere sulla atmosfera politica generale del Paese”, aveva ancora una volta sottolineato che si era “dimostrato la permanenza delle caratteristiche storiche della Democrazia Cristiana, la quale non medita e non vuole né la svolta a destra (come quella ipotizzata dal PCI) né la svolta a sinistra (come quella che il MSI e l’estrema destra accusano di preparare)”.
Non gli sfuggiva certo che si votava sotto il ricordo di quanto era avvenuto con l’avventura di Tambroni e per questo tornava ad affrontare direttamente quel nodo.
Quando la D.C., cessate le convergenze fra i partiti di quell’area, si è trovata di fronte all’indeclinabile dovere di governare il Paese, lo ha fatto adempiendo ad un preciso dovere, ma senza mai accettare di essere unilateralmente collocata a destra dello schieramento politico nazionale. Anzi, quando si è tentato di condizionarla ad una forza totalitaria ed estremista, la D.C. non ha esitato a mettere in crisi un governo benemerito. Se non lo avessimo fatto, oggi la situazione sarebbe notevolmente diversa e la campagna elettorale impostata dal PCI su una D.C. tutta a destra, sarebbe stata una inconfutabile realtà. Per tre volte i governi, proprio per evitare una qualificazione a destra, si sono dimessi per impulso del partito e per volenteroso atto dei componenti la compagine ministeriale. La D.C. non ha neppure ceduto alla piazza, come si è da più parti sostenuto con una polemica faziosa. Al contrario, quando ha visto la minaccia di uno scontro tra i due estremismi, realizzate le convergenze democratiche, ha ancora una volta dimostrato che è al centro dello schieramento politico nazionale. Abbiamo operato con prudenza e con un senso di responsabilità, ma non abbiamo dimenticato gli impegni, sia pure pesanti, che deve assumere in taluni momenti un partito che guida la vita politica del Paese.
Altrettanto doveva fare con la vexata quaestio dell’atteggiamento verso il PSI e anche in questo caso non recedeva dal dare nuovamente prova ai suoi critici di quanto fosse cauto e realista nel valutare il punto della situazione.
Nenni ha avuto la possibilità di fare il passo decisivo verso l’area nella quale è chiamato con il suo partito da una esigenza storica. Ma ha perduto nuovamente la grande occasione, cadendo nei soliti equivoci e nella immancabile incertezza, fino a misconoscere l’entità del pericolo comunista che è nelle cose e nello stesso comportamento del PSI il quale in tema di libertà si sforza pur di distinguere la sua ideologia da quella del PCI. Tali esperienze hanno dimostrato che siamo ancora lontani dal poter contare sul PSI, che ha fondato le sue fortune su un continuo ondeggiamento tra totalitarismo e democrazia.
Il riconoscimento della rilevanza dell’appuntamento con le urne torna nell’appello elettorale che pubblicava su “Il Popolo” del 6 novembre, dove ricordava che “la politicizzazione delle elezioni è un fatto, del quale la D.C. non poteva e l’elettorato non può non tener conto”, mentre sottolineava come il governo delle “convergenze” guidato da Fanfani non dovesse essere oggetto di speculazioni “sulle differenze, del resto ben chiare, tra i partiti per quanto riguarda le prospettive politiche che ciascuno di essi persegue. Proprio perché queste prospettive diverse sono fatte salve, sono più chiari la ragione, la serietà, il merito dell’impegno comune assunto a difesa della libertà”.
Gli esiti erano stati tali per cui Moro si dichiarava “molto soddisfatto in complesso dei risultati e del significato di questa consultazione elettorale”[38] che giudicava “convalidare nel suo significato e nella sua funzione l’attuale formula di governo basata su convergenze democratiche”. Una valutazione che avrebbe ripreso in un intervento per il numero del 5 gennaio 1961 del settimanale “Oggi”, intervento peraltro anticipato il 30 dicembre sul quotidiano del partito, facendo notare che non si poteva “non tenere conto, a questo proposito, innanzi tutto delle difficilissime condizioni nelle quali è stata combattuta la battaglia della D.C. non solo per l’usura derivante dal lungo esercizio del potere, ma anche per l’inevitabile contraccolpo delle difficili vicende verificatesi in questi due primi anni di legislatura, i quali hanno visto la D.C. far fronte come meglio poteva ad una situazione politica mutevole, agitata e difficile, ed assumersi, come era del resto suo preciso dovere, le indeclinabili e pesanti responsabilità del governo nelle circostanze più sfavorevoli”.
I risultati delle elezioni amministrative aprirono in realtà una serie di problemi, perché la maggioranza stretta dei “convergenti” (DC, PLI, PSDI, PRI) non era sufficiente per formare le giunte in tutti i comuni, specie in alcune grandi città simbolo (nelle province per lo più la situazione era controllabile). Socialdemocratici e repubblicani erano più o meno inclini a guardare a qualche coinvolgimento dei socialisti, sebbene il quel partito le posizioni fossero abbastanza polarizzate, mentre i liberali vedevano come fumo negli occhi qualsiasi ipotesi di apertura. In questo contesto Moro si diede molto da fare fra novembre e gennaio tenendo i contatti con tutti i segretari di partito incluso Nenni. Sapeva bene delle alzate di scudi che esistevano fra i vescovi (a cominciare dal card. Ottaviani) e delle sponde che questi trovavano nella DC. Il papa Giovanni XXIII e il suo collaboratore mons. Dell’Acqua non vedevano affatto bene questo agitarsi del conservatorismo che favoriva il neofascismo e naturalmente questo giocava a favore del gruppo dc (Moro, Fanfani, Gui e Gava) favorevole a trovare qualche cauta forma di apertura ai socialisti. Così il 21 gennaio venne varata la prima “giunta difficile” con la partecipazione del PSI a Milano, il 7 febbraio a Genova, il 17 febbraio a Firenze. Andreotti bollò il tutto sentenziando che “l’Azione Cattolica non ci aveva preparati alla vita politica per dare ‘amarezze gravi’ alle gerarchie ecclesiastiche” e polemiche di stampa interessate contro il tradimento della DC verso il suo elettorato furono frequenti con riverberi sul mondo cattolico[39].
L’occasione statutaria per tirare le fila di quanto era accaduto si presentò con il Consiglio Nazionale della DC del 20-22 febbraio 1961. Qui Moro ebbe modo di presentare con il solito amplissimo ed articolato intervento la visione che aveva ispirato la politica del gruppo dirigente del partito (in realtà più lui e Fanfani che gli altri) per poi affrontare direttamente in sede di replica le critiche, per non dire gli attacchi che gli erano venuti dalle correnti di sinistra.
Nella sua relazione il segretario continuò ad insistere sul fatto che la DC aveva sì una vivace dialettica interna, ma poi agiva unitariamente consapevole dei suoi doveri come partito-perno del sistema politico italiano: lo faceva giovandosi “della sua prudenza ed insieme della sua prontezza; prudenza con la quale viene conservato e valorizzato tutto quello che può essere conservato della sua esperienza politica; prontezza con la quale, sulla base di una tale continuità, si sono affrontate nuove necessarie esperienze che contribuiscono esse pure a rendere possibile alla DC l’assolvimento dei suoi compiti di garanzia e di guida nella vita democratica del paese”.
Era chiaro che la questione di fondo stava nell’atteggiamento da avere verso il PSI e nel ribadire che ciò non significava aprire un varco alla crescita del PCI. Sul primo punto si voleva mostrare cautela e lo evidenziava sin dall’inizio. “La sostanziale immobilità elettorale del partito socialista, per non dir altro, sta ad indicare l’impossibilità di espansione che si riscontra sulla base di posizioni tormentate dal dubbio e non ancora limpidamente chiarite”. Sul secondo punto si richiamava la diversa natura dell’opposizione democristiana al comunismo, trattandosi di “un partito che assume la concezione cristiana dell’uomo e della società ed in questo spirito si impegna nell’esperienza storica di conciliare le masse cattoliche con i valori propri dello stato democratico”, sicché “l’anticomunismo della DC discende dunque limpidamente dai nostri principi di libertà, di dignità umana e di solidarietà sociale. È quindi esso stesso un impegno di libertà, di solidarietà e di progresso”. Per questo doveva essere “fin troppo chiaro che la nostra pur ferma posizione anticomunista non va confusa con quella della destra conservatrice o totalitaria”.
Moro metteva in chiaro che era da escludere la risposta alla sfida comunista quale era stata impostata dall’estrema destra (e all’epoca in vari ambienti cattolici non mancavano simpatie per l’esperimento del franchismo spagnolo).
Così il fascismo si è illuso di aver messo fuori corso il comunismo con una pratica di violenza che ha soffocato le voci umane, ha eluso i problemi, ha sostituito ad un vero ordine di giustizia una gigantesca coercizione che la retorica obbligata doveva glorificare come un autentico ordinamento rinnovatore. Niente in realtà dei problemi di una moderna società era con questo risolto. Noi rifiutiamo perciò, come del resto abbiamo sempre rifiutato in questi anni, pur consapevoli come siamo della gravità del pericolo comunista, il vano e pericoloso insegnamento del fascismo, l’inganno di una pratica liberticida che lascia integre le radici del male. Respingiamo perciò anche quello che è il malcelato corollario di queste premesse, l’invito troppe volte ripetuto all’indifferenziato blocco d’ordine che ha rappresentato e rappresenta il punto più alto delle aspirazioni della destra italiana, la quale s’illude che i problemi della società italiana sarebbero risolti, solo che la Democrazia Cristiana, facendo violenza a se stessa, accettasse, restando miracolosamente integra come fatto politico e come fatto elettorale, di entrare in un blocco di forze rivolto al mero contenimento dei sussulti provocati nel corpo sociale, alla repressione delle spinte eversive inevitabili in una società che non ha raggiunto il suo naturale sviluppo.
Era altra la direzione in cui si doveva marciare. “Certamente la politica di riforme e di concreta soluzione dei problemi economico-sociali della comunità è una componente di una moderna e democratica battaglia contro il comunismo. Ma soprattutto occorre una visione organica della realtà politica, uno spirito veramente democratico che rompa l’angustia del riformismo spicciolo ed opportunistico e collochi anche questo strumento di lotta in una prospettiva strategica di vasta portata”.
Il problema del contrasto al comunismo era centrale per contenere gli attacchi del centrodestra conservatore, clericale e non solo. Moro trattava sempre il tema con ampiezza. In questo caso ricordava “il realismo” con cui si muoveva il PCI che badava ad agire nel quadro costituzionale. “L’affrontare il comunismo sul terreno democratico, come prima si diceva, non è dunque una concessione o una furberia o un’abilità politica. È un fatto di rigorosa necessità, perché è su questo terreno che il comunismo opera pur con la sua riserva finale ineliminabile”.
La Dc nella lotta al comunismo
può condurre senza esclusivismi, ma certo con ineliminabile ed insostituibile presenza, ed in modo più penetrante che per il passato, un’azione che non sia tanto di contenimento del comunismo, ma di superamento di esso con la costruzione di una prospettiva più compiutamente, più veramente democratica che vanifichi la prospettiva comunista. Ciò implica la promozione economica e sociale di tutti i ceti, la risoluzione di strozzature secolari, la eliminazione dei dislivelli tra individui, categorie e zone, la liberazione dall’ignoranza e dalla insensibilità, lo sviluppo e la espansione della cultura, la riaffermazione dei diritti sindacali, civili, politici nel loro pieno contenuto. Non abbiamo propriamente niente da cambiare, ma dobbiamo solo guardare più lontano, operare con più energia, con maggiore organicità, con più penetrante impegno sulla via che abbiamo già scelto e che ha salvato finora l’Italia dal comunismo.
Non era esattamente la risposta che placava il centrodestra, ma era quella a cui la gerarchia cattolica, specie ora col nuovo papato, avrebbe avuto difficoltà ad opporsi. Moro si compiaceva della collaborazione ottenuta anche a livello di articolazioni locali del partito e ribadiva che ci si era sempre mossi nella prospettiva di quanto stabilito dal congresso di Firenze. Ma soprattutto sosteneva che nel promuovere gli accordi per i governi locali si continuava in quell’ottica di “convergenza” che aveva portato al superamento dell’esperimento Tambroni. “La coerenza sostanzialmente realizzata infatti si riferisce allo spirito delle intese sulle quali riposa il presente governo e non pone mai, anche laddove appaiono possibili solo diverse soluzioni, inammissibili preclusioni che infirmerebbero esse sì le basi dell’accordo politico che oggi ci regge”.
Si veniva così al punto centrale su cui si sarebbe poi svolto il confronto in Consiglio Nazionale: il quadro prospettico che aveva orientato le scelte sulle alleanze amministrative.
Sul piano negativo un’altra fondamentale direttiva politica: evitare ogni apporto, e comunque configurato, delle estreme totalitarie, il partito comunista ed il MSI. Per i casi non coperti, per impossibilità numerica, da formule di convergenza, si dava cautamente ma chiaramente la prospettiva di una limitata collaborazione con altri partiti, ovviamente diversi da quelli della convergenza e da quelli che occupano i poli estremi dello schieramento politico italiano, e cioè il PSI ed il PDI. Si richiedeva per queste limitate intese piena autonomia politica ed ideologica della DC, la formulazione di un programma di autonomia e di progresso, l’assicurazione che non fosse per verificarsi nessuna interferenza delle ali estreme totalitarie, la garanzia della conservazione dell’equilibrio politico generale.
Il segretario ricordava quindi al partito il quadro in cui ci si era mossi: il PCI e il MSI rispettivamente disponibili solo ad alleanze che essi potessero connotare in maniera decisa; repubblicani e socialdemocratici con atteggiamenti ondeggianti; il PLI con una politica difficile da interpretare. In conseguenza
Il delicato equilibrio politico del Paese non consente anche su questo terreno forzature, esclusivismi, posizioni di rottura. Richiede ancora una volta quelle posizioni equilibrate e responsabili che sono proprie della DC. È necessario a questo punto stabilire su quali basi politiche, con quali cautele e con quali limiti si è proceduto in sede amministrativa a stabilire rapporti con partiti diversi da quelli della convergenza parlamentare. È da avvertire che le posizioni del Pdi sono apparse raramente determinanti e compatibili in concreto solo con quelle del partito liberale. Repubblicani e socialdemocratici hanno invece rifiutato di concorrere comunque alla formazione di giunte per le quali sussistesse il concorso determinante del Pdi.
Era stato a questo punto che “nel senso di una intesa con il PSI in alcune situazioni concrete si esercitava la spinta vivace dei partiti di centro sinistra che appoggiano il governo. In realtà è risultato che in molti casi i problemi del governo locale, erano risolubili esclusivamente mediante un accordo amministrativo con il partito socialista. Non vi erano soluzioni alternative”. Su quest’ultimo punto Moro tornerà più volte, anche perché era ciò che smontava le critiche delle ali conservatrici. Lo argomentava apertamente:
Per quanto riguarda la formazione delle giunte vi sono state due direttive politiche del PSI, sulla cui conciliabilità la perplessità è stata grande nelle stesse file socialiste. La prima direttiva, enunciata prima delle elezioni, confermata dopo di esse e rigorosamente attuata, è quella del mantenimento delle posizioni di potere della classe operaia mediante l’associazione con le forze comuniste nel governo delle amministrazioni locali. La seconda consiste nell’offerta di collaborazione per la costituzione di giunte di centro sinistra, fatta alla DC ed ai partiti di centro sinistra, là dove, per la mancanza sia di una maggioranza di sinistra sia di una maggioranza di convergenza democratica, il problema delle amministrazioni non potesse essere risolto che attraverso un incontro tra alcuni partiti democratici ed il partito socialista. In altri termini una specie di stato di necessità che fungeva da impulso, sia per i socialisti sia per gli altri partiti, nell’interesse delle popolazioni da amministrare, a sperimentare collaborazioni in un ambito diverso da quello tradizionale di ciascun partito con la giustificazione della impossibilità, altrimenti evidente di rendere funzionanti quelle autonomie locali.
Chiariva che non si erano fatte le scelte di apertura al PSI: “l’operazione non è stata concepita da noi come una spregiudicata operazione di potere”, ma piuttosto per evitare che si formassero vuoti di potere poi colmabili non si sa da chi. E tuttavia non negava che “pur con tutti i limiti e le riserve fatte sopra, a queste limitate collaborazioni amministrative abbiamo attribuito il valore di una sperimentazione” in quanto “il terreno amministrativo era buono per saggiare le possibilità di ampliamento dell’area democratica. Più in là non si deve andare”. Di conseguenza
Parlare in tali condizioni in termini drammatici di apertura a sinistra, di crisi ideologica, di cedimento al marxismo e perfino di chi sa quali ripercussioni sul terreno della politica estera è davvero un vaneggiamento incomprensibile e pericoloso. Non è la realtà della operazione giunte, con il suo significato, la sua misura e la sua compostezza, che può accreditare questa impressione
[…]
Anche l’entità delle realizzazioni, benché non sia lecito svalutare e definire insignificante quel che è accaduto, non è tale da incidere, sostanzialmente modificandola, nella realtà politica attuale. In particolare non può dirsi infirmato, ad un esame obiettivo e sereno quell’equilibrio di governo del quale la DC ha ripetutamente confermato, come fa ancora adesso, la validità.
Moro tornava ancora una volta a sottolineare come vi fosse da sottrarsi alla tenaglia in cui si voleva ingabbiare l’opinione pubblica: “la sinistra comunista riconduce a fascismo tutto quello che non sta al suo gioco, e la destra fascista, nell’orpello ipocrita dei suoi casi di coscienza, identifica con giudizio parimenti sommario nel comunismo tutto quel che non accetta di spiegarsi alla sua inumana pretesa”. Era invece necessario affrontare il problema dell’allargamento dell’area democratica e dunque del confronto col PSI per quanto l’operazione richiedesse cautela.
L’auspicio sempre ripetuto che quel rispettabile travaglio abbia uno sbocco democratico, il doveroso riconoscimento di alcuni sforzi fatti sinora, certo con sacrifico e con rischio, sulla via dell’autonomia di quel partito, il particolare interesse sempre dimostrato dalla DC per quelle vicende, proprio in ragione della sua doverosa preoccupazione per l’avvenire della democrazia italiana e per la sua natura di partito popolare, non tolgono nulla alla severità ed al rigore della nostra polemica con quel partito, alla nostra contestazione, che fu fatta tra l’altro al congresso di Firenze, confermata dai nostri consigli nazionali e mai ritirata, circa i legami totalitari che ancora appesantiscono quel partito e le innegabili divergenze di fondo che rendono, anche del resto per riconoscimento socialista, impensabile nell’attuale situazione una collaborazione politica tra i due partiti.
[…]
Dei partiti che hanno assunto l’impegno della difesa democratica del nostro paese nessuno, io credo, e meno che mai la DC, ritiene che siano irrilevanti e trascurabili i motivi di fondo che hanno sinora impedito di utilizzare il partito socialista nella direzione politica dello Stato, che hanno creato il problema tuttora aperto dell’assestamento democratico del Psi nell’ambito del movimento operaio. Siano perciò tranquilli gli amici e gli elettori della DC che anche per l’avvenire, serenità, responsabilità e prudenza guideranno le nostre azioni.
Il dibattito al Consiglio Nazionale non fu certo pacifico. Moro replicò dettagliatamente premettendo che “può darsi che sia costretto ad essere un po’ lungo”. Dopo una affermazione di modestia (“si dice che io abbia qualche dote politica e nessuna dote organizzativa. Credo di non avere nessuna particolare dote politica e ancora meno doti organizzative”) e dopo essersi dichiarato pronto al confronto congressuale come veniva sollecitato da alcuni, richiamava l’importanza della gestione unitari del partito, il che però non significava chiudere gli occhi di fronte alle tensioni interne.
Mancherei però al mio dovere, se non dicessi che vi sono delle manifestazioni, o meglio delle modalità di manifestazione, di opinioni nell’ambito del Partito che destano grave perplessità e disagio e possono contribuire a mettere in difficoltà la Democrazia Cristiana. Ritengo quindi che non si tratti tanto di toccare il principio, che è sacro, del libero dibattito delle idee, quanto di trovare un’auto-disciplina, (perché, io, come sapete, non credo alla disciplina nemmeno in famiglia), un’auto-disciplina, soprattutto per quanto riguarda il tempo e il modo nei quali vengono manifestate queste opinioni.
Quel che metteva in difficoltà il partito era non ammettere che accanto ai “limiti a sinistra” esistevano anche “limiti a destra”: “ne ho già accennato nel corso della relazione, con una insistenza che mi è abituale e che esprime una mia convinzione, che cioè non vi è una sufficiente consapevolezza − a mio parere − della esistenza di un pericolo a destra della Democrazia Cristiana, in genere di un pericolo a destra nella vita politica italiana”. Il tema era forte perché aveva trovato varie sponde con cui Moro si confrontava apertamente. A Lucifredi ribadiva: “ecco perché va posta ancora una volta, più precisamente proprio per queste ragioni che ho detto, la più netta differenziazione di fronte a questi oscuri e pericolosi fermenti, che, comunque, presenti e qualificati, significano in sostanza fascismo”. Ma non passava sotto silenzio l’attacco di Gonella (il cui discorso andava “al di là della critica costruttiva”), mentre puntualizzava in contrapposizione ad Andreotti e a Scelba che non era accettabile presentare la scelta delle giunte difficili come una svolta definitiva.
Si è domandato che tipo di esperimento è questo. Se è destinato a riuscire e dove sboccherà. È un esperimento, è una prova. Si tratta di forze politiche che non si sono mai incontrate. E non si può non rilevare certo l’importanza e il significato del fatto che esse ora, su questo terreno, si siano potute incontrare e abbiano cercato di superare l’una e l’altra parte, le grosse difficoltà che ostacolavano l’incontro per l’interesse di creare amministrazioni altrimenti irrealizzabili. È quindi una prova di fronte alla quale noi ci troviamo, alla quale dobbiamo partecipare con assoluta lealtà e buona fede, come ci auguriamo che altri partecipino con assoluta lealtà e buona fede. La prova è destinata a dimostrare se vi è veramente una possibilità di incontro su un terreno di serietà e di impegno amministrativo, di adesione ad un programma di sviluppo democratico senza demagogie e senza solidarietà di altro genere, che sarebbero evidentemente esiziali per queste amministrazioni.
Moro ribadiva più volte con forza che “non c’erano alternative a questa situazione”.
Questo è il significato reale delle cose che sono state fatte. Esse obbediscono agli interessi del Partito in situazioni nelle quali la nostra carenza sarebbe stata estremamente dannosa alla lunga per la DC; rispondono all’equilibrio politico generale perché sono un prezzo pagato per la stabilità del Governo; rispondono ad un interesse di fondo della democrazia italiana perché permettono quella che ho chiamato una cauta sperimentazione delle possibilità di incontro sul terreno amministrativo fra Psi e partiti democratici. Questo non comporta una variazione per quanto attiene alla guida politica del paese. I rapporti di collaborazione politica tra DC e Psi restano regolati da quanto noi abbiamo sancito nei congressi e da ultimo nel nostro Consiglio Nazionale del maggio scorso.
Il segretario concludeva ricordando il dovere di dare un senso positivo al governo Fanfani delle convergenze, senza arretrare di fronte a “sviluppi a più vasta portata della situazione politica. Questo rende difficile e mossa la nostra vita politica, eccita − come ha detto Fanfani − il nostro senso di responsabilità, impegna il nostro senso di misura”.
Alla fine il Consiglio Nazionale aveva approvato la linea di Moro, ma si sapeva bene che permanevano riserve e volontà di frenare gli sviluppi in corso. Il segretario però, secondo una linea che seguirà spesso, preferiva insistere sulla legittimazione ricevuta dagli organi dirigenti del partito, come faceva in un intervento sul “Popolo” il 3 marzo, ricordando l’ampiezza del confronto interno.
Ha portato poi il dibattito ad un’affermazione di unità per la larghissima maggioranza che si è potuta realizzare nella votazione della mozione finale, nella quale sono confluiti i consensi di esponenti che non hanno avuto difficoltà, dopo un franco dibattito nel quale anche più piccole divergenze sono state doverosamente messe in luce, di ritrovarsi insieme ad approvare una linea politica, un indirizzo operativo che risponde all’obbiettiva realtà della situazione politica, agl’indirizzi fondamentali del partito (diremmo, alla ragione storica della D.C.) e nei suoi dati essenziali alla valutazione ed alla volontà della gran parte dei democratici cristiani. Questa larghissima maggioranza, s’intende, non mira né a svalutare né tanto meno a soffocare le voci di dissenso, autorevoli, anche se poco numerose, che si sono manifestate. Anche in questo rispetto ed in questa garanzia risiede il significato e la forza dell’unità della D.C.
Questo gli faceva concludere (e l’articolo era ovviamente indirizzato agli autorevoli fiancheggiatori della minoranza conservatrice della DC) che “siamo dunque molto lontani da quei pericolosi cedimenti e da quell’apertura a sinistra senza garanzie di cui si è parlato qualche volta in questi giorni. La D.C. per la sua preminente responsabilità, per la chiara coscienza delle esigenze del paese, per la sua larga base popolare ha piena sensibilità di fronte ai problemi di sviluppo democratico che indubbiamente si propongono nella nostra società. Sa, ed è impegnata per questo, che una piena attuazione democratica condiziona l’isolamento, il superamento, la sconfitta del comunismo”.
La strada per superare le molte preclusioni all’apertura a sinistra sarebbe stata peraltro ancora lunga, ma Moro l’aveva in un certo senso mappata con determinazione. La mozione conclusiva fu votata per parti separate: unanimità sul lavoro di Moro e Fanfani, 11 astensioni pesanti sulla questione delle giunte[40]. Gonella disse a Fanfani che voleva dimettersi dal Consiglio Nazionale e gli rivelò che era stato istigato dal card. Siri a fare il suo intervento. Che in ambienti ecclesiastici si operasse per far cadere Moro risulta da diverse fonti e la situazione provocava reazioni negli ambienti progressisti del mondo cattolico[41].
Il segretario della DC si adoperò allora per sostenere le conclusioni assunte con interventi sulla stampa. Tipico l’articolo pubblicato su “Oggi” il 9 marzo, anticipato su “Il Popolo” il 3, in cui ricordava che “la polemica non era così cieca ed irresponsabile da negare taluni dati obiettivi della situazione politica del paese, la rettitudine delle intenzioni, le straordinarie difficoltà e le contrastanti esigenze di fronte alle quali si è trovata l’azione dei responsabili della Democrazia Cristiana”. Si era perciò giunti a conclusioni condivise con “larghissima maggioranza”, sebbene ciò “non mira[sse] né a svalutare né tanto meno a soffocare le voci di dissenso, autorevoli, anche se poco numerose, che si sono manifestate. Anche in questo rispetto ed in questa garanzia risiede il significato e la forza dell’unità della D.C.”.
Moro ridimensionava (tatticamente?) quel che era avvenuto.
Ha operato cioè per la formazione delle giunte, benché non vi sia stato in questo senso un preventivo esplicito impegno dei partiti, una cordiale ed efficace collaborazione tra le forze politiche che hanno dato vita e che sostengono l’attuale Governo. In generale non vi sono state preclusioni né asperità polemiche. Il complesso delle forze che regge politicamente il paese ne assume anche largamente la responsabilità in sede amministrativa. Questa direttiva fondamentale che era stata indicata dalla Direzione della D.C. è stata fatta propria dal Consiglio Nazionale che ha potuto constatarne la larga attuazione per la piena fedeltà dimostrata dalla D.C. a questa linea politica e per la cordiale rispondenza e l’alto senso di responsabilità degli altri partiti. Solo sul terreno delle giunte per le quali non esisteva una maggioranza di convergenza la D.C. ha ammesso, in determinati limiti e con ogni cautela, una possibilità di collaborazione amministrativa con il PSI.
Dopo aver detto che le giunte difficili avevano avuto origine dall’esigenza di evitare “gestione straordinarie”, chiariva che “queste nuove e certo difficili forme di collaborazione non incid[ono] negativamente sull’equilibrio politico generale né su quello di Governo, la cui stabilità, appunto, la D.C. aveva avuto sempre cura di garantire. Questi rilievi, che sono, io credo, del tutto obiettivi, non mirano certo ad immiserire queste esperienze di collaborazione, a togliere ad esse ogni significato, a minimizzare, come si suol dire, a fini tattici la portata di quello che di nuovo è stato realizzato su questo terreno. Se così fosse si mancherebbe davvero di riguardo sia nei confronti dei partiti con i quali si collabora sia nei confronti dell’opinione pubblica”.
Consapevole dei turbamenti che si registravano dentro ed intorno ai Sacri Palazzi, Moro si premurava di concludere: “siamo dunque molto lontani da quei pericolosi cedimenti e da quell’apertura a sinistra senza garanzie di cui si è parlato qualche volta in questi giorni. La D.C. per la sua preminente responsabilità, per la chiara coscienza delle esigenze del paese, per la sua larga base popolare ha piena sensibilità di fronte ai problemi di sviluppo democratico che indubbiamente si propongono nella nostra società. Sa, ed è impegnata per questo, che una piena attuazione democratica condiziona l’isolamento, il superamento, la sconfitta del comunismo”.
La situazione generale sembrava però aiutare il disegno del segretario dc. Il congresso socialista tenutosi a Milano dal 15 al 20 marzo aveva visto un per quanto limitato successo di Nenni col 55% dei consensi, sufficiente però per mantenerlo alla segreteria. Repubblicani e socialdemocratici contenevano le impennate di Malagodi e dei liberali, che se da un lato criticavano Fanfani, dall’altro per il momento non osavano spingere per una crisi di governo. Anche sul versante ecclesiastico c’erano evoluzioni. L’11 aprile Fanfani aveva reso visita al papa nel quadro delle celebrazioni per il centenario dell’unità d’Italia, e Roncalli aveva pronunciato il famoso discorso sul “Tevere più largo”. Non abbastanza per mettere fine alle manovre della destra clericale, ma più che sufficiente per privarla del riferimento indiscusso al Vaticano (nonostante una posizione abbastanza ambigua del segretario di stato card. Tardini).
Le stesse inquietudini in campo internazionale consigliavano prudenza. Fra il 17 e il 20 aprile c’era stato il fallimentare tentativo anti Castro con il fallito sbarco nella Baia dei Porci, ma soprattutto fra il 22 e il 26 aprile si verificò il famoso pronunciamento dei generali ad Algeri contro De Gaulle. Nonostante questo, in parte anche per questo, non mancavano fibrillazioni nei partiti sulla solita questione se le “convergenze” dovessero essere interpretate come un ritorno al centrismo che trovava una tiepida neutralità del PSI, sempre col problema della opportunità di una sua rottura col PCI, oppure come un primo per quanto cauto passo verso l’apertura a sinistra come pensava soprattutto La Malfa.
Continuando nella sua azione di chiarificazione ad un largo pubblico su quanto stava avvenendo Moro pubblicava un intervento su “Epoca” il 21 maggio, ma lo anticipava sul quotidiano del partito il 16 per dargli un accreditamento come espressione di linea politica. Partiva naturalmente dalla questione del confronto coi socialisti dopo il loro congresso.
… è solo necessario richiamarne, di fronte ad interpretazioni parziali e superficiali, il significato complessivo. Si è fatta fatica a trovare un solido punto di passaggio tra il passato e l’avvenire, a comporre un equilibrio capace di evitare pericolose fratture e di assicurare una graduale ordinata evoluzione della situazione politica. Le difficoltà incontrate sono l’espressione di questo sforzo di prudenza, di continuità democratica, di responsabile apertura verso nuove esperienze. Le battute d’arresto ed i momenti di incertezza sono derivati dalle obiettive asperità della situazione non da una presunta incapacità di scelta della D.C. o peggio dalla sua volontà di non mettersi sulla strada della sinistra o della destra, per non pagare il prezzo di questa decisione e per conservare con chiunque ed in una pericolosa oscillazione tutto il potere nelle proprie mani. Se la Democrazia Cristiana non ha preso decisamente, come qualcuno chiedeva, la strada di una politica di sinistra o di destra, è perché essa le ha ritenute inaccettabili e rovinose per il Paese, in contrasto con la sua natura e con la sua funzione, riconosciuta e consacrata con un impegno elettorale che esclude ogni sbandamento anche mascherato. Essa ha coraggiosamente interpretato la situazione in termini di equilibrio democratico, senza involuzioni, ma anche senza avventure, pure quando ogni possibilità di equilibrio democratico – una terza strada – sembrava esclusa.
Il segretario metteva in luce come “l’usura derivante dalla lunga impegnativa azione di restaurazione democratica del Paese ha condotto progressivamente ad una limitazione dell’area politica occupata dalle forze democratiche e che aveva trovato nella vittoriosa battaglia antitotalitaria del 1948 la sua massima espansione”, per cui ormai “si profilavano diverse sensibilità e prospettive in relazione ai problemi nuovi che l’incessante sviluppo della vita economica e sociale italiana andava mettendo in luce, si lanciava lo sguardo in altre direzioni, si attenuava grado a grado quel cemento unitario, fondato sui comuni ideali democratici”.
In conseguenza di questo venir meno di una sorta di alleanza obbligata sulla base del contenimento del comunismo, non si doveva però cedere alla teoria del bipolarismo che cominciava a trovare ascolto nelle riflessioni degli studiosi di politica.
Uno schieramento destra contro sinistra, nel quale contro la verità, e tuttavia obbedendo alla logica fatale delle situazioni politiche, la Democrazia Cristiana rischiava di essere trascinata a destra ed impedita di assolvere alla sua funzione e, quali più quali meno, le forze democratiche specie di sinistra venivano avvolte dalle spire di un frontismo soffocatore. Si ponevano le premesse per trasformare la pacifica e costruttiva competizione democratica in lotta o addirittura in guerra civile. Si mortificavano le stesse forze democratiche di centro-sinistra[42] che nell’appesantirsi della situazione vedevano ridotto lo spazio per un sereno dibattito politico e per un’efficace azione di conquista democratica.
Moro richiamava il significato del governo Fanfani delle convergenze: la soluzione di “fare uscire il paese da gravi condizioni di disagio e di pericolo per le istituzioni è stata quale poteva attendersi dall’alto senso di responsabilità dei partiti, non insensibili alla lezione di avvenimenti che dimostravano la impossibilità di accorciare il lungo, lento e difficile procedere delle evoluzioni politiche, specie quando esse siano legate nella dimensione interna ed in quella internazionale ai grandi problemi della libertà dell’uomo nell’organizzazione sociale e della sicurezza democratica”. Non ci si poteva però fermare a questo, sebbene fosse prudente considerare una convergenza che non implicava revisione delle collocazioni politiche dei contraenti, ma risposta ai problemi “dell’oggi”. E tuttavia
Finché il presente momento politico viene giudicato nei termini che hanno portato alla costituzione del Governo Fanfani e che non sono ancora modificati, si spera che si possa dare all’oggi tutto quello che l’oggi richiede nella certezza che esso servirà a preparare il domani, se esso dev’essere davvero, come non si può dubitare che si voglia, un domani di più inteso sviluppo democratico. La scarsezza del margine di sicurezza democratica di fronte alla minacciata pressione del totalitarismo di sinistra e, anche per contraccolpo, di quello di destra impone a chi voglia vincere la battaglia democratica nel solo modo possibile e cioè con strumenti democratici, di non esaurire il prestigio delle istituzioni e di ritrarre dal complesso delle forze che possono oggi essere impegnate a questo scopo la dignità, la vitalità e la fecondità che diano indicazioni e speranza al paese.
Moro aveva ben presente che si stava parlando da più parti di una crisi di governo a novembre e che lo stesso Gronchi non era alieno dal ritenere che questo forse potesse favorire uno scioglimento della legislatura con rinvio agli elettori della decisione a favore di nuovi equilibri politici. Il segretario continuava invece a ritenere che il mantenimento della stabilità fosse necessario per consentire una riflessione su sviluppi futuri come disse in un discorso a Cagliari il 25 maggio.
La questione del rapporto col PSI restava il tema chiave e il segretario lo affrontava in un intervento in giugno ad un convegno dei dirigenti dc[43], tanto che nella sua replica notò subito che “qualche amico ha lamentato una eccessiva polarizzazione della vita politica italiana intorno al tema della presenza socialista nella vita democratica del nostro Paese”. Respingeva il rilievo rimarcando la centralità del suo partito ricordando come
se non ci fosse stata una forte Democrazia Cristiana, ma soprattutto se non ci fosse stato in questa forza della Democrazia Cristiana un dato reale di vita democratica, credete che sarebbe mai emersa in qualche modo questa prospettiva di autonomia, faticosamente avanzate nel partito socialista? Si sarebbe mai proposto per il socialismo il problema di una posizione da assumere, di una responsabilità da prendere, di un avvicinamento qualunque da tentare nei confronti della vita democratica del Paese, se non ci fosse stata oltre che una forte Democrazia Cristiana, un grande partito democratico che poteva offrire oltre che punti di contrattazione, anche, evidentemente, una prospettiva reale di sviluppo democratico nel nostro Paese?
Non era certo semplice offrire questa prospettiva a tutti i dirigenti del partito e dunque Moro ricordava loro che “non dobbiamo scambiare le speranze con la realtà in atti delle cose; questo è certo; ma non dobbiamo essere, dicevo stamani, neppure così scettici da non proporre con vigore il tema dell’attuazione democratica del socialismo, e non dobbiamo essere così ciechi da non vedere che il recupero della vita democratica delle ingenti forze che fanno capo a questo partito operaio, per quanto un problema proponga, difficoltà offra, è certamente un tema di grande importanza per la vita democratica del nostro Paese”. E ciò si inquadrava, come egli non mancava di illustrare affrontando le critiche di uno dei dirigenti presenti, nella riproposizione di una chiara chiusura a destra.
Ma quando l’alternativa, cari amici – come si accennava implicitamente nelle parole dell’amico Palmitessa – è l’alternativa delle intese più o meno mascherate, più o meno pulitamente presenti con le forze dell’estrema destra, bisogna dire che qui non sono nel campo del negoziabile, qui non siamo nel campo di alternative diverse ma che sono collegate in certo modo sullo stesso terreno, perché da un lato c’è una difesa di linea democratica, un tentativo prudente di espansione della vita democratica, dall’altro c’è una sicura appartenenza all’area totalitaria.
[…]
Quindi in realtà non abbiamo perduto niente, contrariamente a quanto vanno predicando organi di opinione della destra, non abbiamo perduto niente quando abbiamo lasciato quello che non valeva la pena tenere.
Dopo avere respinto qualsiasi ipotesi di alleanze a destra in nome dell’anticomunismo, perché quello propugnato da forze di quel tipo non faceva che rafforzare il PCI, Moro statuiva espressamente: “La D.C. non è nata, non si è presentata, non ha operato, non si è ampliata, non ha difeso la retta vita democratica in Italia, come un surrogato di forze di destra che non potevano presentarsi con pari dignità sulla scena politica italiana”. Chi sosteneva tesi del genere non aveva neppure colto l’evoluzione del PCI con “il progressivo spostarsi del partito comunista da partito di organizzazione e di costituzione classista, a partito di opinione che parla efficacemente ai ceti più diversi”. Anche la DC doveva imparare da questa evoluzione, sebbene il segretario cogliesse l’occasione per esporre la sua visione del ruolo storico del cattolicesimo politico: qualcosa che avrebbe, in maniere diverse, ripetuto lungo tutta la sua vita.
Perché noi sappiamo che in Italia le ragioni storiche affidano ai cattolici, come missione, di realizzare una vita democratica nel nostro Paese. Perché altri che non siano cattolici, in posizione dominante, non saprebbero utilizzare le forze profonde di libertà che sono nel mondo cattolico, forse le ricaccerebbero indietro, le farebbero succubi di forze reazionarie. Solo una D.C. forte, decisa, consapevole delle sue ragioni, può in Italia, come ha fatto finora, indicare la democrazia. Può essere un centro che chiude intorno a sé, ma un centro di espansione che proponga un allargamento – come si dice – dell’area democratica, lo proponga con accortezza, con prudenza, creando con la sua stabilità le condizioni perché ad un certo momento la vita democratica possa avere un respiro maggiore di quello che non abbia fino ad oggi ancora potuto ottenere.
Si trattava di far procedere il partito lungo una rotta impervia. A complicare il quadro interveniva una mozione di sfiducia al governo presentata dal PSI. Una mossa di Nenni per rispondere agli attacchi che gli venivano da sinistra di una sua acquiescenza alla politica dc e in parte per costringere allo scoperto le varie ali del partito di maggioranza relativa. Moro colse subito la delicatezza della situazione ed intervenne alla Camera il 12 luglio per sostenere la fiducia a Fanfani con un discorso al solito articolato e importante.
Per il segretario dc il punto chiave era controbattere alla tesi del governo delle convergenze come un momentaneo governo di tregua politica con orizzonte limitato.
Vi è stata, ed è continuata anche nel corso di questo dibattito, appunto, la polemica sulla durata dell’emergenza dalla quale sarebbe nato il Governo dell’onorevole Fanfani. Ora noi intendiamo precisare che questa espressione può essere considerata esatta, se con essa si voglia alludere ad un momento particolare di tensione, ad un momento particolare di difficoltà manifestatosi l’anno scorso per la vita democratica del nostro paese; momento nel quale emersero in modo specialmente vivo forti contraddizioni ed esasperazioni; momento peraltro destinato a sottolineare in modo particolarmente vigoroso l’esistenza di difficoltà, di contraddizioni, di esasperazioni che non erano solo di quel momento, ma sono, se non permanenti certo durevoli e in atto, sussistenti nella vita politica italiana. Le difficoltà di quel momento sottolineavamo in modo particolarmente vivo obiettive e permanenti: difficoltà della situazione politica italiana, difficoltà che non si sono esaurite, anche se appunto sono venute meno, fortunatamente, quelle circostanze che resero così difficile ed agitato quel momento della nostra vita politica.
Spero di poter dare comunque anche su questo punto una indicazione più precisa del mio pensiero.
Si ricorderà anche che nello stesso dibattito che ha concesso la fiducia al Governo Fanfani noi abbiamo negato che il Governo, che in quel momento stava per sorgere per la fiducia del Parlamento, fosse legato ad una transitoria situazione di emergenza, che esso fosse limitato nel tempo (io lo negai in modo esplicito), che esso fosse limitato nei compiti. Qualcuno aveva parlato della preparazione delle elezioni amministrative come del compito immediato al quale il Governo Fanfani sarebbe stato chiamato, e assolto il quale, avrebbe esaurito la sua missione.
[…]
Noi invece non ponemmo né limiti di tempo né limiti di compiti al Governo: dicemmo che esso avrebbe fronteggiato la situazione, avrebbe dato una base democratica alla vita politica italiana, avrebbe affrontato tutti i problemi che sono inerenti allo sviluppo, all’inarrestabile sviluppo della comunità nazionale.
Per lui “quelle difficoltà che furono sottolineate nel luglio scorso, ma che preesistevano a quella contingenza e che tuttora esistono nella vita politica italiana, sono in realtà inerenti alla limitatezza e alla ristrettezza dell’area democratica come noi la intendiamo”. Tutto dipendeva dalla presenza di due opposti estremismi a destra e a sinistra, e perciò “si trattava e si tratta − compito permanente, compito vivo ancora in questo momento − di salvare lo Stato democratico come arbitro della contesa fra forze sociali e politiche diverse; si trattava e si tratta di rafforzarne le strutture, di aumentarne i consensi di base, di accrescerne l’autorità; di rendere insospettabile lo Stato democratico nella misura nella quale esso si esprime in un Governo a base democratica, di renderlo insospettabile di collusioni totalitarie, di farlo visibilmente diverso dalle fazioni e perciò indipendente da esse”.
Moro si rifiutava di considerare l’episodio Tambroni come un incidente di percorso, perché ne coglieva bene le implicazioni. Da un lato la questione dell’opposizione al risorgere della estrema destra aveva aperto spazi al PCI (sebbene, e il passaggio va sottolineato, non negasse la presenza di una reazione ampia di natura antifascista): “voi potete, colleghi, qualificare questa azione comunista sotto l’etichetta di una pressione di carattere antifascista (e indubbiamente vi furono reazioni di carattere antifascista d’ordine generale); resta però il fatto che vi fu una preoccupante pressione del partito comunista nei confronti dello Stato democratico”. Dall’altro lato tornava ad insistere sul pericolo che rappresentava il ritorno sulla scena del MSI come partecipe alla maggioranza politica. “Era una presenza pericolosa, quella dell’estremismo di destra, che del suo inserimento nella maggioranza aveva fatto il punto estremo del suo continuo tentativo di realizzare in Italia una svolta politica che avrebbe dovuto coinvolgere la Democrazia Cristiana e alterare l’equilibrio politico generale sul quale si è retto il paese in questi anni di democrazia. Questo era il fatto nuovo che accresceva il peso del neofascismo, bilanciando e dando adito alla protesta comunista”.
Il tema controverso era però pur sempre l’interpretazione da dare all’astensione socialista. Moro negava, in polemica col segretario del MSI Michelini, che ci fossero stati alla base di questa delle concessioni della DC a quel partito. Tutto si inseriva nel quadro di costruzione di un governo di natura particolare orientato alla garanzia dello sviluppo democratico e non alla creazione di una intesa politica generale.
È nato così un governo di convergenza democratica, invece che un governo di coalizione. Una formula, quella della convergenza, sulla quale si è discusso lungamente, sulla quale si è anche ironizzato da varie parti. […] È una polemica facile, nella quale si è esercitata quotidianamente la stampa nel corso di tutti questi mesi. Noi abbiamo creato un governo di convergenza, cioè abbiamo configurato un libero ed autonomo confluire di forze, le quali non procedono parallele, come si è detto, ma confluiscono verso un punto comune, verso il Governo, al quale i partiti hanno inteso dar vita e che intendono mantenere in vita. È un partire da posizioni diverse, che restano integre come posizione di fondo dei partiti, ma per giungere a un punto comune.[44]
Il segretario dc insisteva sulla libertà d’impostazione che mantenevano i partiti convergenti, sebbene poi ritenesse che non si erano rivelate particolari tensioni nell’esercizio dell’azione di governo. Sapeva bene però di toccare così un nervo scoperto nelle relazioni coi socialisti, perché c’era in ballo la questione della scuola, dove gli interessi del partito cattolico nella difesa delle scuole private creavano una linea di frattura. In garbata polemica con Nenni, ricordava però che se la DC “da sempre, in particolare con De Gasperi, ha dato opera per far sì che non sorga uno steccato che divida cattolici e laici nella vita democratica italiana, anche i partiti laici, però, hanno sufficiente senso di responsabilità per comprendere che in questo lavoro bisogna essere in due, bisogna avere reciproca comprensione se si vuole fondare su solide basi la democrazia italiana”. Ma era una questione che sarebbe pesata lungo tutta l’esperienza del centrosinistra.
Moro affrontava abbastanza apertamente la questione dell’eventuale allargamento della maggioranza al PSI. Richiamava che il recente congresso socialista aveva escluso ogni “maggioranza organica con la democrazia cristiana”, e ricordava che invece “ci è proposta come alternativa una formula che sarebbe ugualmente di convergenza, che sarebbe ugualmente inficiata, sia pure in senso diverso, da una non omogeneità, perché essa è polarizzata necessariamente intorno a un punto, che è il punto dello sviluppo economico-sociale, ma tace, è costretta tacere su altri aspetti dell’azione politica, con particolare riguardo alla politica estera”.
Su questo crinale si collocava per lui il problema di quella apertura a sinistra a cui faceva cenno in maniera neppur troppo velata. Alla base stava “la prospettiva e l’esigenza di misurare la consistenza dell’area democratica”.
Questo non è un problema che sia stato, come qualcuno ritiene, capricciosamente posto dalla democrazia cristiana o da altre forze democratiche. Non si tratta né di ingenuità nostra né di malizia, bensì di un problema reale, di un problema politico di fondo e neppure di un problema di governo.
Quella della valorizzazione sul piano democratico su un piano di sincerità e di lealtà, di forze che possono essere acquisite alla democrazia è una prospettiva sinceramente e costantemente perseguita dalla democrazia cristiana in tutti questi anni; perseguita, possiamo anche dirlo, con un certo coraggio e in una prospettiva politica generale, anche se in forme diverse.
Bisognava valutare la “reale autonomia e disponibilità democratica” del PSI, la cui evoluzione era auspicata e guardata con simpatia, ma “non è che la democrazia cristiana non veda quali ostacoli vi siano, quali obiettive difficoltà ancora insuperabili nel processo di effettiva autonomia del partito socialista” sicché “non siamo (e non parlo così, per ragioni di principio, in favore del mio partito, ma perché credo che la cosa sia vera) partecipi di quel sicuro ottimismo che vede tutto pronto, tutto disponibile, tutto chiaro nel partito socialista, tutto paralizzante, tutto indisponibile, tutto oscuro nella democrazia cristiana”. Il problema agitato riguardava le scelte internazionali dei socialisti e il permanere della loro collaborazione coi comunisti in tante realtà, dalle amministrazioni locali alle organizzazioni sindacali, per arrivare al giudizio negativo sulla DC presente in tante loro componenti e non solo della sinistra. “Questa oscillazione socialista è dunque paralizzante e pericolosa per il paese, per la democrazia e credo anche per lo stesso partito socialista. I nostri congressi, i nostri consigli nazionali hanno chiesto una scelta, hanno posto delle condizioni che non sono né umilianti né arbitrarie. Al di fuori di esse i socialisti potranno sostenere cose estremamente rispettabili, ma sono su un terreno diverso dal nostro, si trovano in sede politica in condizioni di diversità”.
Pur insistendo su questa impostazione, che ampliava esaminando varie sue declinazioni, il segretario della DC chiudeva di fatto con due notazioni che stabilivano due punti di riferimento per futuri sviluppi. Innanzitutto con i socialisti, cui pure si erano imputati limiti, si era sperimentato qualcosa.
Ciò malgrado, e proprio non travalicando i confini di un fenomeno amministrativo, anche se in sé significativo, proprio con significato amministrativo e limitato, la democrazia cristiana ha consentito esperienze di collaborazione amministrativa purché esse non alterassero la situazione politica generale. È una esperienza che non abbiamo sottovalutato, che non è stata negativa, che ha consentito un prudente accostamento dei due partiti sia pure soltanto sul terreno amministrativo. Ma queste intese non possono essere amplificate ed utilizzate per più vasti disegni di carattere politico, anche se hanno in sé un significato e un valore che nessuno dei due partiti, se prevalga il senso di responsabilità, deve essere portato a sottovalutare.
In secondo luogo, ed era un messaggio indirizzato ai critici conservatori che stavano dentro e fuori il Vaticano e dintorni, “non c’è nessuna ragione di difesa antifascista che possa creare solidarietà fra noi e i comunisti; non c’è nessuna esigenza di difesa dello Stato che possa farci accettare l’appoggio della destra reazionaria e fascista”.
La mozione socialista di sfiducia al governo fu battuta, ma a Nenni non sfuggì che il passaggio aveva un altro significato, come ebbe a scrivere sul suo diario: “Il risultato era scontato e stasera Fanfani ha ritrovato la sua maggioranza e noi socialisti la nostra libertà” (…). “Credo di aver salvato la linea autonomistica del partito. (…) Il fatto politico è la risposta di Moro. Il segretario della DC ha salvato le prospettive di domani parlando della collaborazione coi socialisti come di un passaggio obbligato, ma relegando tutto sul piano storico”[45].
Davanti al Consiglio Nazionale del partito riunito il 21 luglio, il segretario ebbe occasione di riproporre la sua interpretazione del momento. Denunciava come “illusoria” la speranza di quanti avevano puntato a spaccare il partito, ribadiva la sua fiducia in un elettorato che “mostra di saper resistere alle suggestioni di chi, non senza incoraggiamenti dello stesso PCI (questo è il senso di tutti i discorsi contro il monopolio democratico cristiano), vorrebbe sospingerlo ad attuare una difesa di fronte alla forza totalitaria del comunismo con le impostazioni politiche proprie della destra fascista e fascisteggiante.”, e richiamava come “la linea politica della DC, rigorosamente democratica e chiusa ad ogni compiacenza verso destra” avesse fatto sì che “la vittoria della DC [fosse] quindi una vittoria anticomunista ed una vittoria democratica”.
Moro tornava con forza sul significato che aveva assunto l’esperimento del governo Tambroni, di nuovo respingendo che si trattasse di un incidente limitato.
A chi ha rilevato e rileva l’inammissibilità di una emergenza tuttora sussistente nella vita democratica del nostro Paese si è potuto e si può osservare che l’emergenza della quale si è parlato a proposito della costituzione del Governo Fanfani era l’aspetto più evidente e drammatico di difficoltà gravi, se non permanenti, certo durevoli della vita democratica in Italia; difficoltà inerenti alla forte pressione comunista ed alla contrapposta azione di un’altra forza totalitaria d’ispirazione fascista che trae alimento dalla prima e serve a sua volta a rafforzarla nella logica fatale degli estremismi in lotta, ma alleati nel combattere lo Stato democratico.
Un aspetto coraggioso dell’analisi del segretario era costituito dalla lettura che dava del movimento popolare che si era contrapposto agli eventi del luglio 1960.
Non è certo che sia respinto l’impegno delle masse per la difesa democratica alla quale fa riferimento il partito socialista. È indubbiamente il popolo che deve difendere sé stesso, la sua essenziale libertà. Ma si tratta di vedere quanto possa incidere, nell’attuale realtà italiana, su una politica d’intransigente difesa democratica il fatto che vi siano masse fanatizzate ed egemonizzate dal partito comunista e che la politica possibilistica che il PSI conduce non permette di isolare. In queste circostanze la reazione fascista trova occasione per esercitare la sua pressione sullo Stato democratico, mentre essa stessa vale a rinfocolare e a rendere più pericolosa la pressione comunista.
Moro sapeva bene che “il discorso sulla disponibilità democratica dei socialisti e sulla possibilità di contare in modo sicuro su quel partito anche in vista dei compiti di difesa democratica dei quali abbiamo indicato l’importanza, l’urgenza e le direzioni” era stato dominante nel confronto parlamentare e sottolineava nuovamente un aspetto sul quale aveva già insistito.
L’interesse democratico alla ripresa socialista è determinato da una ragione positiva, è in vista di una finalità positiva e certo non mediocre ed opportunistica. Proprio partendo dal dato dell’inutilizzabilità delle forze popolari dominate dal partito comunista a causa delle pregiudiziali per le quali esse si trovano collocate fuori del terreno democratico e di un autonomo inserimento nella vita nazionale, appare l’importanza di una iniziativa che, partendo dalla differenziazione, quale risulta nella definizione, dei due partiti, dalla dichiarata autonomia del PSI, accerti nella concretezza storica 1’estensione dell’area libera dalla ipoteca totalitaria del comunismo, ed iscriva forze nuove e rilevanti nel libero gioco della democrazia italiana. Preminente per il suo carattere positivo e costruttivo, è dunque l’arricchimento sperato, cioè allargamento ed approfondimento della vita democratica del Paese.
Tornando sul tema dell’allargamento dell’area democratica per non prestare il fianco alle critiche della destra interna doveva però mostrare di avere presenti tutte le difficoltà dell’apertura ai socialisti: “non possiamo ritenere che il travaglio socialista abbia avuto un sicuro approdo al Congresso di Milano, né che la corrente autonomistica per interna compattezza e per il possesso di strumenti di potere netti ed efficaci abbia conseguito una vittoria effettiva sulla combattiva corrente di sinistra arroccata su posizioni di ampio possibilismo nei confronti del partito comunista”. Ciò significava che nell’auspicio di una evoluzione ulteriore del PSI si attuasse “una politica netta e responsabile, senza nessuna imprudenza, senza nessun cedimento, ma pure senza nessuna volontà di respingere i socialisti verso le posizioni estreme e di saldare, conformemente al desiderio dell’on. Togliatti, il fronte dell’esiziale alleanza tra socialisti e comunisti”.
La polemica verso le aperture di Togliatti, così come le considerazioni di politica internazionale collocate nel quadro del tradizionale atlantismo erano abbastanza scontate. Ma che si andasse verso il confronto politico fra le diverse posizioni presenti nel partito cattolico era dimostrato dall’annuncio che il congresso del partito era stato fissato per il 14,15 e 16 dicembre. Una decisione destinata a non trovare conferma perché poi l’evento slitterà di un mese.
Del discorso conclusivo del segretario al termine di un dibattito “anche aspro” disponiamo solo di una sintesi redazionale del “Popolo”. Una volta di più aveva insistito su una sostanziale unità del partito negando che questo oscillasse “tra una posizione di filofascismo da una parte e manifestazioni di compiacenza filomarxista dall’altra”. Aveva invece insistito per avere un dibattito precongressuale con un convegno di studi a fronte dei mutamenti in corso nel paese. “In questo senso il Convegno sui fondamenti ideologici della DC costituisce la migliore premessa al Congresso Nazionale. Dobbiamo interpretare sempre meglio le esigenze proposte dalla realtà nazionale, approfondire i grandi temi di programma che si presentano sulla scena politica perseguibili oggi in certa misura e domani speriamo con maggiore impegno”. Non a caso richiamava l’attenzione sulla recente enciclica “Mater et Magistra” con cui Giovanni XXIII aveva offerto una rilettura moderna della dottrina sociale cristiana[46].
Del resto che la situazione nella DC non fosse tranquilla lo si ricava da una nota del diario di Fanfani del 21: “I dorotei sabotano Moro, che dialoga con Nenni, ottenendo l’astensione dei basisti e le proteste di Saragat. Ho fatto colazione con lui ed è infuriato. Mi avverte che se Gronchi ad ottobre fa cadere il governo lui metterà alla prova Nenni”[47].
Intanto il segretario, fedele alla sua linea di far circolare le interpretazioni interne anche presso un pubblico largo, faceva pubblicare il 30 luglio su “Epoca” un suo articolo[48] in cui ribadiva in sintesi quelle argomentazioni che abbiamo già analizzato, ma soprattutto preannunciava il confronto sulle diverse linee con un impegno “all’approfondimento dei compiti del Partito ad alla sua caratterizzazione ideologica e programmatica. A questo ultimo fine tende un convegno nazionale sui fondamenti ideali della D.C., convocato in questi giorni[49], e in definitiva anche, al di là dei suoi compiti statutari e di decisione politica di fondo, il congresso nazionale del partito, che sarà presumibilmente il fatto politico dominante dei prossimi mesi”.
L’ultimo semestre del 1961 fu politicamente molto impegnativo per Moro. C’erano tensioni fra i “convergenti” sull’indirizzo da prendere: mentre PRI e in maniera più contorta PSDI spingevano per l’apertura a sinistra, Malagodi e il PLI, molto sostenuti dalla stampa conservatrice, cercavano di bloccare qualsiasi avvio dell’operazione, sebbene non avessero poi il coraggio di far cadere il governo. Gronchi, che vedeva all’orizzonte la data del 11 novembre in cui sarebbe iniziato il suo “semestre bianco”, non rinunciava a qualche tentativo di far finire in anticipo la legislatura. Resistenze interne alla DC non mancavano affatto, con ricorso alla sponda americana, dove però il clima era mutato perché la nuova amministrazione Kennedy preferiva stare a vedere se ci fossero possibilità di politiche più riformatrici. Il PSI aveva un andamento piuttosto erratico[50].
In questo contesto il segretario si concentrò a preparare accuratamente il congresso di Napoli con una serie di interventi che volevano chiarire sia al partito, sia al più generale contesto della pubblica opinione quanto la situazione imponesse di uscire dal quadro del centrismo vecchia maniera. Indubbiamente un ruolo importante venne svolto da quel convegno di intellettuale a San Pellegrino tenutosi dal 13 al 16 settembre. Come abbiamo visto era un’iniziativa che aveva sollecitato lo stesso Moro per dare prova della maturità con cui la DC affrontava il nuovo contesto sociale ed economico. Effettivamente mise in luce la vivacità di molte componenti del cattolicesimo politico, la loro capacità di cogliere le trasformazioni indotte dal boom economico su vari piani.
Che fosse sufficiente a convincere tutto il partito e soprattutto gli ambienti conservatori esterni si può dubitare, ma indubbiamente ruppe l’immagine largamente corrente di una forza clericale legata solo al tradizionalismo e all’occupazione del potere e questo era già un successo per Moro che peraltro si tenne ai margini del convegno.
Il suo saluto il 16 settembre, anche abbastanza breve per le sue consuetudini oratorie, non andò oltre affermazioni abbastanza generali: “I nostri dibattiti sono sempre sereni, sempre costruttivi. Ma qui la serenità non deriva solo da un atteggiamento o da uno stato d’animo; essa deriva specialmente dalla natura di questo incontro, che è una volta tanto un incontro di studio, di meditazione, sollevato sopra quella pressante realtà politica della quale in altre occasioni avvertiamo più direttamente il peso”. Scontato, sia pure sino ad un certo punto, il richiamo al quadro complessivo: “Certo la nostra impostazione è antitotalitaria (e quindi anticomunista e antifascista) anticollettivista, interclassista. Ma è importante che queste cose vengano dopo e scaturiscano, pur con la inevitabile forza polemica propria dell’azione politica, da un dato positivo, da una caratterizzazione seria e profonda, dalla ragion di essere ricca di tutte le implicazioni e le prospettive di una viva dinamica sociale della D.C”.
Erano altri i contesti in cui si sarebbero appalesati i contrasti. Uno era indubbiamente quello della politica estera, perché qui i nemici dell’apertura, a cominciare da Segni, sventolavano il rischio del neutralismo socialista che avrebbe portato l’Italia fuori dalla scelta occidentale. Per questo Moro intervenne personalmente il 29 settembre nel dibattito alla Camera sul bilancio del Ministero degli Esteri.
Il contesto era delicato, perché il 13 agosto a Berlino si era iniziato ad erigere il famoso muro e le relazioni fra Est ed Ovest erano diventate molto tese. Pur riconoscendo la pericolosità scaturita dall’iniziativa unilaterale dei sovietici (in realtà della DDR, perché a Mosca non mancavano perplessità sull’iniziativa), Moro rimarcava che “il nostro Governo, pur avendo presenti le remore psicologiche e politiche sopravvenute ad un certo momento in forza di queste iniziative unilaterali, ha in tutte le sedi responsabili indicato la via di un negoziato libero e leale come quella da battere per uscire dalla difficile situazione, per regolare secondo equità alcuni aspetti dell’assetto postbellico della Germania, per corrispondere a quelle ragionevoli preoccupazioni di sicurezza che nella situazione sia dato di riscontrare”.
Questo sforzo di liberarsi dai furori atlantisti di Malagodi e del democristiano Bettiol che in quel dibattito avevano cercato l’occasione per mettere in crisi il governo Fanfani si sostanziava anche nella riproposizione di una visione mediatrice che il nostro paese avrebbe potuto svolgere verso i popoli nuovi. Erano gli anni dell’indipendenza di gran parte delle colonie africane e della conferenza di Belgrado che aveva visto il consolidamento dell’asse fra i “non allineati”. Per questo Moro, in un’ottica quasi lapiriana, poteva affermare:
Per i paesi nuovi si tratta di una elevazione e di un arricchimento della vita politica internazionale, di una prova impegnativa della capacità di persuadere, attrarre, influenzare, ispirare fiducia del mondo libero, di un evidente interesse del nostro paese. L’Italia può assolvere a questo proposito una utile funzione di contatto non solo per sé, ma per tutti. La sua posizione storica, la sua libertà di movimento, la mancanza di remore e di sospetti nei suoi confronti, la sua carica umana danno al nostro paese delle possibilità di azione efficace che sarebbe follia disperdere. Deve essere questo, perciò, non un indirizzo marginale, ma un interesse di fondo della nostra politica, al quale dedicare tutta l’attenzione costruttiva che esso merita.
Ormai però per tutti il momento del confronto diventava il congresso della DC che il Consiglio Nazionale del partito nella sua riunione del 20 ottobre aveva fissato a Napoli per il 27 gennaio. Il segretario DC lavorava intensamente a preparare l’evento, sia muovendosi sul versante ecclesiastico (sino a farsi ricevere in Vaticano), sia avviando con Fanfani un asse che mirava a ricostituire la corrente di “Iniziativa democratica”, ma che si sarebbe fermato in un accordo di collaborazione fra “Nuove Cronache” e il gruppo di Moro (ufficialmente tutti i dorotei, in realtà scontando tensioni al loro interno).
Consapevole della delicatezza del passaggio, il segretario si impegnò in prima persona nella costruzione di una strategia comunicativa per preparare sia il partito che l’opinione pubblica all’appuntamento congressuale.
Iniziò con un articolo per il settimanale “Epoca”, che lo pubblicò il 5 novembre, ma che fece anticipare sul “Popolo” il 31 ottobre. Subito avvertiva che l’VIII congresso avrebbe segnato ““il punto culminante di una evoluzione che vede accentuarsi le differenze tra i partiti delle tradizionali coalizioni di governo, che registra in modo sovente polemico ed esasperato la difficoltà di comporre le divergenze per l’assunzione di un compito politico unitario, che propone, pur con tutte le difficoltà e lacerazioni che comporta, il problema dell’allargamento dell’area democratica.” Consapevole delle riserve che potevano venire dalla componente moderata dell’elettorato dc, opportunamente fomentato dalle componenti conservatrici, il segretario si premurava di garantire che ci sarebbe mossi “in modo da dare, pur nella rispondenza alle esigenze della situazione politica, quelle garanzie ideali e pratiche che attende da noi un elettorato che spinge sulla via delle riforme, della giustizia, dell’opportuno intervento dello Stato, ma rifiuta ogni angustia classista, ogni mortificazione collettivista, ogni compromesso sul terreno degli autentici (e non presunti) valori ideali ed attributi essenziali della persona umana”.
La vera e propria campagna politica per il congresso peraltro Moro l’avrebbe aperta col discorso che tenne a Bari il 19 novembre, un intervento a cui avrebbe più volte fatto riferimento nei mesi di preparazione dell’assise.
Dopo “l’estate agitata che abbiamo vissuto, davvero in bilico tra la pace e la guerra”, con eventi che avevano “introdotto di fronte agli uomini ed ai partiti elementi nuovi di valutazione e nuovi criteri di orientamento”, diventava necessario che la DC considerasse la complessità del momento storico.
È comprensibile che essa guardi al nostro Paese, ai problemi del consolidamento e dell’approfondimento dello Stato democratico, dello sviluppo della democrazia in Italia. Queste sono certo cose importanti, e alle quali è giusto dedicare il nostro interessamento ed il nostro impegno. Ma esse non debbono essere rimpicciolite, non debbono essere chiuse in un ambito ristretto e insignificante. Sono cose importanti, perché sono partecipi del travaglio di civiltà, del confronto di idee e di valori, delle drammatiche divergenze, circa la posizione ed il destino dell’uomo nella vita sociale. Con gli occhi attenti dunque alle nostre cose, abbiamo tuttavia davanti il mondo.
Gli eventi di Berlino avevano scosso la pubblica opinione, il segretario ne era consapevole e non mancava di condannare l’URSS per la sua politica, di ribadire la collocazione internazionale dell’Italia, e di polemizzare col PCI che non ne aveva preso le distanze, mentre al tempo stesso rifiutava di farsi intrappolare in radicalizzazioni allora correnti. “I vincoli dell’alleanza, essendo escluso ogni irresponsabile estremismo da parte occidentale, essendo provata la volontà di pace dell’Italia, sono dunque garanzia di sicurezza e strumento di pace. Nessuna seria ed onesta adesione al patto quale impegno sancito dal Parlamento e dal Paese potrebbe trovare l’insuperabile disagio di una applicazione, come si dice, estensiva ed aggressiva del patto, che non è mai stata nella linea dell’alleanza, che non è mai stata la posizione italiana”.
Il tema di fondo rimaneva però la soluzione politica che si doveva dare alla fine dell’episodio legato al governo Tambroni. Moro ne era consapevole e non evitava affatto di esplicitare queste problematiche.
Facciamo questo richiamo non per obbedire ad una ragione geometrica di simmetria, non per una comoda posizione di equidistanza, non per giustificare e quasi attenuare il nostro antifascismo con l’anticomunismo e il nostro anticomunismo con l’antifascismo. Abbiamo tenuta ferma questa posizione, che ci è sembrata qualificante ed essenziale per il partito, l’abbiamo tenuta ferma con decisione che a taluno è sembrata, ma non era, irragionevole ostinazione; abbiamo rifiutato anche le più modeste attenuazioni o eccezioni, abbiamo meditatamente chiuso ogni spiraglio per l’avvenire, escludendo alternative anche tattiche (ed anche questo c’è stato rimproverato), per una ragione di principio, per una ragione di coerenza. Non ci siamo fermati a misurare la effettiva entità del pericolo totalitario di destra, che del resto non si misura né in voti né in seggi parlamentari, non abbiamo voluto accertare con un metro meschino se si trattasse di una autentica e pericolosa vocazione totalitaria o invece solo di una innocua nostalgia o di un espediente elettorale. Abbiamo rotto con la destra estrema, alla quale, dopo qualche timido accenno di autonomia, si è ricondotto il partito monarchico, in omaggio agli autentici ideali cristiani nella vita sociale, i quali non comportano né l’odio né la violenza né la rozzezza, né degenerazioni collettivistiche, né sopraffazione o monopolio dello Stato, né il perpetuarsi di ingiustizie superate dall’impetuoso evolvere della vita sociale.
[…]
Grandi o piccoli che siano in Italia i fermenti di conservazione sociale o di reazione politica, essi non hanno niente a che fare con la Democrazia Cristiana. Siano collocati in campi diversi. Questa è una prima essenziale scelta della Democrazia Cristiana che il prossimo Congresso non potrà che confermare.
Dopo aver elogiato Fanfani e il suo governo per il lavoro che svolgeva, il segretario non poteva che affrontare quello che sarebbe stato uno dei nodi del contendere: quell’interpretazione del significato e della portata delle “convergenze”, tema che aveva, come si è visto, affrontato già in precedenza, ma che qui ribadiva.
Per azione concorde dei partiti è stata così assicurata una sufficiente stabilità politica, si è adempiuto alle esigenze costituzionali in ordine al prestigio del governo ed all’efficacia della sua azione, mentre è stato continuato con vivacità, ma anche con serietà e con sostanziale moderazione, il grande dibattito politico che si è iniziato si può dire nel 1953 ed ha in questa fase il suo momento culminante. La formula della convergenza, considerata da taluno un mediocre espediente inventato dalla mia fantasia per fronteggiare una situazione di emergenza, considerata un fatto politico fragile e di nessuna consistenza, per il senso di responsabilità dei partiti e naturalmente della stessa Democrazia Cristiana, si è manifestata, pur nella sua natura eminentemente problematica ed aperta, pur nel suo evidente corrispondere ad una fase di sviluppo e di assestamento della politica italiana, un dato serio, costruttivo, utile, durevole anche se non indefinitamente, come taluno ha potuto credere e sperare.
Moro tornava sul tema della instabilità politica che faceva iniziare, ed è significativo, nel 1953[51], ma che riteneva avesse assunto nuova evidenza con la crisi del luglio 1960: “una instabilità che talvolta si è espressa ed in modo drammatico nella riscontrata inesistenza di maggioranze democratiche, talvolta nel disagio di coalizioni corrose da gravi o troppi sottolineati contrasti, talvolta nella configurazione di formule politiche le quali, pur dando vita ad un governo democratico, mancano del pieno impegno dei partiti e della auspicabile durevolezza ed interna coerenza”.
Il segretario sapeva bene quanto fosse bollente il dibattito interno alla DC e ne valutava i rischi. “L’unità del partito richiede senso di misura e di responsabilità da parte di tutti. Richiede che ciascuno trovi il proprio posto e riconosca il posto che spetta agli altri”, ammonendo che “la critica interna, sempre legittima, non arrivi fino al punto da contestare radicalmente le posizioni del proprio partito, fino a porsi piuttosto secondo il punto di vista degli altri che non secondo il proprio”. Chi doveva comprendere, capiva bene che ci si riferiva alle componenti interne pronte a schierarsi con le critiche che venivano dal fronte conservatore, sia ecclesiastico che laico.
Del resto un passaggio rendeva piuttosto esplicito questo passaggio.
E così la esasperazione delle posizioni personali o di gruppo, la accentuata differenziazione, il dogmatismo delle posizioni precostituite, rigide ed immutabili, sarebbero una sostanziale invalidazione dell’unità del partito anzi del partito senz’altro. Vorrei perciò rivolgere agli amici in quest’ora che è di grande responsabilità per noi, in quest’ora, credetemi, veramente difficile, nella quale tutto può essere perduto come tutto può essere guadagnato, non un monito severo, ma un invito cordiale ad evitare, anche nell’asprezza della battaglia congressuale, personalismi, esasperazioni, durezze, disconoscimenti della verità (che nessuna foga polemica dovrebbe mai compromettere), tutte le posizioni che siano obiettivamente, anche in presenza delle migliori intenzioni, non dentro, ma fuori della D.C. Possiamo discutere tra noi, ma non possiamo ammettere che la D.C. abbia sempre torto.
Veniva perciò a porre un tema che era tipico della sua impostazione, e che lo rimarrà lungo tutto l’arco della sua vita: il dovere della DC di governare, in quanto partito perno del sistema. Si dovevano dunque “stabilire nella società italiana, nel presente momento storico le condizioni, le modalità e occorrendo, le forze sulla base delle quali impostare una opera di governo sensibile ad esigenze di libertà e di progresso, fondamentalmente orientata a promuovere ogni forma di sviluppo democratico nella società italiana”. Di questo si sarebbe discusso nel congresso “ed a questo studio darà il suo contributo d’impostazione il segretario politico della D.C”.
Che così si finisse per vedere in filigrana il tema dei nuovi equilibri politici era inevitabile e Moro, pur con il suo stile complesso, lo affrontava avendo presente d’altro canto la cautela necessaria a fronte di tante resistenze.
La D.C. avverte la validità di alcuni obiettivi programmatici che siano strumenti di rinnovamento e di sviluppo della società italiana ed il valore dell’inserimento di altre forze, in modo costruttivo e responsabile, nella vita politica ed amministrativa del nostro paese. […]dobbiamo riaffermare come sempre attuali e validi i compiti di allargamento dell’area democratica, dai quali però non possono essere disgiunti quegli altri che incombono sulla D.C. quale partito che ha la massima responsabilità della vita pubblica in Italia ed è perciò obbligato a garantire, come ha fatto finora, il rispetto dei valori morali e religiosi, la sicurezza democratica fuori però di ogni aperta o larvata involuzione reazionaria, la dignità personale e la libera iniziativa fuori di ogni sopraffazione sociale, l’efficace e penetrante azione della collettività fuori di ogni mortificazione collettivistica, la fedeltà alle alleanze e la sicurezza internazionale del paese fuori di ogni irresponsabile estremismo
Tutto si inseriva nella consapevolezza, così bene messa in luce nel contributo di quegli intellettuali cattolici intervenuti a San Pellegrino, di agire “in un mondo in movimento, desideroso di benessere, di libertà, di progresso, di cultura, di collaborazione, di pace, di cose nuove ed umane”, dove la DC doveva prendere posto “nello spirito della sua tradizione, nella fedeltà ai suoi ideali, ma con quella carica di energia, di fiducia, di entusiasmo, di novità che corrisponda a compiti nuovi in una società che sempre meglio si adegua agli ideali umani.”
Le prese di posizione di Moro così come il dibattito interno alla DC avevano suscitato un forte interesse nel paese tanto che l’intervento del segretario alla trasmissione “Tribuna Politica” che ormai si era conquistata una larga audience era molto attesa. Andata in onda il 22 novembre, ma la cui versione stenografica fu subito dopo pubblicata sul “Popolo”, era stata oggetto di grande interessamento preventivo tanto che il conduttore, Gianni Granzotto, ricordava in apertura di aver avuto richieste di partecipazione da ben 41 testate.
La trasmissione è largamente citata per una risposta del segretario DC ad Eugenio Scalfari, ma non è il solo passaggio interessante. Nella sua introduzione Moro aveva ricordato tanto “la formula della convergenza, che rappresenta, direi, l’ultima manifestazione significativamente rilevante in questo incontro tra i partiti democratici”, quanto il fatto che “in questo momento c’è una difficoltà, che viene registrata ormai in un modo netto attraverso le posizioni assunte dal Partito social-democratico e dal Partito repubblicano, e questo pone dei problemi alla Democrazia Cristiana”.
Subito si apriva la questione della apertura a sinistra, che immediatamente Moro ridimensionava.
C’è un nostro consiglio nazionale che ha precisamente negato che la formula alla quale il Longo si riferisce sia una formula di apertura a sinistra. Dovrebbe essere una formula, come dire, di incontro, di solidarietà tra i partiti democratico-cristiano, social-democratico e repubblicano, incontro sul terreno programmatico, al quale accederebbe, su un piano di completa autonomia, il partito socialista con una formula di sostegno diretta o indiretta. Questo dico per ridimensionare le cose, perché in discussione in questo momento non c’è l’apertura a sinistra
Incalzato da Vittorio Gorresio della “Stampa”, che gli chiedeva se una volta chiuso a destra fosse possibile una formula diversa dall’apertura a sinistra, rispondeva che “non crediamo che sia utile non tanto alle sorti del nostro partito ma utile alla democrazia italiana una contrapposizione sinistra-destra che sarebbe esiziale al paese, nella quale la Democrazia Cristiana farebbe innaturalmente la parte della destra e che romperebbe l’equilibrio della vita politica italiana” e pertanto rinviava vagamente alla formula attuale.
Il giornalista Zincone de “Il Tempo” allora gli chiedeva se si intendesse rompere coi liberali e di nuovo il segretario si muoveva con cautela: “Noi non abbiamo in generale, come partito, mai pensato di assimilare il partito liberale e ancora meno una parte della D.C. a quella destra estrema alla quale noi, con rispetto per le persone, riconosciamo una caratteristica antidemocratica e di pericolosa involuzione nella vita politica. […] Si tratta di vedere in concreto quale maggioranza sia possibile effettivamente e se essa abbia caratteristiche tali da poter corrispondere agli interessi del paese e fare andare innanzi, come noi vogliamo, la democrazia italiana”. Del resto anche di fronte ad una domanda del giornalista dell’“Avanti!” evitava di pronunciarsi per formule di governo che diceva andassero lasciate decidere agli organi dirigenti eletti dal futuro congresso.
Si arrivava così alla domanda, divenuta famosa, di Eugenio Scalfari (“L’Espresso”) che, citando i veti ecclesiastici e in specie il card. Siri, chiedeva “se questo veto della D.C. rispetto alla gerarchia ecclesiastica sarà discusso al congresso. Ritiene lei che qualora il congresso arrivi a certe decisioni e la gerarchia ecclesiastica vi si opponga, la direzione, gli organi responsabili del partito saranno in grado di far rispettare la volontà della base della Democrazia Cristiana?”. La risposta di Moro era piuttosto netta.
Io devo ridire che la Democrazia Cristiana non è un partito cattolico nel senso che sia una espressione politica della gerarchia ecclesiastica; è un partito di cattolici nel quale largamente confluiscono i cattolici che hanno avuto posizioni anche di notevole responsabilità nel movimento cattolico: cattolici che conservano integra la loro fede e i loro ideali, i quali operano evidentemente in rapporto ad una realtà temporale su di un terreno che è il terreno propriamente politico; che riguarda scelte di ordine contingente e scelte di carattere tipicamente politico. Quindi l’autonomia del partito è stata rivendicata e credo che sarà confermata nel prossimo congresso essendo prevedibile che a queste cose si faccia cenno. Naturalmente noi cattolici abbiamo delle posizioni di coscienza; abbiamo quindi un riferimento a posizioni, a insegnamenti, a dati che sono rilevanti per noi; e abbiamo anche un riferimento al nostro elettorato, il quale è largamente un elettorato cattolico che ci ha attribuito la fiducia, che ci ha dato questo compito importante di rappresentarlo sul terreno politico. Questo non è che ponga, io credo, delle remore reali: ci impone prudenza, ci impone rispetto, ci impone una posizione veramente responsabile quale crediamo di aver tenuta; il che per altro non ha impedito che la Democrazia Cristiana camminasse in questi anni sul terreno democratico, accanto a partiti democratici, perseguendo, come crediamo di aver fatto, gli interessi della democrazia italiana.
Scalfari dichiarava di “prend[ere] atto con molto piacere” di quanto affermato, ma tornava a chiedere se qualora “si dia il caso nello stesso tempo che le gerarchie ecclesiastiche, attraverso i loro organi episcopali, contrastino queste direttive, lei ritiene che gli organi responsabili del partito siano in grado di farle rispettare?”. La risposta di Moro era piuttosto decisa: “Noi crediamo che la nostra posizione, per la sua chiarezza, la prudenza e la fermezza, sarà tale da non far verificare l’ipotesi a cui il prof. Scalfari accenna”. Evidentemente il segretario riteneva sia di avere in Vaticano le coperture necessarie, sia di essere in grado di portare il congresso ad una posizione che non consentisse intrusioni agli eminenti prelati che erano contrari ad una linea evolutiva della politica italiana.
Il punto era comunque molto delicato e si può ritenere che il successivo intervento di Angelo Gaiotti (“La Gazzetta del Popolo”) fosse inteso a dar modo al segretario di precisare una linea in modo che non fosse attaccabile dalla destra clericale. Il giornalista era infatti personalmente legato alla sinistra dc e chiedendo se la natura “cattolica” del partito potesse creare problemi nei rapporti con gli altri partiti sapeva bene di aiutare Moro a precisazioni importanti.
Cioè noi crediamo che il nostro è un partito che essenzialmente faccia riferimento ad una ideologia, che è per noi l’idea sociale cristiana. Crediamo che quest’idea abbia una sua compiutezza, una sua organicità, una sua validità, una sua capacità di affrontare da questo punto di vista, e in questo spirito, i problemi fondamentali della società italiana. Crediamo che la riaffermazione vigorosa che noi abbiamo fatto e facciamo di questa ideologia, non abbia costituito né costituisca un impedimento per collaborazioni democratiche. Cioè noi abbiamo sempre posto in questi anni – ed è una cosa che risale a De Gasperi – abbiamo posto sempre una condizione: il ritrovarci con altri partiti su un comune terreno democratico; cioè l’assicurazione di quelle garanzie, diciamo di mobilità, di reversibilità della vita politica: garanzie che sono per noi condizione necessaria sufficiente per un discorso politico. Poi dopo il discorso vengono le cose concrete: incontri e divergenze di carattere programmatico. Crediamo che su molte cose si possa andare d’accordo perché i corollari della nostra dottrina si incontrano con corollari di altre dottrine; quindi nell’autonomia della nostra impostazione ideale poniamo la comune accettazione del metodo democratico come condizione per contatti e collaborazioni con altri partiti.
Spinto da Pellecchia di “Stampa-Sera” a tornare sul tema di una apertura a sinistra, di nuovo precisava che “ho distinto tra apertura a sinistra e Governo di centro-sinistra; cioè un governo quale viene ipotizzato, con l’appoggio esterno, magari in forma negativa del Partito socialista, e un governo che pur essendo evidentemente spinto in una certa direzione su un piano sociale, è un Governo ancora ancorato a partiti i quali hanno una lunga tradizione di collaborazione tra loro, che sono per esempio sul terreno della politica estera in una posizione molto precisa, e quindi l’appoggio esterno assume un significato molto attenuato”.
Lasciando tra parentesi il confronto, peraltro garbato, con un giornalista missino dove ribadiva posizioni ormai note, è interessante notare il dialogo con Airoldi del “Corriere della Sera”, il quotidiano più schierato nell’ostacolare l’apertura a sinistra e nel sostegno alle posizioni liberali. Questi chiedeva al segretario dc se non contemplasse un governo sostenuto da liberali e monarchici ove questo avesse i numeri per sostenersi. Anche in questo caso la risposta di Moro era chiara. Precisava che “una prospettiva di questo genere [viene] esclusa. Quali possano essere i fatti nuovi che il corpo elettorale proponga, questo è difficile prevedere. Credo che mancheremmo al senso di responsabilità se ora volessimo ipotecarli. La mia opinione è che non si vada in quella direzione”. In replica non mancava di puntualizzare: “certamente si può dire che il partito liberale rientra nell’area democratica perché nessuno può contestare al partito liberale la sua piena appartenenza a quest’area. In concreto, in questo momento, non mi pare che il partito liberale abbia la forza parlamentare per costituire un’alternativa. Se questa ci fosse, evidentemente sarebbe oggetto di discussione”.
Come si vede la “tribuna politica” del 22 novembre segnava una presa di posizione di Moro che usciva dal dibattito in sede di partito per investire l’area dell’ampia opinione pubblica coinvolta dal nuovo mezzo di comunicazione. Di questo il segretario era ben consapevole, tanto che nei mesi precedenti il congresso sarebbe intervenuto nuovamente più volte sulla stampa di opinione per ribadire le sue posizioni richiamando esplicitamente sia il suo discorso di Bari che il suo intervento televisivo.
La prima occasione fu una intervista a “L’Europeo” anticipata sul “Popolo” il 2 gennaio 1962. La apriva dichiarando che “il dibattito [congressuale] sul programma deve naturalmente essere compiuto senza timidezze e riserve, con il coraggio e l’apertura che sono richiesti in un momento così delicato della vita politica italiana, nel quale sono proposti problemi nuovi relativi all’organizzazione dello Stato, all’attuazione della giustizia sociale, allo sviluppo democratico, alla lotta – condotta in profondità e con serietà – contro la suggestione comunista ed ogni minaccia di involuzione totalitaria”.
Di nuovo la questione centrale tornava ad essere quella della apertura verso i socialisti. Il terreno era scivoloso e il segretario si muoveva con cautela parlando al largo pubblico.
io non ritengo oggi, come non ritenevo ieri, irrilevante o di scarso rilievo il discorso sulle forze politiche o sulle formule di governo. Una concezione, mi sia consentito dire qualunquistica su questo tema, quale emerge da certa polemica di stampa, è largamente contrastata nella D.C. Nel nostro partito non si ammette che alla lunga possa essere trascurata la considerazione della effettiva idoneità e della reale volontà delle forze politiche ad appoggiare un programma sostanzialmente difforme dalle proprie intuizioni; non si sottovaluta neppure il disorientamento che deriverebbe fatalmente per il corpo elettorale da una pratica visibilmente trasformistica ed opportunistica. Ma, una volta che si sia messo in guardia contro il rischio di sminuire e privare di significato questo importante momento della identificazione delle forze politiche cui possa essere proposto un problema di collaborazione, balza in piena evidenzia una categorica necessità: quella di un adeguato approfondimento programmatico, della delineazione della vera fisionomia della D.C., nella quale l’elettorato possa riconoscere il partito cui ha dato la propria fiducia, e le altre forze politiche possano ravvisare la piattaforma significativa dalla quale partire per ogni possibile collaborazione. Importanti contributi a questo approfondimento, anche da parte del Presidente del Consiglio, sono stati già dati. Io pure mi propongo di intervenire nel dibattito
Moro non negava che ci fossero discussioni circa l’opportunità di aprire ai socialisti, ma si richiamava subito ad un dato di fatto: “è la decisione preannunziata e tenuta ferma dai partiti socialdemocratico e repubblicano di porre fine al governo di convergenza e di rifiutare ogni ulteriore collaborazione con la D.C., che non si compia anche col rendere possibile un cauto allargamento a sinistra dell’area democratica”. L’altro dato di fatto era “la ormai riconosciuta inammissibilità ed estrema pericolosità (su questo punto vi è solo una debole e marginale resistenza in seno alla D.C.[52]) di un allineamento del nostro partito con forze di destra totalitarie o paratotalitarie”. Però si registrava anche “un’esperienza amministrativa, di importanza eccezionale”, la quale apriva “la prospettiva di un accostamento del partito socialista ai partiti democratici e di distacco dal partito comunista”. Del resto che vi fosse in atto “un processo di accostamento dei socialisti ai partiti democratici non può essere onestamente negato anche se lo si deve considerare solo parziale”.
Tornava così a puntualizzare quello che al momento gli sembrava il quadro entro cui iscrivere una eventuale apertura al confronto col PSI.
Non solo sono diverse le nostre ideologie, ma in punti di notevole rilievo divergono le nostre linee politiche. Questo dato di fatto fa registrare dall’una e dall’altra parte la impossibilità d’un collegamento organico, di un’alleanza politica tra il nostro e quel partito. L’ipotesi che oggi viene prospettata è invece diversa e minore: prevede, cioè, un sostegno del P.S.I. ad un’azione politica e di governo nella quale esso riscontri l’esistenza di alcuni punti interessanti sul piano programmatico e per i quali valga la pena di assumere una posizione non negativa.
Ribadito ancora una volta che la DC non sarebbe venuta meno alla sua impostazione ideale e che non si sarebbero accettate deviazioni nel campo della politica estera, Moro si diceva certo che non sarebbe venuta meno l’unità del partito[53] e che “nemmeno l’asprezza, qualche volta veramente eccessiva, della polemica congressuale mi fa ritenere che l’unità – alla quale sono legati il primato, il prestigio e la funzione del nostro partito – corra un vero rischio”. Nonostante questa manifestazione di fiducia, non si esimeva dall’esprimere un caveat: “Nessuno potrebbe giudicare come un cedimento una esperienza che ancora si deve svolgere e che impegnerà nella sua concreta configurazione, in sede politica, gli organi che saranno eletti nel congresso di Napoli. La legge di un partito democratico è il concorso di tutti alla formazione della volontà del partito ed il rispetto delle deliberazioni della maggioranza. Il concorso di tutti, consenzienti e dissenzienti, sarà richiesto e garantito in piena libertà al congresso”.
Poco dopo questa intervista Moro tornava sui problemi scrivendo un articolo per il settimanale “Oggi”, periodico di ampia diffusione presso il pubblico “moderato”. Si muoveva sempre dal ribadire che il congresso “dopo una lenta e seria maturazione che parte dalla base del partito, si dedicherà con la maggiore attenzione a questo importante lavoro di chiarificazione e di raccordo alla presente realtà sociale e politica”, consapevole il partito che “deve compiere una meditazione a fondo su di sé e sulla realtà nella quale si propone di agire, deve fare un esame di coscienza, deve essere pronto ad una coraggiosa e netta assunzione di responsabilità”.
Il segretario era certo che
la ricchezza delle implicazioni, delle prospettive, delle possibilità aperte dalla linea di sviluppo democratico propria di un partito popolare qual è la D.C. può rassicurare il Partito socialista, quando esso si ponga con serenità a valutare il suo contributo alla vita democratica del paese e le condizioni che lo rendono possibile. Con questo partito, e per sua stessa determinazione, non è in discussione un vero accordo politico od un’alleanza organica. Non è neppure in discussione un programma comune, il quale richiederebbe un preciso negoziato, uno scambio di garanzie, un’assunzione comune di responsabilità. È in svolgimento, semmai, un discorso sulle cose che da parte della D.C. devono essere ovviamente inquadrate nel contesto politico generale, quello che corrisponde alla continuità storica dell’azione della D.C. ed alla sua responsabilità di governo. In queste condizioni non si può immaginare altro che un appoggio ad un programma altrui nel quale si riscontrino motivi d’interesse, una giustificazione, in vista delle esigenze del paese ed allo scopo di favorire una graduale evoluzione della situazione politica e lo stabilirsi di nuovi, più solidi e costruttivi equilibri, ad un proprio intervento che non è dunque gratuito ed immotivato, ma ha in sé e nel suo significato politico la sua ragion d’essere ed il suo premio.
Sapeva bene quale era l’obiezione strumentale che ponevano gli avversari della apertura a sinistra: “A chi dice: diversità per diversità, perché non prendete sul programma della D.C. i voti non condizionati della destra, rispondiamo (…) che stiamo provando ad andare avanti, non a tornare indietro”. Quanto all’altra velenosa messa in guardia assicurava che “non c’è da temere che essa [la DC] dimentichi o trascuri il mandato che ha ricevuto dall’elettorato cattolico per la difesa dei valori morali e religiosi, per la salvaguardia delle tradizioni e del costume del nostro popolo, per quanto ciò possa essere fatto in sede politica, per l’assicurazione della presenza libera ed efficace della Chiesa anche nella società italiana”, agendo naturalmente “nella vita democratica e con quella discrezione e prudenza che hanno sempre caratterizzato l’opera della D.C da De Gasperi in poi e proprio nell’intento di rendere possibile e facilitare un normale dialogo democratico”.
La puntualizzazione era importante verso l’integralismo cattolico, ma non lo era meno il seguente accenno a certe asperità che venivano dall’integralismo laico: “Il che ha sollecitato e sollecita pari discrezione, prudenza e senso di responsabilità anche da parte di altri ai quali pure spetta di rendere possibile e facilitare il dialogo democratico”.
Assai interessante il richiamo che Moro faceva al dovere di rispondere alla grande evoluzione sociale ed economica che era in corso.
C’è un problema di sviluppo economico (e naturalmente sociale) del quale bisogna indicare le condizioni, gli strumenti ed i precisi obiettivi. Uno sviluppo economico sociale che non parte, fortunatamente, da zero, che segue e completa un interessante processo di arricchimento e di elevazione sociale che ha avuto luogo in questi anni ed ha cambiato già, e più è destinato a cambiare in questa sua ulteriore fase di espansione, il volto del nostro paese. È uno sforzo nuovo al quale è chiamata ancora la iniziativa privata, con la sua competenza tecnica e, sovente, genialità creatrice, ma nel quale non può essere assente lo Stato sia per tracciare le linee di sviluppo della vita economica e sociale del paese sia per operare esso stesso così nei settori nei quali appaia conveniente un diretto impegno della collettività come nelle zone nelle quali il torpore della vita economica esige che lo Stato rompa esso il punto di inerzia, per dare il via ad un più libero fiorire della vita economica e sociale. Appare dunque evidente la necessità di un ordine che guidi senza soffocarle le operose energie della vita sociale.
A questo intervento ne seguì uno, sempre per un periodico a larga diffusione, ma che aveva un pubblico un poco più aperto di quello di “Oggi”, e cioè “Epoca”[54]. Il periodico era schierato su un atlantismo molto spinto, il suo commentatore di politica estera era Augusto Guerriero (che scriveva con lo pseudonimo “Ricciardetto”), il quale era un oppositore della apertura a sinistra.
Al pubblico che guardava al contesto a cui abbiamo fatto riferimento, Moro spiegava, una volta di più, perché non prendere in considerazione un allargamento dell’area democratica avrebbe significato scivolare in un bipolarismo che giudicava pericoloso.
la D.C. è contro l’uniformità, è contro il blocco indifferenziato delle forze, apprezza e promuove tutte le possibili collaborazioni e l’allargamento dell’area democratica, la quale anzi in linea di principio non dovrebbe coincidere con l’area di Governo. Perciò la D.C. si è opposta vigorosamente ad una rigida contrapposizione, ad una configurazione della vita politica fondata sulla pericolosa ed artificiosa distinzione sinistra-destra, nella quale il PCI coinvolgerebbe nella sua sfera d’influenza anche forze sinceramente democratiche, e la D.C., pur assicurandosi il precario e rischioso vantaggio di essere indiscutibile maggioranza, si ridurrebbe contro la sua natura a fare la parte di un partito conservatore ed a provocare, anche involontariamente, aridità ed insufficienza nella vita democratica.
In questo contesto ribadiva che “l’anticomunismo della D.C. non è invece un anticomunismo di tipo conservatore né sul terreno sociale né sul terreno politico. È anticomunismo che vuol dare alla giustizia sociale, alle rotture del fronte dei privilegi, al processo d’immissione dei ceti popolari nella società e nello Stato il respiro della libertà, lo strumento efficace di un’autentica esaltazione della dignità umana”. Di qui l’avvertimento che il suo partito non doveva essere toccato “né da compiacenza né da sospetti di compiacenza verso il fascismo, il che lo snaturerebbe e renderebbe inefficace. Da qui la nostra netta chiusura a destra”.
Ancora una volta tornava a ribadire che non vi era da pensare che la DC abbandonasse il suo ruolo di cardine del sistema. “Chi teme anche su questo terreno sbandamenti e svolte, chi immagina che il Congresso di Napoli possa essere, nelle prospettive politiche, nella impostazione antitotalitaria (anche come permanente indicazione elettorale) meno netto e duro che non sia stato in passato, mostra di non conoscere il nostro partito, si fa eco di una critica meschina che scambia per debolezza ed impotenza la cristallina coscienza democratica della D.C. e per cieca irresponsabilità la viva costante preoccupazione di guardare lontano e di lavorare soprattutto per l’avvenire del paese”.
Proprio al momento dell’apertura del congresso Moro tornava per il periodico cattolico “Orizzonti” sul tema della difesa della presenza dei cattolici nella vita pubblica, riproponendo, a tratti letteralmente, quanto aveva detto in precedenti discorsi. Questo intervento, anticipato sul “Popolo” il 27 gennaio, univa all’ennesimo appello ad evitare nel congresso le asprezze polemiche che potevano “deformare” l’immagine del partito la riaffermazione che “la Democrazia Cristiana è infatti consapevole delle responsabilità che le derivano quale partito al quale i cattolici danno la loro fiducia sul piano politico, come è consapevole del valore storico che ha avuto l’inserimento che esso ha perseguito delle masse cattoliche nella vita dello Stato superando antiche antinomie, rimarginando dolorose lacerazioni, ricomponendo, in un clima di pace civile, l’unità nazionale.
Nel rifiuto di ogni integralismo e di ogni forma d’intolleranza, essa ispira la sua azione politica ai fondamentali principi della dottrina sociale cristiana”.
Con queste premesse Moro avrebbe affrontato la prova del congresso che avrebbe aperto con il suo famoso discorso durato ben sei ore. Uno sforzo notevole per testimoniare a tutti, dentro e fuori il partito, dentro e fuori il cerchio della cattolicità italiana, che egli era ben consapevole della svolta a cui invitava, della sua complessità e delle gradualità necessarie per portarla a compimento.
Non siamo in grado di sapere quanti abbiano seguito con la necessaria attenzione la prova oratoria del segretario del partito, ma sicuramente riletto ora con la necessaria calma quel discorso impressiona sia per la complessità degli argomenti affrontati che per lo sforzo analitico nello sviscerarli.
Il punto d’arrivo sta senz’altro nella quindicina di pagine finali in cui si esponeva sul problema della apertura a sinistra, ma era preceduto da un esame enciclopedico della situazione italiana da molti punti di vista.
Il punto di partenza era peraltro connesso a quello d’arrivo: si trattava della posizione e del dovere della DC come partito chiave del sistema politico italiano.
Perché Governo e Gruppi parlamentari possano agire efficacemente, come sempre del resto hanno fatto con grande impegno, bisogna che il Partito dal quale essi traggono ispirazione, dal quale ricevono un mandato fiduciario, viva una propria vita con una robusta struttura organizzativa (robusta, ma non soffocante), con una seria attività di studio applicata alla realtà sociale, con una tensione ideale che sorregga l’esercizio, talvolta tumultuoso ed affannoso, del potere, con una costante, persuasiva comunicazione con l’opinione pubblica che il Partito deve illuminare ed orientare.
Moro si impegnava in premessa in una convinta difesa dell’importanza dei partiti politici come strutture portanti della democrazia, polemizzando senza fare riferimenti diretti con quella critica alla “partitocrazia” che Maranini aveva lanciato già in una prolusione universitaria del 1949, ma che era poi divenuta moneta corrente. Ciò non significava che la DC rinunciasse a porre “a base della propria azione la visione cristiana dell’uomo e della società, dei diritti di libertà e dei doveri di solidarietà sociale, della sfera di autonomia propria della persona e dei gruppi sociali e del potere di comando e d’intervento dello Stato”, né voleva dire che la collaborazione che aveva con altri partiti avesse “significato in passato e non significherà certamente in avvenire che la DC abbandoni i suoi principi ed ideali e si rassegni alla loro insufficienza” (una chiara risposta polemica a tante critiche che venivano dagli ambienti clericali e non solo). La natura peculiare di “partito cattolico” non negava però che la responsabilità delle scelte fosse in capo alle sue classi dirigenti.
Anche, dunque, perché è così grande l’impegno, anche perché vi sono tali remore e riserve, anche per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l’autorità spirituale della Chiesa, c’è l’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita democratica in un contatto senza discriminazioni. L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale. E nel rischio che corriamo, nel carico che assumiamo c’è la nostra responsabilità morale e politica e l’adempimento di un dovere costituzionale, il quale, essendo sancita l’autonomia nel proprio ordine della comunità politica, riconduce in questo ambito i diritti ed i doveri relativi alla concreta attuazione di essa.
Posta questa importante premessa, su cui, vale la pena sottolinearlo, non tornerà più direttamente, Moro passava ad una lunga disamina di tutti i problemi sul tappeto.
Iniziava col tema delle cosiddette “giunte difficili”, ma premetteva che nell’affrontare la costruzione dei governi locali dopo quella che giudicava una buona affermazione alle amministrative si era partiti con “l’esclusione di qualsiasi collaborazione con le forze estreme di sinistra e di destra e ciò in considerazione sia del rilievo che avrebbe assunto, anche se realizzata in centri minori, una intesa con forze totalitarie con le quali la DC è in nettissima contrapposizione, sia del disorientamento che, al di là del danno arrecato da siffatte innaturali collaborazioni, sarebbe derivato al corpo elettorale da una pratica amministrativa sottratta al vigore di un criterio politico e tutta dominata da ragioni di contingente opportunità”. Questo però non aveva voluto dire chiudere a collaborazioni col PSI laddove fossero state presenti condizioni che le rendevano l’unica alternativa possibile all’ingovernabilità.
Ma tra le ragioni determinanti del nostro atteggiamento era anche la volontà di saggiare la reale disponibilità socialista all’attuazione di una politica democratica, conforme agli interessi popolari, ma del tutto libera dalla ipoteca totalitaria del comunismo. Accanto al doveroso riconoscimento degli innegabili passi avanti compiuti dal PSI sulla via del conseguimento della propria autonomia, riconoscimento doveroso quanto è doverosa la critica sui permanenti aspetti di equivoco e di compromesso della politica di quel partito, v’era la speranza che attraverso la prospettiva così offerta in sede amministrativa fosse portato innanzi il processo di autonomia del PSI e ne fosse data, per così dire, la prova attraverso esperienze concrete e complesse, avvicinando cosi in qualche modo la soluzione del problema dell’allargamento dell’area democratica, che è fondamentale per la sicurezza e la stabilità della democrazia italiana. E l’esperimento è stato finora positivo.
Tornava così all’analisi della politica nazionale, con le difficoltà incontrate dal governo Segni, costretto a squilibrarsi a destra (non lo diceva con questa nettezza, ma si capiva bene), sicché si poneva il tema di cercare una maggioranza di centrosinistra per sbloccare l’impasse in cui si era caduti.
Si presumeva in quella situazione che il progettato governo di centro-sinistra potesse conseguire con l’appoggio dei socialdemocratici, dei repubblicani e di alcuni indipendenti una maggioranza propria numericamente sufficiente, al di fuori dell’appoggio del Partito socialista, che avrebbe però garantito un più largo e sicuro margine per l’azione del Governo. La prospettata adesione socialista, anche per decisione dello stesso PSI, non era richiesta, non era negoziata, non era ottenuta mediante un compiacente adattamento del programma. Sarebbe stata, se si fosse potuta realmente verificare, una prova di buona volontà, una manifestazione concreta e puntuale di autonomia socialista, un passo innanzi verso un sicuro allargamento dell’area democratica del nostro Paese. Ma notevoli perplessità si manifestarono prima in Direzione e poi in seno ai Gruppi parlamentari circa la validità e la consistenza della limitatissima maggioranza.
Era dunque apparso “preferibile non condurre a fondo il tentativo con il Partito non del tutto convinto e preparato” e questo aveva infine portato all’esperimento Tambroni, che prima si era tentato di fermare, ma che poi si era dovuto lasciar andare a compimento per la decisione del Presidente della Repubblica di rinviarlo alle Camere anche se si volle
al tempo stesso ribadire nel modo più chiaro che restavano ferme quelle preclusioni e valutazioni di ordine politico che erano state poste dal Partito e che il Governo amministrativo appoggiato dall’estrema destra veniva accettato in situazione di estrema necessità, in vista del suo carattere amministrativo e provvisorio, con la precisa scadenza, fissata dalla stessa Direzione, dell’approvazione dei bilanci entro l’ottobre, coll’intento di favorire nel frattempo un approfondito dialogo tra i partiti che consentisse di porre mano ad una soluzione politica e stabile dei problemi di governo.
Non era esattamente questo che voleva tutto il partito, ma certo era quello che aveva inteso il segretario. Tuttavia Moro affermava che il carattere “di tregua” del governo Tambroni era fallito per le speculazioni del PCI nel suscitare il tema dell’antifascismo e per l’arroganza del MSI che credeva di aver determinato una svolta storica. “Si profilava dunque una radicalizzazione della lotta politica che ad un certo momento assunse anzi un significato drammatico. Una situazione che vedeva la DC, contro la sua natura, obiettivamente schierata a destra e perciò non in condizioni, essa ed il Governo che aveva espresso, di adempiere la funzione tradizionale di arbitrato democratico, di fermare la lotta tra gli opposti estremismi, di esplicare al di sopra, non solo di ogni impensabile cedimento, ma anche di ogni sospetto, la sua azione di garanzia democratica”.
Come abbiamo visto, il segretario aveva già espresso questa valutazione in vari interventi pre-congressuali. Ribadiva ora che il partito con la decisione “di ovviare al rapido e grave deterioramento della situazione che si andava profilando trovò poi felice riscontro nella rinnovata volontà di collaborazione dei partiti delle tradizionali coalizioni democratiche con la DC”. Facendo questo nel governo delle convergenze il partito però non aveva dismesso le sue caratteristiche ribadite con forza (anche a beneficio dei critici del versante ecclesiastico)
La DC si presenta innanzitutto come un Partito d’ispirazione cristiana e quindi riflette nel suo programma esigenze vive nella coscienza cristiana del Paese, che essa appunto si è assunta il compito di far valere nella società italiana, solo con la forza di convinzione che giova in un libero confronto democratico. La DC sa che il rispetto delle tradizioni del nostro popolo, dei valori morali e religiosi, della sovranità della Chiesa nel proprio ordine, della sua intangibile libertà nell’assolvimento dei suoi compiti non è solo una esigenza proposta dal suo elettorato, ma una condizione della pace religiosa, della ordinata evoluzione sociale, della piena normalità della vita democratica del nostro Paese, che tra l’altro abbraccia la sede del Vertice della Chiesa la quale appunto attraverso Roma e l’Italia parla al mondo. Sono diritti che trovano solenne definizione nella Costituzione della Repubblica italiana nella quale furono introdotti per iniziativa della Democrazia Cristiana e consacrati dalla larghissima maggioranza con la quale venne approvata la legge fondamentale dello Stato.
Con questo però non si rinnegava “il senso del limite, proprio di una convivenza democratica, lo scrupoloso rispetto per le altrui convinzioni che essa pure richiede, saranno presenti, come lo furono in passato, nella DC, preoccupata sempre, da De Gasperi in poi, di non contribuire per parte sua ad elevare lo storico steccato tra democrazia laica e democrazia d’ispirazione cristiana”, il che non significava certo dismettere la caratteristica cattolica. E significativamente citava allora l’enciclica Mater et magistra e il Concilio in fase di avvio.
Tornava così sul tema della scelta che noi potremmo definire progressista. Negato che la DC potesse “trasformarsi in un Partito classista e neppure propriamente in un Partito di sinistra”, affermava che “tutto questo evidentemente non vale a schierare la DC dalla parte della conservazione sociale, del privilegio”, né portava “ad escludere leali intese con partiti anche diversamente ispirati, i quali possano convergere in una politica non di schematismo collettivista, ma di attuazione della giustizia”. Ne derivava una precisa scelta di campo.
L’accento è posto su coloro che devono salire ed acquisire più peso nella vita sociale. Se non siamo un partito di classe, siamo però un Partito di popolo schierato non con i pochi ma con i molti e pronto sempre a porre in essere i correttivi, a fissare i limiti, a favorire gli interventi che volgono a vantaggio di tutta la vita economica e sociale del Paese e rendono impossibili le ingiustizie dei detentori del potere economico anche sul terreno sociale e politico. Così pure l’inammissibilità, in forza di un ordinamento tutto collettivistico, di un pratico monopolio statale della vita economica e largamente di quella sociale non significa affatto che allo Stato non debba essere riconosciuta la funzione, in vista degli interessi generali, di orientare e condizionare le scelte economiche dei privati oltre che un consistente potere diretto d’iniziativa e d’intervento in ragione della necessaria attivazione economico-sociale di alcune zone del Paese o di alcuni settori della economia.
Questo orientava l’azione della DC verso un’opera riformatrice delle istituzioni, opera che avrebbe voluto essere un connotato della nuova fase.
L’obiettivo supremo della DC è stato e resta la costruzione dello Stato democratico, l’assicurazione della libertà e della dignità sociale di tutti i cittadini.
E con la difesa permanente della libertà e delle istituzioni sono di fronte alla Democrazia Cristiana ancora vasti compiti di ordinamento dello Stato democratico, di ulteriore adeguamento delle leggi allo spirito della Costituzione repubblicana, di organizzazione di una retta amministrazione della cosa pubblica caratterizzata da piena efficienza e da rigorose garanzie di obiettività e di efficace controllo, di funzionamento adeguato di tutti gli istituti costituzionali, di piena garanzia del cittadino di fronte ai pubblici poteri, di prestigio e di autonomia della magistratura. Ad essi tutti, la DC dedicherà la sua ferma azione, per fare dell’Italia uno Stato esemplare per modernità, efficienza, reale rispetto di tutte le libertà civili.
Poste queste premesse, Moro si inoltrava in una accurata disamina dei principali nodi che si dovevano affrontare nell’opera di ripensamento del sistema italiano. Non è qui ovviamente possibile esaminare in dettaglio questa lunga e dettagliata parte della relazione introduttiva del segretario e ne richiameremo dunque i titoli e qualche passaggio particolarmente significativo.
Si iniziava con la situazione delle autonomie locali, per passare all’analisi della situazione internazionale, assai complessa dopo la crisi innescata dalla costruzione del Muro di Berlino. Scontato il ribadire la fedeltà alla collocazione atlantica dell’Italia, che “deve essere una fedeltà intelligente, non cieca; una fedeltà ragionata e cosciente, non illogica; una fedeltà che non comporta la rinunzia a dare il contributo della propria valutazione all’alleanza, ma anzi esige questo leale intervento”. Particolarmente calda la questione dell’Alto Adige (un tema su cui Moro si sarebbe poi molto speso) dove si univa la volontà di rispetto delle minoranze con la sottolineatura della sovranità italiana su quelle terre.
Importante l’attenzione rivolta all’agricoltura e al Mezzogiorno, dove si doveva mettere mano a risolvere le arretratezze. “E non credo sia azzardato dire che in presenza dell’intenso progresso che ha luogo nelle regioni settentrionali e della loro crescente integrazione nel sistema industriale europeo le risorse addizionali e le energie dei nostri enti di gestione debbono sempre più essere indirizzate a favore delle regioni meridionali”.
Nell’ambito dell’attenzione riservata alla scuola, si tornava sul tema delle sfide che venivano dai totalitarismi.
Noi non crediamo che i pericoli del totalitarismo politico siano meno presenti e vivi in questo momento nel nostro Paese e nel mondo. La DC perciò farà anche per l’avvenire, senza abbandonarsi ad un ottimismo disarmante e rinunciatario, buona guardia alla democrazia italiana. Sarà vigilante di fronte alla pressione totalitaria del comunismo e ad ogni elemento che possa sottolinearne ed accrescerne la pericolosità. Sarà vigilante di fronte ad ogni prospettiva di ripresa reazionaria e fascista, sempre possibile e rilevabile nel mondo delle resistenze opposte, ad ogni processo di effettivo approfondimento e consolidamento della vita democratica.
La questione economica occupava certo in quel momento una posizione preminente ed era anche oggetto di molti attacchi polemici alla DC accusata di cedere ad ideologie collettiviste. Sebbene il segretario avvertisse che “noi non ci siamo ora qui riuniti per definire un programma organico di Governo: il nostro compito è quello di renderci conto del meccanismo economico e sociale operante in Italia e delle direttive da darsi ad un’azione economica capace di contribuire a realizzare valori che ispirano il nostro pensiero”, si richiamava a quanto si era elaborato nel convegno di San Pellegrino, sicché “punto di partenza del nostro discorso è che oggi, rafforzate le basi del nostro sistema economico, occorra, con una visione sotto molti riguardi nuova dei compiti dello Stato, dare opera affinché, garantite le condizioni dell’ulteriore sviluppo, si ottenga che questo si svolga in modo da portare rapidamente all’eliminazione degli squilibri esistenti nella vita italiana”,
Seguiva una decisa presa di posizione a favore della pianificazione.
E pertanto l’obiettivo generale di uno sviluppo economico equilibrante esige una serie di azioni di vasta portata che si svolgono in campi diversi della vita nazionale e ad opera di una molteplicità di istituzioni di carattere nazionale e di carattere locale: tutte queste azioni non potrebbero dare il risultato che ci si attende se non fossero tra loro strettamente coordinate, in altri termini, se non si provvedesse a determinare in modo congiunto gli obiettivi parziali di ciascuna di esse, gli strumenti da impiegare, i criteri con cui detti strumenti saranno impiegati ed infine i metodi con cui raccogliere i mezzi finanziari occorrenti. Tutto ciò ha trovato sintetica espressione a S. Pellegrino, sulla base della relazione del prof. Saraceno, nell’espressione «politica di piano»; altri chiama ciò «programmazione»: termini che stanno a significare la duplice esigenza di coordinare strettamente le varie attività che si intende avviare, e di adeguare le singole istituzioni e il volume di mezzi di cui sono dotate agli obiettivi parziali che le istituzioni devono conseguire.
Moro dedicava un’ampia attenzione al problema della riorganizzazione della sfera economica, in quanto “la politica economica non è più soltanto il presidio di un mercato che si svolge secondo leggi proprie, ma intende indirizzare il mercato verso obiettivi scelti in sede politica. Un simile mutamento nella natura della politica economica italiana è anzi in parte già avvenuto”. Richiamava anche l’importanza dell’imprenditoria privata e del contributo delle organizzazioni sindacali sempre nel quadro di quella riorganizzazione dello Stato su cui si era discusso a San Pellegrino ma che era stata invocata anche dall’enciclica giovannea Mater et magistra.
Il segretario passava ora ad una analisi, dettagliata e puntuale come sempre, delle forze politiche in campo. Iniziava ovviamente con il PCI, accusando Togliatti di non avere sciolto nella sua relazione all’VIII Congresso del partito il dilemma fra riforme e rivoluzione.
Così la scelta tra rivoluzione e riforma è lasciata più alle cose che agli uomini, mentre manca nella intuizione comunista del mondo una ragione morale, poiché il solo criterio è la validità della rivoluzione violenta e sovvertitrice.
Questa irriducibile ambiguità, questa politica del doppio binario, questo mescolarsi di obiettivi immediati e di altri remoti, questa insicurezza, a dir poco, circa il punto ed il momento, i quali pur giungeranno fatalmente, nei quali la convergenza temporanea diventerà divergenza in vista della attuazione immancabile dei fini ultimi della rivoluzione comunista, non può non incidere in modo decisivo su ogni prospettiva di collaborazione democratica con questo partito.
A questo punto non poteva però che ribadire quanto aveva ripetutamente sostenuto in precedenti interventi che abbiamo esaminato: “L’anticomunismo della DC non è poi … un anticomunismo di tipo conservatore né sul terreno sociale né sul terreno politico”, sottolineando con forza che “la nostra posizione anticomunista dev’essere immune da ogni compiacenza o anche da ogni sospetto di compiacenza verso il fascismo e tutto quello che lo renda possibile e lo prepari”.
Si veniva così ad affrontare il tema del MSI. Si iniziava col chiarire quel problema della destra antidemocratica già in varie occasioni denunciato da Moro, un orizzonte verso il quale rischiavano di essere risucchiati anche i monarchici, sebbene il caso dominante fosse quello del Movimento Sociale.
Così solo negli ultimi anni anche in sede amministrativa apparve più chiaro il tentativo del MSI d’inserirsi nella vita italiana con un preciso significato, con una pesante carica polemica, con la pretesa d’incidere in modo determinante sulla situazione politica e di correggere ed assimilare la DC. Perciò la nostra nettissima presa di posizione, che è giunta fino ad una totale preclusione anche in sede amministrativa (una presa di posizione che non intendiamo né rinnegare né attenuare e della quale anzi riconfermiamo intera la validità per il passato e per l’avvenire) trova la sua immediata giustificazione proprio in un certo deterioramento della situazione politica a destra, proprio nel venir meno di alcuni margini, proprio nella pretesa, che parve vicina a realizzarsi, del MSI d’inserirsi nella maggioranza.
Il giudizio su quel partito era netto: “il MSI ha la sua ragion d’essere e la giustificazione della sua forza elettorale in un richiamo al fascismo che è veramente caratterizzante”. Riconosceva che “se si vuole, si può certo distinguere in questo movimento un’ala estremista e rivoluzionaria ed un’ala moderata che accetta d’inserirsi nel gioco democratico e parlamentare e consente a quelle rinunce che comporta lo sforzo per avvicinarsi in qualche modo all’esercizio del potere”, ma ciò non mutava la sostanza del problema.
Passando a considerare quello che era il tradizionale ambito del centrismo, Moro sottolineava la “progressiva accentuazione delle differenziazioni programmatiche e della dichiarata e sottolineata diversità di funzione dei partiti, fino al profilarsi di una vera incompatibilità tra le ali sinistra e destra dello schieramento democratico tradizionale. N’è derivata l’affermazione della non utilità e quindi inammissibilità di una collaborazione che impegni il partito socialdemocratico e quello repubblicano da un lato, e quello liberale dall’altro”. É così che la DC doveva porsi la questione del suo rapporto col PLI, riconoscendone la problematicità.
Non possiamo trascurare il fatto che proprio un’accentuazione delle posizioni liberali, la ricerca di un troppo meccanico equilibrio tra forze diverse, una sottolineata funzione condizionante da parte di questo partito ha segnato l’avvio al deterioramento progressivo della formula centrista, la quale appunto andava manifestando i suoi limiti, non solo di fronte alla prospettiva di mutamento di alcuni dati della realtà sociale e politica, ad esigenze nuove che si andavano affacciando, alla opportunità di allargare la sfera delle responsabilità democratiche, ma anche in forza di interne differenze talvolta esasperate, del peso di troppe interne polemiche, della vita per ciò stesso precaria e tormentata dei Governi di coalizione centrista.
[…]
La insistenza su certi motivi, certe esigenze, certi problemi, ora in forma positiva ora in forma polemica, sia nel corso di varie collaborazioni di Governo sia nei periodi di libertà politica dei nostri partiti, sta a dimostrare come, malgrado i punti di contatto, DC e PLI partano da una visione diversa e valutino diversamente tempi, modi e condizioni di un’evoluzione della situazione politica italiana, assolvano nella democrazia italiana due distinte funzioni le quali, se consentono in determinate condizioni incontri dignitosi e fecondi, possono tuttavia portare i due partiti, pur restando sempre sul terreno democratico ed avendo tra loro questo sicuro collegamento, ad assumere posizioni diverse ed anche opposte.
Era da questa frattura col partito liberale che nasceva il problema dell’allargamento dell’area democratica, qualcosa che andava guardato senza “abbandonarsi perciò ad un facile ottimismo, ma neppure soffermarsi in un’estatica e preoccupata contemplazione di difficoltà e remore che appaiono insuperabili”. Il segretario era più che consapevole di muoversi su un terreno scivoloso, sul quale avrebbe trovato forti contrapposizioni nel partito, per non parlare ancora una volta di quelle che venivano dalle gerarchie ecclesiastiche. Si esprimeva dunque con cautela, ma non mancava di dire che si era davanti ad una strada in qualche modo obbligata.
In realtà si parla e non si può non parlare del PSI, come di una riserva alla quale attingere, se vi si può attingere, per una più solida garanzia, un più completo sviluppo, la creazione di un più stabile equilibrio in seno alla democrazia italiana. Si potrà avere, com’è per molti e certo in buona fede, e certo nel sincero desiderio di meglio salvaguardare appunto la democrazia italiana, si potrà avere, dicevo, una posizione fortemente polemica ed irrimediabilmente pessimistica circa la prospettiva di utilizzare davvero senza rischi ed anzi con vantaggio il PSI per la guida politica del Paese e per la difesa delle istituzioni, ma non si potrà negare che l’unica direzione nella quale si possa guardare, anche senza abbandonarsi ad un facile ottimismo, è quella rappresentata dai settori di opinione pubblica, dal complesso delle forze degli interessi e degli ideali che fanno capo al Partito Socialista.
Certo non poteva tacere sulle ambiguità nell’evoluzione del PSI e le avrebbe ripetutamente ricordate anche in questo discorso, aggiungendo però che “più significativamente si può seguire l’evoluzione del Partito socialista attraverso il dibattito che si è sviluppato con una notevole intensità negli ultimi due anni, ad iniziativa della maggioranza, su ciò che fa diversi i socialisti dai comunisti, dal quale deriva l’atteggiamento pratico di fronte a quel partito e conseguentemente di fronte ai partiti democratici”. Per mostrare però il realismo e la trasparenza con cui analizzava la situazione del partito socialista, Moro si dava ad una analisi ampia delle posizioni di Nenni e Lombardi, delle contraddizioni registrabili nel confronto interno a quel partito in sede di congresso e di organi direttivi. E se le vicende degli ultimi due anni stavano ad indicare “accanto ad innegabili progressi nella assunzione di responsabilità democratiche, il perdurare di ombre notevoli per quanto riguarda un chiaro e responsabile atteggiamento pratico da assumere di fronte al comunismo”, si sentiva però di indicare una prospettiva piuttosto definita.
È una prospettiva che attende nella difficile situazione italiana, dove sono grandi punti interrogativi e scadenze serie ed urgenti, un processo di conseguente attuazione, che non comporta l’imprigionamento del PSI in una qualsiasi maggioranza di comodo o la deformazione delle linee essenziali e della funzione del partito, il che tra l’altro non gioverebbe alla democrazia italiana, ma il superamento dell’influenza pressante (e del sospetto di essa) da parte del PCI, per rendere il PSI nella sua integra fisionomia, totalmente disponibile al servizio della democrazia italiana.
Ma questo è il discorso di domani, non di oggi; il discorso di quella alleanza politica organica, di quel reale collegamento, di quella appartenenza ad una comune maggioranza che il Congresso di Milano esclude, come l’esclude allo stato delle cose la DC nella constatazione della rigida impostazione classista del PSI, del suo tormentato processo di effettivo, totale distacco dal PCI, dell’inevitabile peso di talune radici comuni tra i due partiti, della prospettiva di politica estera.
Nella cautela di indicare uno sviluppo non di oggi, ma di domani, apriva però ad una evoluzione che faceva capire quanto meno auspicabile. Occorreva però affrontare un passaggio: le alleanze non potevano basarsi su una banale condivisione di programmi che sarebbero stati “un alibi per consentire di attuare una qualsiasi opportunistica collaborazione, coprendone il reale significato politico mediante la enunciazione di obiettivi, sulla base della quale soltanto si pretenda di essere giudicati”. Quella era una strada scivolosa, perché come ricordava, si sarebbe trattato di “giochi tattici” che venivano invocati anche da chi tirava in altra direzione: “Notoriamente questa è la tesi, solo apparentemente suggestiva, e finanche nutrita, così si pretende, di rispetto verso tutto il corpo elettorale e le sue espressioni parlamentari, con la quale si cerca di far passare l’alleanza a destra della DC”.
Si arrivava così ad affrontare in chiusura il tema del compito che il segretario affidava al congresso. Nelle circostanze in cui era stato preparato e con tutte le polemiche che lo avevano circondato si era puntato da molti a far ritenere che quella sede dovesse pronunciarsi direttamente sulla apertura a sinistra. Moro però non intendeva cadere in questa trappola che avrebbe presentato il rischio di sanzionare una spaccatura del partito unico dei cattolici.
Pur senza sottovalutare queste caratteristiche peculiari del nostro Congresso ed i problemi che ne scaturiscono, converrà tuttavia tener fermo che un Congresso né può ridursi ad un referendum pro o contro determinate soluzioni politiche né può essere condotto ad affrontare esso stesso l’esame della immediata realtà politica, delle esigenze che essa propone, degli strumenti, anche di carattere contingente, atti a soddisfarle.
A noi dunque spetta di definire le grandi linee della presente situazione politica, di disegnare il quadro dei problemi, dei bisogni, delle prospettive che sono propri della realtà italiana e certo includendo in esso le esperienze vissute, i tentativi falliti, le altrui iniziative e volontà, i dati nuovi della situazione nel loro significato e nel loro limite; a noi spetta di formulare un programma aggiornato ed efficace e d’indicare un’area nella quale si può operare ed i modi e limiti nei quali vi si può operare. Spetterà poi agli organi eletti dal Congresso una decisione sul concreto, un esame dettagliato della situazione, il riscontro dei dati che consentono di applicare i principi da noi indicati, la verificazione delle ipotesi che noi avremo formulato.
Il segretario affrontava dunque di petto nella parte conclusiva del suo lunghissimo intervento la questione chiave che riguardava le scelte politiche per il futuro. Ripartendo dall’ennesima sottolineatura del dovere di governare che incombeva sulla DC (“non è una comodità, ma una responsabilità ed un peso. È un principio di presenza, di una costante presenza che non ammette né riposi, né ritiri, né ripensamenti. È un dovere ed un problema”) e dopo avere ammonito che in politica non ci si può illudere di avere sempre il meglio, Moro ribadiva per l’ennesima volta che la fine del centrismo era dovuta alle scelte di PRI e PSDI (“il superamento del centrismo, la ricerca di vie nuove erano per questi partiti cose serie e stabili”) e di questo la DC doveva tenere conto con realismo. Dunque il partito doveva muoversi “ispirandosi al criterio di dare, anche se con prudenza e gradualità, le soluzioni più consone alle esigenze del Paese ed agli interessi, guardati in lontana prospettiva, della democrazia italiana”. Era quanto si era cominciato a tentare con le giunte difficili, nate dalla considerazione della mancanza di soluzioni alternative accettabili. Del resto “anche coloro che rifiutano più o meno drasticamente quella esperienza che noi pensiamo sia da ritenere possibile e da tentare, non hanno poi molto di più che argomenti e motivi di preoccupazione da proporre. Argomenti certo seri, motivi di preoccupazione certo condivisi, ma non sino al punto di farne scaturire la paralisi ed una sorta di rassegnazione ad un tempo cieca ed impotente”.
Moro a questo punto metteva per così dire le carte in tavola.
Com’è noto, l’ipotesi prospettata come modo di soluzione della presente crisi politica e cauta sperimentazione di nuove vie per la democrazia italiana è quella di una coalizione tra la DC ed i partiti della sinistra democratica alla quale dovrebbe accedere dall’esterno il PSI dando un appoggio diretto o indiretto. Non è in discussione in questo momento una alleanza politica, un accordo organico, la vera partecipazione dei socialisti ad una maggioranza parlamentare. Abbiamo avuto occasione di ripetere anche nel corso di questa relazione i motivi di dissenso, le nostre riserve, le nostre preoccupazioni nei confronti del PSI. Non solo sono diverse, ho osservato, le nostre ideologie, ma in punti di notevole rilievo divergono le nostre linee politiche
[…]
È possibile che, battendo la nostra strada, attuando il nostro programma, aderendo alle nostre genuine ispirazioni, questi punti d’interesse emergano per il PSI e ne giustifichino l’adesione in una qualche forma al progettato Governo di centro-sinistra. Tocca a noi, evidentemente, con profonda serietà, con piena autonomia, con vera consapevolezza delle necessità urgenti del Paese, di proporre senza semplicismi ed insieme senza cedimenti di sorta quegli indirizzi programmatici, quelle prospettive di azione che possano mettere in crisi quella pregiudiziale volontà di opposizione che qualche volta il PSI ha mostrato. Ed alla nostra assunzione di responsabilità spetta agli altri rispondere con pari assunzione di responsabilità. Non è cosa facile per nessuno, lo sappiamo, né per noi né per loro; ma passa per questa comune assunzione di responsabilità la possibilità di superare il punto d’inerzia e di dare avvio a qualche cosa di nuovo e di costruttivo che valga a porre su nuove e più sicure basi la democrazia italiana.
Per il segretario in una situazione per tanti aspetti difficile e con l’esigenza di raggiungere obiettivi di sviluppo e giustizia sociale era opportuno tentare la nuova via: “si tratta di un esperimento, di una prova, che può riuscire o fallire, ma ha sempre un alto valore come tentativo di sbloccare una situazione difficile per la democrazia italiana, come principio di una chiarificazione circa le possibilità di convergenza in termini nuovi, se essi esistono, delle forze politiche italiane”. Era necessario provarci: “Non è un’avventura, ma una tappa, un momento del difficile cammino attraverso il quale si approfondisce, e consolida, o nella solidarietà o almeno nella chiarezza, la democrazia italiana”.
Sapeva bene a cosa miravano coloro che non volevano quell’esperimento e sul punto interveniva con chiarezza.
Contro l’ipotesi che noi crediamo il Congresso debba ammettere ed offrire agli organi esecutivi del Partito i quali ne saggino la concreta attuabilità, si oppone come alternativa reale solo quella delle elezioni. Si vuole una elezione su di una pregiudiziale, mentre noi ammettiamo, se mai, una elezione su di una esperienza. A parte il fatto che le elezioni anticipate non dipendono da noi e trovano del resto i noti ostacoli costituzionali per la loro immediata effettuazione, io credo che elezioni anticipate sulla pregiudiziale della totale impossibilità d’incontro tra PSI e DC siano inopportune, perché una parte notevole dell’elettorato, quello che in definitiva decide in queste competizioni, non è e non sarà persuaso ad assumere un netto atteggiamento da una pregiudiziale, ma semmai da una prova significativa.
Se si doveva essere consapevoli della “diversa prospettiva che si apre o almeno si tenta di aprire per rispondere alle esigenze a loro volta nuove della situazione ed all’urgenza dei tempi”, ciò non significava dimenticare le cautele necessarie, ma per queste c’era la forza e la responsabilità del partito.
… è il Partito come tale, nella sua autonomia e nella sua integrità, che parla all’elettorato e si pone come punto reale e duraturo di riferimento nello sviluppo di civiltà e nell’evoluzione storica del Paese. Ecco perché anche in questo momento, ed anzi soprattutto in questo momento nel quale si prospettano novità che destano e non possono non destare perplessità, e perplessità nutrite certamente in tanti, se non in tutti, in buona fede, con un sincero desiderio di coerenza e di verità, il discorso deve tornare al Partito, a quel che il Partito rappresenta nelle mutevoli contingenze della storia. È il Partito che dà la garanzia ed è al Partito che veramente si concede la fiducia. Ed il Partito siamo noi, tutti noi, maggioranza e minoranza, ciascuno con la propria funzione ed il proprio significato, in una varietà che corrisponde alla varietà di un corpo elettorale che è libero e non può essere perciò monolitico …
Perciò concludeva con un accorato appello all’unità del partito, a “non creare con una polemica di toni così accesi e così profondamente ingiusta il disorientamento e lo sconforto nel corpo elettorale”.
Il dibattito fu, come era previsto, assai acceso con 69 interventi incluso quello di Fanfani, il quale nel suo diario annotò che l’intervento aveva avuto “ottima accoglienza”, sebbene i dirigenti dorotei fossero “un poco sgomenti”[55]. Moro replicò senza dilungarsi (“non temete perché non farò una replica di sei ore”) apprezzando, più o meno ritualmente, la serenità e il carattere costruttivo del dibattito.
È una riprova, questa, dell’importanza che ha nella DC la varietà delle sue posizioni, la dialettica interna del Partito che in questi anni si è espressa vivacemente, qualche volta con una vivacità che determinava qualche ripercussione in seno al Partito e fuori del Partito; ma questa dialettica libera che io ho lasciato svolgere, che io ho apprezzato, che ho valorizzato come era mio dovere, ha fruttato questa unità nella varietà e questo rispetto per tutta la Democrazia Cristiana.
A parte qualche piccola puntualizzazione su singoli passaggi, tenne a respingere di essere stato duro e “cattivello” verso i liberali, sottolineando piuttosto ancora una volta “questa prospettiva che oggi si apre, che deve essere saggiata con serietà, con impegno, con buona volontà, volontà del partito socialista di offrire questo aiuto, di cercare in questa forma indiretta (l’unica alla quale i nostri partiti sono preparati[56]) un punto di contatto, un punto di incontro, per inserirsi in un nuovo processo che tutti ci auguriamo si svolga nella sicurezza democratica”. Si poteva essere “più o meno pessimisti o ottimisti”, ma occorreva “non precludere apporti che possano venire all’allargamento della vita democratica italiana; occorre non precluderli se non per ragioni di autentica difesa; occorre sperimentare le responsabilità, saggiare cautamente le vie che permettano a forze nuove di farsi corresponsabili nella vita dello Stato democratico”.
Non negava che sul versante PSI ci fossero stati atteggiamenti discutibili e “cose irritanti”, ma si doveva guardare in quella direzione: “Si è fatto il discorso delle alternative. In verità non mi pare che dalle cose che sono state dette, pur con l’eccezionale acutezza di questi nostri amici, sia venuta una indicazione più chiara di alternative per la Democrazia Cristiana”. Si riferiva chiaramente alle alternative di centro-destra proposte da Scelba e Andreotti (che citava), ma a questo proposito osservava:
esperienze di questo genere non si rifanno e che se si rifanno, a parte la loro pericolosità, hanno un carattere veramente transitorio, di esperienza momentanea mentre qui siamo di fronte ad una realtà più vasta e complessa e di lunga durata.
Non dobbiamo, cari amici, provvedere per qualche giorno, per qualche mese, dobbiamo provvedere per l’avvenire della nazione. Ecco perché, diciamo, c’è una prova, c’è una difficoltà da affrontare, c’è una convergenza difficile da sperimentare e da promuovere; nessuno può essere sicuro che questa via si dimostri percorribile, ma è impossibile non guardare in quella direzione, non sperimentare quella strada, non avvertire quel tanto che essa ha di potenzialmente valido e permanente nei confronti di altri espedienti assolutamente transitori e alla lunga inefficaci.
La strada da imboccare era solo quella che portava al “centro-sinistra” (DC, PSDI, PRI) con appoggio esterno socialista. “E noi ci assumiamo (non noi, la DC), la responsabilità di provare con una prudenza doverosa, avendo l’attenzione rivolta a coloro che dubitano, che temono, con una prudenza che non sia paralizzante perché allora la DC non potrebbe muoversi, ma con una prudenza e un senso di responsabilità che siano pari a quella che in tante difficili circostanze la DC ha dimostrato”.
Alla fine si votò su due ordini del giorno, uno favorevole alla nuova fase (Moro con i dorotei più o meno riluttanti, Fanfani e i suoi, “La Base” e “Rinnovamento”), l’altro contrario della corrente “Centrismo democratico” (Scelba, Andreotti, Restivo, Gonella e Scalfaro): il primo ottenne facilmente una maggioranza di oltre il 90%
Il significato di svolta del congresso di Napoli fu colto da tutti gli osservatori, con soddisfazione o disagio a seconda delle varie posizioni, ma unanime fu il riconoscimento della vittoria di Moro che non a caso il 5 febbraio veniva riconfermato segretario dal Consiglio Nazionale con 137 voti, 1 astenuto, 34 schede bianche e 12 assenti. Nel suo discorso di accettazione della nomina il segretario interpretava il consenso come conferma dell’unità del partito pur nella sua dialettica e come un viatico per “il cammino che ci sta dinanzi lungo e difficile”.
In effetti già il 2 febbraio Fanfani era solito al Quirinale a presentare le dimissioni del governo e si erano aperte le trattative con repubblicani e socialdemocratici, che a loro volta avevano coinvolto a latere i socialisti. Il 10 febbraio 1962 Gronchi conferiva l’incarico a Fanfani per un governo DC, PSDI, PRI con appoggio esterno socialista. Non che tutto procedesse tranquillamente. C’erano difficoltà nei negoziati fra i partiti, tensioni interne alla DC (faceva problema soprattutto la questione della nazionalizzazione dell’energia elettrica), nonché conflitti interni alle gerarchie cattoliche con componenti della segreteria di Stato vaticana in conflitto con il cardinal Siri[57].
Il 13 febbraio in appoggio alle intese che si cercavano di raggiungere, Moro rilasciò a nome del partito una dichiarazione a sostegno dello sforzo di Fanfani. “Ci proponiamo così di risolvere la crisi con le forze politiche veramente disponibili, in vista di questi obiettivi e naturalmente con spirito di cordiale e rispettosa collaborazione. Ma non vogliamo solo risolvere la crisi nel modo migliore in rapporto alle esigenze del momento presente ed a questa significativa fase di sviluppo della società italiana”.
Le trattative per la formazione del nuovo governo furono complesse sia all’interno della DC dove alla fine il segretario riuscì a circoscrivere l’opposizione della destra, con Andreotti che accettava di entrare ottenendo il ministero della Difesa e con Segni insediato agli Esteri (Scelba e Gonella rifiutarono incarichi), sia con il PSI poco soddisfatto della lista dei ministri e che aveva trovato modo di salvare l’unità interna optando per la formula dell’astensione (che, come vedremo, avrebbe aiutato non poco la lettura che Moro si apprestava a proporre di quanto si stava avviando). Peraltro Nenni manifestava fiducia in Fanfani e Moro, sicché il 22 febbraio fu varato il governo Fanfani III: con la formale votazione della direzione socialista il primo marzo a favore dell’astensione il “centrosinistra pulito” (DC, PSDI, PRI) assumeva la forma del “centrosinistra programmatico”.
Non che le fibrillazioni in casa DC fossero azzerate, come si vide nella elezione del capogruppo alla Camera Zaccagnini che su impulso del segretario passò con 140 voti, ma con 99 voti per Scalfaro orchestrati da Scelba e 14 astensioni. Consapevole del clima, Moro si rivolse il 7 marzo al gruppo parlamentare mentre si stava discutendo alla Camera la fiducia al nuovo governo.
Iniziava così un lungo percorso quasi pedagogico per smontare le obiezioni alla collaborazione col PSI e al nuovo corso. Il segretario avrebbe continuato a riproporre alcuni passaggi chiave, ben consapevole che la vittoria congressuale a Napoli non aveva affatto compattato il partito e il suo retroterra e che questo era continuamente sollecitato dalle polemiche che arrivavano da molti ambienti delle classi dirigenti e da una quota notevole della stampa “indipendente”.
Per questo Moro partiva una volta di più dal sottolineare la necessità di abbandonare l’esperimento Tambroni: “Opponendoci a quanti pretendevano di presentarci in una luce diversa da quella che ci è propria ci siamo rifiutati di lasciarci identificare con i partiti di destra, come abbiamo evitato che una formula politico-parlamentare di necessità si trasformasse in una scelta politica della DC”. Quanto poi all’esperimento delle “convergenze” questo si era dissecato lungo il percorso, e a quel punto non si poteva certo tornare al passato. Sapeva bene che una grande insidia veniva dall’accusa che lanciavano gli ambienti clericali di essersi arresi al “laicismo” abbandonando i valori cristiani. Perciò ribatteva:
Né questa posizione di responsabile iniziativa politica può essere velata dall’ombra del timore di un incipiente laicismo. Di ciò non può essere sospettata la D.C., né il suo gruppo dirigente. Oggi ci sono troppi interessati difensori dei valori spirituali e religiosi perché non si debba respingere anche solo il sospetto di una nostra minore fedeltà ai principi cristiani, cui tutta la nostra azione è profondamente ispirata. Ma non per questo non dobbiamo sottolineare la difficoltà dei cattolici impegnati in sede politica, nel loro continuo tentativo di far passare nella realtà concreta alcuni dei valori di fondo delle loro impostazioni ideali. C’è una affermazione assoluta dei valori cristiani, ma c’è anche la necessità di una traduzione pratica di essi; tra questi due piani il salto è grande ed esso appunto costituisce il limite dell’azione politica, dato che non si riesce ad ottenere tutto e in ogni momento.
Invitava a tener conto che “la forza dei principi conta per noi, ma non conta per gli altri partiti. L’inserimento può avvenire solo attraverso un lungo e faticoso cammino di commisurazione dei rispettivi punti di vista e di reciproca intesa”. Ricordava che il programma in tutti i suoi punti era in linea con quanto premeva al partito (“il programma e non le sue più o meno arbitrarie amplificazioni”), ma soprattutto segnalava l’importanza della decisione socialista di astenersi, decisione che era stata svalutata da vari commentatori (e anche nelle fila dc)
Noi non ci soffermeremo sulla svalutazione che sulla stampa è stata compiuta di questa decisione socialista, anche perché abbiamo lasciato il PSI arbitro delle sue scelte, dimostrando anche per questa via che si tratta di una prova. Non una prova che noi richiediamo da maestri saccenti ma di una prova per tutti in piena dignità e autonomia, per vedere se tra noi e i socialisti è possibile camminare insieme, se esistono davvero compatibilità e prospettive di collaborazione. Tuttavia va detto che la astensione, come è stata motivata, è espressione di una sincera volontà di agevolare la vita del governo per l’attuazione del suo programma.
Concludeva ricordando che “nel Paese c’è attesa, una speranza, vorrei aggiungere una fiducia di determinare lo sblocco della situazione politica italiana, di dare più libertà alla vita democratica, proprio perché dall’altra parte, in altre direzioni, esiste per la D.C. soltanto il rischio di essere bloccata tra le forze di destra, innaturalmente contrapposta al frontismo comunista”.
Non era che un inizio, perché subito dopo avrebbe ripreso l’analisi dei problemi e della situazione nel suo discorso alla Camera del 9 marzo nel dibattito sulla fiducia al governo. In esso puntualizzava subito che il nuovo esecutivo
rappresenta lo sbocco naturale di un complesso, difficile, tormentato processo di evoluzione politica; risponde puntualmente ai dati della situazione attuale con i suoi limitati margini di manovra e soprattutto con le sue incertezze, i suoi elementi problematici, le sue prospettive e speranze; costituisce uno sforzo notevole della democrazia cristiana e dei partiti democratici per animare la vita politica italiana ed aprire la via ad un arricchimento e consolidamento delle istituzioni democratiche.
Respingeva quanto sostenuto “nella furiosa polemica contro la presente formula di governo”, e cioè che tutto fosse stato gestito e deciso fuori dal parlamento, perché i partiti erano una espressione di quella dialettica politica, così come apertamente richiamava la consapevolezza del complicato passaggio legato però alla trasformazione del paese. “Rappresenta lo sbocco naturale di un complesso, difficile, tormentato processo di evoluzione politica; risponde puntualmente ai dati della situazione attuale con i suoi limitati margini di manovra e soprattutto con le sue incertezze, i suoi elementi problematici, le sue prospettive e speranze; costituisce uno sforzo notevole della democrazia cristiana e dei partiti democratici per animare la vita politica italiana ed aprire la via ad un arricchimento e consolidamento delle istituzioni democratiche”.
Fissava allora due punti sui quali sarebbe tornato di frequente nei mesi successivi: 1) la DC aveva il dovere di contribuire alla stabilità del sistema senza attardarsi su formule ormai esaurite; 2) era l’evoluzione del contesto sociale ed economico ad esigere risposte nuove.
Se però il doveroso senso di responsabilità della democrazia cristiana ha condotto a realizzare questa svolta con meditata lentezza, questo stesso senso di responsabilità, la funzione che il nostro partito assolve di garante della stabilità e continuità della vita democratica, precludevano alla democrazia cristiana la possibilità di rimanere insensibile di fronte al mutare delle situazioni, all’erompere delle esigenze, all’evidente necessità di coraggiose iniziative, nelle quali essa, proprio per essere quella che è e deve rimanere, non può essere sostituita da altri.
[…]
Sarebbe stato inconcepibile e pericoloso costringere una crisi politica, che nasce proprio dalla constatazione della insufficienza e della pratica insostenibilità in questo momento degli schemi di una pur rispettabile politica centrista − una crisi insomma di crescita, di più largo impegno popolare, di progresso − nell’ambito di una soluzione a destra, sostituendo al precario e sottile equilibrio centrista un pauroso sbandamento, negazione di ogni possibile equilibrio politico in Italia.
Per questo era da respingere “un’assurda pretesa quella di assoldare con procedura piuttosto sommaria la Democrazia Cristiana al servizio di interessi conservatori”, perché la DC voleva cose “radicalmente diverse” rispetto alle destre e per quelle aveva raccolto il consenso popolare. Pertanto essa poteva, sia pure con la dovuta prudenza e responsabilità, “avviare un discorso nuovo con le forze socialiste, rimaste a lungo in posizione di preconcetta ostilità, di sterile protesta, di equivoco schieramento politico ed ora avviate − se ad esse in prima linea, ma anche ai democratici non mancherà il coraggio − a battere una nuova strada”.
Considerava non proponibile che per l’avvio del nuovo esperimento politico si chiedesse di passare per una prova elettorale, in quanto “non è concepibile una elezione su di una pregiudiziale, ma piuttosto una elezione su di una esperienza”. Si trattava insomma di “un esperimento posto in essere con gli occhi bene aperti, il cui valore costruttivo non può essere giudicato altro che nel corso delle vicende che stanno davanti a noi, nello sviluppo politico che oggi si inizia”.
Non per questo rinunciava a proporre una lettura prospettica di quel che si era avviato con l’apertura verso il partito socialista:
nel largo apprezzamento che il partito socialista ha espresso per il programma rinnovatore del Governo e nell’impegno che esso ha assunto di appoggiarne in modo attivo le realizzazioni programmatiche è l’apertura verso l’avvenire, il tentativo, la speranza di tracciare nuove strade alla democrazia italiana, di dare un appoggio più vasto all’azione diretta a rimuovere le ingiustizie e ad ampliare la sfera della libertà umana nella sicurezza democratica.
Se poneva l’accento sull’unità del suo partito nell’appoggio al governo Fanfani, sottolineava al tempo stesso la disponibilità della DC alla collaborazione con altri partiti al di fuori di ogni “esclusivismo”, il che non significava però farsi dettare dall’esterno le linee programmatiche, come veniva accusato di aver fatto aprendo al PSI.
nel largo apprezzamento che il partito socialista ha espresso per il programma rinnovatore del Governo e nell’impegno che esso ha assunto di appoggiarne in modo attivo le realizzazioni programmatiche è l’apertura verso l’avvenire, il tentativo, la speranza di tracciare nuove strade alla democrazia italiana, di dare un appoggio più vasto all’azione diretta a rimuovere le ingiustizie e ad ampliare la sfera della libertà umana nella sicurezza democratica.
Passava così ad elencare come sui nodi principali il suo partito si era ispirato ai suoi valori e alle sue elaborazioni ideologiche. Per le regioni le rinviava al concetto del “pluralismo sociale, che vede nella molteplicità delle forme associative un’espressione della dignità umana”. Per la programmazione economica ricordava come “proprio nel recente convegno di San Pellegrino, la Democrazia Cristiana abbia chiaramente prospettato questa inderogabile esigenza e parlato essa, in piena autonomia, di una politica di piano”. E così per l’energia come servizio, o per lo sviluppo della scuola. Certo qui si toccava la delicata questione delle scuole private e Moro non poteva evitare una precisazione:
da parte nostra non sono mai mancate su argomenti così delicati la prudenza e la discrezione necessarie per agevolare il dialogo con le forze politiche di ispirazione laica. Ma nessuno potrebbe contare su una nostra prudenza veramente paralizzante, su di una discrezione senza limiti. Come fummo in passato, così saremo in avvenire discreti e responsabili; ma un incontro politico con i cattolici non può avvenire chiedendo a noi e solo a noi una rinunzia totale a punti essenziali del nostro programma.
Seguiva la polemica di rito col comunismo, chiarendo però di avere “rifiutato di combattere il comunismo con le armi del fascismo, che reputiamo inaccettabili sul piano dei principî e disperatamente inefficaci, alla lunga, sul piano storico”, perché bisognava invece combattere con quelle “di una democrazia in sviluppo, di una democrazia seria e profonda, di una democrazia all’attacco, che persuade, conquista, ordina, colloca su basi stabili e umanamente accettabili i rapporti sociali”. Affrontava pertanto apertamente i punti principali che il PCI aveva messo in campo nella polemica di quei mesi.
Non vi sono dunque elementi di modificazione della situazione politica nelle sue linee essenziali. Non è aperto oggi un processo nuovo di interpretazione e di attuazione della Costituzione italiana, nel senso, piuttosto arbitrario, accennato dall’onorevole Togliatti. Non v’è dubbio che il nostro Stato, perché ricco di un profondo significato democratico, è uno Stato nel quale hanno un posto di particolare rilievo i lavoratori, la cui piena immissione nella vita sociale e politica è una fondamentale esigenza ed un impegno permanente, per quanto da essa dipende, della democrazia cristiana
[…]
Ancora una volta l’onorevole Togliatti rievoca la solidarietà antifascista e la pone come fondamento politico ineliminabile della nostra Costituzione, e premessa di un rinnovato ed allargato frontismo. La resistenza al fascismo, nelle circostanze in cui dovette esprimersi e nelle forme nelle quali ebbe ad esplicarsi, è cosa alla quale è andato e va il rispetto della democrazia cristiana. Ma troppe cose sono avvenute da allora, troppe situazioni si sono chiarite, troppo avanzata è l’evoluzione democratica della nostra società, perché questo dato storico possa diventare un fatto politico o addirittura una esigenza costituzionale. Poiché nella società italiana, ferma restando la minaccia del totalitarismo fascista, si sono a grado a grado ed in modo sempre più netto e minaccioso fatte avanti le forze di pressione del totalitarismo comunista, l’interpretazione e l’attuazione della Costituzione nel suo vero spirito sono legate ad una rigorosa e imparziale difesa di fronte ad ogni minaccia totalitaria.
Il punto principale rimaneva sempre quello del rapporto col PSI e su questo tornava in conclusione del discorso. Così riaffermava che “la soluzione che è stata data alla crisi di Governo è certamente un fatto nuovo ed importante nella vita nazionale. È importante, perché blocca ogni tendenza involutiva nella politica italiana, pericolosamente latente in un sistema”, pur non negando “tutte le incertezze e diciamo pure le diversità e le distanze che caratterizzano naturalmente questo primo sforzo di convergenza”. Nel riconoscimento di queste difficoltà, piuttosto che un’alleanza nell’ambito di una nuova maggioranza “alla nostra impostazione politica è venuta da parte socialista semplicemente una risposta non negativa, un appoggio solo nella forma dell’astensione”. Ciò non significava però sminuire l’importanza del passaggio politico che si era realizzato. Nel valutare il discorso di Nenni aveva così modo di spiegare la sua visione di quanto stava avvenendo, poiché in quelle parole
si trovano certo la passione e l’impegno di chi vuol porre al servizio della democrazia forze popolari che sono state logorate dall’opposizione massimalistica, contribuendo alla radicalizzazione della lotta politica ed all’instabilità del regime democratico, di chi sente vivamente i problemi posti in questo momento decisivo di sviluppo politico e che comportano una difficile assunzione di responsabilità, una decisione coraggiosa, doveri nuovi e difficili. In esso si trova il rifiuto di prospettare un’alleanza organica e un comune sforzo per la conquista del potere con il partito comunista, ma si riscontrano anche ancora incomprensione per un passato che aveva una sua giustificazione ed una valida funzione politica, una visione artificiosa della democrazia cristiana, una punta rivolta se non verso la frattura almeno verso la discriminazione, giudizi talora ingiusti e sommari su uomini, situazioni, momenti politici di chiaro e positivo significato.
Il discorso di Moro nel dibattito sulla fiducia non era certo stato reticente nell’illustrare una linea strategica, per quanto l’avesse espressa cercando di circondarla di cautele per non urtare le suscettibilità che ben conosciamo. Ma si trattava di una linea che egli avrebbe ora ripreso con infinita pazienza nel lungo lavoro di preparazione delle elezioni amministrative attese per giugno, ben cosciente che si sarebbe trattato di uno stress test che il partito doveva superare. Nell’immediato, in preparazione di un Consiglio Nazionale del partito che, come vedremo, non era affatto di routine, Moro intervenne in due importanti occasioni: la prima con un discorso a Bari, la seconda con uno al convegno della Coldiretti.
Nel primo caso giocava, sia pure entro certi limiti, in casa perché si trattava del suo collegio elettorale. Trovava modo di ribadire che “l’azione di riequilibrio e di giustizia presuppone un forte intervento dello Stato sia nella forma di orientamento e di indirizzo sia nella forma di intervento diretto per rendere possibile e favorire quel processo di eguaglianza che, affidato soltanto all’iniziativa dei singoli, non potrebbe compiersi con sufficiente ampiezza e rapidità”, così come per rimarcare che “troppe volte … il nostro passo è stato rallentato dalle difficoltà obiettive della situazione politica, troppe volte abbiamo sentito il rischio della ristrettezza dell’area occupata dai partiti impegnati non a sovvertire ma a far progredire le istituzioni del Paese”. Il tutto però sempre tornando a sottolineare che la DC aveva un “dovere di garanzia democratica sia verso destra che verso sinistra. Non riteniamo sia possibile lasciare indifese le frontiere democratiche a sinistra e a destra della democrazia italiana”.
Ben diverso era il caso dell’intervento in casa della Coldiretti, in buona parte un feudo del conservatorismo democristiano. Qui non poteva che iniziare con il consueto rinvio alla serietà con la quale si era lavorato al congresso di Napoli.
le decisioni che abbiamo preso non sono decisioni avventate, non sono decisioni immotivate, sono decisioni serie anche se difficili, anche se comportano dei rischi, anche se la situazione dev’essere continuamente vigilata nella doverosa prospettiva di rendere invalicabile (e sono lieto di dare questa assicurazione a Bonomi) il limite di sicurezza democratica che è evidentemente il limite entro il quale possono essere concepite queste decisioni della Democrazia Cristiana.
Ai congressisti proponeva una analisi che gli sembrava dirimente: voi che siete stati “i più preoccupati di fronte alla nuova prospettiva politica della D.C., perché siete particolarmente esposti nelle campagne, siete i primi a ritenere che la D.C. non potesse ripiegare da una formula centrista, verso una formula di svolta a destra, di alleanza con i partiti dell’estrema destra. Voi siete infatti una forza di progresso sociale”. Probabilmente non era proprio così, ma Moro voleva affrontare in positivo il tema della apertura ai socialisti, pur facendo mostra di aver ben presente che si trattava di collaborare con un partito che aveva in sé delle contraddizioni e posizioni diverse. Per questo chiedeva a quella platea di considerare il tentativo di ampliare la base della democrazia italiana.
noi ci auguriamo che nella esperienza politica che ha cominciato a svolgersi in questi giorni, vi sia un progressivo, più deciso accostamento del Partito socialista ai partiti democratici, ci sia la progressiva rottura di vincoli, ancora significativi, tra socialisti e comunisti; sicché si possa in prospettiva immaginare che un’altra forza politica, quella del Partito socialista, assuma una posizione di corresponsabilità piena nella difesa della democrazia italiana. Una difesa che dev’essere fatta certo a destra, dove sono ancora forze minacciose per la democrazia italiana, ma dev’essere fatta anche a sinistra…
Ai delegati dell’organizzazione di Bonomi, alla quale senza infingimenti Moro ricordava come essa avesse espresso “delle legittime perplessità – come è avvenuto anche per voi che avete con assoluta lealtà detto le vostre tesi e le vostre preoccupazioni”, il segretario del partito dopo avere una volta di più dichiarato che “non siamo diventati un partito marxista, come dice qualche critico sprovveduto; siamo rimasti un partito di chiara, netta, definitiva ispirazione cristiana”, presentava la sua fiducia nell’esperimento intrapreso.
Se questo esperimento dovesse riuscire, in termini di reale espansione democratica, senza alcun cedimento – perché i cedimenti sono impossibili e non vi saranno da parte della D.C. – noi potremo dire di aver acquistato nuova forza, di aver arricchito, di aver reso davvero più sicura la vita democratica in Italia. Se questo esperimento dovesse fallire, e non per slealtà da parte nostra, non per involuzione politica e sociale della D.C., ma per responsabilità dei socialisti, se dovesse manifestarsi impossibile un lavoro comune, un incontro sui grandi temi della difesa della libertà e della sicurezza internazionale del Paese, noi avremmo il diritto di chiedere all’elettorato di trovare altre formule, di darci altre forze per permettere alla D.C. di adempiere al suo compito insostituibile, di difendere, come ha fatto finora, la libertà del popolo italiano e la sicurezza internazionale del nostro Paese.
In questa occasione Moro non avrebbe mancato di esprimere un certo realismo (in parte dovuto al contesto poco amichevole a cui si rivolgeva): “Riusciremo, cari amici, in questo compito? Nessuno lo può dire. Però noi crediamo di aver fatto tutto il nostro dovere”. Al Consiglio Nazionale del partito riunito il 13 aprile 1962 avrebbe dovuto esprimersi con maggiore incisività, anche se pure in questo caso non avrebbe rinunciato a sottolineare cautele e responsabilità nell’avviarsi sulla nuova strada rispondendo alle preoccupazioni interne ed esterne alla DC.
Come sempre il segretario aveva cercato di bilanciare la rivendicazione di aver proseguito nel solco delle alleanze democratiche tradizionali con la sottolineatura del passo avanti che però poteva venire dalla nuova intesa col PSI. Sul primo punto aveva osservato che
la scelta infatti, compiuta del resto già in passato e, nelle presenti circostanze, con più chiara giustificazione e più netta decisione, non diminuisce l’area democratica, ma la valorizza, utilizzando particolari possibilità che in essa si vanno presentando per l’assolvimento di un compito democratico, che alla lunga avrebbe perso vigore, se fosse stato intristito da una fissità formulare, da un immobilismo timido e rinunciatario, da una esasperante ristrettezza di spazio e mancanza di margini di manovra atte a respingere su posizioni meramente difensive, defatiganti e scarsamente efficaci, proprio mentre la pressione del comunismo si fa più forte e richiede una decisa iniziativa.
Il continuare nel quadro delle tradizionali collaborazioni non poteva però “certo sminuire il valore politico dell’apporto socialista, che non è appena tollerato o meramente casuale, anche se autonomo, ma, è previsto ed accettato in quanto concorra a dare stabilità al Governo e sottolinei l’impegno di altre forze nella difesa e nello sviluppo della democrazia italiana”. Era un contributo determinato da “l’accento posto sull’impegno dello Stato per lo sviluppo economico, il progresso sociale, l’attuazione della giustizia, l’espansione della vita democratica che rende possibile il dato veramente nuovo della situazione, costituito dall’impegno del PSI di appoggiare il nuovo Governo”. Bisognava però ricordare, e Moro lo sottolineava, che “l’appoggio socialista non è stato negoziato, ma è stato dato in modo autonomo in una situazione definita dagli impegni politici della D.C. chiariti e confermati dal Congresso, e dagli accordi di Governo sui quali è fondata la coalizione. Esso è stato stabilito nella forma dell’astensione, non però meramente negativa, ma dinamica e di effettivo sostegno e non ha condotto, com’era del resto nella impostazione del partito socialista e nelle stesse decisioni della D.C., alla formazione di una maggioranza organica o ad una vera e propria alleanza politica tra i nostri partiti”.
Il segretario insisteva che si doveva procedere “senza togliere all’esperienza in corso il carattere di prova che ad essa abbiamo convenuto di attribuire quale spontaneo, graduale, misurato avvicinamento di posizioni in vista di una comune responsabilità da assumere, ma da non anticipare pericolosamente e senza una adeguata preparazione psicologica e politica”. Sarebbe stata una strada lunga su cui si doveva procedere con le opportune precauzioni:
non pensiamo di potere giudicare una complessa e difficile esperienza, come quella che si è ora avviata, dall’atto che la caratterizza all’inizio e nel quale è prevalente una valutazione politica di ordine generale. Siamo dunque al principio, e non già al termine, di un faticoso e difficile processo di avvicinamento che muove da posizioni sensibilmente diverse e subisce naturalmente le remore derivanti da numerosi punti di frizione che non possono essere eliminati di colpo.
Come “del tutto infondata” respingeva “la critica che ci si rivolge, formulata spesso con grossolana superficialità, di avere accettato idee e metodi della dottrina marxista e caratteristici punti di vista di partito ispirati a quella dottrina”. Non si nascondeva la presenza di rischi: “Abbiamo valutato sì i rischi che sono nell’utilizzare per la difesa democratica una forza politica i cui confini con la zona totalitaria del comunismo presentano ancora incertezze ed intermittenze; ma li abbiamo misurati questi rischi anche in rapporto a questa indubbia buona volontà, a questa dichiarata disposizione a schierarsi con le forze democratiche, allo sforzo di autonomia che quel partito compie da anni”. Per Moro “la base del contatto della collaborazione è un impegno programmatico che ha la sua radice nella situazione economica, sociale e politica del paese”. Si trattava di incontrare le domande di “coloro che attendono una instaurazione di giustizia come fatto saliente delle moderne società democratiche” e lo si doveva fare perché “siamo noi stessi in queste posizioni, rappresentiamo noi stessi queste forze, perché siamo un partito popolare; ma sappiamo di non essere sufficienti nella complessa ed inquieta realtà sociale italiana; di non poter assicurare sviluppo democratico e libertà sulla base esclusiva della nostra forza politica”.
Consapevole di affrontare un Consiglio nazionale in cui si riverberavano le molte tensioni esterne circa un ipotizzato cedimento della DC ad ideologie di sinistra, Moro negava “un cedimento più o meno consapevole di fronte alla sua linea politica, un avviamento verso il disordine politico e una sistemazione incoerente ed inaccettabile dei rapporti sociali”, prospettando invece che
L’esigenza della giustizia si presenta in questo momento d’impetuosa espansione economica in modo particolarmente vivo. È la nostra una società che non accetta di essere livellata, ma vuole certo eliminare le punte di squilibrio, vuole favorire una generale ascesa economica, sociale e politica la quale comporta necessariamente che siano eliminate quelle intollerabili disuguaglianze che un processo di sviluppo non controllato fatalmente determina.
Era questo il tema fondamentale che aveva imposto l’apertura a sinistra. Il segretario ribadiva che “noi abbiamo fiducia che l’opinione pubblica sappia distinguere e scegliere tra una politica democratica ed una politica reazionaria e nella politica democratica sappia vedere una responsabile iniziativa diretta a valorizzare e difendere l’uomo e la sua libertà e non un cedimento rovinoso al comunismo”. Sapeva anche che la opposizione più insidiosa non veniva tanto dalla destra, che peraltro non sottovalutava, ma dalla polemica aperta dai liberali che peraltro sebravano pencolare verso un’ipotesi di grande destra.
Naturalmente alle tesi liberali opponiamo la nostra visione della vita sociale e delle sue esigenze, la persuasione che un impegno più attento ed umano, una maggiore aderenza alle esigenze profonde della nostra società siano necessari ed alla lunga anche sufficienti a risolvere i drammatici problemi di libertà e di giustizia come si propongono nel nostro tempo. Vorremmo che i liberali pensassero a
queste cose, ricercassero con distacco le vie della difesa democratica e della efficace contrapposizione al comunismo. Crediamo che comprenderebbero meglio e rispetterebbero di più la nostra scelta ed il nostro lavoro che è in favore di tutti i democratici. Francamente ci appaiono eccessivi i toni della polemica liberale contro di noi, una polemica troppo radicale per non perdere di vista alcuni dati della situazione che esprimono i problemi insoluti del nostro tempo ed ai quali una soluzione deve pur essere data.
[…]
La critica liberale al nostro programma, oltre che alle prospettive politiche che abbiamo dinanzi, sembra troppo semplice come troppo semplice, e perciò nell’attuale realtà psicologica e politica inefficace, appare il programma liberale, non sufficientemente centrato in quel processo storico, in quel modo di essere della moderna società della quale a tratti il congresso liberale sembra essersi accorto, anche se nella polemica insistente contro le nostre idee ed i nostri programmi sembri disconoscere questa realtà difficile e ricca di problemi, ma che non può proprio essere ignorata. Perché ignorata, si vendica e genera la protesta non più contenibile sul terreno democratico.
La polemica col PCI era scontata ed era una clausola di stile, mentre l’importante era tornare a ribadire che “l’iniziativa assunta dalla D.C. non è dunque un atto temerario, improvvisato ed irresponsabile, ma è preparato dalla nostra storia”. Bisognava constatare “il logoramento del centrismo” e prendere atto che non c’erano alternative rispetto alla soluzione scelta.
Non si poteva tornare indietro, tanto indietro quanto mai si era in questi anni che sono in complesso innegabilmente di sviluppo democratico. Non c’era tempo da perdere. Bisognava provare ad andare avanti. Questa era la situazione rigida certamente nella quale ci dovevamo muovere e ci siamo mossi. Ma la nostra non è stata una scelta subita anche se era stringente la situazione e senza valide alternative politiche. È stata una scelta, pur nella consapevolezza dei rischi e con il peso innegabile in tutti di perplessità e preoccupazioni, meditata, positiva, nutrita di fiducia, con una precisa prospettiva politica
[…]
Non c’è stato capriccio né leggerezza in noi. E quel che si è fatto si è fatto appunto con coraggio, con spirito di iniziativa, con lungimiranza, dominando gli avvenimenti.
Moro sceglieva sempre di mostrarsi cauto verso la scelta fatta: “È una prova che impegna altri ed impegna anche noi, perché a noi richiede duttilità, apertura, lungimiranza, assoluta lealtà, ma anche, perché anche questa è condizione indispensabile di successo, un’assoluta fermezza”. Al tempo stesso ribadiva la sua fiducia nel consenso dell’elettorato: “Poiché sappiamo di non aver tradito, di non aver dimenticato, di non aver deviato, crediamo di potere chiedere questo consenso”.
In quel Consiglio Nazionale il segretario non ebbe particolari difficoltà: l’opposizione interna era sostanzialmente limitata a Scelba e ai suoi amici, verso cui in sede di replica garantì attenzione per le critiche avanzate. Del resto dal Vaticano, specie dal papa, giungevano segnali distensivi e questo al momento disarmava la destra cattolica. Moro si era anche premurato, con una iniziativa varata il 29 marzo, di far contattare tutti i vescovi per illustrare il nuovo panorama politico e le sue ragioni[58]. Ai vertici della chiesa italiana aveva esposte la ragioni che abbiamo trovato presenti nei discorsi analizzati: l’esaurimento del centrismo, il fallimento del governo “amministrativo” di Tambroni, la necessità di governare uno sviluppo economico che generava squilibri e modificazioni sociali. In questo quadro la formula di centrosinistra con astensione socialista era “una soluzione di necessità”. I vescovi, tranne un pugno di irriducibili che vedevano franare le loro posizioni, risposero agli emissari di Moro che si usasse cautela e si fosse guardinghi sulla nuova strada, ma si procedesse pure visto che questo salvava la posizione centrale del partito cattolico a cui nessuno voleva rinunciare.
L’attenzione politica si sarebbe concentrata sull’avvio dell’azione di governo e poi sulla battaglia per l’elezione del capo dello stato. Di questa non vi è traccia nei discorsi di Moro, sebbene si sia trattato di un passaggio non facile in cui alla fine il segretario dovette convergere sulla soluzione della candidatura Segni, che forse aveva sperato potesse cadere nelle spire delle dialettiche parlamentari. Che il successo del politico sassarese il 6 maggio nella salita al Quirinale fosse frutto di una strategia morotea per cui ci si consegnava in quel ruolo ad un uomo della destra per meglio poter andare avanti con la politica dell’apertura a sinistra è una tesi molto sostenuta, ma sulla quale avremmo qualche dubbio[59].
Superati quei tornanti c’era da affrontare una stagione di amministrative che, come Moro disse a Napoli il 20 maggio aprendo la campagna elettorale, sarebbe stata “per iniziativa non nostra, sotto i segni di una accesa politicizzazione” sicché “saremmo degli ingenui se trascurassimo quel tanto di debolezza o di forza, di incertezza o di conferma che si possono desumere da questa consultazione elettorale di un settore che va molto al di là del settore amministrativo. (..) saremmo degli irresponsabili se non sentissimo quale carica polemica portano in queste elezioni i nostri avversari”. La questione fondamentale era l’attacco della destra.
Si può dire che la destra la sua battaglia non la fa con i propri voti, ma pretende di farla con i voti della DC, con i consensi che la DC ha ottenuto dal paese per la sua posizione originaria, per la sua posizione politica.
Non si può intendere la DC al di fuori della sua funzione di garanzia e di sviluppo democratico, cioè come Partito sul quale urgono le masse e che quindi deve essere costantemente preoccupato di garantire la loro pacifica ordinata immissione nella vita del paese. Quindi una politica di ordinata evoluzione e di giustizia sociale; è questo il problema del nostro tempo: far sì che l’ascesa delle masse nella vita politica e nella vita sociale non si svolga nelle forme disordinate ed eversive, ma sotto la guida di un Partito capace di garantire la libertà nella evoluzione; di tutelare permanentemente la dignità delle persone; di svolgere al tempo stesso una funzione di propulsione ed anche una funzione di tutela della libertà a garanzia dell’ordine sociale.
Sarebbe stato il tema forte che il segretario avrebbe ripreso in tutti i suoi comizi per questa campagna elettorale, poiché era questa la ragione per cui “noi abbiamo rivolto il nostro sguardo a sinistra” per l’allargamento dell’area democratica. Il tema l’avrebbe ripreso in un comizio a Pisa il 28 maggio, ma soprattutto in una importante “Tribuna Politica” televisiva il successivo 30. Il nuovo medium aveva naturalmente un impatto notevole sulla pubblica opinione.
Aprendo il suo intervento il segretario della DC aveva voluto rispondere ad alcune delle critiche principali che sapeva essere correnti, anche in ambienti cattolici, per mettere in crisi la scelta della apertura a sinistra.
Il Congresso di Napoli, prima di affrontare i problemi politici concreti, ha inteso riaffermare, come è detto nella nostra mozione conclusiva, le caratteristiche di fondo della Democrazia Cristiana: l’ispirazione cristiana del partito, cioè il fatto che essa stabilmente si ricollega ad una visione dell’uomo e della società, si ricollega al mondo di valori morali i quali appunto valgono ad ispirare ed orientare la sua azione; […]il suo carattere non classista, cioè ci siamo ancora una volta dichiarati in favore di una visione libera e aperta della società umana, abbiamo respinto ogni suggestione collettivista; se non siamo un partito classista, siamo però, abbiamo detto a Napoli, un partito popolare, cioè un partito il quale in questa visione libera e aperta della società, in armonia con le sue ispirazioni, in adesione della realtà sociale, mette l’accento sulle grandi masse di popolo che debbono ricevere giustizia ed acquisire sempre maggiore libertà nella vita democratica del Paese.
la funzione nettamente antitotalitaria della DC che nel corso di questi fortunosi anni di vita democratica in Italia è stata, ha voluto essere appunto la garanzia fondamentale contro ogni minaccia estremista e totalitaria, così a destra come a sinistra dello schieramento politico italiano.
Ha confermato anche la sua disposizione al dialogo politico, all’incontro democratico, altra caratteristica della Democrazia Cristiana, la quale non hai mai voluto esclusivismi nell’esercizio del potere, ma sempre ha aperto, liberamente fecondo, il dialogo con le forze politiche democratiche.
Rispondendo ad una domanda di Enrico Mattei, punta di lancia dell’opposizione della destra liberale contro il nuovo esperimento, Moro, dopo aver riconosciuto l’evoluzione autonomista del PSI, aveva avvertito che “siamo quindi in una situazione direi di transizione, di sperimentazione rispettosa e fiduciosa. Tutti noi abbiamo le nostre difficoltà; ma abbiamo tutti guardato al Paese, a questa prospettiva democratica di allargamento dell’area democratica. Abbiamo creduto di poter correre qualche rischio, rischio però veramente calcolato e controllato dalla ferma vigilanza di una Democrazia Cristiana ben consapevole di quello che sia il rischio totalitario che incombe sulla vita politica; ben pronti a difendere oggi come ieri la libertà delle istituzioni del nostro Paese”. Al giornalista del missino “Secolo d’Italia” aveva ripetuto le ragioni per cui non si poteva dare alleanza con quella parte pur respingendo l’idea che ci fossero “discriminazioni”.
La discriminazione di cui noi parliamo, sia nei confronti dei comunisti, sia nei confronti dei fascisti e neo-fascisti, è il riconoscimento della diversità che c’è tra noi, delle differenze che noi abbiamo nei confronti di forze alle quali attribuiamo – crediamo a ragione – una capacità, una potenzialità di intaccare il regime delle libere istituzioni. Questo, evidentemente, non tocca, è ovvio, la presenza di queste opinioni nel Paese, la presenza di queste opinioni in Parlamento, il naturale gioco politico nel quale tutte le posizioni possono dire cose utili e qualificate, e quindi partecipare al gioco politico. La nostra discriminazione non tocca, essendo noi partito democratico e volendo essere garanti di democrazia nei confronti di tutti, non tocca la presenza di queste forze nel Paese e nel Parlamento
Il tema della distanza fra le destre e la DC l’avrebbe ripreso nel suo comizio a Roma il 3 giugno (una sede particolarmente idonea per affrontare questo argomento): la DC “da sempre, e cioè da De Gasperi in poi, ha rifiutato di schierarsi sulle posizioni sociali e politiche della destra; essa ci rimprovera di non essere e di non voler fungere da partito di destra e da partito di complemento della destra”, e questo perché “noi non siamo mai stati una destra camuffata, non siamo dei conservatori, anche se abbiamo molte cose da conservare”. Certo tornava a ribadire che la formula del governo Fanfani era da considerarsi “un esperimento” che “consenta di utilizzare le forze popolari del partito socialista per lo sviluppo e la difesa della democrazia italiana”.
Accanto ai comizi elettorali Moro poneva un intervento su un organo di stampa di grande diffusione, il settimanale “Oggi”. Anticipato su “Il Popolo” del 7 giugno e comparso sul periodico sette giorni dopo, l’articolo riproponeva ad un pubblico più vasto quanto andava sostenendo negli interventi di partito. La DC non si faceva “trascinare nel gioco della destra”, non soggiaceva a quella acre polemica “per la quale qualche volta sembrano lavorare anche i liberali con il bagaglio delle loro illusioni, delle loro incomprensioni, delle loro critiche radicali e per ciò stesso sovente ingiuste e di comodo”. Aveva fatto delle scelte consapevoli.
Si dice che siamo stati imprudenti, quando abbiamo cercato di allargare in questo modo l’area democratica, e cioè della diversificazione ed indipendenza dal Partito comunista, secondo un indirizzo che pure il popolo italiano ha mostrato in questi anni di apprezzare e favorire. È vero che non è stato possibile andare al di là, nella politica di espansione democratica, della dichiarata diversità ed autonomia del Partito socialista nei confronti del Partito comunista, senza che essa sia accompagnata da una frattura e dalla cessazione di alcune forme, non insignificanti, di collaborazione tra i due partiti. Ma è pur vero che siamo solo dinanzi ad una forma indiretta ed esterna di collaborazione, la sola ammissibile in queste circostanze, e che nessuna leva del potere è stata consegnata, e neppure chiesta, al Partito socialista. Ma è pur vero che si tratta di una formula sperimentale di un possibile avvicinamento, sul terreno del programma, dei due partiti, ferme restando le esigenze di fondo, quegli interessi permanenti del paese ai quali non si può non aderire, se si voglia assumere una vera responsabilità di guida della collettività nazionale. Ma è pur vero che questa iniziale collaborazione è presidiata dalla forza, dalla prudenza, dalla fedeltà profonda della DC ai suoi ideali.
Parlando nel suo collegio elettorale a Bari il 7 giugno Moro non solo ribadiva, a volte più o meno con le stesse parole, le argomentazioni che abbiamo già esaminato, ma affrontava anche più a fondo il problema della destra che nel capoluogo pugliese aveva visto una sorta di fusione fra MSI e partito monarchico. Anche se non mancava di spendere un accenno contro il totalitarismo comunista, era evidente che la sua preoccupazione principale fosse la destra.
Si dice che offendiamo la destra quando ragioniamo così, ma, cari amici, come si può non rinnegare quello che è avvenuto, come si può non sentire quale profondo danno abbia recato al popolo italiano in quel passato, come si può non sentire come siano inaccettabili quelle istituzioni, inaccettabili ieri e inaccettabili oggi? Non si può restare neutrali, non si può restare indifferenti di fronte alla compressione della libertà umana, di fronte al travolgimento del destino di un popolo attraverso l’azione faziosa. Si dice che questa è la mia fissazione, “la fissazione dell’on. Moro”: i due estremismi li avrei inventati io, ma se torniamo nel passato della D.C. non c’è un momento, non si trova un momento in cui i due estremismi sarebbero stati ignorati e l’uno sarebbe stato sacrificato all’imponenza dell’altro.
Erano movimenti “un po’ fuori della storia”, anzi “fuori del nostro tempo, fuori dei problemi della società moderna. E questi, amici, dovrebbero offrire, in nome di un non meglio precisato spirito cristiano che è sorto così all’ultimo momento, essi dovrebbero offrire un’alternativa al comunismo? Non può che essere un’alternativa di dura lotta estremistica, non può essere che un’alternativa fascista. Noi vogliamo un’alternativa democratica”. Sull’apertura ai socialisti non poteva che ripetere che “non abbiamo commesso nessuna imprudenza, non abbiamo concesso nessuna leva del potere, che del resto non ci è stata richiesta dal partito socialista; abbiamo solo offerto una possibilità, abbiamo solo dimostrato che il partito socialista può avere una piattaforma nella quale si lavora per un sicuro sviluppo democratico, per il benessere del popolo italiano, una piattaforma popolare”.
Il 19 giugno in una dichiarazione rilasciata alla RAI, Moro affrontava l’argomento della ventilata nazionalizzazione dell’energia elettrica, un tema che sino a quel momento non aveva trattato negli interventi pubblici.
Siamo nel quadro dell’articolo 43 della Costituzione, il quale prevede che siano originariamente riservate ovvero trasferite allo Stato o ad Enti pubblici, tra l’altro, le imprese relative alle fonti di energia per le quali sussista un preminente interesse pubblico. È una disposizione che la Democrazia Cristiana ha contribuito in modo determinato a formulare e che viene ora in applicazione. Il provvedimento del resto corrisponde alle indicazioni della dottrina sociale cristiana alla quale il nostro Partito s’ispira e dalla quale esso intende essere caratterizzato e qualificato.
[…]
Ciò non significa naturalmente sfiducia nella iniziativa privata, che dev’essere incoraggiata e tutelata a norma della Costituzione. Perciò la Democrazia Cristiana conferma che essa non ritiene che altri settori della vita economica debbano soggiacere ad una restrizione che ha per noi carattere sussidiario e singolare.
Una valutazione sull’andamento della tornata elettorale del 10-11 giugno il segretario la affidò ad un articolo scritto per il settimanale “Epoca”. Si mostrò soddisfatto per il risultato della DC (che in verità qualcosa aveva perso, soprattutto a Roma, seppure molto meno di quanto preventivato dai suoi avversari), ma soprattutto per l’arretramento (modesto) del PCI e più sensibile del MSI e dei monarchici. Poteva così affermare che
una siffatta politica d’impegno democratico e di sviluppo sociale, quando sia qualificata e fermamente presidiata da partiti di sicura ispirazione democratica, ed in prima linea dalla DC, mentre offre al Partito Socialista un’utile occasione per collocarsi in una piattaforma costruttiva di collaborazione democratica, non presenta motivi obiettivi di rischio e di timore i quali possano facilitare uno sbandamento verso l’estrema destra. Essa semmai offre occasione per una più netta delineazione a destra di forze democratiche di opposizione, com’è avvenuto per il PLI in alcune zone del Paese, dove esso ha conseguito un evidente successo.
Moro si concedeva qualche puntata polemica verso i socialisti che credevano di avere rilevato ambiguità nel posizionamento della DC: “Non vorremmo che ci fosse una incomprensione sulla natura e posizione politica della DC, la quale è certo, come abbiamo tante volte sottolineato, un partito popolare teso verso obiettivi di progresso sociale e di sviluppo democratico, ma non è propriamente un partito di sinistra, un partito classista e non ha certo rinunziato né intende rinunciare a quelle idealità cristiane ed a quella esperienza che la caratterizzano e la differenziano, contribuendo ad identificare la sua posizione e funzione nello schieramento politico”.
Si stava però entrando in quello che sarebbe divenuto il momento centrale della politica di apertura a sinistra, poiché il governo Fanfani si avviava al varo delle grandi riforme a partire dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Moro aveva avuto chiaro che le indicazioni venute dalla tornata di amministrative non erano sufficienti a mettere in sicurezza l’azione che si aveva in mente. Già in una lettera alla commissione, presieduta dall’on. Alcide Berloffa, per l’organizzazione della conferenza nazionale organizzativa aveva scritto più o meno in questo torno di tempo (il documento non è datato), che “occorre dunque preliminarmente chiarire che cosa è, che cosa deve essere, che cosa vuole la D.C. in questo secondo tempo della rinascita democratica in Italia. Parimenti deve essere oggetto di esame in sede plenaria il tema correlativo a questo primo e cioè, la indicazione della struttura e del modo di operare della D.C. per corrispondere ai tempi storici così definiti”.
Il segretario sapeva che erano in atto manovre del duo Colombo-Gava contro la politica per la nazionalizzazione dell’energia elettrica e si era anche a conoscenza che il neo eletto presidente della Repubblica non era alieno dal creare difficoltà al governo come notava il 20 giugno Fanfani nei suoi diari[60]. Inevitabile dunque affrontare il tema nel Consiglio Nazionale del partito che si tenne dal 3 al 5 luglio.
In questa occasione Moro aprì la sua relazione con una sibillina interpretazione della vicenda delle elezioni per il Quirinale. Da qui, a mio avviso, sarebbe poi scaturita l’interpretazione che voleva il sostegno a Segni come contropartita all’apertura a sinistra.
Anche in questa vicenda, che ha avuto momenti difficili e provocato incomprensioni ed asprezze in un’area politica caratterizzata da un impegno di cordiale collaborazione, la DC non ha perseguito obiettivi di potere, ma obiettivi di equilibrio politico, presupposto necessario di un ordinato sviluppo della politica nazionale. Infatti dopo un passo innanzi di tanto rilievo, come quello fatto con la costituzione del Governo di centro-sinistra, ci è apparso necessario rassicurare, in una prova impegnativa come questa, l’opinione pubblica circa la intangibilità di taluni principi e valori e la sempre determinante presenza della DC.
Per la verità secondo il segretario la ratio della posizione DC era stata dettata dalla necessità di impedire al PCI di inserirsi nella dialettica parlamentare condizionando il suo partito e per questo rivendicava che “la nostra posizione era di assoluto rispetto verso partiti ed esponenti di alti meriti nella vita politica del Paese; perseguiva un obiettivo politico di comune interesse; proponeva, come piattaforma per la confluenza dei voti necessari ad assicurare l’elezione presidenziale, le tradizionali aspirazioni non tanto della DC sola, quanto piuttosto dei partiti democratici con una netta chiusura antitotalitaria a sinistra ed a destra ed un impegno di sviluppo economico, sociale e politico anche nelle forme più nuove ed ardite”.
Dopo aver dato una lettura positiva dei risultati della competizione per le amministrative, Moro iniziava a soffermarsi sul punto dolente che avrebbe infiammato il confronto in Consiglio Nazionale, cioè l’accusa circolante di cedimenti alle pretese dei partiti alleati fino al punto di accettare provvedimenti che venivano meno ai valori della DC (un tema che, come vedremo, continuerà ad essere ripreso per molti mesi).
Possiamo dire che, se essi sono lontani dalle nostre naturali preferenze, sono parimenti lontani dalle preferenze, più o meno accentuate, degli altri partiti che partecipano alla coalizione di Governo: dico i partiti della sinistra democratica, i quali sono parte integrante del Governo di coalizione, prima che il Partito socialista il quale resta nella sua caratteristica posizione di appoggio, ma di estraneità alla maggioranza, naturalmente più lontano dalle posizioni della DC. Vuol dire che su questi temi, per i quali vale la pena di ricordare l’atteggiamento polemico e lontano assunto dal partito liberale si è realizzato un compromesso politico, sgradevole ed insieme accettabile come tutti i compromessi; si è raggiunta una soluzione media.
La questione scottante era ovviamente quella della nazionalizzazione su cui si era già pronunciata la Camera per la procedura d’urgenza, dove il 27 giugno si era vinto per 113 a 38, sconfiggendo le destre grazie al ricorso al voto palese che rendeva difficile l’azione dell’opposizione interna alla DC. Moro ricordava che “a Napoli, dopo aver affermato che noi non eravamo in linea di principio contrari a provvedimenti di nazionalizzazione, avevo prospettato la eventualità di una unificazione fondata sull’azione di enti di controllo e di coordinamento, che lasciassero immutata la struttura proprietaria dell’industria elettrica”, ma poi, anche per tenere conto di quanto sostenevano gli alleati, si era optato per la nazionalizzazione. “E del resto la nostra dottrina e la nostra esperienza ci permettono di usare liberamente e senza preconcetti qualsiasi strumento democratico ritenuto utile per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti”.
E puntualizzava
La disponibilità dell’energia in mano pubblica − ed abbiamo voluto fosse la disponibilità più piena − condiziona lo sviluppo e risponde ad una ragione di utilità collettiva, come la Costituzione richiede. Ferma restando la utilità della privata iniziativa essa riceve dal possesso pubblico in alcuni settori-chiave piena con possibilità di svolgimento ed insieme di armonizzazione a fini di utilità generale. Da qui il nostro atteggiamento favorevole ad una limitata nazionalizzazione, il riconoscimento del suo carattere di eccezionalità, il nostro rispetto e favore verso l’iniziativa privata suscettibile di essere ordinata, anche per questa via, in vista di una doverosa ricerca di utilità sociale. Solo chi è in malafede e crede solo, cioè, benché dica il contrario, nell’iniziativa pubblica può trovare oscurità e contraddizioni nel nostro atteggiamento.
Moro reagiva alle polemiche che accusavano la DC di aver voluto instaurare “un regime” e di manomettere la struttura democratica dello stato.
Attuiamo dunque la Costituzione e ci si accusa poco meno di una grave ed inammissibile illegalità. Proponiamo in modo decisivo, noi Democrazia Cristiana, una forma legislativa tecnicamente corretta e rispettosa della dignità del Parlamento, e ci si accusa poco meno che di avere sovvertito le istituzioni parlamentari con una proposta di legge sulla quale il Parlamento assumerà le sue responsabilità. Dichiariamo, con tutta la serietà che il peso delle nostre responsabilità nella vita pubblica comporta, che il provvedimento di nazionalizzazione è un fatto eccezionale, che non infirma la validità della iniziativa privata per la quale confermiamo la nostra fiducia ed il nostro favore, e questo viene considerato quasi un atto di ipocrisia, una sorta di riserva mentale, qualche cosa che è smentita dal fatto stesso che una nazionalizzazione, in un settore qualificato e particolare come quello della energia viene posta in essere.
Alle accuse interessate che circolavano rispondeva prendendole di petto. Innanzitutto sottolineava come “siamo nell’ambito di una rigorosa impostazione propria della dottrina sociale cristiana e dei programmi e degli ideali del nostro partito. Le citazioni che si possono fare a questo proposito sono tante e così significative, che il solo richiamarle sommariamente ci porterebbe troppo lontano”. Poi negava che ci fosse stato sul tema alcun “cedimento politico ideologico” che comportasse una “resa al socialismo”. Al Consiglio ricordava il quadro politico generale dove si doveva tener conto anche del favore del PRI e del PSDI per la nazionalizzazione. “Sarebbe certo assurdo negare le considerazioni di ordine pubblico generale che sono entrate nelle nostre decisioni; negare la nostra preoccupazione di non alterare la situazione politica italiana. E qui converrà ricordare che, se il partito socialista è propriamente fuori dalla maggioranza, i partiti che sono invece nella coalizione di governo hanno assunto su questo tema una posizione molto netta”.
Se nessuno doveva “temere che la DC abbandoni la sua vigorosa polemica anticomunista”, altrettanto “nessuno può temere che la DC venga meno al suo impegno di una rigorosa delimitazione verso destra della sua area politica, di una polemica fermissima, che non lasci nessun equivoco e nessuna possibilità d’interferenza, contro il totalitarismo della destra fascista o fascisteggiante che è un pericolo reale contro il quale la DC si è assunto e si assume il compito di difendere la democrazia italiana”. E ciò nel quadro di una ferma fedeltà alla scelta atlantica.
Veniva poi la polemica verso i liberali, che rappresentavano la vera e pericolosa opposizione alla politica di apertura, per tornare infine ad illustrare con forza il quadro ideale entro cui si muoveva la nuova stagione politica.
Non è venuto meno nei suoi termini essenziali il problema dell’allargamento dell’area democratica, della conquista di nuove forze, della fiducia, che sia meritata, in altre forze capaci d’impegnarsi nella difesa della libertà e nel rafforzamento delle istituzioni; il problema di dare cioè più vasta base di consenso e di corresponsabilità di ridurre in ogni modo, dalla vittoria elettorale alla conquista politica, la forza massiccia della protesta prima che divenga irrimediabilmente eversiva e travolga le istituzioni. Resta fermo il problema di ridurre il potere del privilegio, prima che subisca la tentazione di difendersi ad ogni costo anche a scapito della giustizia e della libertà. Resta il problema di arbitrare la vita politica in termini democratici e di fermare lo scontro delle forze estreme. Sono le cose alle quali abbiamo guardato, per le quali ci siamo decisi, per le quali ci siamo mossi.
Il dibattito che seguì alla relazione del segretario fu molto aspro, con le destre interne che davano battaglia. Per questo Moro fece il 5 luglio una replica particolarmente lunga e articolata. Pur impegnandosi come era suo costume a tenere conto delle diverse posizioni, richiamava, anche in vista ormai di una scadenza elettorale che si sarebbe avuta con il nuovo anno, la necessità di agire tenendo presente la delicatezza del passaggio politico.
In una situazione come l’attuale, difficile e carica di responsabilità, l’obiettivo che l’opposizione può naturalmente proporsi è piuttosto quello di controllare, di chiarire, di definire meglio la politica del partito, evitandole ogni sbandamento pericoloso, che non quello di perseguire una prospettiva di radicale mutamento di rotta che è al di fuori delle possibilità concrete e dell’utilità del Paese. Di ciò si è dato carico l’on. Scelba quando ha fatto rilevare che una reiezione del disegno di legge di nazionalizzazione della energia elettrica significherebbe una crisi di governo ed elezioni in condizioni di particolari difficoltà. Questo è il rischio della situazione, un rischio non già derivante dall’esercizio di una attività avventurosa, ma espressione delle difficoltà e della delicatezza del momento politico italiano che non presenta alternative possibili. Tutte le alternative, infatti, avrebbero quel carattere drammatico e rischioso di cui si preoccupa lo stesso on. Scelba.
Respingeva pertanto qualsiasi ipotesi che si potesse dare ai parlamentari “libertà di coscienza” per il voto sulla nazionalizzazione (“su temi così impegnativi non è possibile venir meno alla disciplina di partito. La vera iattura sarebbe che la D.C. dovesse registrare una frattura su un singolo tema o sulla politica generale”) e ribadiva che ci si muoveva sul terreno della impostazione ideologica dc: “Il provvedimento rientra nei programmi e nella impostazione della DC; del resto, la polemica interna era partita contestando la sua rispondenza ai nostri programmi ed ai nostri principii, ma nel corso del dibattito nessuno ha più affermato che alla nazionalizzazione dell’energia elettrica ostino pregiudiziali di carattere ideologico”.
Apertamente richiamava che “la nostra decisione riguarda questo settore e non altri. Non è lecito dubitare di questa nostra responsabile affermazione”, dando così soddisfazione ad Andreotti che nel Consiglio dei ministri del 18 giugno aveva fatto mettere a verbale quell’impegno. Aveva poi aggiunto un memento per gli smemorati che non valutavano quanto la DC aveva guadagnato in termini di difesa di alcuni principi tradizionali: “Si è parlato di prezzo pagato al PSI. Tutte le coalizioni di governo, in termini positivi o in termini negativi, sono costate e costano qualcosa alla DC. Ma in questa coalizione anche noi abbiamo ottenuto qualcosa come sul piano della scuola e sulla censura, temi assai difficili per altri partiti e per i quali anche il PLI aveva posizioni rigide”.
Dopo aver ricordato ancora una volta che i liberali non potevano costituire una alternativa alla formula politica messa in campo, tanto per la loro consistenza numerica quanto per la loro scarsa comprensione dell’evoluzione sociale in corso, Moro concludeva tornando su un tema che come si è visto era divenuto classico del suo modo di ragionare:
Non si può opporre al PCI una alternativa conservatrice e reazionaria che oltre tutto non risolverebbe il problema perché ci riporterebbe al totalitarismo, ma solo un’alternativa democratica tendente ad una evoluzione della società. Essa isola il PCI. Se non facciamo errori, se siamo pazienti, se il PSI ha coraggio adeguato alla posta in gioco, possiamo superare gli attuali dati psicologici negativi, possiamo offrire un’alternativa democratica − oltre che democratico cristiana − al partito comunista.
La votazione finale segnò una vittoria del segretario, ma non certo tranquilla. Su 173 membri del Consiglio Nazionale parteciparono alla votazione solo in 95 con 73 voti a favore del segretario e 19 contrari (Scelba, Scalfaro, Gonella, e i consiglieri di “Centrismo democratico”). Pella e Andreotti lasciarono il Consiglio prima della votazione.
L’importanza di questo passaggio si deduce anche dal fatto che Moro volle farvi pubblicità intervenendo con un articolo su “Oggi” del 26 luglio (al solito anticipato sul “Popolo” il 20). Qui il segretario dopo aver apprezzato la libertà di dibattito esistente nel partito, mandava un messaggio neppur troppo criptico ai critici interni ed esterni: “E non solo non importa, ma è anzi cosa rovinosa, che in ipotesi una minoranza possa tradurre il suo dissenso, che è un criterio d’illuminazione ed un atto di solidarietà di partito, in un esterno atteggiamento contrario. Ciò romperebbe uno schieramento senza disporre di un altro che possa costituire una valida alternativa”.
Il tema centrale era ovviamente la nazionalizzazione dell’energia elettrica. A questo proposito rendeva noto che “dopo attento esame, nel quadro politico del quale parlavamo e che ha certamente esso pure il suo rilievo, ci siamo orientati verso la nazionalizzazione dell’intero settore elettrico in considerazione delle esigenze crescenti di un rigoroso coordinamento anche in vista di un ordinato sviluppo economico della nazione, le quali non vi è dubbio possano essere soddisfatte in misura maggiore e con più sicura efficacia dalla diretta gestione pubblica della impresa elettrica”. Ribadiva peraltro una volta di più che si era “riconfermato il proposito di non estendere ad altri settori della vita economica il provvedimento di nazionalizzazione e ridetto il nostro apprezzamento ed il nostro favore per l’iniziativa privata”.
Muovendosi “in una politica nuova, della quale si sperimenta la validità con fiducia” ci doveva essere “in tutti l’impegno a prospettare in termini concreti una politica di rinnovamento e di giustizia che costituisca una alternativa accettabile per un partito, come quello socialista, fautore di nuovi e più giusti rapporti sociali. E questo è stato fatto e viene fatto, com’è giusto”. Ai lettori di “Oggi” aveva così occasione di richiamare dei temi che gli stavano particolarmente a cuore.
In un processo così delicato e complesso, qual è quello che si è iniziato, non è certo pensabile una sprezzante rigidezza di tempi e di modi; non può mancare quel senso di responsabilità e di misura, di cui la D.C. ha dato prova accettando un determinato punto di partenza ed un processo di sviluppo. Ma proprio questo senso di responsabilità e di misura pone l’esigenza che non per un gioco pretestuoso, qual è quello che sollecita le opposizioni ad ingigantire i rischi della confusione e della sovversione, ma per una reale limpida esigenza politica, da tutti sia fatto, nell’ambito dei propri impegni, quanto possa favorire la chiarezza ed evitare la confusione. Ferma restando la chiusura a destra o di principio o di programma, ferma restando l’esigenza di una politica di sviluppo e di movimento, deve essere reale e chiara la più rigida chiusura verso il partito comunista.
La politica delle riforme stava prendendo corpo. Il 14 luglio nel consiglio dei ministri Fiorentino Sullo avrebbe presentato il suo sfortunato e controverso progetto di riforma della legge urbanistica. Il 20 luglio si ebbe un dibattito ai gruppi parlamentari della DC sul tema della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Moro era intervenuto per difendere anche in quella sede l’insostenibilità della tesi che le nazionalizzazioni fossero in contrasto con la dottrina sociale cristiana e alla fine sul tema si registrarono un voto contrario e quattro astensioni, chiaro segnale di tensioni ben più vaste.
Iniziava per altro ad avvicinarsi una nuova tornata di elezioni amministrative prevista per novembre e il segretario non sottovalutava i danni che potevano arrivare dalle aspre divisioni interne che attraversavano la DC. Perciò chiudendo il 25 luglio il convegno nazionale dei dirigenti provinciali del partito affrontava di petto il tema delle tensioni presenti.
È naturale che in una società sempre più strutturata, differenziata, qualificata, il partito si adatti a ricevere l’impronta di queste stratificazioni e qualificazioni sociali, ma ricordiamo che noi siamo un partito politico, siamo un partito non unilaterale, un partito non classista, un partito cioè che intende raccogliere le varie forze che operano nella vita sociale, che intende raccogliere le varie competenze, le varie sensibilità, le varie valutazioni che utilmente debbono essere prese in considerazione quando guardiamo alla vita sociale, ma senza che esse restino, come dire, l’unica o la predominante espressione della vita politica del Paese, cioè un punto nel quale democraticamente la sintesi politica deve essere compiuta.
Non si trattava di “mettere o di mettersi un bavaglio” per ragioni di campagna elettorale, ma di elaborare una linea politica che, pur lasciando spazio alla dialettica, non nuocesse alla unità del partito.
… bisogna che ad un certo momento le posizioni di minoranza siano posizioni integrative e correttive, non posizioni di alternativa […]è il modo della polemica, è il carattere radicale di certe tesi, è l’obiettivo che viene alle tesi delle opposizioni di insospettabili interventi di democratici cristiani, è questo che obiettivamente dà il significato di alternativa all’opposizione interna, una alternativa che non si vuole che sia per senso di responsabilità, una alternativa che in concreto nemmeno si vede quale possa essere e non per disperazione nostra, ma per obiettiva valutazione di una determinata situazione politica.
[…]
Il fatto che a un certo momento si presentino talune cristallizzazioni per cui ciascuno di noi ha un’etichetta ben definita e ciascuno di noi sembra idoneo solo a svolgere determinate funzioni in determinate eventualità, questo non è il presentare un’alternativa, è un impoverimento della D.C., una difficoltà che essa ha di utilizzare tutti i suoi uomini per tutta la sua politica, che è la politica del partito. Questo dico nel più alto rispetto nei confronti degli uomini, con la più alta considerazione nei confronti della funzione; lo dico direi più come una esigenza che non come una soluzione che io abbia bell’e pronta.
Moro in questa circostanza si mostrava molto consapevole della forza assunta dalla dialettica interna fra le correnti, perché ora il confronto non era più tanto con la destra interna (di cui in questa occasione non parla), ma con la sinistra dei giovani come vedremo dall’attenzione ampia che dedica alle posizioni del giovane De Mita. Ma il tema di fondo continuava ad essere la coscienza che il segretario aveva della delicatezza del momento sociale.
C’è una varietà nella nostra vita sociale, e c’è un movimento nella vita sociale di oggi. Questo è un dato. Qualcuno dice: questo movimento, questa inquietudine, questa impazienza sono state create da questa vostra esperienza politica; voi avete sprigionate queste forze che ora non riuscite a contenere. Forse la cosa più vera è che proprio la società italiana, camminando, risolvendo taluni problemi, avendo nuove prospettive e nuovi obiettivi da raggiungere, è in movimento e fa dei passi innanzi; e in questo muoversi e camminare certo ha in sé inquietudine, ha in sé problematicità, ha in sé impazienza, ha in sé problemi.
[…]
E abbiamo anche detto che ci vuole pazienza, fermezza, che ci vuole senso di responsabilità; l’abbiamo detto ai nostri amici sindacalisti, pubblicamente e privatamente, comprendendo le loro esigenze, comprendendo il valore costruttivo della loro presenza nella vita sociale, del lavoro, perché vi sia una sensibilità democratica ed una sensibilità cristiana a convogliare queste forze di crescita, di sviluppo e di progresso della vita sociale italiana. Ma abbiamo detto: dobbiamo essere anche prudenti, dobbiamo avere un senso di misura, dobbiamo avere un’autodisciplina. La presenza del partito socialista, con tutte le lacune che comporta, non significa anche questo, questo sforzo di impegnare forze sociali in movimento ad un’autodisciplina?
Il segretario invitava a “sdrammatizzare in una certa misura quell’atmosfera di allarme che si è creata intorno a questo momento politico”, ad affrontare “questo momento di inquietudine” con un’azione di tutti: “deve concorrervi il partito con la sua presenza e la sua responsabilità, devono concorrervi i sindacati, deve concorrervi il Governo che crea il quadro istituzionale nel quale si sviluppa, cresce ordinatamente la vita sociale; ma è una prova estremamente impegnativa questa, alla quale siamo chiamati. È una prova nella quale entrano in gioco anche forze morali, anche dati di costume”.
Scontato che si tornasse sul tema dell’opposizione al comunismo, ma significativo che anche in questa occasione il segretario invitasse a vedere “i segni che pure cogliamo dall’imbarazzo del partito comunista, delle interne divisioni, delle divergenze tattiche, divergenze tattiche che esistono nel partito comunista e che cerca il modo di affrontare questa politica nuova di iniziativa che noi abbiamo iniziata”.
Affrontava anche il tema dell’opposizione liberale, Pur riconoscendo i meriti democratici di quel partito, rilevava quanto fosse difficile distinguere le argomentazioni del PLI contro la nazionalizzazione da quelle della destra anche estrema con “formulazione delle valutazioni e dei temi propagandistici che con tanta fortuna e con tanta larga ospitalità di stampa” avevano circolazione. Non aveva intenzione di sottovalutare il problema
poiché la minaccia viene decisa, in questo momento, contro di noi dal partito liberale, poiché esso è qui pronto, con una politica un po’ miope, è pronto a volgere a proprio vantaggio, ma non certo a vantaggio del Paese, qualche disorientamento che immagino solo marginale del nostro elettorato, sarà bene che la nostra posizione, pure nella correttezza e nella serenità che ci hanno sempre caratterizzato, sia molto ferma nei confronti del partito liberale, come nei confronti della destra, che la nostra difesa sia anche in questa direzione, la valorizzazione del significato proprio della D.C., della sua funzione di garanzia, ma non funzione conservatrice, di fronte a forze che malgrado le intenzioni recenti sostanzialmente conservatrici, non possono assolvere adeguatamente una funzione di garanzia democratica.
Iniziava così a rispondere alle osservazioni di De Mita che si era rammaricato per eccessive cautele nel trattare del rapporto col PSI sin a parlare di una collaborazione per necessità. Moro su questo intendeva chiarire.
Certo, parlando noi a un elettorato, a un’opinione pubblica un po’ disattenta, un po’ capace di lasciarsi portare a giudizi non equi nei nostri confronti, attaccati come siamo da certe forze di opposizione pronte ad accusarci di aver fatto qualche cosa che si doveva non fare, che non ha nessuna motivazione, io ho ritenuto opportuno proprio per questo elettorato e perché è la verità, di dire come noi abbiamo non solo valorizzato il passato, le formule tradizionali di solidarietà democratica, ma come abbiamo per parte nostra cercato di utilizzarle fino all’ultimo, fino all’estremo limite delle possibilità; non perché non ne vedessimo i limiti, ma perché ne avevamo visto prima in maniera preminente e determinante il valore positivo di difesa democratica e poi perché le abbiamo viste ancora come utili strumenti di garanzia democratica, idonee a far svolgere un certo processo psicologico di preparazione ai nuovi sviluppi politici.
Una volta di più insisteva sulla scelta consapevole del partito per la nazionalizzazione che rientrava nell’orizzonte della sua visione politica. Nella speranza che
tutto questo possa servire a tranquillizzare il Paese e a presentare ad esso la genuina fisionomia della D.C., cioè la fisionomia di una D.C. come partito innovatore. Io desidero ridirlo qui, l’ha detto anche De Mita. Da sempre noi ci presentiamo come partito innovatore; possiamo aver avuto delle remore; possiamo aver obbedito a talune ragioni, però la nostra azione ci è dettata dalla stessa vastissima base elettorale che dietro a noi ci qualifica come partito non di conservazione, ma di innovamento nella vita sociale. E tanto più partito di innovamento in quanto ci troviamo di fronte ad una società in movimento, come quella nella quale viviamo.
Queste argomentazioni il segretario le ripresentava in forma più sintetica al convegno dei giovani dc a Perugia il 28 luglio, cioè proprio il giorno in cui iniziava alla Camera la discussione sul disegno di legge sulla nazionalizzazione, registrando 200 assenti, per cui tutto fu rinviato a settembre.
Con la ripresa autunnale si tornò ad affrontare il tema delle elezioni amministrative previste per l’11 e 12 novembre, mentre alla Camera si discuteva della riforma della scuola media impuntandosi sul tema della abolizione o meno dell’insegnamento della lingua latina, promossa da ambienti socialisti e avversata dal tradizionalismo cattolico che la considerava la lingua della liturgia cattolica (peraltro di lì a non molto il Concilio avrebbe introdotto la liturgia in volgare). Fanfani personalmente si era speso il 20 settembre per trovare una mediazione fra le due posizioni (vedremo che ne accennerà anche Moro in un suo discorso).
In un intervento elettorale a Cittadella il 30 settembre il segretario della DC riprese con pazienza ad illustrare le tesi che abbiamo già visto esposte. Difendeva l’ispirazione cristiana del partito (“non siamo un partito ideologicamente indifferente ma un partito che ha una sua concezione cristiana dell’uomo e del mondo e da ciò ritrae quegli indirizzi politici fondamentali”), ma al tempo stesso respingeva l’immagine di una DC retriva: “Stupisce perciò sentir parlare talvolta della D.C. come di un partito che soggiace a tentazioni paternalistiche, che è legato ad una ineliminabile radice integralista, a qualche cosa insomma che contrasta con l’esigenza di libertà. Non siamo stati né paternalisti né integralisti perché abbiamo dimostrato di difendere in tutte le sue forme la libertà del popolo italiano”.
La DC, che non escludeva interventi attivi dello Stato, voleva essere protagonista dello sviluppo che interessava la società italiana.
Non integralisti, non paternalisti, ma neppure moderati. Dalla concezione cristiana del mondo abbiamo tratto assieme al valore della libertà gli impegni sul piano dell’ordinamento e dello sviluppo della vita sociale. Non siamo un partito comodo, disposto cioè a fare comodo a qualcuno, come talora si vorrebbe immaginare la D.C.; non siamo un partito che sia sempre lì a chiudere, a fermare, ad arrestare taluni incontenibili moti di sviluppo e di progresso che sono in Italia e nel mondo, in un mondo che si risveglia, che trova nuove forme di libertà. Siamo in questo processo, siamo in questo corso; qui rendiamo una modesta ma significativa testimonianza di quella concezione cristiana che vede uomini liberi solidamente uniti in una reale giustizia. Come cristiani siamo in questo moto della storia che tende a dare a tutti gli uomini dignità e potere.
L’apertura verso il PSI non era stata fatta dimenticando le differenze che c’erano con quel partito, ma si era agito per l’allargamento necessario dell’area democratica.
La Democrazia Cristiana ha invece reso possibile la speranza del partito socialista di poter lavorare su una piattaforma democratica per quella causa di giustizia e libertà per la quale da anni combatte il nostro partito. Quello che abbiamo fatto non è una svolta, come la intendono i comunisti: essa non ci avvia ad un incontro, sia pure ritardato, con il partito comunista; è una esperienza che, lasciando integra la piattaforma democratica, apre la strada a nuovi, utili apporti per il rafforzamento delle istituzioni. Se quello che abbiamo fatto è il punto di partenza per una nuova, più intensa fase di sviluppo democratico, questa fase politica deve essere caratterizzata da un processo che arricchisca veramente la democrazia.
Moro stava anche cogliendo novità nel dibattito che era in atto in tema di partiti. L’8 settembre su “Rinascita” Togliatti, in polemica con Rodano, aveva scritto, pur con parole caute, di cogliere nel nuovo esperimento di governo qualche segnale di rottura del blocco conservatore (il segretario dc avrebbe trattato in seguito di questa apertura che giudicava sospetta e che certo poteva fare il gioco dei suoi avversari). La polemica sulla “partitocrazia” era sempre viva e toccava in primis la DC, per cui il segretario affrontò il tema nel suo discorso a Bergamo il 2 ottobre.
Considerava quella critica “ingiusta” e incapace di vedere che senza i partiti la democrazia non avrebbe avuto gli snodi necessari per funzionare. Il suo partito nella fattispecie era “lo strumento per una grande mobilitazione popolare in funzione democratica, una mobilitazione che nella concreta situazione italiana, nessun altro partito, crediamo, potrebbe realizzare nella stessa misura ed efficacia”. Affermato che “siamo noi che dobbiamo dire quel che deve essere la DC” e che rifiutava “di credere che la dialettica delle opinioni tra noi significhi una divisione drastica tra conservatori e progressisti”, si schierava significativamente contro la tesi, allora ma anche in seguito assai propugnata, che la politica dovesse essere uno scontro fra progressisti e conservatori.
Mi sia consentito dire che lo schieramento, che taluno immagina, di partiti progressisti e partiti conservatori, non sarebbe idoneo in Italia ad assicurare una azione di governo ferma e seria. Quale sarebbe infatti il punto di contatto tra queste forze? E se esse dovessero operare divise, quale base potrebbe avere il potere democratico in Italia?
In particolare, se vi fossero distanze incolmabili, se la nostra unità fosse un espediente transitorio o un pericoloso equivoco, se in qualsiasi modo fosse battuta, diminuita, spezzata la DC, che cosa avverrebbe in questa situazione? Sarebbe rimesso nel gioco il partito comunista italiano. Ecco la funzione insostituibile della DC, della integrità della sua forza unitaria. Senza di essa si avrebbe cioè o la prospettiva drammatica di inserimento del PCI o la pericolosa diminuzione di forza della DC, che renderebbe più difficile il dialogo con le altre forze politiche e con il partito socialista, e meno viva ed efficace una sensibilità cristiana e libera nella realtà politica italiana.
Su questi temi si era appena concluso il secondo convegno di studio organizzato dal partito a San Pellegrino (29 settembre- 2 ottobre) dove, accanto alle analisi di Ardigò sulla nuova società dei consumi c’erano state quelle di Leopoldo Elia sul ruolo dei partiti. Nel suo breve indirizzo di saluto, Moro, dopo aver sottolineato il felice concorso fra uomini di azione (politica) e uomini di pensiero, aveva con forza sottolineato nuovamente quale fosse la consapevolezza dei tempi che animava il suo partito.
Il tema del convegno è un richiamo a una realtà in movimento, un richiamo a quello che vi è di naturalmente nuovo nella società che si sviluppa ed avanza. Siamo un partito che vuol rendersi conto delle realtà nuove, che non ha paura di comprenderle, sicuro di avere in sé forze sufficienti per affrontarle, per essere il partito che il Paese richiede. Non siamo un partito vecchio e superato, ma un partito giovane che vuol camminare al passo della vita, e si muove e progredisce.
Da qui esce un nuovo orientamento del partito, un discorso sull’adeguamento delle sue strutture alle realtà nuove e più vive che ci stanno davanti e che sarà sviluppato nelle sedi proprie.
Ancora una volta il segretario operava per spiegare ad un più ampio pubblico il quadro che era in costruzione e lo faceva con un articolo su “Epoca” pubblicato il 21 ottobre (ma anticipato sul “Popolo” il 17): quasi un mese dopo che a Montecitorio era stato approvato il disegno di legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica con una ventina di franchi tiratori dc e una quarantina di deputati dc che si erano assentati per non votarlo (il 22 settembre il testo era passato con 404 sì e 74 no, perché anche il PCI aveva votato a favore). La situazione complessiva però non era affatto semplice, perché l’avanzare dell’esperienza del centrosinistra programmatico spingeva a stabilizzarla. Il 7 ottobre Nenni, celebrando il settantesimo anniversario della fondazione del PSI si era spinto a proporre alle forze di maggioranza un accordo di legislatura. Moro aveva apprezzato in una lettera, ma c’erano state preoccupazioni di Fanfani per una possibile crisi di governo a fine anno[61]. Sebbene le opposizioni ecclesiastiche avessero perso mordente (l’11 ottobre si era aperto solennemente il concilio Vaticano II e questo dava vita ad un nuovo contesto), non si erano spente le opposizioni interne alla DC.
Ai lettori di “Epoca” il segretario del partito cattolico chiariva che la “direttiva di collaborazione nella sicurezza democratica per fini di libertà non è infirmata dallo sperimentato contatto, in forma problematica ed aperta, con il Partito Socialista che ha caratterizzato questi ultimi mesi d’intense e travagliate vicende politiche; un contatto al quale ha fatto da base una intesa tra partiti democratici, pur nella naturale diversità, più schiettamente affini per tradizioni, programmi, fondamentali obiettivi politici”. Anzi ribadiva una volta di più che “il parziale e, in certo senso, indiretto collegamento con il Partito Socialista corrisponde allo sforzo coerente della DC in vista delle finalità essenziali di valorizzazione della vita democratica che hanno sempre ispirato la sua azione”, e ciò in quanto si puntava a “lavorare appunto per il domani, non tanto guardando alle differenze di oggi, ancora molto sensibili, ai problemi ed ai dubbi che si possono oggi proporre e che del resto anche noi conosciamo, ma agli sviluppi possibili e probabili, di fronte ai quali, quale che sia la conclusione di questa vicenda, sarebbe stato grave assumersi la responsabilità dell’inerzia e della insensibilità”.
La DC continuava a proporsi come perno e motore di un rinnovamento che non poteva essere ignorato.
Come ho avuto occasione di rilevare dinanzi alla Direzione del mio partito, quando con viva sensibilità per i problemi nuovi che la nuova realtà sociale propone, si è messo in movimento il paese, si sono indicate prospettive significative, si è preso atto delle esigenze proposte nei più diversi settori dalla libertà umana, non si può esitare, non si può tardare a prendere il proprio posto in modo che a questo moto di libertà corrisponda una posizione sufficientemente efficace di responsabilità e di autodisciplina. Quando ci si propone di rendere lo Stato più vivo nella ricchezza e nella originalità delle sue interne articolazioni, non si può rifiutare quella presenza e quell’impegno che impediscano di trasformare, attraverso la sovversione comunista, una libera ed armoniosa varietà sociale in uno strumento di disordine, in una pericolosa manifestazione d’incoerenza nella vita dello Stato democratico. Quando si è accesa una speranza in milioni di cittadini e si è promossa responsabilmente la riconciliazione di masse di popolo con lo Stato democratico, non si può lasciare il sospetto che questa politica di apertura, di collaborazione e di giustizia possa fare riaffacciare il partito comunista come protagonista, come forza influente in posizioni politicamente determinanti.
Il quadro però era soggetto anche a complicazioni impreviste. Tra il 16 e il 28 ottobre si verificò la crisi dei missili sovietici a Cuba, il che suscitò la ripresa dell’anti americanismo a sinistra con modalità che non potevano non coinvolgere la sinistra socialista, ma non solo essa. Segni da parte sua non perse occasione per inserirsi nella crisi, fra il resto facendo riferimento ad una possibile congiuntura economica negativa di cui si iniziava a parlare. Nonostante questo il 28 ottobre Nenni faceva ratificare dal Comitato Centrale socialista la prospettiva di un patto di legislatura fra DC, PRI, PSDI e PSI da presentare nella prossima campagna elettorale. Ciò non impediva che pochi giorni dopo il Consiglio dei ministri si bloccasse sul tema dell’attuazione delle regioni a statuto ordinario che trovava molte opposizioni in seno alla DC.
Non stupisce che in un incontro fra Moro e Nenni il 3 novembre la situazione venisse definita “pesante e difficile”[62]. In questo clima il 7 novembre il segretario parlava in TV a “Tribuna politica” in vista delle ormai imminenti amministrative. Sottolineato sempre che la DC si manteneva fedele alla sua ispirazione cristiana (segno evidente che quell’arma polemica contro di essa non era stata dismessa), calava la considerazione nel contesto del periodo: “Oggi come ieri si tratta di assicurare a una visione cristiana e libera della società la forza necessaria perché essa possa porsi come alternativa a una politica di disordinati mutamenti, di livellamento collettivistico, di compressione della libertà. Chiediamo comprensione e consenso, non per cambiare, ma per andare avanti ancora più decisamente e speditamente sulla nostra strada, per condurre a termine la grande opera: fare l’Italia libera, ricca, giusta e civile, salvandola dal comunismo e dal fascismo”.
Si trattava di avere coscienza che “abbiamo certo dinanzi a noi problemi nuovi, che sono posti dallo stesso impetuoso balzo in avanti compiuto dalla vita economica, sociale e politica del Paese”, il che imponeva di essere anticomunisti in modo diverso dalle destre. Non poteva evitare di porre ai suoi ascoltatori una riflessione sul problema del rapporto coi socialisti.
Questo è il problema di domani, la cui soluzione impone ai socialisti precise assunzioni di responsabilità. Oggi il nostro comune impegno è minore, anche se non irrilevante. Mentre si svolge ancora il cauto esperimento di indiretti contatti dei partiti democratici con il Partito socialista, il quale significa per noi un atto di buona volontà e di speranza, e chiede, sollecita buona volontà e speranza da parte degli altri, nessuno può dire onestamente che qualche cosa sia avvenuto che contraddica alla politica tradizionale dei partiti democratici, e comprometta per compiacere altri gli interessi fondamentali del Paese per quanto riguarda la sicurezza democratica e la ben definita posizione internazionale dell’Italia. La nazionalizzazione dell’industria elettrica, ritenuta necessaria per dare allo Stato il pieno controllo di un settore che condiziona lo sviluppo della vita economica del Paese, se indica la capacità di intervenire severamente a fini di giustizia e di maggiore libertà per tutti, non modifica, proprio per la riconosciuta e dichiarata singolarità di questo provvedimento, la nostra costante direttiva che pone a base dello sviluppo la libera impresa, e ad essa intende offrire in un ordine più serio l’occasione per scelte razionali e utili alla collettività.
Consapevole delle interpretazioni interessate che gli avversari, interni ed esterni, avrebbero appiccicato alle sue parole, Moro concludeva con forza: “Una cosa, dunque, è certa. Noi non siamo diventati un partito marxista o un partito collettivista: siamo rimasti un partito ispirato a ideali cristiani, un partito popolare ma non classista, un partito di libertà e di solidarietà sociale, un partito che ha fatto una scelta definitiva per la libertà e, conseguentemente, per il mondo occidentale nel quale la libertà si esprime, e che su questa base, consapevole come essa sia effettiva, ha assunto sinora e assumerà ancora in avvenire la massima responsabilità nella vita politica italiana”.
Il segretario aveva ben presente il crescere della opposizione dei dorotei alla politica in corso così come della determinazione dei fanfaniani e delle altre sinistre di portare a compimento l’esperienza della apertura a sinistra. La battaglia si sarebbe inevitabilmente concentrata nel Consiglio Nazionale del partito svoltosi dal 10 al 12 novembre e apertosi con una relazione di Moro ancora più impegnativa del solito.
Il segretario la prendeva per così dire alla larga. Dopo un tributo alla memoria di Enrico Mattei morto nel tragico (e oscuro) incidente aereo del 27 ottobre, passava in esame la ricca attività del governo e i suoi risultati. Si compiaceva che Gui e Scaglia avessero “cercato responsabilmente una conciliazione di opposte esigenze soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento del latino”, respingendo “un irragionevole ed umiliante compromesso”. Denunciava “certi allarmismi diffusi con malizia da alcuni avversari” su un “rallentamento congiunturale” che non sarebbe stato da attribuirsi all’attuale situazione politica. Desiderava “confortare il Governo ed in particolare il Presidente del Consiglio nell’opera in corso per dare contenuto vieppiù concreto, alla luce dei nostri ideali, a quella politica di programmazione democratica, che dovrà garantire insieme al perseguimento dell’obiettivo di un massimo aumento del reddito, anche l’adempimento dell’impegno di uno sviluppo bilanciato ed armonico del reddito in tutte le zone, i settori ed i ceti sociali del nostro Paese” (ed a questo proposito significativamente citava il Codice di Camaldoli).
Esprimeva soddisfazione per l’avvio di una commissione per la programmazione economica, così come insisteva sui provvedimenti per l’agricoltura (serbatoio di voti per il partito) e sul vigoroso rispetto per la collocazione atlantica dell’Italia.
Si giungeva così ad uno dei punti controversi fra i membri della coalizione di governo, e cioè la questione regionale. La DC era sempre stata “regionalista”, ma “certo la presenza nel gioco politico di una forza d’urto priva di ogni scrupolo democratico ed obiettivamente incapace di dare garanzie sulla integrità del sistema, quale è quella rappresentata dal partito comunista, ha imposto riserve e richiesto prudenza per la nostra azione politica su questo terreno. Essa non ha condotto però ad una modificazione radicale e definitiva delle nostre vedute sul migliore ordinamento, agile e libero, della società e dello Stato”. Tutti sapevano che il punto dolente della questione era l’aspettativa che la creazione delle regioni consentisse al PCI la conquista quantomeno di alcune dell’Italia centrale. Il segretario pertanto da un lato ribadiva che il tema andava affrontato con cautela, ma dall’altro insisteva che si potesse operare “facendo delle regioni organi dello sviluppo economico sociale, ma tali che rientrino senza prepotenza e senza particolarismi nell’ordine generale dello Stato”.
Evidentemente però la questione su cui tutti attendevano Moro era la valutazione della situazione politica. Il contesto veniva giudicato positivo e già questo era un dato importante.
Esso registrava infatti, come registra, sulla base della naturale, cordiale ed utile collaborazione instaurata tra la DC ed i partiti che propriamente compongono il governo, il valore dell’apporto del PSI alla nuova maggioranza, lo sforzo e l’impegno di quel partito nel partecipare all’attività legislativa, il suo operare per tanti aspetti fortemente nella maggioranza, cercando di far valere i propri punti di vista, ma anche cogliendo e rispettando il punto di vista degli altri partiti. Innegabilmente la realtà delle cose, la forza degli avvenimenti, l’interesse che è andato destando in tutti un esperimento così ardito ed insieme così utile hanno più di una volta condotto a superare di fatto lo schema che avevano configurato a Napoli, di un incontro cioè obiettivo, per così dire, e non concordato tra i nostri partiti nello svolgimento di una determinata azione politica e di governo.
Per mostrare che non si era ciechi di fronte a punti critici, il segretario notava “taluni atteggiamenti del PSI, conformi alla tradizione di un partito rimasto pressoché sempre alla opposizione e non consoni, malgrado lo sforzo, spesso visibile ed apprezzabile, alle esigenze della situazione politica e alla linea di governo”. Citava l’astensione sulla approvazione dei bilanci di alcuni ministeri delicati (come quello della Difesa), l’azione dei socialisti in campo sindacale, nonché, inevitabilmente, gli scostamenti sulle valutazioni in tema di politica internazionale.
Ribadiva però che “quello che noi stiamo facendo è un ardito esperimento, per far sprigionare e rendere utilizzabili forze nuove di libertà sottratte al giogo soffocante del partito comunista; uno sforzo meritorio per la sua finalità di arricchimento della vita democratica e di drastica limitazione del potere del partito comunista”. Ciò lo faceva esprimere a questo punto con una frase abbastanza contorta, che tuttavia segnava una scelta a favore dell’apertura.
Con una visione prudente e responsabile della realtà politica italiana la DC, senza rinnegare l’impostazione sperimentale e gradualistica che essa aveva dato a Napoli all’incontro con i socialisti e per la quale una scelta definitiva, inequivocabile e visibile, tra comunismo e democrazia si attendeva in forza dello sperimentato contatto con i partiti democratici e non in via pregiudiziale, esprimeva la valutazione che, sia pur grado e grado e senza scadenze ultimative, un processo di sviluppo, un più accentuato impegno politico, una più netta differenziazione a sinistra, una maggiore capacità di assumere e condividere responsabilità democratiche, accompagnassero e in certo senso convalidassero l’esperimento in corso e presidiassero l’attuazione del programma specie nei punti per i quali una siffatta iniziativa apparisse necessaria per dissipare consistenti preoccupazioni di ordine politico.
Moro ricordava la decisione del Comitato Centrale Socialista del 17-19 ottobre di proporre un accordo di legislatura ai partiti coinvolti nell’esperimento in corso (accordo da estendersi ai futuri governi regionali), ma al tempo stesso avvertiva che non si poteva “trascurare la circostanza che la decisione relativa ai futuri impegni politici globali del PSI è stata presa tra aspri contrasti, i quali vengono certo a sottolineare il merito della azione politica degli autonomisti” che peraltro doveva passare per una verifica congressuale. “L’impegno concreto del PSI emergerà dunque, dopo le elezioni, dalle elezioni appunto e dal Congresso del Partito”.
Non andava sottovalutata la “rabbiosa reazione polemica dei comunisti e della sinistra socialista” e c’erano ancora passi da compiere.
Su questa prospettiva per l’avvenire, pur rilevata tutta l’importanza del venir meno di una pregiudiziale paralizzante o fortemente limitativa, non è facile esprimersi compiutamente nel presente momento politico. Si può certo dire che questa appare come una fase ulteriore, uno sbocco naturale dello sviluppo attualmente in corso, il quale è solo, come ebbi a dire in Direzione, una fase transitoria e preparatoria, in definitiva anomala, in vista di un necessario punto di arrivo, mancando il quale essa diverrebbe alla lunga incomprensibile ed insostenibile; un punto cioè attraverso il quale si passa, più o meno velocemente, per andare avanti, se non si vuole per forza di cose tornare indietro. Ed aggiungerò che questo è naturalmente il senso di un’operazione politica che intende offrire una piattaforma democratica all’azione del partito socialista, un’alternativa importante alla politica frontista e giustifica quindi un nuovo e coraggioso impegno del PSI.
Non bastava infatti “buona volontà” sia sul versante DC che su quello PSI. I problemi non erano pochi e andavano affrontati. “Noi conosciamo bene le nostre difficoltà e conosciamo e rispettiamo le difficoltà degli altri. Quanto abbiamo detto circa taluni aspetti della presente esperienza, circa il visibile travaglio del Partito socialista nell’assumere sul terreno più delicato importanti responsabilità, dimostra che queste son cose che, per tutti, devono essere fatte oggetto di attenta e non passionale meditazione.”
Moro coglieva anche il mutato atteggiamento del PCI verso l’esperimento di centrosinistra, poiché quel partito riteneva che esso potesse indurre disorientamento nel suo elettorato;
l’atteggiamento di fronte a questa formula politica muta, si riaccende più violenta la polemica nei confronti della D.C. accusata di inserire nella situazione proprie vedute economico sociali e propri interessi politici e di impedire una configurazione accettabile della formula come primo tempo di una svolta a sinistra verso i comunisti; sempre più infine al linguaggio della persuasione e della solidarietà nei confronti del PSI si sostituisce un linguaggio duro, ammonitore, fortemente polemico come di chi cerchi di far valere tutto il proprio peso in un’ultima disperata battaglia per la cattura del Partito Socialista.
Seguiva una dura polemica con la destra, secondo uno schema che abbiamo già visto in altri interventi e soprattutto concludeva sulla necessità di mantenere l’unità del partito in questa fase sperimentale. “Abbiamo qualche resistenza da superare, ma non è impossibile, non è neppure difficile mostrare che siamo sempre noi stessi, che la fiducia può essere data ancora una volta alla stessa D.C. Nessuno può addebitarci, fuori che polemiche passionali e ingiuste, una qualsiasi cosa che sia in contrasto con le direttive politiche fondamentali del nostro partito, con gli interessi del paese, con gli impegni elettorali”.
La battaglia in Consiglio Nazionale sarebbe stata aspra con Fanfani che chiedeva di non indebolire l’azione del governo, mentre Colombo e Rumor l’avevano criticata suscitando il plauso di Scelba, Pella e Gonella. Nella replica Moro respingeva l’ordine del giorno delle minoranze di destra, rinnovava la sua soddisfazione per la prospettiva che i socialisti volessero fare un passo ulteriore per una collaborazione piena con la DC, senza negare che ci fossero punti da chiarire soprattutto in politica estera (i riflessi della crisi cubana si facevano sentire). Concludeva però che
non ci pare possibile ed utile fermarci; ecco perché ci sembra che sia piuttosto la iniziativa che non un arresto polemico, capace di persuadere, porre problemi, forzare le situazioni. In questo spirito, che è costruttivo e fiducioso, ma non certo di abbandono e di cedimento, vogliamo andare avanti, dando concreta attuazione alla formula politica prescelta, sia con la realizzazione del programma, sia con il perseguimento essenziale e contestuale degli obiettivi politici di fondo. L’impresa, abbiamo detto, è troppo importante, per giustificare la rinuncia e l’inerzia
[…]
Al termine di questa legislatura dev’essere ben chiaro che non si è perduto niente e si è fatto invece un passo in avanti, guardando senza paura a nuove esigenze, a nuovi problemi, a nuove possibilità. Dobbiamo ritrovarci ancora più in alto e in una posizione più sicura.
Il Consiglio Nazionale si sarebbe chiuso con una mozione che con 124 voti a favore approvava la relazione del segretario e dava fiducia al governo, mentre la mozione di Scelba che puntava anche a sospendere l’approvazione delle leggi regionali raccoglieva solo 20 voti.
Ma le cose nella Dc, come commentò Nenni, “sono andate bene solo in apparenza”. La politica dei freni avviata dai dorotei dava i suoi frutti e Moro non se la sentiva di rompere, soprattutto tenendo anche conto delle difficoltà che creava Segni dal Quirinale. I rapporti fra le delegazioni dei partiti del centrosinistra erano tesi e non sembrava che ci fosse una decisa volontà di portare a termine tutte le riforme progettate. Il PCI nel suo X congresso (2-8 dicembre 1962) prese occasione per riaprire l’opposizione decisa a DC e PSI, visto che l’apertura a sinistra non prevedeva alcun ruolo neppure informale per i comunisti.
In verità alcune riforme importanti sarebbero giunte in porto: il 6 dicembre giungeva definitivamente l’approvazione della legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica; a fine dicembre passava la legge di istituzione della scuola media unica, il 29 dicembre era varata la legge sulla tassazione delle azioni quotate in borsa (sia pure con il pasticcio della “cedolare secca” per quelle in mano straniera)[63]. Nonostante questo le tensioni fra i partiti erano molto forti con vertici ed incontri che inasprivano i contrasti più di quanto facevano per appianarli. Pesava certamente lo sviluppo della già citata “congiuntura economica” con il ministro del Tesoro Colombo che contribuì ad accrescere le preoccupazioni in evidente sostegno della strategia dei dorotei.
Intanto si entrava sempre più nell’ottica della campagna elettorale essendo noto che Segni voleva sciogliere la legislatura ad inizio del nuovo anno. Del resto questa contingenza rimetteva in moto il problema del sostegno delle gerarchie al partito cattolico. Il 6 dicembre il segretario inviava una lettera al cardinale Siri assicurandolo che la DC voleva “rappresentare politicamente il mondo cattolico nella sua unità”, ma affermando, sia pure in modo contorto e sibillino, che non si potevano candidare solo persone che avessero il beneplacito dell’autorità ecclesiastica[64].
A fine anno Moro scriveva per il settimanale “Oggi” un articolo che prendendo l’occasione della celebrazione del ventennale di fondazione della DC voleva essere un messaggio rassicurante diretto all’elettorato, specie a quello moderato[65].
Quello che conta veramente è la funzione esercitata dalla Democrazia Cristiana in questi anni della rinascita democratica in Italia: la sua capacità di realizzare un vasto consenso, una sostanziale concordia nella comunità nazionale, per farne presidio della libertà; la sua attitudine a guidare l’evoluzione di una società che progredisce, attua la giustizia, valorizza e riscatta l’uomo liberamente, ordinatamente, senza soggiacere a spinte eversive, senza cedere alla diffidenza ed alla paura paralizzante delle forze reazionarie. È stata la sua funzione quella di una grande forza popolare, ma non classista, forza politica, ma saldamente ancorata ai princìpi religiosi ed ai valori morali, posta a difesa della libertà di tutti, impegnata nello sviluppo della dignità di tutti.
Pur ammettendo di aver potuto “talvolta sbagliare, temere o arrestarci”, rivendicava la continuità di un impegno che faceva partire dalle “idee ricostruttive” pubblicate vent’anni prima da De Gasperi. Ricordava l’importanza di distinguere fra forze democratiche e forze di regime “in una società come quella italiana, caratterizzata ieri, e in una certa misura ancora oggi, da paurosi sussulti di disordine sociale come da ciechi tentativi di arrestare il processo di sviluppo democratico e di elevazione umana” e interpretava il centrismo non come una “occasionale collocazione geometrica”, bensì come “un atto di consapevolezza, una scelta storica, una responsabile individuazione di tutte le insidie che da diverse ed opposte posizioni politiche vengono egualmente alla libertà del popolo italiano. Non è una decisione di mediocrità”.
Poteva concludere presentando la propria lettura del ruolo che il suo partito aveva nel sistema politico italiano (qualcosa a cui si sarebbe mantenuto fedele per tutta la vita).
La collaborazione tra le forze politiche, il rifiuto dell’esclusivismo, una efficace mobilitazione per la instaurazione della più piena vita democratica in Italia, l’accettazione di ogni concorso utile per il grande obiettivo della difesa delle istituzioni e della assicurazione della libertà, la valorizzazione dei partiti democratici in un incessante sviluppo storico che permette di utilizzare le solidarietà più utili per la guida del paese, la garanzia offerta dalla forza, dall’autorità, dall’equilibrio, dalla volontà costruttiva della Democrazia Cristiana, queste sono le cose essenziali di questi venti anni e gli elementi di un’ulteriore felice evoluzione della situazione politica italiana.
Belle parole, ma pronunciate alla vigilia di un anno nuovo che avrebbe segnato un passaggio molto complicato nel percorso che aveva iniziato a costruire con tanta passione e con altrettanto senso delle difficoltà da superare.
Un primo chiarimento delle prospettive politiche verso cui si intendeva marciare Moro lo offrì nel suo discorso alla Camera del 25 gennaio 1963 in cui si pronunciava contro la mozione di sfiducia al governo presentata dal PCI. L’intervento andava molto al di là della questione specifica ed era a tutti gli effetti un’apertura implicita della campagna elettorale.
Da un lato il segretario della DC si premurava non tanto di attaccare i comunisti, cosa scontata, quanto di negare di voler dar credito alle aperture che questi avevano fatto in parlamento ad alcune riforme del governo Fanfani, cosa che aveva suscitato la polemica delle destre interne ed esterne che avevano parlato subito di cedimento della diga ideologica.
Denunciando il tentativo del PCI di “sradicare l’Italia dal mondo occidentale”, chiariva la tenuta della distinzione fra il progressismo dc e quello comunista.
È questa politica su due piani, è questa fondamentale riserva che, al di là di parziali coincidenze su punti limitati della politica di sviluppo economico e sociale del paese, preclude le collaborazioni e determina quella radicale incompatibilità dei democratici con il partito comunista che non è un’ingiustizia, non è un arbitrio, ma è l’espressione di una profonda sfiducia che la dottrina comunista e gli eventi della storia non hanno potuto che confermare. Noi vogliamo realizzare progressivamente maggiore giustizia nella nostra società, ma non vogliamo pagare, né oggi né domani, per questo (ciò sarebbe oltre tutto illusorio), il prezzo della libertà; non vogliamo pagare il prezzo della perdita dell’iniziativa dell’uomo; non vogliamo pagare il prezzo del sacrificio delle nostre tradizioni e del nostro costume morale; non vogliamo pagare il prezzo della perdita della nostra visione umana e libera della vita sociale.
Rivendicava però “a titolo di onore” di “avere combattuto efficacemente, democraticamente il partito comunista, senza indulgere alle tentazioni illusorie, oltreché false, di una politica conservatrice, incapace di risolvere i problemi della giustizia e dello sviluppo democratico nella nostra società”, tornando così a porre un confine verso i richiami delle destre.
in tutti questi anni non abbiamo opposto al partito comunista un’alternativa reazionaria, gli abbiamo contrapposto un’alternativa democratica. […] Non ci siamo, nonostante tutto, mai affiancati alle forze di destra: abbiamo condotto una politica nostra di resistenza al partito comunista, di attacco contro il partito comunista. […] Abbiamo combattuto una battaglia di libertà con gli strumenti della libertà, abbiamo combattuto una battaglia di progresso con strumenti di progresso, e abbiamo dimostrato di potere senza alcuna pregiudiziale adottare, dove esse ci siano sembrate necessarie, anche drastiche e severe misure di giustizia e di uguaglianza, ma senza cadere in pericolose unilateralità classiste, agendo cioè su un terreno sgombro da ogni pregiudiziale, con la prontezza e la capacità di adoperare, in una visione libera e giusta della società, tutti gli strumenti che appaiano utili a realizzare obiettivi di progresso e di giustizia nel nostro paese
Con questo Moro entrava, pur non essendo l’argomento strettamente correlato alla questione di fiducia, ma in presenza di polemiche che aveva ben presenti, sul tema del nuovo assetto politico determinatosi con i governi Fanfani.
ci siamo trovati, in quel momento, di fronte all’esaurimento in termini politici di alcune forme di collegamento che erano state utili in passato e avevano reso, in momenti difficili, servizi autentici alla democrazia italiana; ci siamo trovati dinanzi all’esaurimento, al quale non si è certo accompagnato un nostro disconoscimento del loro valore positivo e costruttivo, di quelle collaborazioni di Governo attraverso le quali nelle forme allora possibili avevamo condotto innanzi la nostra azione di garanzia della vita democratica del paese, lasciandoci sempre significativamente certi margini a sinistra e a destra. Perché né noi, né i partiti con i quali abbiamo collaborato, abbiamo mai assunto una collocazione tale da far dimenticare che vi sono, oltre che zone di riserva a sinistra, anche zone di riserva e di pericolo a destra dello schieramento politico italiano.
Si era deciso di “esplorare nuove strade” senza cercare “una maggioranza di comodo” giungendo ad “un difficile incontro, in una forma atipica caratteristica di una fase sperimentale della nostra vita politica, con il partito socialista italiano […], al quale abbiamo fatto credito, nel nostro doveroso senso di responsabilità, della sua dichiarata leale volontà di partecipare ad una maggioranza in una forma particolare, di iniziare un contatto con altri partiti, di contribuire ad aprire una nuova prospettiva nella vita democratica del nostro paese”.
Ci teneva a puntualizzare, con evidente riferimento alle polemiche in corso, che non si era trattato di una iniziativa intrapresa alla leggera.
La difficoltà e l’atipicità di questo incontro non sono certamente un fatto dovuto a piccole considerazioni di opportunità: sono l’espressione della realtà storica, sono l’espressione della evidente diversità tra il nostro partito e il partito socialista: partito interclassista la democrazia cristiana, in una visione di giustizia e di ordine sociale che pone l’accento sugli interessi popolari; partito classista il partito socialista, partito tormentato − questo è il suo problema e, in una certa misura, il nostro problema – dalla pressione di una solidarietà di classe che apre e rende acuti i suoi rapporti con il partito comunista; un partito che viene da diversa esperienza internazionale; un partito che viene da una posizione di protesta, da una posizione periferica […], periferica rispetto al nostro sistema; un partito la cui difficoltà nell’inserimento in questa nuova prospettiva politica non può essere dimenticata: una difficoltà che evidentemente si riflette su di noi, una difficoltà che è stata la nostra difficoltà
Chiaramente tutti si aspettavano un chiarimento sulle questioni aperte, specie l’avvio delle regioni a statuto ordinario, che avevano bloccato le intese a quattro da ottobre alla fine dell’anno. Il segretario della DC ribadiva la necessità che tutto potesse avvenire in un quadro di “stabilità politica”, che era quanto un grande partito popolare come il suo doveva assolutamente garantire. “Io credo di avere spiegato nella riunione dei quattro partiti, e anche successivamente, che cosa si intenda da parte nostra con l’espressione «stabilità politica»: l’esistenza di un raggruppamento di forze politiche capaci di assumere nelle regioni la gestione del potere in modo coerente con la vita generale dello Stato; un raggruppamento di forze politiche il quale, per essere coerente con le esigenze generali della vita democratica del paese, non può includere il partito di opposizione pregiudiziale, che è il partito comunista”. Sarebbe stata, come vedremo una questione che si sarebbe trascinata lungo tutta la campagna elettorale e anche in seguito.
Moro insisteva nel rilevare che le remore dc a procedere col tema delle regioni derivavano dal fatto che “non si può negare che la maggioranza organica, una maggioranza cioè nella quale vi sia un comune impegno politico generale (che è l’essenziale), non è ancora all’orizzonte” e lo desumeva anche dalle ambiguità della posizione di Nenni.
Siamo di fronte alle decisioni, che mi permetterò di dire severe, del comitato centrale di quel partito. Mi sarà consentito anche di rilevare una certa contraddizione fra le due parti del notevole discorso dell’onorevole Nenni: la prima tutta irta di punte polemiche, tutta protesa nella denuncia di un grave ed irrimediabile inadempimento della democrazia cristiana; la seconda ampia e diffusa nell’elencazione di una serie di importanti conquiste democratiche alle quali la democrazia cristiana tutta intera ha dato il suo apporto determinante
[E aggiungeva:]
[Il PSI] afferma che, in forza dell’adempimento della democrazia cristiana, si intende chiusa, per nostra deficienza, quella fase di collaborazione che si era aperta e si era imperniata sull’accordo programmatico del febbraio scorso. È questo qualche cosa di più di una polemica severa. Ne prendiamo atto rilevando che essa sembra, se non avventata, un po’ dura, un po’ eccedente la natura reale delle cose.
Come si vede il tema centrale dell’intervento parlamentare del segretario dc non era tanto la mozione di sfiducia promossa dal PCI, ma l’impasse in cui era venuta a trovarsi l’apertura di centro sinistra tanto che ormai era il caso di rinviare tutto alla prova elettorale. “Si può dunque ritenere, sulla base delle dichiarazioni del partito socialista, che la fase creativa, vitale e politicamente significativa di questo corso politico si sia esaurita nell’attesa del grande dibattito elettorale al quale ci accingiamo; e che quindi tutte le nostre valutazioni, tutti i temi impegnativi del dibattito politico, siano da trasferire in quella sede”
Peraltro egli sapeva bene che in quell’appuntamento gli avversari di destra, interni ed esterni, cercavano una occasione di blocco dell’esperimento, per cui si premurava di contrastare quelle aspettative.
La polemica con la destra e la polemica della destra sono state costanti per la democrazia cristiana. Sia che facessimo una politica centrista, sia che conducessimo la nostra esperienza di questi mesi, la polemica della destra contro di noi è stata sempre ugualmente viva, ingiusta talvolta in alcuni motivi, ma naturale, perché fondata sulla diversità che esiste tra la nostra e la sua posizione. Questa posizione fondamentale, che colloca la democrazia cristiana al suo giusto posto, lasciando da parte il comunismo da un lato, il fascismo dall’altro, questa posizione fondamentale di indirizzo democratico, questo impegno di libertà, di progresso e di sviluppo democratico, continuano ad essere la caratteristica fondamentale del nostro partito.
La consapevolezza da parte di Moro della delicata contingenza in cui si muoveva è testimoniata da una intervista che rilasciò a “Il Quotidiano”, giornale espressione della destra conservatrice cattolica di matrice geddiana. Sin dall’inizio l’intervistatore lo pungolava sul tema della necessità che la DC fosse messa dagli elettori “in condizioni di non dover subire imposizioni programmatiche dai partiti che si ispirano a ideologie spesso in contrasto con i principi cristiani” (il che significava dubitare che la DC fosse in grado di farlo di sua iniziativa). L’intervistato ovviamente garantiva che si sarebbe agito con chiarezza difendendo fedeltà atlantica ed impegni presi e rispondendo ad un’altra domanda si premurava di sottolineare che “il provvedimento di nazionalizzazione dell’energia elettrica è da noi considerato di carattere eccezionale e giustificato in considerazione del valore condizionante che la disponibilità dell’energia assume per un processo di armonico sviluppo della vita economica e sociale della nazione” sebbene si dovesse riconoscere la legittimità della “guida responsabile dello Stato per una vita economica più ordinata e solidale e, come si è detto, un intervento eccezionale, come quello attuato in questa legislatura per favorire la libertà di tutti e la giustizia”.
Si veniva così al punto più controverso su cui faceva leva l’opposizione della destra (tradizionalista) cattolica: la necessità di una intensa battaglia a difesa dei costumi e principi cristiani contro la decadenza dei tempi. Pur riconoscendo che “esiste un problema politico della moralità”, e che la DC era impegnata ad affrontarlo, Moro faceva notare, con un certo coraggio vista la sede in cui era intervistato, che il partito “non ignora d’altra parte che vi è un delicato problema di limiti in rapporto alle esigenze della vita democratica ed ai principi costituzionali”. E concludeva con parole piuttosto impegnative:
Altri, meno responsabili di noi, possono avere il gusto delle accentuazioni unilaterali. Noi no; dobbiamo pensare a tutto: alla libertà come al progresso; alla privata iniziativa come alla solidarietà sociale; alla forza ed alla sicurezza come alla pace; al libero gioco democratico come alle alte esigenze della vita morale. Crediamo di potere, per ispirare fiducia, richiamarci alla nostra storia; alla implicita garanzia che essa contiene ed esprime. Crediamo di poterci richiamare alla indefettibile fedeltà dei nostri uomini ed alla coerenza della loro azione politica.
Iniziava così quel riferimento al dovere di misurarsi con l’evoluzione dei tempi che abbiamo già visto presente nell’anno precedente, ma che sarebbe stato accentuato nell’anno elettorale e poi nella necessità di trarre le conseguenze dal voto espresso nelle urne. E’ significativo da questo punto di vista l’intervento che Moro fece il 10 febbraio 1963 al convegno del movimento femminile della DC.
Il tema era delicato conoscendo le posizioni della cultura tradizionale cattolica, sia ecclesiastica che laica, riguardo al ruolo della donna. Ma le parole del segretario furono tanto misurate quanto chiare.
Per questo riteniamo che spetti al partito, per quanto compete ad esso ed ai suoi movimenti specializzati, di proporsi l’obiettivo di favorire ad un tempo la partecipazione della donna a tutte le forme dell’attività sociale e il potenziamento dell’istituto familiare secondo una visione equilibrata e responsabile del ruolo della donna nella vita privata e pubblica. In vista di questo obiettivo si deve svolgere un ruolo di preparazione della coscienza pubblica, perché essa possa comprendere e accettare l’evoluzione delle istituzioni sociali. Altrimenti si rischia di mortificare a livello rivendicativo e settoriale un processo di sviluppo umano che non riguarda solo la donna ma la comunità nel suo complesso. E non è che noi ci adattiamo a fatica ad un portato dei tempi, come vorrebbero far credere soprattutto i comunisti. Noi al contrario giudichiamo utile e sollecitiamo la presenza della donna nella società moderna, perché riteniamo prezioso l’apporto della sua particolare sensibilità alla realtà sociale, politica, amministrativa, perché vediamo in questo inserimento una nuova spinta ad una più accentuata umanizzazione della vita pubblica.
Si spinse anche ad esaminare la necessità di rivedere le norme giuridiche sulla posizione della donna, ma poi tornava sul tema della apertura ai socialisti, con la ormai consueta polemica anticomunista, ma sempre ribadendo che quella politica aveva valore
se questo non è solo un incontro utile per raggiungere efficacemente il fine della giustizia e della libertà di tutti, ma se è un’occasione per sprigionare nuove energie, per acquisire nuove forze, per attribuire nuove responsabilità per l’ordinato sviluppo della società italiana. Noi sentiamo dunque, sulla base della nostra vocazione popolare e di progresso, l’importanza di talune, anche limitate, affinità programmatiche; ma sentiamo anche e più il valore politico dell’occasione lealmente offerta alla assunzione di responsabilità democratiche, ad un concreto lavoro rivolto a realizzare non tumultuosamente, ma nell’ordine il progresso e la giustizia nella vita sociale.
Metteva con forza l’accento sul ruolo chiave del suo partito nel costruire una nuova stabilità politica, ma anche in questa occasione non mancava di dire che “non da destra dunque possono venire indicazioni valide per la continuità delle libere istituzioni e per la salvezza del Paese. Non vi sono in quella parte né ideali validi né capacità di parlare un linguaggio che abbia risonanza nel popolo italiano”.
Ormai la campagna elettorale era avviata con lo scioglimento delle Camere deciso da Segni il 3 febbraio fissando le elezioni il 28 aprile. Il clima non era certamente sereno con i dorotei che continuavano a lamentare presunti cedimenti ai socialisti, con sul fronte dell’economia qualche incertezza che si iniziava ad intravvedere all’orizzonte, con gli attacchi concentrici del PCI e dei liberali, in quel momento più pericolosi di quelli delle destre. Fanfani ne aveva preso atto mettendo fine al suo governo[66]. Il confronto fra i partiti in vista delle urne diveniva acceso e Moro doveva spiegare all’elettorato la posizione peculiare che proponeva per il suo partito, controbattendo alle molte “delegittimazioni” che contro di esso venivano proposte da più fronti, sebbene in questo caso si fosse acquietato quello dei vertici ecclesiastici, un po’ perché impegnato nelle battaglie per la gestione del Concilio ormai avviato, un po’ perché Giovanni XXIII stava riuscendo a frenare le ansie politiciste di parte dei vertici vaticani.
In questo contesto assume rilevanza la partecipazione del segretario DC alla trasmissione tv “Tribuna Politica” che era ormai un palcoscenico molto seguito. Nel suo intervento il 21 febbraio apriva subito con una dichiarazione che era quasi un auto da fé.
Attenti a cogliere tutto quello che c’è di nuovo nella realtà italiana; non vogliamo però dire che la nostra passata esperienza sia una esperienza caratterizzata dalle vecchiezze e dal superamento. Novità ha portato sempre, in questi 20 anni della sua vita, la Democrazia Cristiana nella vita del Paese. Ha affrontato una grande azione politica che ha veramente trasformato il volto del nostro Paese. L’Italia di oggi, per preminente iniziativa della Democrazia Cristiana, è profondamente diversa dall’Italia di ieri.
Cioè noi non siamo dei conservatori, non siamo, come non siamo stati mai, un partito collettivista.
Ora noi ci presentiamo in questo momento al Paese con queste caratteristiche inalterabili e chiediamo forza, chiediamo consenso per la Democrazia Cristiana, perché essa possa continuare ad assolvere questa sua funzione complessa, cioè possa continuare a soddisfare, insieme, senza accentuazioni unilaterali, tutte queste esigenze fondamentali del Paese, la cui validità abbiamo sperimentato nel corso di questi 20 anni nella grande azione di trasformazione sociale e di stabilizzazione politica che noi abbiamo perseguito. Vogliamo soddisfare queste esigenze tutte insieme: ecco perché abbiamo bisogno dell’intera forza della Democrazia Cristiana.
Pur spiegando subito che ciò significava per la DC perseguire come sempre “obiettivi vitali di collaborazione con le altre forze politiche, perché essa sente il valore del dialogo politico, vuol valorizzare le forze politiche, sente il valore, per così dire stimolante e costruttivo, in prospettiva, di certe collaborazioni”, sottolineava la responsabilità specifica che gravava sul suo partito.
Come c’era da aspettarsi, arrivava subito la domanda sul controverso tema dell’avvio delle regioni. Qui Moro esponeva le ragioni prudenziali che avevano spinto la DC a mettere in attesa il tema, che pure di suo entrava nella prospettiva storica del suo partito. L’argomento era quello che avrebbe ripetuto più volte come avremo modo di vedere: c’era incertezza circa la tenuta della stabilità del quadro politico nazionale a livello di alcune regioni.
Con tutta lealtà e pieno rispetto diciamo che di questa controversia non soltanto tra noi e il Partito socialista, ma evidentemente, sia pur in forma diversa, tra noi e il Partito socialdemocratico e tra noi e il Partito repubblicano è giudice il Paese, il quale dovrà dirci se apprezza le nostre ragioni di prudenza o se ritiene giustificata questa volontà di immediata attuazione, di piena immediata attuazione dell’ordinamento regionale che questi partiti hanno manifestato. Quindi io non vorrei anticipare quelli che saranno i temi politici del dopo le elezioni, limitandomi a dire che questa è la nostra posizione, che questa posizione noi sottoponiamo al giudizio del Paese.
L’altro punto caldo era naturalmente l’apertura ai socialisti. Così il segretario la spiegava alla prima domanda su questo tema.
… al congresso di Napoli, per senso di responsabilità che la Democrazia Cristiana, come massimo partito italiano, deve sempre avere, abbiamo ritenuto di poter rendere più agevole questo cammino attraverso una esperienza particolare limitata, di contatto indiretto tra i partiti democratici tradizionali e il Partito socialista, contatto che sembra utile per le ragioni che abbiamo sempre dette: acquisizione piena del Partito socialista nell’area democratica, piena utilizzazione di queste importanti forze popolari al vertice dello Stato. Questa acquisizione ci sembrava che potesse essere agevolata da un periodo sperimentale (io ho parlato di cauta sperimentazione), di contatti tra i nostri partiti e il Partito socialista italiano attraverso la forma che si è espressa nel governo presieduto dall’on. Fanfani
[…]
Evidentemente non abbiamo mai indicato con assoluta precisione quanto questo periodo dovesse durare, ma è chiaro che nel momento in cui andiamo di fronte all’elettorato, quello che importa è che noi indichiamo il fatto politico, cioè l’acquisizione del Partito socialista nell’ambito di quella che noi chiamiamo area democratica.
A Gorresio della “Stampa” che gli chiedeva se la politica di centro sinistra fosse ancora la prospettiva in cui si sarebbe mossa la DC, Moro offriva una risposta articolata che certamente era calibrata anche sulle perplessità presenti nel suo partito e nell’opinione pubblica ma che al tempo stesso apriva una prospettiva.
Ora la politica della DC quale è stata, qual è? È la politica popolare. Non so se qualcuno voglia tradurre questo termine “politica popolare” nella formula “politica di centro-sinistra”. Io intendo dire innanzitutto che la DC ha svolto una politica popolare, cioè a dire una politica di progresso, una politica indirizzata alle grandi masse di popolo, una politica di perequazione e di giustizia; non una politica di vertici, ma una politica di base. E questo è evidentemente il primo contrassegno della DC. In questo senso non è certo senza significato che la DC, anche nel momento nel quale il tema «partito socialista» era ancora notevolmente lontano dall’attualità immediata, abbia all’inizio della legislatura scelto, nell’ambito dell’area democratica tradizionale, piuttosto i partiti della sinistra democratica che non il partito, chiamiamolo, della destra democratica, non solo per ragioni numeriche, ma per una certa concordanza, per una certa affinità che non è totale perché ci sono fondamentali dissidi ideologici, ma perché fra una politica popolare, che è quella che deve fare la DC, che non può non fare la DC, e questi partiti vi era una naturala maggiore affinità
In questo senso evidentemente questo tema del Partito socialista è collocato in una prospettiva politica e storica che la DC non rinnega. Però io mancherei in questo momento al dovere che ho di chiarezza e di responsabilità di fronte all’elettorato se non ridicessi quello che ho detto poco fa; cioè che le posizioni medie, le posizioni sperimentali, le posizioni nelle quali vi può essere un contatto senza che vi sia una piena concordanza politica, non possono che essere fasi transitorie nella vita politica del Paese, e che ad un certo momento è necessario che vi sia una scelta fondamentale che configuri la possibilità di un contatto che comporti un impegno di politica generale dei partiti che sono impegnati in un’azione di governo.
Al giornalista del “Corriere” che gli chiedeva se non temesse che l’elettorato dc non accogliesse la politica di apertura a sinistra, il segretario rispondeva che “non abbiamo mai immaginato che il nostro elettorato potesse non seguirci sulla via che non per capriccio, evidentemente, ma per senso di responsabilità noi avevamo indicata”, specificando però, ed era significativo del suo approccio, che “questa non è la via dell’incontro puro e semplice, indiscriminato, incondizionato con il Partito socialista: la via è quella, dicevamo, di una politica popolare della Democrazia Cristiana che non può che essere questa. Perché se non la facesse la Democrazia Cristiana una politica popolare, la farebbe in Italia solo il Partito comunista”.
Al vicedirettore dell’“Avanti!” che lo provocava affermando che il suo partito aveva rifiutato l’offerta del PSI per un accordo di legislatura nella prospettiva di tenersi aperta l’opzione di accordi con la destra, controbatteva che così non era: “Noi ci siamo trovati in conflitto con il Partito socialista in quanto abbiamo ritenuto che le Regioni fossero una riforma troppo vistosa perché essa potesse rientrare nell’ambito della cauta sperimentazione. Questo è stato il conflitto fra noi. Cioè noi abbiamo ritenuto che la fase di cauta sperimentazione fosse troppo debole per poter sopportare il peso di questa grande riforma”.
Era evidente che si prospettava un attacco della grande stampa alla centralità della DC nell’ottica del riequilibro con la cosiddetta terza forza. A questo proposito Moro intervenne nel marzo con un articolo su “Vita” prendendo spunto dalla posizione de “Il Resto del Carlino” con “gli articoli, nel tono sereni e rispettosi, di Spadolini e le esagitate note di Enrico Mattei”. In polemica con il primo faceva notare “l’evidente insofferenza per la posizione dominante dei cattolici nella vita del nostro Paese e l’affiorare polemico di motivi, se non anticlericali, almeno accentuatamente laicisti nella politica italiana. Sembra oggi per molti che la forza unitaria dei cattolici non sia più necessaria”. Ricordati i meriti storici dei cattolici nel promuovere e garantire lo sviluppo della democrazia italiana, sottolineava come un ridimensionamento della centralità della DC non avrebbe giovato neppure alla alternativa di quella che veniva chiamata (ma non da lui) terza forza.
Se questa mancasse [la centralità dc], le altre forze verrebbero spazzate via ed il partito socialista sarebbe risucchiato interamente nella politica frontista. Il problema è più grave e complesso che non appaia dalla geometrica precisione della intuizione dello Spadolini: una mediazione centrista di una meno forte Democrazia Cristiana tra un partito socialdemocratico ed un partito liberale aumentati a spese della Democrazia Cristiana. È una costruzione politica che non tiene conto, tra l’altro, della dichiarata e ribadita volontà del PSDI di sottrarsi a mediazioni centriste; una prospettiva tanto più improbabile, qualora il PSDI avesse conseguito il suo maggior successo proprio al di fuori della politica centrista. Ma è, soprattutto, una costruzione politica che non tiene conto dei dati reali e dei gravi problemi della politica italiana
L’apertura formale della campagna elettorale avveniva con un comizio tenutosi il 24marzo a Roma. Moro esordiva proclamando l’unità della DC davanti ai compiti dell’ora, dove “non occorrono dunque né coercizione né uniformità per un partito, come il nostro, strettamente aderente alla realtà sociale e politica, fermamente ancorato ai principi, dotato, per la lunga esperienza fatta in una posizione sempre dominante, di un altissimo senso di responsabilità”. Già in questa occasione, come avrebbe ripetuto costantemente lungo tutta la campagna elettorale, richiamava la continuità nell’esperienza politica del partito e dei suoi uomini. Puntualizza però:
Nella continuità generale della politica democratica cristiana, si inserisce in modo particolare il tempo della legislatura che si è appena conclusa. Una complessa vicenda della quale, in modo particolare, vogliamo rispondere agli elettori, mentre ne sollecitiamo, sulla base del lavoro compiuto nell’ultimo quinquennio, un nuovo mandato di fiducia. Ricordiamo perciò di questo periodo la ricchezza delle attuazioni programmatiche, lo sforzo tenace della D.C. per rimanere fedele a se stessa ed al compito assunto di fronte all’elettorato, le sempre maggiori difficoltà incontrate nel configurare maggioranze democratiche costituite con l’apporto di partiti ormai fortemente differenziati, il cauto tentativo, meditatamente intrapreso, di allargare l’area democratica, l’esperimento di contatto con il Partito socialista diretto a valorizzare forze politiche nuove all’esercizio del potere e a delineare nuove maggioranze omogenee, se possibile, per una politica di sviluppo economico e sociale.
Non poteva mancare il richiamo ad un tema che era agitato polemicamente contro la politica attuale della DC: “La rivendicazione dell’anima cristiana del partito non è una opportunità da cogliere, ma una necessità ideale ineliminabile dalla nostra storia e dalla nostra personale esperienza”. Riconfermata la volontà di essere argine ai totalitarismi di destra e di sinistra, Moro lasciava cadere una frase impegnativa, che per altro rispondeva alla sua visione della fragilità dell’equilibrio italiano: “Professiamo pieno rispetto della Costituzione e ci impegniamo ad attuarne, nelle condizioni politiche idonee e quindi con un gradualismo prudente, ma non rinunciatario, tutte le norme”. Era evidente il richiamo alla diatriba sulla questione regionale.
Vogliamo infine riconfermare qui, come un modo essenziale di essere dello Stato democratico, la visione pluralistica e libera della società che è propria della D.C. Vogliamo riconfermare qui che noi siamo in favore, secondo una nostra originaria intuizione, delle autonomie locali, garanzia di libertà, freno efficace all’accentramento dello Stato, strumento di selezione di utili energie e competenze, modo insostituibile di autogoverno e di responsabile soddisfazione di rilevanti interessi comuni, le autonomie locali vanno arricchite di contenuto, difese contro il soffocamento dello Stato, ma anche contro l’utilizzazione polemica contro il regime democratico, meglio regolate, quanto all’ordinamento, in armonia con la Costituzione, fornite di un’efficace finanza locale, aiutata dallo Stato soprattutto in centri grandissimi del Paese i quali esplicano compiti straordinari e non assolvibili senza l’aiuto dello Stato.
Per queste ragioni “noi abbiamo altresì detto e confermato che questa è una grande riforma, un rinnovamento autentico e in profondità dello Stato democratico e che a questa riforma, che non è stata e non è in nessun modo abbandonata ed anzi ha fatto passi significativi verso l’attuazione, deve essere applicato quel criterio di prudente gradualismo che deve presidiare la pur necessaria e completa attuazione della Costituzione”.
Uno dei temi portanti della campagna sarebbe però stato il confronto che si rendeva necessario con il grande sviluppo economico-sociale e la grande trasformazione per il Paese che questo aveva comportato. Il partito non poteva sottrarsi al confronto con questo passaggio epocale.
La D.C. è e rimane innanzitutto un partito di popolo. Suo essenziale compito, in un’epoca in cui il nostro Paese vive una delle trasformazioni economiche e sociale più grandi della sua storia, è di realizzare, nella libertà e nella pace interna ed internazionale, una maggiore giustizia. Il profondo rinnovamento sociale ed economico della società italiana ed il compiuto sviluppo del sistema delle libertà democratiche sono strettamente legati e interdipendenti. Nessuno sviluppo sociale varrebbe ai fini della giustizia ed a quelli del progresso, se esso dovesse significare la diminuzione e lo svuotamento dei diritti fondamentali della persona umana.
[…]
La continuità del nostro sviluppo al ritmo intenso che esso ha dimostrato di saper raggiungere negli anni in corso sarà quindi la preoccupazione prima di ogni attività di Governo nel corso della prossima legislatura; e l’esperienza in corso ci dice che il tipo di azione che discende dai principi che ispirano le politiche propugnate dal nostro partito è pienamente conforme all’obiettivo della continuità e della intensità dello sviluppo, obiettivo che, ripetiamo, è pregiudiziale ad ogni altro obiettivo della attività di un governo. Il graduale conseguimento di una situazione di pieno impiego, se è risultato di enorme portata economica e sociale, non determina affatto – in modo che si potrebbe dire automatico – una graduale soluzione dei nostri maggiori problemi.
In questo contesto si inseriva il discorso sull’intervento pubblico nella sfera economica, altro punto dolente sollevato dalle polemiche della destra. Moro faceva notare che “a chi invoca un ripiegamento dell’azione pubblica su posizioni tradizionali osserveremo che la maggior ricchezza oggi raggiunta dal Paese non vanifica i problemi di questo nostro tempo”, per pronunciarsi poi con chiarezza a favore della programmazione.
Ed è a questo punto che dobbiamo inserire a conclusione il discorso sulla politica di programmazione. Il procedere del sistema, con tutto quel che di positivo ha avuto e che non può certo essere negato, richiede oggi un’integrazione di iniziativa politica affinché appaia rispondente alle richieste ed alle aspettative dei cittadini. Per determinare uno sviluppo ordinato di tutto il sistema, occorre porre in essere una maggiore e più sistematica capacità di previsione, di indirizzo e di controllo da parte dell’operatore politico. E programmare significa appunto attuare questa previsione, questa direzione e questo controllo.
Aggiungeva, prendendo di petto uno degli argomenti della polemica della destra, che “non c’è incompatibilità tra programmazione e libertà democratiche; il programma è un metodo che l’azione pubblica deve adottare per risolvere problemi di cui tutti riconoscono l’urgenza e la gravità”.
Altro tema che era stato oggetto delle critiche alle riforme avviate dal governo Fanfani era la scuola. Qui ribadiva che alle nuove impostazioni la DC “si avvicina con animo aperto, attenta com’è sempre alla nuova realtà economica e sociale; ma essa ritiene suo dovere difendere della scuola italiana quella tradizione umanistica che non contrasta con la funzione propria della scuola nel mondo moderno” e spendeva una parola a sostegno della formazione professionale.
Vale la pena di riportare una presa di posizione in senso europeista, altra questione cara a varie componenti delle classi dirigenti, ma ancora non popolarissima. “L’Europa non è questo o quel Governo; non è questo o quell’uomo politico. L’Europa è qualche cosa che va al di là delle lunghe more che sembrano precedere l’affermazione di ogni grande obiettivo politico. Per i cattolici italiani l’idea europea rappresenta la sintesi delle proprie esperienze civili e sociali e la proiezione storica di un grande disegno politico. Siamo dunque per un’Europa unita, democratica, saldamente inserita nell’Alleanza occidentale, aperta verso il resto del mondo.
Non poteva mancare la consueta polemica col PCI e col comunismo, a cui “abbiamo offerto un’alternativa democratica e sociale, non una reazionaria e conservatrice”, ma una volta di più Moro interveniva a ribadire ed a sottolineare l’incompatibilità dell’opposizione dc con le tesi delle destre.
Nessuno può stupirsi perciò se non ci ha trovato ieri e non ci trova oggi accanto a quelle forze che sono chiuse nell’abitudine e nell’interesse, che non hanno ideali umani da proporre, che non hanno aperte prospettive verso il domani. Forze immobili nella nostalgia e nella insensibilità, perennemente vicine all’abuso del potere, al predominio delle caste, se occorre, senza scrupolo, alla tentazione della violenza ingiusta e sbrigativa. Siamo qui a ripetere anche a destra il nostro fermissimo monito di fronte a forze politiche fasciste o fascisteggianti, che risolvono i problemi dell’ordine sociale al di fuori dell’uomo e della libertà. Sul piano dell’opinione pubblica del resto, queste voci, che riecheggiano interessi e vedute di pochi contro interessi e vedute di molti, che non accettano il gioco difficile e paziente dell’emergere di una volontà comune, di una volontà di popolo, su di una larghissima piattaforma di libertà e di responsabilità, sono naturalmente senza risonanza nel Paese. Per passare hanno bisogno di una mascheratura e di una deformazione di comodo; hanno bisogno di fare appello a sentimenti irrazionali, per carpire un consenso equivoco e rischioso.
Certo il segretario era consapevole che uno dei nodi che poneva la destra cattolica, ma anche settori cospicui dei ceti dirigenti del mondo economico e culturale, era il rapporto con il partito liberale, la cui “alta ispirazione democratica” egli non voleva negare. Eppure “nessuno che guardi alla crescente consapevolezza di larghi settori della società italiana ed ai problemi che propone una società, come questa, in crescita tumultuosa, può considerare senza preoccupazione una situazione nella quale abbia una posizione veramente condizionante e qualificante il Partito liberale. Sarebbe una situazione fatalmente, al di là di ogni volontà, priva di respiro e di prospettiva, uno schieramento che verrebbe qualificato decisamente a destra contro un formidabile fronte di opposizione con la tendenza a consolidarsi e farsi uniforme”.
Non si poteva certo evitare il problema dell’apertura al PSI. Moro affermava una volta di più che lo scopo era “di rendere possibile un più vasto autocontrollo per la grande impresa di assestamento di una società in movimento su di un gradino più avanzato di giustizia e di libertà. Questo il grande disegno contro il quale non valgono né la superficialità di giudizio né la meschina polemica”. E tuttavia ci si doveva muovere con cautela e questo spiegava ciò che veniva presentato dalla polemica socialista come un blocco sulla via delle intese. A questa lettura il segretario rispondeva contrapponendo la sua.
Alla nostra battuta di arresto corrisponde, se non una formale inadempienza, una carenza della posizione del Partito socialista che non è in atto, ma dovrà pur essere domani, nelle condizioni di assumere un completo impegno di corresponsabilità politica in una sostanziale concordia su tutti i temi dirimenti della politica di un governo e di una maggioranza parlamentare. A questa assunzione di responsabilità, a questa netta e definitiva chiarificazione il Partito socialista è sospinto, oltre che dalla coscienza democratica e dalla sensibilità politica dei suoi più responsabili interpreti, anche da una occasione storica, che lo fa arbitro di un inserimento profondo d’importanti forze lavoratrici nella vita democratica ed al vertice dello Stato. Un’occasione è stata offerta, ma essa chiede il coraggio delle grandi decisioni. È troppo facile considerare tutto già fatto ed accusare gli altri di inadempienza. Ma tutti abbiamo lavorato e tutti dobbiamo lavorare, per rendere più ampia, viva e sicura la democrazia italiana.
La conclusione era che se si voleva procedere sulla strada intrapresa era necessario lavorare per mantenere la forza anche elettorale della DC.
Moro aveva in sostanza impostato le linee della sua pedagogia elettorale che avrebbe con pazienza ripresentato con continue puntualizzazioni e perfezionamenti in una campagna in cui si sarebbe speso senza riserve. Ripercorreremo alcuni passaggi che ci sembrano indicativi per comprendere sia il disegno che perseguiva, sia gli aggiustamenti parziali a cui si sarebbe poi piegato a seguito dell’esito del voto.
Parlando il 4 aprile in un contesto non certamente molto favorevole come il congresso della Coldiretti, ci teneva a riaffermare la “continuità” della politica dc, pur avvertendo che “nella continuità della sua azione la Democrazia Cristiana adopera di volta in volta gli strumenti che si rivelano più idonei. Perché infatti la vita politica è varietà, propone esigenze e sollecitazioni diverse che richiedono ciascuna un modo proprio di corrispondere. (…) Come ci ha insegnato Alcide De Gasperi” (un richiamo allo statista trentino già presente, ma che tornerà più volte nei discorsidi questo periodo).
Consapevole dei sentimenti della platea a cui si rivolgeva, Moro dedicava molta attenzione alla questione dell’apertura al PSI presentandola come un esperimento che era ancora sotto giudizio. “Noi abbiamo sempre detto, appunto, che si trattava di un tentativo, di un’esperienza per vedere se fosse possibile chiamare il PSI ad una corresponsabilità politica. Si tratta dunque di un cammino sperimentale”. Se si riteneva “valido il tentativo che abbiamo compiuto come sollecitazione di un cammino che deve essere percorso”, ci si doveva muovere con cautela: “Non c’è dunque una involuzione [rispetto a quanto deciso al congresso di Napoli], né una spregiudicata volontà di fare qualunque cosa”.
Per mostrare la sua consapevolezza delle difficoltà del momento polemizzava con Riccardo Lombardi che aveva denunciato “ambiguità” nella DC per cui chiedeva un indebolimento di quel partito rispetto al PSI. Tuttavia, pur rilevando difficoltà di dialogo coi socialisti, ribadiva, e considerando la platea a cui si rivolgeva erano parole impegnative: “Per quanto riguarda la Democrazia Cristiana abbiamo detto che alternative a destra non ne vediamo. E non mi riferisco solo alla destra estrema, ma anche alla destra moderata presente nell’area democratica e con la quale non è mai esistito un accordo esclusivo. Ove questo accordo per una cabala matematica diventasse possibile – e si tratterebbe di una DC più debole e di un PLI a sue spese reso più forte – neppure potremmo indicarlo quale prospettiva utile, perché si tratterebbe di una posizione di vertice che qualificherebbe a destra la Democrazia Cristiana”.
Parlando l’8 aprile ai dirigenti del partito a Salerno, Moro tornava sul tema della unità nella continuità respingendo le polemiche che vedevano “rotture” nei comportamenti della DC.
Quando, riaffermando la posizione dominante della Democrazia Cristiana, diciamo: vogliamo richiamare a noi tutte le forze capaci di operare sul terreno democratico, siamo nella tradizione degasperiana, la quale ha posto l’accento sulla valorizzazione delle forze politiche, sulla necessità di creare un largo fronte delle forze della libertà. Lo sforzo fatto di arricchire, ravvivare questo fronte, di sospingere coloro che sono ancora in una posizione non completamente chiara, a fare il cammino necessario, è nell’ambito della nostra tradizionale linea politica. Abbiamo aperto una prospettiva costruttiva che renda possibile, se vi sarà buona volontà, il cammino che il partito socialista italiano deve compiere. Ma non abbiamo mai dimenticato le diversità ideologiche irriducibili, le rilevanti differenze politiche.
Se a Salerno aveva sottolineato che “la Democrazia Cristiana è naturalmente, al centro dello schieramento politico, garanzia di equilibrio e di stabilità politica”, in un successivo comizio a Paola l’11 aprile affermava con orgoglio: “Dopo anni di polemiche che cercavano di descrivere la DC come un partito invecchiato, diviso, incapace di esprimere una volontà unica, queste elezioni servono per dare, contro questa cattiva denigrazione, la vera immagine della DC. Altro che partito invecchiato, disunito. Siamo uniti, forti, consapevoli, responsabili, capaci di continuare ad assolvere il compito storico che ci è stato affidato e che per tanti anni abbiamo adempiuto”.
Per rispondere alle critiche del conservatorismo cattolico il 16 aprile pubblicava un articolo sulla rivista “Orizzonti” in cui rivendicava che l’impostazione cristiana di fondo “alla quale rimaniamo fedeli nella continuità del nostro impegno ideale, non è compromessa dalle collaborazioni con partiti ispirati a diverse ideologie. L’incontro con essi infatti è avvenuto ed avviene sul solo terreno politico e sulla base della collaborazione richiesta dalla vita democratica”.
In particolare, se “nel difficile processo della vita democratica la D.C. impegna la sua responsabilità di partito chiamato ad esprimere l’unità politica dei cattolici italiani, ad interpretare la tradizione cristiana del Paese, a mobilitare in questo spirito larghe masse di popolo”, non si doveva dimenticare che “affidiamo il successo della nostra battaglia alla forza di persuasione delle nostre idee ed alla naturale capacità di attrazione del nostro partito nel gioco democratico. L’insegnamento di De Gasperi non è andato disperso nella D.C.”. Per questo affermava con forza che “come non c’è stato il cedimento che la destra imputa alla D.C. per ridurne la forza e mortificarne la posizione dominante nello schieramento politico, così non c’è un integralismo della Democrazia Cristiana. C’è stata convinzione e forza nel professare i nostri ideali; c’è stata passione e forza nell’assolvere la nostra funzione politica. Ma il sistema democratico è intatto ed in esso il nostro gioco è libero e leale”.
All’attacco “violento, concentrico” contro la DC che veniva tanto da sinistra (PCI) quanto da destra (PLI), Moro rispose in un comizio ad Ancona il 16 aprile. I comunisti accusavano il partito cattolico di essere “il coagulo delle forze conservatrici e reazionarie”, per i giornali della destra “saremmo non un partito di sinistra, ma addirittura un partito marxista, pronto ad aprire le porte al Partito comunista italiano”, mentre “non siamo la destra che dicono i comunisti, e non siamo la sinistra che dice la destra; siamo una forza di garanzia e di espansione democratica. Questa è stata e continuerà ad essere la Democrazia Cristiana. I modi di tenere questo posto sono mutevoli col mutare delle circostanze storiche. Quello che resta fermo è che c’è un muro a destra ed un muro a sinistra che non supereremo mai”.
Era chiaro che la questione calda era sempre il significato dell’apertura ai socialisti, ma qui accanto ad un argomento politico che riprendeva tesi già viste se ne presentava uno nuovo. Il primo era espresso più o meno in termini consueti.
Non c’è nulla da rimpiangere di quello che è stato fatto perché lo sforzo di portare il Partito socialista italiano sul terreno democratico è uno sforzo di accrescimento e consolidamento della vita democratica. D’altra parte non c’è niente di strano nel fatto che abbiamo detto: entro questa forma sperimentale alcune cose si possono fare e altre no. Con il complesso di questa esperienza, dei problemi davanti al Paese, tra cui quello di una piena, auspicata assunzione di responsabilità democratiche da parte del Partito socialista italiano, ci presentiamo al corpo elettorale.
Il secondo riguardava una importante novità che veniva dal vertice della chiesa cattolica, con una enciclica che avrebbe fatto storia anche al di là degli ambienti religiosi, principalmente per il suo inserimento nel trend di allentamento delle tensioni internazionali, ma anche per avere introdotto la distinzione da osservarsi fra “errore” che andava respinto e combattuto, ed “errante” con cui si doveva mantenere il confronto e il dialogo, perché non era sempre detto che l’errante fosse appiattito sul suo errore.
Vi è un disegno armonico che abbiamo ritratto dall’insegnamento della Chiesa e si ritrova oggi in una originale organicità, in una straordinaria vivezza, in una grande forza emotiva, nella «Pacem in terris». È una grande offerta che la Chiesa fa al mondo di una dottrina, di una ricchezza spirituale e morale, che il mondo raccoglie con una attenzione tesa e rispettosa come non fu mai. Vogliamo raccogliere questo insegnamento come credenti, essendo fatti partecipi in prima linea di una grande esperienza religiosa, e come cattolici operanti nella vita politica, ai quali è dato questo mandato, di operare la traduzione fedele, nei programmi e nell’azione politica, dell’alto insegnamento di libertà, di giustizia, di pace.
Per spiegare le ragioni delle scelte politiche correnti, il segretario della DC scriveva un articolo per il settimanale “Epoca”, periodico che si riferiva ad una audience moderata, e lo faceva anticipare dal “Popolo” il 17 aprile. Sempre riferendosi agli attacchi che venivano da destra, affrontava il tema dell’atteggiamento del PLI:
Il torto dei liberali – ed è un fatto che li taglia fuori dal vivo della dialettica politica, che li estranea in qualche modo dalla realtà complessa e difficile del paese – è proprio di associarsi alla irriducibile incomprensione della destra, rozza incomprensione verso la Democrazia Cristiana e la sua vitale funzione, verso i dati storici del nostro tempo, verso il difficile e rischioso, ma non inutile, ma non comprimibile moto di assestamento su basi più ampie e sicure della vita democratica in Italia.
Ai suoi lettori, ma anche implicitamente ai suoi critici interni, Moro ricordava “la inesistenza di alternative democratiche, la insostenibilità di una innaturale e rovinosa scelta a destra”, nonché “le paurose oscillazioni della politica italiana, la tormentosa ricerca di soluzioni possibili ed utili, la drammatica evidenza dei problemi dell’allargamento dell’area democratica”. Aggiungeva, conformemente all’impostazione che dava alla sua linea politica, che si era sempre operato con cautela e prudenza.
E così si dimentica, per fare la polemica contro di noi, non solo la realtà delle cose, non solo la nobiltà del disegno e la larga prospettiva storica che lo ispira, ma anche il modo secondo il quale esso ha cercato e cerca di tradursi in atto. E cioè la prudenza, la vigilanza, la tesa attenzione, la piena consapevolezza, la costante iniziativa della Democrazia Cristiana, la quale, come non può rinunziare per la sua posizione altamente responsabile a far muovere verso obiettivi validi e vitali la realtà politica, così neppure può rinunziare, come in effetti non ha rinunziato, al suo diritto, al suo dovere, alla sua indeclinabile responsabilità di controllare la rotta, di verificare giorno per giorno che tutte le finalità politiche avute di mira si vadano realizzando, di segnare essa il ritmo di questo importante svolgimento e non già arbitrariamente o con prepotenza, ma alla stregua delle esigenze della democrazia e degli interessi del paese dei quali tutti essa è garante.
A conferma di questa cautela citava la posizione presa sulla questione delle regioni, sebbene continuasse a mantenere aperta la prospettiva di una evoluzione che adesso spettava al PSI portare a maturazione. “Ben altre sono le condizioni di un incontro organico e durevole ed esse mancano in questo momento. È per esse appunto che sono attese decisioni socialiste, decisioni coraggiose, tali da aprire veramente una nuova strada. Questa, e non altra, come si mostra di credere, è la nostra deliberazione di Napoli che andiamo svolgendo attenti rigorosamente a tutti i limiti come a tutti i dati positivi”.
In un comizio all’Aquila il 18 aprile riprendeva il tema della apertura a sinistra affermando che “Nessun partito che abbia la forza e la responsabilità della Democrazia Cristiana può disinteressarsi di quel che avviene alla sinistra dello schieramento politico dove c’è la temibile forza del Partito comunista che si deve isolare. Ci siamo così richiamati a De Gasperi, al suo disegno volto a rendere più forte il fronte della libertà”. Al pubblico ricordava la complessità dell’operazione.
E in vista di questo obiettivo abbiamo voluto non solo raccogliere le forze sicuramente democratiche, ma anche aprire una prospettiva di responsabilità democratica al Partito socialista italiano, porlo in grado di passare dal terreno sterile del massimalismo e della protesta al terreno della responsabilità democratica. Ci siamo trovati contro una parte della stampa di opinione, la diffidenza di ambienti talvolta abilmente manovrati, ma siamo riusciti a tenere l’esperimento nei suoi limiti con l’iniziativa e l’avallo della Democrazia Cristiana. E abbiamo dimostrato di saperlo fare, quando abbiamo resistito sulle nostre posizioni su tutti i temi irrinunciabili della nostra battaglia politica e quando abbiamo voluto una battuta d’arresto sulle regioni.
Tuttavia non nascondeva che uno dei nodi della questione stava a suo giudizio in casa socialista. “La DC perciò propone un problema di sviluppi ulteriori, di decisioni coraggiose del PSI. Essendo aperto questo problema, che non può essere chiuso che dal PSI, noi non possiamo offrire all’elettorato soluzioni perfette. È cosa che non si deve chiedere a noi, ma agli altri”. Si avevano di fronte “i nuovi problemi economici, sociali, politici, l’esigenza di nuovi atteggiamenti delle forze politiche, di nuovi assetti, di nuove collaborazioni”, si coglieva che “il Paese chiede la novità e noi vogliamo corrispondere ad essa”, perché, sottolineava, “ci sentiamo giovani, capaci di affrontare la realtà nuova che preme”. Anzi Moro si lasciava andare ad una notazione interessante. “Qualcuno ha voluto scherzare su quelli che si chiamano i miei giochi di parole, in particolare sull’affermazione: novità nella continuità. In realtà c’è una svolta nel Paese, nelle esigenze e nei problemi nuovi, questa è la novità: ma noi neghiamo che essa richieda una brusca rottura con il passato, e questa è la continuità. Chi immagina che alla novità si corrisponda con forze diverse dalla Democrazia Cristiana sbaglia perché il Paese ha bisogno della nostra forza”.
Certamente il segretario doveva tenere conto di un contesto in cui il tradizionalismo conservatore era forte. Così al congresso delle donne rurali il 19 aprile si esprimeva in termini meno aperturisti di quanto aveva fatto di fronte alla componente femminile del partito. Pur puntualizzando infatti che “se infatti il pensiero dominante della donna è la famiglia, essa tuttavia trova ogni giorno di più un modo proprio e significativo di partecipazione alla realtà del nostro Paese in piena dignità e parità di diritti”, faceva seguire considerazioni più in linea col tradizionalismo cattolico.
Noi vogliamo mantenere integri principi e valori religiosi e morali, non limitandoci ad una generica adesione, ma impegnandoci ad una loro concreta attuazione nella vita sociale e politica del Paese. Di qui la difesa del libero esercizio da parte della Chiesa della sua missione, redentrice, la tutela dell’integrità morale della famiglia, dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale, la garanzia di piena libertà per le iniziative educative e d’insegnamento. Se lo Stato ha nell’ambito dell’ordinamento scolastico una sua alta funzione, deve pure essere assicurata la facoltà di scelta che spetta alle famiglie e la piena libertà ed efficacia delle iniziative educative e di istruzione.
Per raggiungere quel pubblico che più era ostile alla politica del centrosinistra, Moro scriveva un articolo per il “Corriere della Sera”, roccaforte dei critici della sua politica. Pubblicato il 20 aprile partiva dalla rivendicazione della continuità della politica del suo partito, chiarendo però che “è una continuità questa, s’intenda bene, che non riguarda una politica timida e di respiro limitato. Nella nostra azione di ieri e di oggi, non vi è dunque rinuncia alla novità, alla iniziativa, all’utile aderenza alla realtà sociale e politica in evoluzione. La continuità è nel movimento, ieri come oggi, ma in un movimento ordinato ed equilibrato”.
Un tema su cui il quotidiano di via Solferino s’era speso molto era l’opposizione alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Dopo aver rivendicato che “il nostro programma dice chiaramente che non ci siamo trasformati per strada in un partito classista e collettivista” e che quella nazionalizzazione sarebbe rimasta un unicum, puntualizzava però che la programmazione economica ero uno strumento di modernizzazione compatibile con un’economia fondata sulla libertà di impresa.
Noi crediamo che la libertà consenta e richieda forme di coordinamento, vincoli di solidarietà, interventi correttivi ed orientativi dello Stato. Del resto anche in passato, quando la straordinaria espansione della vita economica e sociale si è realizzata al di fuori di pericolosi livellamenti collettivistici, non sono mancate precise assunzioni di responsabilità della collettività nazionale e misurati, ma penetranti interventi dello Stato. Questo è il senso per noi, anche se con le caratteristiche di una più piena consapevolezza e di un impegno più vivo, della politica di programmazione economica destinata a dare un ritmo unitario ed organico alla multiforme azione dello Stato con riferimento alla vita economica ed a delineare un quadro razionale per l’attività economica privata, la quale vi si inserisca con il sussidio di un’apprezzabile certezza e con la esatta visione degli interessi collettivi, i quali al di là dell’episodico e del momentaneo, coincidono sempre, in un regime libero, con i legittimi interessi dei singoli.
Questa politica era necessaria per lo sviluppo contenendo le diseguaglianze e in questo quadro si collocava anche il potenziamento della scuola pubblica (altra riforma che il “Corriere” aveva guardato con sospetto). Moro ci teneva a spiegare che una politica di sviluppo implicava una prospettiva di apertura al PSI, pur da perseguirsi con cautela.
Quando abbiamo accettato la presente formula di Governo, abbiamo obbedito ad una situazione di necessità per l’evidente mancanza di alternative democratiche, ma abbiamo compiuto insieme un atto consapevole di scelta. Abbiamo guardato al valore che avrebbe una definitiva collocazione del Partito socialista nell’area democratica, al significato dello svincolo di questo partito da un pericoloso collegamento con il Partito comunista, alla prospettiva dell’isolamento dell’estrema sinistra totalitaria. Ma non abbiamo ignorato le differenze d’ideali e di programmi, i rischi dell’impresa, la precarietà e debolezza delle formule sperimentali, le sole che finora si potessero adottare, la necessità di un più deciso e pieno impegno politico del Partito socialista
Non si poteva garantire che i socialisti avrebbero continuato su quella linea, ma la Dc sarebbe stata responsabile ed attenta nel perseguire i tentativi di percorrere la strada nuova.
Parlando il 21 aprile a Napoli proclamava fiducia sul fatto che il nostro elettorato non “possa anche in minima parte voltarci le spalle ora che stiamo per iniziare un nuovo ciclo dell’azione per portare a un livello ancora più alto di giustizia, di cultura, di libertà il nostro Paese”. Seguiva un attacco di rito al PCI che faceva “demagogia” nel Mezzogiorno, ma altrettanto si contrapponeva alle destre che in quei territori raccoglievano non pochi consensi. E qui è di particolare interesse la lettura che Moro offre di De Gasperi e della sua politica.
Non è certo una accusa di oggi, è una accusa di sempre, è l’accusa che veniva fatta a De Gasperi1, che la destra ostacolò quando, contro di lui, si rivolse l’attacco personale e offensivo di coloro che sembrano oggi volerci accusare d’aver tradito De Gasperi. C’è una appropriazione indebita del centrismo mal compreso di De Gasperi. Lo accusavano quasi di tradimento della Nazione quando egli firmava il trattato di pace dicendo che esso sarebbe stato superato: e fu superato perché quello è il punto di partenza del nostro inserimento efficace nello schieramento internazionale. Lo accusavano quando si contrapponeva a destra. Non l’ho inventata io la chiusura a destra della D.C.; non è essa una mia ossessione. Mai De Gasperi ha ammesso potesse cadere quella differenziazione per la quale noi siamo irriducibili alla destra.
Il segretario polemizzava un poco anche con i socialdemocratici, ma soprattutto coi liberali che apertamente accusava di propaganda demagogica e menzognera quando accusavano la DC di fare dell’intesa col PSI la premessa di quella col PCI, giungendo a dire che “benché sia opposizione, il Partito liberale italiano opera contro la verità, contro gli interessi del Paese quando persegue in modo preciso l’obiettivo di umiliare e battere la Democrazia Cristiana”.
Consapevole che specie al Sud la questione della proposta di riforma urbanistica aveva incontrato dure opposizioni per una propaganda interessata che l’aveva presentata come un veicolo per l’esproprio delle case, affrontava apertamente il punto.
Negli ultimi tempi è stato tirato fuori lo schema di legislazione urbanistica, ignorando che non si tratta di legge, né di progetto di legge, perché non fu mai sottoposto all’esame del Consiglio dei Ministri, ma del frutto di una indagine compiuta nell’ambito del Ministero dei lavori pubblici, passato subito al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, invertendo la procedura tradizionale proprio per esaminare il tema con la massima limpidezza e penetrazione. E fin dall’inizio abbiamo espresso riserve su alcuni punti e abbiamo ribadito che la Democrazia Cristiana è impegnata sul suo programma nel quale è stato scritto, prima che si sviluppasse questa polemica, che la Democrazia Cristiana continua la sua tradizionale politica, rivolta a dare la casa in piena proprietà a tutti gli italiani.
Avendo presente questo clima, il segretario insisteva anche un poco più del solito sui limiti e sulle cautele con cui si andava al confronto coi socialisti, chiarendo che il percorso era ancora in fase di costruzione: una puntualizzazione che da questo momento in poi ci pare si sarebbe fatta più frequente nei suoi comizi.
Tuttavia abbiamo offerto di cominciare un cammino ben tutelati. Abbiamo ribadito l’obiettivo della differenziazione tra socialisti e comunisti, dell’isolamento comunista, di consolidare davvero la vita democratica del Paese. Abbiamo dato vita a un governo che ha lavorato fecondamente pur tra grandi difficoltà. A Napoli abbiamo detto che si poteva cominciare a camminare, non abbiamo detto che andavamo verso un collegamento organico, non abbiamo stabilito le condizioni per questo collegamento. Nessuno si deve stupire se abbiamo controllato il cammino, se abbiamo detto «no» all’attuazione dell’ordinamento regionale per ricordare che vi è ancora della strada da percorrere, che le cose più importanti richiedono una reale stabilità politica, un incontro organico tra i partiti democratici, un comune impegno su tutti i temi dirimenti della politica interna ed estera, sulla cui solidità si fanno le grandi riforme dello Stato democratico.
Una rilevanza del tutto peculiare assumeva l’intervista rilasciata al direttore de “L’Avvenire d’Italia”, Raniero La Valle, pubblicata il 23 aprile. Non si trattava solo del quotidiano storicamente capofila della stampa cattolica, ma La Valle, che aveva lavorato al “Popolo” anche sotto la direzione di Moro prima di approdare a Bologna, stava per farlo diventare l’autorevole organo di fatto del progressismo conciliare che faceva riferimento al cardinal Lercaro. Dunque in quella sede Moro parlava al mondo cattolico attraverso la mediazione di un esponente della sua ala riformatrice.
Infatti il direttore apriva subito richiamando come “uno dei momenti più alti e più nobili della discussione di Napoli” il progetto/speranza di far entrare una nuova cospicua quota di italiani nel lavoro di costruzione dello stato democratico. Alla domanda il segretario della DC rispondeva in modo molto articolato, quasi un manifesto indirizzato alla audience del cattolicesimo politico.
Il vero significato, significato politico nel senso più alto della parola, dell’esperimento di collaborazione con il Partito Socialista da noi avviato a Napoli, è in quella prospettiva (…) Si trattava e si tratta di offrire una prospettiva di partecipazione positiva, ordinata, efficace a quelle forze popolari, quali, in linea di principio, quelle socialiste, le quali rifiutano la pregiudiziale antidemocratica propria dei comunisti ed accettano e si propongono di approfondire i valori di libertà nella vita sociale e politica. Si tratta di offrire in cambio della protesta e del massimalismo la misura e la responsabilità; in cambio dell’azione eversiva un effettivo esercizio del potere democratico.
Il passaggio dall’una posizione all’altra è certo lento, tormentato e difficile; il che spiega l’andamento graduale ed incerto del processo di autonomia socialista, con il quale indichiamo non solo il disancorarsi di quel partito dalla pressione e dalla suggestione del partito comunista, ma anche il progressivo emergere di una piena comprensione delle complesse esigenze della comunità nazionale [non di una sola classe cioè – NdR] e di quel senso di misura, di serietà e di responsabilità che abilita all’esercizio del potere.
Questo spiega la formula di Governo sperimentata dopo il Congresso di Napoli e cioè la accettazione di un modo di contatto indiretto con il PSI [dunque era necessaria gradualità – NdR]
[…]
Se si vuole invece adoperare un metro di mediocrità, appaiono ovvie l’impazienza e l’insoddisfazione. Essendo dunque questo che abbiamo descritto un fenomeno non di vertice (o non solo e non tanto di vertice), ma di base, capisco la sua curiosità di conoscere i riflessi dell’esperimento sui quadri e gli elettori del PSI. Credo però che a questo punto, alla immediata vigilia delle elezioni, sarebbe imprudente esprimere sulla base di dati sommari e parziali un giudizio politico. Si può dire che questa maturazione è diversa da luogo a luogo in rapporto a complessi fattori.
Alla domanda su cosa avesse fatto la DC con prudenza e cosa con coraggio, Moro rispondeva con una premessa: “Posso dire, per quanto riguarda la mia posizione di sempre viva preoccupazione ed insieme di speranza, che il coraggio, il quale non è certamente mancato al mio partito, era condizionato, direi, era reso possibile dalla prudenza con la quale si era impegnati ad operare e si operava davvero, esplorando il terreno prima di muoversi e controllando il cammino passo passo”. Dopo di che, riproponendo interpretazioni che abbiamo già visto, imputava al coraggio la nazionalizzazione dell’energia elettrica e alla prudenza il freno sulla questione delle regioni.
Si passava quindi ad una domanda sull’importanza dell’enciclica “Pacem in terris”, molto valorizzata dal segretario dc che ne ricordava i tratti salienti. Si veniva così ancora una volta al tema del significato da dare alla politica di un partito cattolico. La Valle, certo consapevole di fornire un assist al suo intervistato, così la formulava: “Con il miglioramento del tenore di vita si va facendo sempre più chiaro che il compito di una classe dirigente consapevole − e cristiana – non è solo quello di promuovere un più alto sviluppo economico, ma di perseguire, anche attraverso gli strumenti economici, fini di generale sviluppo civile, culturale e morale. Quali sono stati, nella trascorsa legislatura, i fatti positivi da questo punto di vista, e che cosa la Democrazia Cristiana pensa di fare in questo senso nella prossima legislatura?”
Significativamente Moro citava come evento chiave la tematica della scuola con la relativa riforma (“che, sia detto incidentalmente, nessuno ci ha strappato quasi che vi fosse incertezza nella DC circa la necessità di una larga scuola di base, aperta a tutti, diffusa largamente nel territorio nazionale, non assolutamente uniforme, ma capace di non accentuare ed anzi di attenuare le differenze sociali”), sottolineando l’impegno a “salvare, come un necessario coefficiente di armonico progresso, il vigoroso orientamento umanistico della scuola italiana” (il che in maniera un po’ criptica rinviava alle polemiche sui cambiamenti circa l’insegnamento del latino). Tuttavia un aspetto delicato e assai agitato dagli ambienti del cattolicesimo conservatore rimaneva la difesa della promozione della “moralità”, nonché la questione delle scuole private, e Moro non mancava di prendere prudentemente posizione.
Sappiamo bene che in questa materia vi è un delicato problema di contemperamento dei diritti di libertà di espressione e dei valori morali ed educativi. Noi sappiamo di dover avere sensibilità per entrambi questi aspetti, senza che mai passi in secondo piano per una sorta di timidezza e di conformismo, quella preoccupazione morale, non in forma repressiva soltanto, ma anche positiva, che deve essere propria della nostra aperta professione di fede cristiana, della responsabilità che assumiamo quale partito che esprime in modo unitario sul terreno politico i cattolici italiani. Tutti i valori morali e religiosi, tutte le esigenze proposte dalla coscienza cristiana del nostro paese e dall’elettorato cattolico, e soprattutto quelle relative ad una reale libertà e parità della scuola non statale, troveranno in noi la difesa più ferma e più convinta.
Il segretario continuava i suoi interventi sulla stampa nel tentativo di coinvolgere il più ampio spettro possibile della pubblica opinione, come testimonia un suo articolo sul settimanale “Oggi” che l’avrebbe pubblicato il 2 maggio ad urne chiuse, ma che fu anticipato sul “Popolo” il 25 aprile. Sapeva di rivolgersi ad un pubblico molto moderato e in parte decisamente conservatore (il settimanale si era distinto per aver pubblicato molte memorie più o meno “indulgenti” verso il ventennio fascista) e dunque sensibile alle accuse di arrendevolezza verso le sinistre da parte della DC. Per questo puntualizzava:
La contesa per la vittoria sull’area totalitaria è una degna impresa; la contesa nell’area democratica, per uno scambio all’interno di essa, lo è assai meno; è un gioco comodo, è la scelta della via più facile, senza che il movimento che così si vorrebbe determinare abbia alcuna utilità per il paese. Noi anzi francamente lo riteniamo dannoso ed ingiustificato. Dannoso perché tende a contrapporre al comunismo ed alla presenza totalitaria tutta intera un fronte meno robusto per una articolazione eccessiva ed in qualche misura paralizzante. Ingiustificato perché i nostri voti sono largamente legati ad un peculiare modo di essere della realtà italiana, alla forza che in essa hanno valori religiosi e morali ai quali la Democrazia Cristiana s’ispira, alla facilità, alla naturalezza, direi, con le quali intorno a siffatti ideali si è realizzata e si realizza questa vasta mobilitazione popolare, che in altri paesi invece si compie alla luce degli ideali laici (anche se rispettosi del patrimonio della fede religiosa) dei partiti ad ispirazione socialdemocratica.
Alle destre non piaceva la politica di progresso con cui la DC combatteva il comunismo. “In realtà ieri ed oggi vi è la profonda irritazione di non potere disporre di una grande forza popolare e cristiana per una politica conservatrice gradita a ristretti ceti sociali. C’è l’illusione di potere spostare decisamente a destra l’asse politico del Paese, premendo sulla Democrazia Cristiana o privandola di una parte della sua forza”. Il segretario dc ribadiva però che indebolendo il suo partito si rafforzava il fronte comunista come finiva per fare anche il PLI. “A questo stesso risultato perviene anche la polemica liberale la quale pur partendo da una sicura ispirazione democratica finisce per allinearsi, nei suoi motivi critici e nella sua volontà ossessiva di battere la Democrazia Cristiana, con quella dell’estrema destra. Anche qui l’efficacia dell’azione di rottura perseguita con tanto zelo e, mi sia consentito dirlo, con grave alterazione della realtà, delle intenzioni, delle prospettive effettivamente aperte dalla Democrazia Cristiana, porterebbe ai risultati che ho sopra indicato, avrebbe l’effetto di indebolire le forze di libertà e di dare nuovo vigore alle forze della sinistra”.
La battaglia era aspra e se ne percepivano le incertezze come appare anche dall’appello al voto che il segretario stilò e diffuse il 26 aprile. Non mancavano toni quasi drammatici: “Basterebbe la flessione di una parte, anche limitata, dell’elettorato, basterebbe la disattenzione di un giorno, il 28 aprile, per fare tornare la insicurezza in Italia, per dare vigore nuovo alle forze politiche fascisteggianti nel nostro Paese, per rendere soprattutto, più incisiva e minacciosa la iniziativa comunista, finora mortificata e tenuta a bada dai partiti democratici”. Rispondeva però subito all’accusa frequente che riguardava la richiesta di rafforzare il suo partito: “Non lo facciamo con spirito integralistico, come si dice, perché noi siamo nella nostra schietta e dominante ispirazione cristiana dei democratici e, come tali, favorevoli, oggi, come ieri, a fruttuose e intense collaborazioni politiche. Non chiediamo l’esclusiva del potere”. La DC era favorevole alle collaborazioni come mostrava la sua storia.
Richiamato il significato della ricerca di possibili intese con il PSI, per quanto prudenti, concludeva anche citando espressamente due punti significativi.
Io vi dico, con profonda convinzione, che noi non siamo cambiati.
Ripetiamo che la nazionalizzazione dell’energia elettrica è un provvedimento giustificato, ma eccezionale. Altre nazionalizzazioni non vi saranno, e neppure quella del suolo urbano, di cui si parla con maliziosa e infondata polemica. Ma nessuno tema che manchi, come non è mancata ieri, una organica e penetrante azione della collettività, per risanare intollerabili ingiustizie, per rompere situazioni chiuse di ristagno economico e sociale, per sostenere categorie sociali bisognose di solidarietà, per agevolare la generale ascesa della società italiana.
Almeno ufficialmente Moro sembrava fiducioso nel risultato delle urne come disse a Foggia il 26 aprile chiudendo la campagna elettorale. “Siamo di nuovo psicologicamente vincitori di questa competizione, lo diciamo in attesa di vedere confermato il nostro giudizio di oggi dalla responsabile decisione del corpo elettorale. Ma già sappiamo oggi che la D.C. ha rotto l’accerchiamento ostile.”
Tornava così sui temi classici. Quanto all’apertura al PSI notava che “questo è un primo esperimento di contatto, ma perché esso diventi organico occorre che il Partito socialista compia dell’altro cammino. Queste cose le abbiamo dette sempre e non solo quando a proposito delle regioni abbiamo detto che la loro attuazione non poteva entrare in una fase sperimentale ma solo in una prospettiva di accordo organico”. Dopo una difesa del significato che a suo tempo ebbe il centrismo, specificava, a proposito della politica in corso: “Rifiutiamo decisamente l’idea di una svolta a sinistra. Quello che abbiamo fatto, lo sforzo sincero e responsabile per allargare l’area democratica, e per una nuova rottura con il Partito comunista, non hanno niente a che fare con la svolta di cui parla il Partito comunista, il quale si lamenta giustamente di noi perché non gli abbiamo offerto nessuna speranza di inserimento, come protagonista, nella vita democratica del Paese”.
Ammoniva a “non arrestare lo sforzo contro l’eversione dei fascisti e dei comunisti, perché noi siamo una alternativa democratica cristiana al comunismo e al fascismo che minacciano il nostro Paese” e denunciava il fatto che ci fosse una spinta a rafforzare i partiti laici per indebolire la DC.
Le elezioni non andarono però come Moro aveva auspicato. La DC aveva perso il 4% attestandosi al 38,4%, un dato letto come una mezza catastrofe che avrebbe messo in crisi l’egemonia del partito cattolico. In realtà l’interpretazione drammatizzante dipendeva dalla constatazione del successo dei due avversari decisi del centro sinistra con cui aveva polemizzato il segretario: il PLI conosceva un (effimero) balzo dal 3,5 al 7%, il PCI cresceva del 2,58% raggiungendo il 25,3%. Anche l’incremento del 1,5% del PSDI che aveva fatto una campagna critica verso la DC, cosa di cui Moro si era più volte lamentato, ma che era stato sostenuto dalla stampa moderata, contribuiva ad incrementare la polemica anti Fanfani, se non anti Moro. Certo il crollo dei monarchici al 1,7% chiudeva definitivamente le porte all’ipotesi di un ritorno al centrismo aperto a destra, mentre il relativo successo del MSI che arrivava al 5,1% confermava gli allarmi del segretario verso l’estrema destra.
I socialisti non erano andati male, ma non erano neppure realmente avanzati il che lasciava quel partito invischiato nella diatriba fra autonomisti e sinistre interne. Fanfani divenne l’obiettivo dei dorotei che iniziarono a tessere la loro trama per portare Moro al governo, il che non solo garantiva una direzione dell’esecutivo meno decisionista, ma rendeva disponibile la segreteria del partito per il loro Rumor. Il politico pugliese appariva incerto sul da farsi: pur confessando a Fanfani che riteneva di “non avere né salute, né qualità” per quell’incarico si convinse che un suo rifiuto avrebbe spaccato il partito e reso impossibile il prosieguo della politica di centrosinistra. Così Fanfani fu costretto a piegarsi e il 16 maggio il governo si dimise aprendo una crisi complicata, perché la situazione all’interno dei socialisti non si era ancora definita e perché Saragat tramava con piani abbastanza confusi[67].
Il giorno dopo si teneva il Consiglio Nazionale della DC a cui Moro presentava una relazione molto impegnativa. Il segretario non nascondeva la nuova situazione in cui il partito si trovava ad agire.
Ci troviamo ad operare in condizioni sensibilmente più difficili, che non fossero quelle di ieri. Al di là da inutili recriminazioni siamo posti dinanzi ad un compito pesante ed indeclinabile. Dobbiamo tenere fermamente la nostra posizione. Dobbiamo essere fedeli al mandato ricevuto dall’elettorato, facendo, per quanto sta in noi, con le forze che ci sono state date, e, poiché esse sono minori, con una più alta tensione ideale, con un impegno ancora più pieno, le cose importanti, le cose essenziali che si attendono da noi per la difesa della libertà, la garanzia della vita democratica, la realizzazione, sempre più urgente, sempre più imperiosamente richiesta, della giustizia nel nostro Paese.
Si sarebbe continuato a lavorare nell’interesse del Paese e lo si sarebbe fatto “anche per gli uomini di poca fede che, in un momento di dispetto accecante e con una valutazione superficiale e sommaria della realtà politica italiana, si sono allontanati da noi” credendo di trovare alternative migliori. Lo si sarebbe fatto “opponendo alle accresciute difficoltà ed ai maggiori rischi la nostra unità, giustamente richiesta e ottenuta prima della battaglia e che viene richiesta, e speriamo sia data, perché ancora più necessaria, dopo una battaglia perduta”: e così riprendeva il tema della necessaria unità del partito che era un punto dolente viste le fibrillazioni a fronte dell’insuccesso nelle urne. Ringraziava l’impegno di tutti i membri del partito nella campagna elettorale, pur “senza disconoscere le nostre deficienze, la minore prontezza del Partito nel cogliere e dominare i movimenti di opinione” e tributava un convinto riconoscimento all’opera di Fanfani e del suo governo (che per la verità il diretto interessato trovava puramente formale e un poco ipocrita).
Dopo aver invitato a “rinunciare ad una polemica esasperata, ad un urto violento di opinioni, a tutto quello che può dividerci ed indebolirci in un momento nel quale abbiamo bisogno di tutta la nostra forza ed iniziativa e quindi della nostra fraternità, solidarietà ed unità”, passava però a presentare al suo uditorio l’analisi del contesto in cui non solo si era operato, ma si sarebbe dovuto operare in futuro.
Converrà ricordare anche le ombre, già notate, nell’azione del nostro Partito, la minore nostra capacità di cogliere e dominare, secondo la nostra intuizione, con un’efficace presenza, le condizioni nuove nelle quali si compie lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Le grandi trasformazioni sociali, gli spostamenti di popolazione, l’esodo dalle campagne, la nuova condizione della donna, portata largamente ormai fuori della famiglia, pongono gravi problemi ai quali un grande Partito di governo, con il complesso della sua azione a tutti i livelli, deve riuscire a dare una risposta. Una risposta costruttiva e convincente che possa battere, con un impegno serio e profondo, la demagogia protestataria del comunismo al quale non è aperta la strada della responsabile gestione del potere, bensì quella della raccolta e della utilizzazione a fini eversivi del malcontento, del disagio, dello squilibrio spirituale, prima che politico, che nasce dal nuovo. Ed infine dobbiamo riconoscere di avere pagato un prezzo, che la violenza, talvolta irresponsabile, della polemica ha reso particolarmente alto, alla politica nuova che, in obbedienza a difficoltà e problemi a lunga scadenza della società italiana, abbiamo cominciato a Napoli. Una politica nuova ed ardita non può dare certamente frutti immediati.
L’avanzata del partito comunista si spiegava in questo contesto. Favorivano il fenomeno “i larghi movimenti emigratori all’interno ed all’estero con lo sradicamento dell’ambiente, gli inevitabili disagi, l’allentamento dei vincoli familiari, la conoscenza di nuove situazioni e condizioni”, così come “il sempre più largo accesso delle donne al lavoro extrafamiliare ed il trasferimento, sempre più intenso, della mano d’opera agricola in altri settori e specie in quello industriale”. Si doveva tenere conto che “la inquietudine, l’insofferenza, una maturazione spesso affrettata e superficiale di opinioni politiche facilita allineamenti inconsueti e genera, forse involontariamente, posizioni di disordine e non di costruttivo assestamento sociale”, fattori che “implicano alterazioni psicologiche, sociali e di costume che non possono essere irrilevanti sul piano politico”. Insomma, a giudizio del segretario, “è presumibilmente nell’ambiente degli emigranti e delle loro famiglie rimaste divise, è in un inquieto ed ansioso mondo rurale, è in un crescente settore del mondo femminile che cambia condizione e si distacca dalla famiglia e dalla tradizione che il Partito comunista ha agito con un nuovo ed efficace proselitismo”.
Erano analisi strumentalmente utilizzate anche dal fronte conservatore, cattolico e non, per contrapporsi a quella che si sarebbe poi definita la modernizzazione, un fenomeno che andava contenuto perché avvantaggiava il progresso del comunismo. Moro non la vedeva così.
Si sente dire, in questi giorni, che il comunismo resiste ed avanza anche in tempi di crescente e diffuso benessere, anche in zone nelle quali non esistono più disoccupazione e disperazione ed anzi la condizione di vita, non solo nell’ordine economico ma anche in termini di dignità umana e di potere politico, è notevolmente elevata. Questo fatto è innegabile e dimostra a quali complessi fattori obbedisca una scelta politica. Certo il benessere, la vittoria sulla miseria, la liberazione dell’uomo, non sono per sé stessi garanzia dell’arretramento in Italia del Partito comunista. Ma nessuno potrebbe pensare che la grande azione per lo sviluppo economico ed il rinnovamento delle strutture sociali del nostro Paese possa non essere intensamente proseguita per obiettive ed indeclinabili ragioni di giustizia e per aprire la strada, al di là di pericolosi sbandamenti iniziali, ad una società democratica, solidamente fondata sulla giustizia.
Per il segretario a fondare l’opposizione al comunismo non erano tecniche di governo o ricerca di soluzioni ai problemi sociali, bensì “la nostra umana e cristiana concezione dell’uomo e della società, il culto che noi abbiamo della libertà, la nostra dedizione senza riserve né compromessi alla causa della democrazia che ha per noi un unico e non equivoco significato, tutto questo che è il nostro mondo morale, la nostra ragion di essere, la radice della fiducia, sempre così larga, dalla quale siamo stati confortati”. Il tema andava approfondito ed egli lo faceva con una asserzione impegnativa: “Se siamo impegnati a sinistra, in una importante opera di sviluppo democratico in termini di giustizia e di libertà, tanto più nettamente dev’essere tracciata, per dissipare timori ed equivoci, la barriera ideale, la ragione morale che ci distingue nettamente non solo dal sostanziale e latente spirito estremista e rivoluzionario dei comunisti, ma anche dal loro tattico ed insidioso riformismo”.
Seguiva naturalmente la riaffermazione dei rigidi confini ideologici che dovevano connotare la maggioranza. “La linea di confine, che anche verso una destra moderata è tracciata in forza di significativi programmi dettati dalla sensibilità verso i grandi temi dello sviluppo economico e sociale e dell’ingresso di masse di popolo nella vita democratica, a sinistra è definita non solo in termini di direttive di azione sociale e politica, al di là di tattiche e parziali coincidenze, ma da un profondo e radicale dissenso sui temi della libertà e della conquista e gestione del potere nello stato democratico”. Si trattava peraltro di confini che andavano posti anche a destra (il che certo non suonava gradito all’ala conservatrice del suo partito).
Ora, fermo restando il dato della massiccia e minacciosa presenza del Partito comunista, un’alternativa di destra alla presente coalizione di governo non è neppure immaginabile. Essa viene proposta in settori estremi dello schieramento politico più per una ragione propagandistica e di coerenza con la dissennata e distruttiva polemica della recente campagna elettorale che non per una seria e meditata convinzione. La destra, anche a volere includere in essa come un dato omogeneo il PLI, ha fatto progressi insignificanti. Essa non ha risonanza nel Paese. C’è appena bisogno di dire ancora una volta che un allineamento a destra della D.C., il quale dovrebbe giungere fino al Movimento Sociale saltando il ponte, ormai crollato, del partito monarchico, snaturerebbe il nostro partito, lo renderebbe sospetto ed incapace di efficace contrapposizione al Partito comunista, farebbe rifluire intorno al maggior partito di opposizione (e di opposizione antidemocratica) solidarietà di forze politiche e nuovi consensi elettorali.
Un’alternativa centrista era respinta sia dal PSDI che dal PRI, diventando “praticamente inattuabile”, per cui rimanevano in campo “le ragioni positive per le quali, pure avendo presenti le grandi difficoltà dell’impresa ed anche i rischi di essa (e tra essi quello della più grave incomprensione), il nostro partito si è mosso dal congresso di Napoli, in una piena e preziosa solidarietà con i partiti della sinistra democratica, verso un incontro graduale e garantito con il Partito socialista”. Non ci si doveva fermare. “Del resto le angustie e le preoccupazioni del presente momento politico, anche se inducono ad addebitare in parte a questa politica per insufficiente raccordo con l’opinione pubblica il regresso della D.C. (ed anche lo scarso successo del Partito socialista), portano pure gli osservatori più obiettivi a cogliere nella prospettiva politica così aperta e che noi abbiamo cercato di allargare, una ragione di speranza in una situazione così difficile”.
Moro respingeva i rilievi socialisti circa uno scarso impegno della DC a sostegno della politica di centrosinistra, perché non si teneva conto delle difficoltà del momento. “Mancheremmo al nostro dovere di chiarezza e di verità nei confronti dell’opinione pubblica, se dicessimo oggi che sono irrilevanti gli spostamenti intervenuti il 28 aprile, che nelle attuali circostanze il nostro compito, il compito del resto dei partiti democratici, si presenti agevole e di sicuro successo. Non è così, purtroppo. L’opinione pubblica deve sapere che il margine del gioco politico si è ulteriormente ristretto e che la nostra libertà di movimento è minore”.
Era consapevole di avere davanti un partito in preda a forti tensioni e che questo complicava la costruzione di soluzioni politiche. Per questo metteva in discussione innanzitutto sé stesso.
Potete bene immaginare, cari amici, quali siano stati (e, nel fondo, ancora sono) i miei sentimenti dinanzi al risultato di questa dura, difficile, sfortunata battaglia. Il senso amaro solo per le circostanze nelle quali ci si veniva a trovare, della piena disponibilità della mia persona e della mia carica nelle vostre mani, amici consiglieri nazionali. Una piccola cosa di fronte all’insuccesso ed ai compiti indeclinabili del Partito. Questa disponibilità è stata ed è totale e non si è espressa e non si esprime in una decisione pregiudiziale solo per senso di responsabilità, solo per la consapevolezza che non tocca a noi scegliere.
Perciò ammoniva nuovamente: “Non è il momento della dispersione, ma della valorizzazione; non è il momento della polemica, ma della costruzione; non è il momento dello sterile frazionamento, ma della unità”. La chiusura era indice di una forte tensione.
Ho reso sempre omaggio alle correnti, alla responsabile e ricca dialettica delle idee e non ho, neppure ora, cambiato la mia visione della vita umana e varia di un grande partito. Ma io vi chiedo ora, ma io vi scongiuro, amici, di avere il senso della misura, di avere il senso della responsabilità, di sentire le cose più grandi che incombono su di noi, di sacrificare ogni particolarismo e risentimento all’unità ed alla forza morale prima che politica, della D.C.
Moro era realmente commosso fino alle lacrime, tanto che Fanfani nel suo diario annota: “Lo abbraccio per consolarlo”[68]. L’opposizione della destra fu decisa, tanto che il sgretario nella sua replica dedicò molto spazio a controbattere Scelba, che aveva cercato di imporre quantomeno “modalità” per il confronto coi socialisti. Così puntualizzò che “quanto alle modalità di questo contatto, quali sono state indicate, io credo che una ragione di prudenza all’inizio di una fase delicatissima di rapporti politici con altri partiti ci suggerisca di non dare delle indicazioni estremamente precise in questa sede”, benché assicurasse il suo oppositore che “ascolto tutto quello che mi si dice e ne tengo il massimo conto”. Offrendo la garanzia che “tutto quello che io sento accolgo in me con un grande scrupolo, direi con tormento, perché tutto è vivo e presente nella mia coscienza”, si rivolgeva poi anche alla sinistra interna (Granelli) per sottolineare che “in questo momento è meglio frenare un poco il proprio impulso, per far affiorare l’immagine, anche all’esterno, di una Democrazia Cristiana non indifferenziata e rinunciataria, ma ricca di idee, ma responsabile nella sua visione delle cose, nell’assunzione della sua responsabilità politica”.
Il consolidamento dell’unità del partito rimaneva la grande preoccupazione di Moro.
Io vorrei augurarmi che non venisse un tempo proprio di pace, ma almeno di guerra fredda, per poter lavorare veramente, seriamente e solidamente all’interno del partito per preparare la nostra azione di contatto con l’opinione pubblica del Paese. So che molte cose dovremo fare sul piano politico e sul piano organizzativo nello studio della realtà nuova che si presenta nel nostro Paese. Mi pare che questo emerga soprattutto al di là delle vicende, degli errori, della nostra minore capacità di dominare le situazioni, degli slogan che possono essere stati non indovinati; è difficile pesare il significato di queste cose. Una cosa affiora chiaramente però: che l’Italia cambia e che la Democrazia Cristiana non può semplicemente conservare in passività il proprio elettorato, ma lo deve seguire nel rinnovarsi delle generazioni, nel mutare delle condizioni nelle nuove realtà sociali e umane che si vanno determinando.
L’auspicio che non si radicalizzasse la lotta politica, specie interna al partito, trovava una accoglienza limitata. Il Comitato Centrale del PSI riunitosi il 19 maggio era stato interlocutorio in attesa del congresso convocato per luglio, ma la crisi di governo era aperta e si doveva procedere come previsto dalla Costituzione. Il 20 i gruppi parlamentari della DC indicavano Moro per l’incarico a formare il governo, Nenni non poteva accettare una accentuazione della polemica anticomunista, Malagodi la esigeva scrivendo una lettera al segretario dc, Saragat si dava da fare per pasticciare la situazione e Togliatti durante le consultazioni annunciava che il PCI poteva anche essere pronto a sostenere “nel modo più opportuno” un programma di riforme.
Come si può capire la situazione era più che complicata. Fanfani riteneva giustamente che con l’incarico a Moro i dorotei avessero portato a compimento il loro disegno alla Domus Mariae, cioè sbarazzarsi contemporaneamente di lui e anche di Moro che aveva reso possibili le riforme del centrosinistra “programmatico”, riprendendosi così il controllo del partito.
Annunciando l’accettazione dell’incarico il 25 maggio Moro si era espresso per accertare la possibilità di un governo a quattro che includesse il PSI, ma aveva precisato: “Procederò a questo accertamento con calma, con serietà, con decisione. Non deve esservi alcun equivoco, così come sugli impegni programmatici del governo, anche sulla netta delimitazione della maggioranza a destra e a sinistra, nei confronti del partito comunista, di fronte al quale è noto il nostro atteggiamento di netta contrapposizione nel gioco democratico e parlamentare”.
Si apriva una fase molto difficile in cui tanto sul versante della DC quanto su quello del PSI le lotte delle correnti, nonché le manovre del presidente della Repubblica Segni, rendevano la situazione ingestibile, tanto che il 18 giugno Moro rinunciava all’incarico facendo ricadere la colpa dell’impasse su un partito socialista che non risolveva le sue contraddizioni interne. Era vero, ma lo era altrettanto il giudizio di Nenni che rilevava come il segretario della DC pretendesse che i socialisti gli rendessero possibile annacquare tutto per mantenere l’unità del suo partito[69].
Affrettando la soluzione della crisi Segni affidò l’incarico al presidente della Camera Giovanni Leone per un “ministero d’affari”, un monocolore DC che avrebbe goduto della astensione dei tre partiti che si consideravano in attesa di valutare il passaggio ad un centrosinistra “organico”. Per la durata che si pensava di pochi mesi la stampa lo definì un “governo balneare”.
Leone ottenne la fiducia alla Camera il 5 luglio, ma si dovette aspettare il 29 perché si riunisse il Consiglio Nazionale della DC davanti al quale il segretario doveva fornire la sua lettura di quanto era avvenuto.
Moro apriva la sua lunga e molto articolata relazione con l’affermazione che ci si muoveva per “la conferma delle direttive indicate prima e dopo le elezioni e l’impegno a far progredire il dialogo tra i partiti sulla base dell’accordo nel quale sono cose essenziali ed irrinunciabili, raggiunto con i partiti socialdemocratico e repubblicano ed in un primo tempo anche con il partito socialista”. Si era ritenuto “preferibile adottare una tattica di prudenza, far decantare la situazione postelettorale” ed egli “con riluttanza” aveva accettato l’incarico di tentare la formazione del governo, anche se “da uomo responsabile avevo naturalmente consapevolezza delle complesse esigenze che dovevo sforzarmi di soddisfare, il che ho sempre cercato di fare. Ma non ho rinunziato al dovere ed al potere di effettuare io, nella mia responsabilità, una sintesi di tutte le esigenze che si presentavano al mio spirito, senza compromettere nella sintesi nessuna di esse”.
Riprendeva le sue note tesi sulla prospettiva di allargare le basi dello stato democratico in un contesto di cambiamenti sociali: “che questo sviluppo economico, sociale, politico si compia davvero, senza remore d’interessi costituiti né inutili ritardi, è condizione essenziale per una reale e durevole stabilità delle istituzioni democratiche in una società moderna, umana e giusta. Per questo fine si è cercata non una qualsiasi maggioranza, ma una qualificata maggioranza. Questa maggioranza deve essere e deve apparire ragionevolmente determinata e nettamente definita.”
Ciò valeva anche per l’esperimento del governo Leone, anch’esso delimitato nella sua maggioranza dall’esclusione tanto del PLI che del PCI, senza che ciò, veniva sottolineato, significasse una riduzione del rispetto del contesto democratico.
Il governo del resto, com’è suo dovere costituzionale e così come risulta dall’indirizzo politico dei partiti che lo compongono e lo sostengono, si collocherà di fronte a qualsiasi opposizione ed ovviamente a quella comunista, nei termini corretti della dialettica democratica e parlamentare, rivendicando i diritti della maggioranza e rispettando i diritti dell’opposizione. Esso non opererà discriminazioni tra i cittadini, tutti uguali nell’ambito della legge, nell’esercizio dei diritti e dell’adempimento dei doveri che da essa scaturiscono. Non saranno commesse ingiustizie e non saranno consentiti abusi né a vantaggio della maggioranza né a vantaggio delle opposizioni. Il governo sarà sempre nell’ordine democratico e l’ordine democratico, garanzia generale dei concittadini, farà rispettare da parte di tutti.
Seguivano indicazioni ad ampio spettro su temi per lo più già toccati in precedenti interventi: fedeltà atlantica (con apprezzamento della presidenza Kennedy), lavoro per la pace, appoggio alla domanda di ingresso nella CEE della Gran Bretagna, impegno per il miglioramento della pubblica amministrazione, sviluppo ed inquadramento degli uffici della programmazione, riforma delle leggi di pubblica sicurezza, riforma della giustizia, attenzione prioritaria alla scuola. Il tema politico di fondo però era noto a tutti.
L’architrave della costruzione era, ed è, la prospettiva di acquisire, ad una ragionevole scadenza, la piena corresponsabilità del Partito socialista nell’azione di Governo; una piena corresponsabilità, com’è detto nel documento, nel Parlamento e nel Paese. La possibilità di fare andare avanti questa politica, di dare attuazione al suo ricco e vario contenuto programmatico sul terreno della struttura dello Stato come dello sviluppo economico e sociale era, ed è, legato al pieno impegno del Partito Socialista, all’aperta fiducia che esso voglia dimostrare, alla sostanziale solidarietà che esso intenda stabilire con noi. Solo quando questa condizione sia verificata, quando si possa contare cioè sul completo appoggio dei socialisti per tutto l’arco delle realizzazioni della politica del Governo, potrà ritenersi esistente in Italia una vera stabilità politica, mancata in una certa misura e per forza di cose nel periodo di transizione che è stato necessario per accostarsi al PSI e chiamarlo ad assumere responsabilità al vertice dello Stato.
Era però necessario “un accordo di legislatura” col PSI e cogli altri partiti, altrimenti non ci sarebbe stata la maggioranza per portare a termine un disegno politico: “si possono fare delle prove anche fortunate ed utili, ma non si va certo molto lontano, non si costruisce con quella sicurezza ed efficacia”, sicché “si lavora a che l’incontro di Governo avvenga in presenza di una decisione congressuale già verificatasi del partito socialista”. Richiamata una volta di più la chiusura verso PCI e PLI, Moro, negato che ci fossero state come sostenevano “velenose polemiche” questioni sui nomi da includere al governo, invitava a concentrarsi sull’accordo che esisteva in tema di politica economica e sociale: “Una politica economica coerente non può non essere ad un tempo una politica di sviluppo ed una politica di congiuntura. La saldatura fra le due esigenze si trova, peraltro soprattutto nell’impegno di continuare lo sviluppo nell’ambito di una politica di programmazione.”.
Si impegnava così in una lunga e dettagliata analisi della prevista riforma urbanistica con tutela della proprietà, ma con controllo delle possibili speculazioni e non esclusione di interventi di esproprio e nei casi estremi con difesa degli interessi degli espropriati. Seguiva la sottolineatura del grande impegno per l’agricoltura con una dettagliata analisi di quanto si era concordato. Senza voler esasperare la polemica con i socialisti, ci teneva solo a “ristabilire la verità storica e dimostrare anche a conforto di quanti hanno la preoccupazione di assicurare la continuità della linea politica del Congresso di Napoli, che la D.C., rappresentata dal suo segretario, si è impegnata a fondo nella trattativa con gli altri partiti, non ha eluso i problemi, ha lavorato con serietà e coerenza per riprendere il cammino sulla strada che era stata aperta dal Governo dell’on. Fanfani”.
Il quadro politico non era certo di semplice lettura e il segretario voleva mostrare una analisi scevra da incomprensioni.
Diciamo queste cose senza alcun risentimento e solo con rammarico e dando del resto atto all’on. Nenni ed all’on. De Martino della lealtà e dell’impegno personali con i quali hanno trattato con noi, non ignorando le difficoltà, ma operando per superarle e con l’impegno di riuscire. Ma non può non destare un certo disagio il fatto che proprio alcuni dei partecipi alla trattativa, con i quali si era parlato a lungo in pubblico ed in privato senza che fossero indicati punti di dissenso di fondamentale rilievo e senza che fosse comunque rivelato un irriducibile pessimismo sull’esito del negoziato, abbiano bloccato con una sorta di veto all’ultima ora un accordo il cui venir meno ha certo provocato dei danni, ma che avrebbe potuto far cadere, se non avessimo avuto i nervi ben saldi, tutt’intera la prospettiva politica intorno alla quale i quattro partiti hanno lavorato nel corso degli ultimi anni. [Non può non essere motivo di disagio per noi, che abbiamo operato senza sotterfugi e con assoluta lealtà, il fatto che, in un momento di faticoso assestamento della opinione pubblica dopo il travaglio elettorale, si sia come dissolto dinanzi a noi il partito che avevamo dinanzi come autorevole nostro interlocutore
[…]
. Perciò vogliamo ritenere che si sia trattato di un atto non sufficientemente ponderato, frutto di devianti reazioni psicologiche. Un atto, per quanto grave, che non esclude la seria conferma di quella volontà politica dalla quale dipende lo sviluppo auspicato della vita italiana. Certo tutti dobbiamo approfondire, meditare, chiarire, assumere responsabilità. Una grande impresa come questa richiede la più tesa attenzione da parte di tutti e, per così dire, una nuova freschezza ed un nuovo entusiasmo dopo le dure prove alle quali siamo stati sottoposti in questo inizio difficile. Anche noi stiamo facendo e faremo ancora la nostra parte. Ma ci è lecito attendere noi con serenità, con simpatia, ma anche con fermezza quel “sì” dei socialisti che li porti ad un pieno impegno al vertice dello Stato per una politica di progresso nella libertà. Non abbiamo dunque altra pretesa che di vedere confermata su solide basi, con un nuovo e più profondo impegno, la politica che crediamo utile al paese. Non attendiamo né un ripensamento né, naturalmente, delle scuse. Ma ci pare un po’ disinvolto che tutta la maggioranza del PSI si attesti sulla posizione della minoranza dissenziente.
Premesso che “nessuno, credo, potrà ritenere che io ambisca al soffocante appoggio del partito comunista”, Moro si soffermava brevemente sulla sua esperienza di presidente incaricato. La “conclusione negativa” di quel tentativo aveva dimostrato grazie ad una lunga trattativa “la impossibilità di ricostruire immediatamente la solidarietà dei quattro partiti anche solo nella forma disorganica che aveva caratterizzato, per quanto riguarda il PSI, la precedente formula di Governo”. Tuttavia il governo Leone, godendo dell’astensione di PSDI, PRI e PSI mostrava che si voleva continuare sulla strada intrapresa dalla DC col congresso di Napoli. Inoltre l’interruzione dei negoziati dopo gli incontri a quattro alla Camilluccia non avevano il significato di un disimpegno della DC dal percorrere quella strada.
Non lo ha significato, perché era già previsto nell’atto in cui mi accingevo a costituire il nuovo Governo che l’operazione si svolgesse in due tempi, per il primo dei quali si accettava, in vista della imminente scadenza del congresso socialista, un minore impegno, un impegno quasi solo negativo di quel partito, mentre per il secondo erano attese un’adesione piena, una fiducia aperta, una significativa corresponsabilità. L’essenziale era ed è l’acquisizione di questi elementi; la risposta positiva del Partito Socialista al nostro invito. Per quanto sconcertante sia l’insuccesso del tentativo di porre in essere, per corrispondere subito in qualche modo agli interessi ed alle attese del paese, un primo utile tempo di collaborazione anche se fondato necessariamente su di un minore impegno, quello che soprattutto conta è una piena assunzione di responsabilità del Partito socialista nella sede naturale nella quale siffatta responsabilità può essere assunta. Ma soprattutto questa vicenda non significa per noi il definitivo fallimento di questa politica per la grandissima importanza che noi attribuiamo alla prospettiva di collaborazione dei Partiti democratici con il Partito socialista in vista dell’auspicata stabilità della vita politica e della pacifica evoluzione sociale nel nostro paese.
Dopo una lunga citazione letterale della sua relazione al precedente Consiglio Nazionale, Moro ribadiva che “se le nostre ragioni e le nostre finalità erano ieri queste, esse sono ancora queste. Il loro peso non può sfuggire. Ecco perché, pronti ad assumere tutte le nostre responsabilità, eravamo e siamo in attesa di questa esclusiva e libera decisione del Partito Socialista”. Aggiungeva che “non siamo andati e non andiamo alla ricerca di piccoli espedienti tattici. Non abbiamo cercato e non cerchiamo un sostegno quale che sia, il solo possibile o il più utile nel momento, per l’esercizio del potere” perché ben altro era l’obiettivo.
Una guida capace di portare innanzi un reale rinnovamento della società italiana nella libertà, di risolvere vecchi e nuovi problemi per la cui soluzione sono state poste le premesse nel corso di questi anni, di allargare sensibilmente la base del potere nello Stato democratico, d’impegnare in un più vasto ambito per la consapevole assunzione delle responsabilità di Governo. Si vuol dare più potere corrispettivo di maggior senso di responsabilità, ai lavoratori. Si vuole un più vasto impegno dei ceti popolari per una ordinata politica di sviluppo. Non è una esperienza classista e collettivista che si vuole inaugurare, ma una politica più ardita, perché più largamente e responsabilmente sostenuta, di giustizia e di libertà; una politica alla quale possano concorrere forze politiche diverse le quali serbano intatta la loro propria ideologia, conservano integra la loro visione finale della società, ma confluiscono con assoluta lealtà, senza alcuna riserva mentale su di un terreno comune sul quale, salvi la libertà ed il gioco democratico, si può fare intanto un lungo, utile, del resto necessario cammino insieme.
Pur rifiutando di inserirsi nel dibattito interno del PSI, insisteva ancora una volta che la politica di apertura della DC in nessun modo poteva intendersi come un avvio di politica del fronte popolare. Iniziava così quella che nelle sue intenzioni era una risposta alle polemiche su presunte aperture verso il PCI, polemiche che la destra DC (sino a Segni e ad una parte dei dorotei) alimentava facendo perno su alcune aperture avanzate da Togliatti. Per Moro non c’era possibilità di intesa con quel partito neppure su una “politica delle cose”. Non bastavano per un superamento delle barriere “la indiscutibile larga partecipazione comunista alla lotta contro il fascismo” e neppure “le positive scelte democratiche del comunismo piene d’incertezze, contraddizioni e riserve”, perché quel partito rimaneva prigioniero della sua visione e non poteva “scrollarsi il peso di una così rigida e pesante ideologia”.
Un punto difficilmente superabile rimaneva, come è ovvio, la collocazione internazionale del PCI. Tuttavia anche la DC doveva attrezzarsi per non essere chiusa alla comprensione delle novità in corso a più livelli.
Ma è anche avvertita l’esigenza che il partito adegui la sua struttura e la sua azione alle nuove esigenze che indubbiamente si prospettano, come io stesso poc’anzi rilevavo, nella realtà sociale e politica del paese. Occorre perciò compiere un’indagine profonda e spregiudicata sulla presente situazione sociale e politica e sui suoi riflessi sul modo di essere e di operare della D.C. A questo scopo debbono poter essere utilizzate tutte le idee ed esperienze presenti e vive nella D.C., quelle immediate, frutto di un lungo ed intelligente servizio reso in posti di responsabilità alla D.C. e quelle anche mediate e scaturenti da un’organica e seria meditazione sui problemi della società italiana e sui compiti e le possibilità del partito.
Il segretario si riferiva sia alle esperienze di studio come quelle dei convegni di San Pellegrino, sia agli stimoli che potevano venire dal mondo di quelle associazioni che in seguito si sarebbe definite “collaterali”. Era però consapevole delle tensioni che percorrevano il partito e che non erano lontanissime dal configurarsi come spaccature proprio sul tema della apertura a sinistra. Metteva perciò in guardia circa quel che si prospettava.
Certo vi è un momento nel quale in qualche modo l’unità si dissolve, perché sta per essere costruita una nuova unità. Quello è il momento della totale chiarezza e della indipendenza; in quel momento è lecito condurre fino all’estremo tutte le posizioni. È il momento del Congresso. Ma noi non siamo ancora al momento del Congresso, mi pare, ed è probabile che si debbano fronteggiare prima situazioni difficili ed impegnative. Ora è importante constatare se siamo d’accordo sulla nostra linea politica fondamentale. Ed è importante, sulla base dell’accordo camminare insieme, perché si tratta appunto di muoversi, sulla strada che ci siamo tracciata. Alcune cose, interessanti ed importanti, che sono state dette in questi giorni, cose che attengono al migliore assetto del partito, alla più espressiva sua composizione interna, mi pare che riguardino più il Congresso che non questo Consiglio Nazionale che è solo una tappa importante nel nostro cammino quotidiano.
Invitava a concentrarsi sul tema politico del momento, sul quale credeva “che un accordo di fondo vi sia, più che non appaia, sulle cose essenziali. Ne ho tratto la convinzione dai miei contatti di questi giorni”. Ne era convinto perché “non è importante la schermaglia polemica nella quale cogliere la vittoria; è importante che un complesso d’idee solidamente sostenuto animi il partito e nella chiarezza, nell’onestà, nella lealtà ne ispiri e muova validamente l’azione”. Era importante che la DC ricercasse “unita la maggioranza che essa ha prescelto”.
Il dibattito non fu affatto tranquillo. Agli attacchi scontati della destra guidata dal solito Scelba, si aggiunse anche Fanfani che contestò duramente i dorotei e trovò poco coraggiosa la relazione di Moro, invitandolo a puntare su una piattaforma programmatica più decisa (cosa che la stampa interpretò come uno scavalcamento a sinistra del segretario).
Nella sua replica conclusiva il primo agosto il segretario affrontò le critiche sviluppatesi in quello che definiva un “dibattito chiarificatore; non penso in forza di pressioni o in forza di sospetti, ma direi proprio per il senso di responsabilità che ha animato soprattutto in questo momento il massimo organo deliberativo della D.C.”. Partì dal riproporre quello che era uno dei suoi temi chiave: la centralità insostituibile per ragioni storiche del partito cattolico.
Il gioco delle alternanze naturali nella vita democratica avrebbe certo facilitato quelle alternative alla D.C. se non avessimo avuto in Italia una situazione di particolare difficoltà che rende impensabile una alternativa democratica al potere della D.C.; e se − lasciatemelo dire − a questa obiettiva impossibilità di alternativa democratica alla D.C. non avessero corrisposto in definitiva una tensione ideale, una capacità di aggiornamento, un sempre rinnovato entusiasmo della D.C. In mancanza di questi elementi, malgrado l’assenza di un’alternativa democratica alla D.C., vi sarebbe stato un fatale inclinare verso alternative estremamente pericolose per il Paese, se non avessimo avuto in noi questa riserva ideale, questa ricchezza di motivi, di prospettive, di idee, anche di risorse umane, se non avessimo avuto in noi una feconda varietà di personalità, di esperienze, di posizioni, in definitiva un ricco, anche se qualche volta scomodo, dibattito interno che ha favorito un continuo adattamento della D.C. a nuove responsabilità, cioè la permanenza al potere in condizioni nuove della D.C. non logorata, provata, ma non logorata fino al punto da diventare inservibile, nella sua ventennale esperienza.
Sapeva del peso della storia: “perché non si passa indenni attraverso 20 anni all’incirca di potere in un regime democratico; non si passa attraverso avvenimenti così importanti, così significativi, così sconcertanti come quelli che si sono avuti, se non c’è questa intrinseca profonda capacità di rinnovamento”, ma vedeva un “consenso sostanziale” sulla sua linea. Non voleva ignorare le critiche di Scelba, a cui dava atto “della sua lealtà, della sua coerenza, del suo attaccamento al Partito, per la chiara manifestazione delle sue idee”, ma intendeva procedere nonostante confessasse qualche disagio: “Credetemi che io sono nello stato d’animo del prigioniero, prigioniero di alcune esigenze e di alcune situazioni, che ancora forse fanno apparire utile la mia opera in un partito che è per sua natura complesso, difficile, come tutti i partiti, ma un po’ di più per la sua complessità e per la sua posizione dominante nel paese. Credo che nessuno quanto me vorrebbe essere libero da questa prigione anche se è una prigione fatta di cordialità e di comprensione”.
La replica era piuttosto lunga, ma tendente a pacificare il dibattito anche se i punti essenziali venivano ribaditi. Si doveva “al di là del doloroso insuccesso parziale delle elezioni, al di là del mio insuccesso” guardare “all’essenziale, a questa grande prospettiva di sviluppo democratico, all’incontro con altri partiti con un approfondimento ed allargamento della vita democratica del nostro Paese”. Affermava di non vedere “alternative nel senso che il problema storico è troppo grande per immaginare che esso possa essere risolto anche solo con una temporanea e fortunata sortita”. Così tornava a ribadire l’importanza chiave di quel che si era deciso al congresso di Napoli, dove si era deciso per “la sperimentazione [che] non era un fatto notarile, ma era un fatto creativo, un fatto di conquista”, tale da imporre di “camminare cautamente, prudentemente, ma camminare, in vista dell’obiettivo finale”.
Le difficoltà c’erano state “perché si doveva aprire questa prospettiva ad un partito e ad un elettorato che, diciamo, non erano ancora sufficientemente preparati a ricevere questa svolta, non arbitraria, ma nascente dalle cose, ma che certamente, dal punto di vista ideologico e della esperienza politica, si presentava come una politica nuova”. Riconosceva che “il Partito si è mosso più rapidamente che non l’elettorato. Certamente né l’uno né l’altro si sono mossi con la necessaria rapidità”, ma rivendicava la nettezza della sua conduzione della campagna elettorale: aveva negato l’esistenza tanto di una alternativa liberale quanto di una centrista, così come “la prospettiva di un centro-sinistra che volesse escludere il partito socialista, ritenendo che contenuto essenziale di questa politica sia l’avvicinamento delle masse popolari controllate dal partito socialista alla vita democratica ed in piena sicurezza democratica”.
Moro rivendicava dunque la responsabile gestione del passaggio politico. “Io credo di essere uscito dalle meschine identificazioni di piccole cause di questo insuccesso. Noi abbiamo detto: siamo di fronte a un fenomeno storico, siamo di fronte a una enorme trasformazione della società italiana che è stata più rapida, più sconvolgente, più incisiva che noi non immaginassimo, ed essa ci ha un po’ preso la mano. E la nostra politica, che era la politica di questa situazione, era ancora troppo nuova, era ancora troppo incerta perché potesse essere compresa pienamente e risolvere essa i problemi del paese”.
Difendeva la dialettica che si era sviluppata negli incontri alla Camilluccia, puntualizzando che anche le cautele sul tema delle regioni, che non si volevano fermare, derivavano dall’attesa di poter disporre di una posizione definita da parte del PSI sulla sua collocazione. “Abbiamo voluto significare di essere insieme non per fare delle piccole cose; come non immaginiamo questa come una maggioranza di comodo, un puntello provvisorio da sostituire con un altro, così chiediamo l’incontro non per fare delle piccole cose, ma per fare la grande riforma di decentramento dello Stato democratico”
Chiedeva dunque la approvazione per quanto si era fatto e la ratifica degli accordi raggiunti, polemizzando con pacatezza con Scelba che vi si opponeva. Al tempo stesso invitava una volta di più ad evitare di interferire nel dibattito interno dei socialisti. Quindi, dopo aver affrontato in maniera leggera le questioni della vita interna di partito (soprattutto per il peso e la rappresentanza delle correnti) concludeva riproponendo le ragioni “alte” della svolta politica per cui chiedeva l’approvazione del Consiglio Nazionale.
Qui si volta una pagina della storia. Noi ci siamo: e l’ho detto nella mia relazione. Di fronte ai comunisti, di fronte alla loro richiesta, alla loro pretesa di essere essi gli interpreti di questa società nuova e giusta fuori del viluppo degli interessi inconfessabili, siamo noi democratici cristiani, con il significato originario del nostro messaggio cristiano. Ha ragione Pastore. Dobbiamo ritornare alle origini, siamo innovatori; questo è il senso, ma innovatori in un certo modo, con un certo spirito, con senso umano, con il rispetto per l’uomo. Siamo anticomunisti in questo senso.
Così si poteva concludere con una mozione che si pronunciava per la ricerca a novembre della promozione di un centrosinistra organico. Votarono a favore dorotei (pur “furenti” a stare a quanto commentava Fanfani), morotei, fanfaniani, basisti e sindacalisti. Contrario solo Scelba e il suo gruppo che proponevano una mozione che subordinava l’apertura al PSI ad una sua previa accettazione delle condizioni poste dalla DC.
Per illustrare ad un pubblico largo la situazione politica Moro interveniva con un articolo pubblicato sul settimanale “Oggi” il 19 settembre. Era scritto nell’attesa del congresso del Psi, che si sarebbe aperto a Roma il 25 ottobre, ed univa alle considerazioni che aveva già espresso sul significato dell’apertura ai socialisti una dura polemica anticomunista. Per quanto riguardava il Psi sottolineava il rispetto per il percorso a cui si accingeva quel partito.
Per questo, già nel nostro ultimo Consiglio Nazionale, abbiamo ridotto al minimo la polemica e la richiesta, in modo da lasciare un’ampia sfera di libertà e di responsabilità al Partito Socialista. Per questo non abbiamo voluto irrigidire in modo assoluto le nostre posizioni, anche quando avevamo bene i titoli per farlo, senza tuttavia svalutare in nessun modo il significato costruttivo e indiscutibilmente vitale di molti passi che erano stati fatti sulla via dell’intesa tra i partiti della maggioranza di centro-sinistra. Per questo abbiamo seguito e seguiamo con rispetto e simpatia lo sforzo dei socialisti in vista del loro decisivo Congresso, senza fermarci su polemiche particolari.
Per una nuova politica i liberali non erano disponibili e i comunisti non potevano essere presi in considerazione per mancanza di garanzie e per grande lontananza ideologica. Non era accettabile una “maggioranza slabbrata” a sinistra, perché ci si poneva un obiettivo di grande importanza.
Esso è non già in un’astuta utilizzazione (e perciò deformazione) del Partito Socialista, ma nell’apporto, desiderato e reso possibile, di un partito di lavoratori, il quale creda nella democrazia e si distingua perciò nettamente dal Partito Comunista, alla evoluzione ordinata della società italiana, ad una politica non classista, ma di reale progresso economico e sociale che tocca largamente i lavoratori, li rende attori della vita democratica, li colloca al vertice dello Stato.
A testimonianza dello sforzo intellettuale che stava alla base della politica di apertura a sinistra si svolse il terzo dei convegni di San Pellegrino dedicato al tema “Partiti e democrazia”. Era una questione molto discussa in quel periodo ed una relazione chiave fu affidata a Leopoldo Elia, non solo già affermato costituzionalista (era stato allievo di Mortati), ma anche amico di Moro, soprattutto di suo fratello Carlo con cui aveva condiviso l’esperienza della Fuci[70].
Il segretario dc interveniva il 16 settembre con parole tutt’altro che di circostanza. Innanzitutto tornava sul tema dell’importanza dell’evoluzione storica che si aveva davanti e che il suo partito intendeva affrontare. “Timidezza ed angusta visione delle cose sono dunque inammissibili; sono richiesti lungimiranza e senso di responsabilità. Non siamo un Partito meschino e chiuso; ma non siamo certamente un Partito di avventura. Il nostro senso di responsabilità è oggi quale era ieri ed è tale che, oggi come ieri, ci consente di guidare un grande moto storico di rinnovamento, di affermazione della dignità, di espansione della libertà ed iniziativa politica, di redistribuzione secondo giustizia, di ogni ordine di beni, di approfondimento della vita democratica”.
Ma il tema chiave era quello dello Stato e dei partiti. Respingeva che chi aveva una ispirazione cristiana fosse affetto da “tiepido interessamento per lo Stato e le sue istituzioni”, perché al contrario “noi crediamo profondamente nell’altissimo compito, nell’autonomia, nella dignità dello Stato” pur lontani da ogni concezione totalitaria.
Gli interessava però difendere a fondo l’importanza dei partiti, compresi i loro gruppi parlamentari ed a questo proposito sottoscriveva citandola la relazione di Elia.
Chi, se non i partiti così intesi, può realizzare un raccordo non occasionale e capriccioso delle opinioni in sede parlamentare? Chi compirebbe altrimenti il collegamento tra le due Camere, evitando il rischio della paralisi delle istituzioni? Chi altrimenti, utilizzando tutti gli elementi fecondi delle autonomie locali, promuoverebbe quella tendenziale unità di posizioni, la quale consente ad un Paese di essere libero nel suo naturale pluralismo, senza cadere nell’anarchia? È l’azione dei partiti che assicura un’autentica e continua rispondenza del potere alla volontà popolare e, nella libertà, organicità ed ordine razionale alla vita politica.
[…]
Se dunque i partiti, prima di essere e per essere nell’ordine costituzionale, sono come realtà viva nella società civile; ricercatori, interpreti, educatori, determinatori, in una certa misura della comunità nazionale. Nella quale sono interessi ed ideali, posizioni particolari e posizioni di principio che variamente si riflettono nei partiti, ne giustificano la naturale pluralità, danno a ciascuno di essi una caratteristica impronta. Interessi diversi anche fuori di schematismi classisti, che si compongono talvolta nella sintesi del partito per giungere poi alla sintesi politica dello Stato.
Sulla situazione politica più specificamente contingente Moro tornava il 21 settembre in un discorso ai quadri dc a Bari, in cui riproponeva il tema della pazienza per raggiungere quella che continuava a proporre come una svolta storica.
In vista di questo obiettivo di decisiva importanza, in considerazione della difficoltà di trasformare forze di vecchia tradizionale opposizione in forze di governo con tutte le responsabilità che ciò comporta, si giustificano la pazienza e l’attesa dei democratici e quel tanto di graduale e perfettibile che è nel modo del contatto da noi responsabilmente prescelto. Si giustifica, dopo la comprensibile amarezza per un accordo venuto meno, l’attesa di una decisione congressuale del partito socialista e quel metodo di rispetto da noi adottato, il quale non significa indifferenza, ma affidamento all’autonomia ed al senso di responsabilità di un partito, informato quanto noi delle esigenze che la situazione politica propone.
Intanto la scena politica si complicava. I dorotei con varie iniziative si mettevano di traverso all’evoluzione verso il centrosinistra, consapevoli anche che la Confindustria e lo stesso Segni lavoravano in quella direzione. La ricerca di un accordo di compromesso su temi bandiera come era la questione delle scuole private non risultava agevole con l’incubo di una pronuncia polemica da parte dei vescovi. Per avviare lo sblocco della situazione Moro si confrontava con i gruppi dc di Camera e Senato. Con il primo nell’incontro del 17 ottobre metteva in chiaro una serie di punti chiave a partire dal respingere che ci fosse della benevolenza verso il PCI come si era accusati dalle destre.
Noi abbiamo sempre ritenuto e riteniamo che non si deve combattere il PCI con strumenti effimeri e lesivi dei principi di libertà, ma che si combatta con la iniziativa politica, lo sviluppo della vita democratica, la mobilitazione morale; che sono gli strumenti di fondo per contestare la funzione del Partito comunista nel nostro Paese. Mi sono stupito di vedere messa in discussione una cosa per noi naturale: siamo un partito democratico, se il nostro metodo di lotta fosse diverso non saremmo la Democrazia Cristiana che combatte il comunismo garantendo le libere istituzioni nel nostro Paese.
Con pazienza si stava lavorando alla costruzione di “una maggioranza stabile e solida, organica, consapevole, coerente, chiara nei suoi obiettivi” che fosse anche “una maggioranza socialmente significativa, corrispondente al momento delicato, difficile, importante dello sviluppo della società italiana”. Il tema della situazione sociale indotta dalla modernizzazione era sempre centrale per il segretario, sebbene dorotei e destre non se ne convincessero.
…in questo momento abbiamo sentito l’opportunità di avere accanto a noi una forza democratica e popolare quale noi speriamo si riveli sempre più il PSI; accanto a noi, accanto ai partiti della sinistra democratica, benemeriti di fronte al Paese. Un partito, il PSI, che fin qui è rimasto estraneo – come partito di tradizionale opposizione – alla responsabilità della vita politica del Paese, che sino a ieri raccoglieva la protesta di ceti che non si sentivano partecipi dello Stato democratico. In questo momento di tumultuosa crescita della società italiana ci siamo impegnati a favorire il passaggio di forze di protesta ma di ispirazione democratica su un piano di corresponsabilità con noi per l’ordinato sviluppo della società italiana. Questo è il senso profondo della nostra azione: convogliamo forze popolari per una evoluzione reale, ma ordinata della società.
Dopo aver polemizzato col solito Scelba che lamentava la mancata valorizzazione del centrismo, tornava con pazienza a spiegare al dinamica che aveva portato all’apertura a sinistra: “quando l’autonomia del PSI ha cominciato a manifestarsi, pur con le difficoltà proprie di un passaggio così dilacerante come è per un partito classista quale è il PSI, il passaggio dal massimalismo alla corresponsabilità democratica, si è posto per la DC il problema di favorire questa evoluzione del PSI. E questo si poteva fare solo offrendo al PSI, con la gradualità che abbiamo assicurato, una piattaforma idonea sulla quale esso potesse collocarsi trovando una funzione utile da assolvere in vista degli obiettivi di elevazione sociale e politica che esso si propone”. Certo la piattaforma doveva essere democratica e non classista, perché la DC non era un partito di classe, e mostrava fiducia nell’evoluzione in corso: “Pur nel suo interno travaglio che noi vogliamo rispettare, il PSI cammina verso posizioni di autonomia e di responsabilità. Si tratta di cogliere l’occasione pur sapendo che il momento nel quale si prende la decisione non consente una chiarezza totale”.
Richiamate le decisioni del Consiglio Nazionale (a cui evidentemente una parte dei deputati non si sentiva troppo vincolata), assicurava di avere “una posizione responsabile nella politica economica” consapevoli che vi era “una politica di congiuntura da fare” e tuttavia “guardando al domani riaffermiamo la esigenza inderogabile di un intenso ed equilibrato sviluppo economico nel quadro di economia aperta che abbiamo prescelto”. E qui veniva una frase impegnativa: “fondamento della nostra espansione economica e condizione di giustizia è la stabilità monetaria che riaffermiamo di voler difendere”. Una evidente presa in carico degli attacchi che al centrosinistra preparavano il duo Colombo-Carli.
Polemizzava poi con Scalfaro che aveva rivendicato di poter assumere in coscienza decisioni diverse da quelle assunte dalla maggioranza, una scelta che denunciava come contraria alla democrazia interna (ma che sapeva bene esser stata suggerita alla destra da autorevoli ambienti ecclesiastici).
Il gruppo dc della Camera approvava a maggioranza, col voto contrario dei centristi, un ordine del giorno favorevole a procedere secondo quanto previsto dal Consiglio Nazionale di agosto, cioè verso l’accordo col PSI. Molto più duro si sarebbe rivelato il confronto col gruppo parlamentare al Senato che si svolse dal 21 al 23 ottobre. Anche qui Moro insisteva sulla mancanza di alternative all’apertura a sinistra e invitava ad essere “discreti ma non indifferenti nella fase precongressuale” del partito socialista. Il tema chiave era sempre lo stesso: “Ecco perché questa politica diventa particolarmente attuale ora che ci troviamo in un momento che non è soltanto di espansione economica, ma di profonda modificazione della società. Ecco perché c’è tanto da fare, come Partito, come mondo cattolico, al fine di secondare questo processo. Ma abbiamo bisogno di altre forze per arricchire la rappresentanza politica al vertice, abbiamo bisogno di più difensori dello Stato democratico, di uno Stato aperto, nella libertà, all’accoglimento delle tante umane esigenze che emergono in questo momento dal nostro Paese”.
Anche in questo contesto faceva un accenno al problema dei casi di coscienza, pur rilevando che non ne vedeva fra i senatori, e richiamava al dovere di essere fedeli prima di tutto al mandato ricevuto dagli elettori. Chiudeva con un appello: “Vi chiedo solidarietà, fiducia, compattezza; vi chiedo lo spirito di unità della D.C. In uno spirito di cordialità, di intesa fra noi, stimandoci reciprocamente, avendo fiducia in noi, potremo affrontare le prove imminenti, facendo sentire la voce unitaria della Democrazia Cristiana”.
Non ebbe molto seguito. I dorotei attraverso il senatore Valsecchi proposero un ordine del giorno che subordinava l’apertura al PSI ad una sua accettazione di una serie di premesse che erano sostanzialmente provocatorie e che avrebbero messo in difficoltà gli autonomisti di Nenni. I fanfaniani si opposero, il documento venne modificato togliendo i riferimenti alla vita interna del PSI e attenuando il contenuto delle premesse richieste, ma in sostanza venne mantenuto.
Dal 25 al 29 ottobre si tenne finalmente l’atteso congresso socialista al cui termine la corrente autonomista di Nenni e Lombardi ottenne il 57,4% dei consensi e la sinistra il 39,3%. Abbastanza perché il 31 ottobre Nenni venisse riconfermato segretario e De Martino suo vice. Questo apriva la via alla ripresa dei negoziati per il nuovo governo, questa volta non bloccata da un documento da crociata della CEI promosso dai cardinali Siri, Ottaviani e Ruffini. Giovanni XXIII era intervenuto ed aveva devitalizzato quel testo che così rivisto sarebbe stato pubblicato il primo novembre senza che fra il resto potesse offrire coperture a tentazioni scissionistiche nel partito cattolico sulla base dei già ricordati “casi di coscienza”. Segni da parte sua non aveva mancato di inserirsi a complicare la crisi cercando la sponda degli americani[71].
Il 5 novembre arrivarono le dimissioni del governo Leone e Segni dovette iniziare le consultazioni, gestite per altro in modo anomalo perché sentiva anche, dandone comunicazione pubblica, il governatore della Banca d’Italia Carli, il capo della polizia Vicari e il comandante dei carabinieri De Lorenzo. Il 7 novembre, giorno di chiusura del primo giro di consultazioni, Moro riuniva il Consiglio Nazionale della DC che introduceva con una relazione che di fatto sarebbe stato il suo ultimo atto come segretario del partito.
Si trattava di una convocazione “in via straordinaria, e su richiesta di alcuni amici” che doveva “verificare se esistano le condizioni per dar corso, ed in qual modo, al dialogo politico previsto nel Consiglio nazionale dell’agosto scorso”: un modo pudico per chiedere un confronto con l’opposizione interna. Per questo il segretario si apprestava ad una puntuale e puntuta analisi delle questioni in campo.
Tutto muoveva dal prendere atto di quanto era avvenuto col congresso del PSI: “non si può non rilevare il significato storico ed il valore politico positivo della decisione socialista in ordine ai problemi del Governo nell’attuale situazione. Non si parla ancora, con ciò, delle condizioni nelle quali questo evento può verificarsi, ma del principio così affermato e del quale non può essere disconosciuta l’importanza come il carattere profondamente innovatore”. Alle radici di questo stava un percorso, che veniva ricordato, percorso che era culminato nei governi Fanfani. La scelta congressuale del PSI definiva un nuovo quadro politico.
Una scelta politica non solo degli altri partiti della coalizione e che faccia da limite di fatto ad una diversa posizione del Partito socialista, ma proprio una scelta libera e motivata dello stesso Partito socialista e che si esprime, anche come strumento di operatività politica, malgrado la solidarietà di classe ed i legami stabiliti nella lotta al fascismo e nella Resistenza. Non è in discussione naturalmente la eguaglianza di diritti sancita dalla Costituzione e la corretta collocazione dei Comunisti all’opposizione − ed un’opposizione che offre così notevoli possibilità di controllo − nel gioco democratico e parlamentare. È in discussione il reale modo di essere delle forze politiche e la previsione dell’incidenza che esse possono avere in un determinato corso politico e della necessità di contrastarla nella misura in cui essa possa turbare e snaturare una politica che dev’essere autonoma e fornita in sé di tutti i mezzi, positivi e polemici, per attuare i suoi propri obiettivi.
C’erano certo “luci ed ombre” nel congresso socialista e punti di vista diversi. Citava la questione regionale e la politica internazionale, sebbene notasse che la distensione in quel momento aveva attenuato le asprezze anche nel quadro di una politica europea, La questione importante rimaneva quella economica che coinvolgeva la consapevolezza delle evoluzioni sociali che si erano avute.
Per quanto riguarda la politica economica e sociale l’approfondita riflessione da noi iniziata da tempo − basta ricordare il lavoro svolto nei convegni di San Pellegrino − sulla trasformazione in corso nella società italiana e sui problemi che questa trasformazione lascia aperti o addirittura suscita, ci ha consentito di individuare sia gli obiettivi che una efficiente azione pubblica deve oggi porsi, in campo economico e sociale, sia gli strumenti di cui quella azione deve essere dotata. Sulla base dei risultati di questo lavoro, compiuto nel nostro partito in tante sedi e con l’apporto di molteplici esperienze, ci siamo da tempo convinti che il superamento degli squilibri che presenta la nostra società richiede un ben qualificato tipo di sviluppo economico che si riferisce a modelli di civiltà democraticamente assunti in programma economico-nazionale.
Moro insisteva una volta di più sul fatto che “ci siamo da tempo convinti che il superamento degli squilibri che presenta la nostra società richiede un ben qualificato tipo di sviluppo economico che si riferisce a modelli di civiltà democraticamente assunti in programma economico-nazionale”, e questo significava una cosa che piaceva poco ai conservatori: dare rilievo “all’attenzione da noi portata negli ultimi anni sulla natura e sulle modalità di impiego di quel moderno strumento di governo che è costituito dal programma; la programmazione lungi dall’inceppare il meccanismo di mercato e modificare l’iniziativa privata, vuole conferire ad esso la massima capacità di espansione e la massima efficienza”. Ed era un approccio che incontrava la sensibilità dei socialisti.
In questo quadro si inseriva la valorizzazione dell’impresa pubblica, senza dimenticare tutte le cautele necessarie in tempi di congiuntura economica.
Da tutti si concorda sulla necessità che la complessa strategia di stabilizzazione delle attuali difficoltà congiunturali sia condotta nei modi e con gli strumenti più adatti per impedire effetti negativi sullo sviluppo di lungo periodo del nostro sistema economico. Questa politica − evidentemente − dovrà permettere di pervenire, nel tempo più breve compatibile con la necessità di mantenere intenso il ritmo del nuovo progresso economico, a stabilizzare i prezzi interni e a fermare prima, e rovesciare successivamente l’attuale dinamica dei deficit della bilancia dei pagamenti, poiché in assenza di tale stabilizzazione la nostra politica economica sarebbe sottoposta ad un grado di incertezza e di vulnerabilità alle vicende del mercato internazionale incompatibile con una politica di programmazione.
Ribadito dunque che “il superamento della congiuntura avviene quindi per dare stabilità allo sviluppo ed avviare così la programmazione economica”, il segretario elencava gli obiettivi di politica economica e sociale, e ricordava poi l’impegno istituzionale per il parlamento animato dai partiti, la Corte Costituzionale, la burocrazia riformata, la riforma dei codici e delle leggi di pubblica sicurezza, nonché quanto si era fatto per la scuola. Era un contesto di cui il partito doveva prendere coscienza e che doveva affrontare.
appare in evidenza il complesso quadro politico nel quale oggi la D.C. si muove. Esso è del resto il riflesso della realtà del Paese, impegnato in una difficile ricerca di nuovi equilibri, di un diverso assetto dei rapporti sociali e politici, il quale riassorba, senza lacerazioni o deplorevoli confusioni, i tanti fermenti che operano in una società in profonda trasformazione ed avviata verso più alti traguardi, oggi possibili, di benessere, di giustizia e di libertà. È un processo in corso, faticoso e difficile. Così com’è difficile e faticoso il compito che sta dinanzi a noi e che è la risposta politica a quei problemi, a quelle esigenze, a quel movimento che è insieme economico, sociale, psicologico, morale e politico.
Consapevole di quel che si agitava nell’opposizione interna e in quei settori delle classi dirigenti che la fiancheggiavano e la ispiravano, Moro invitava a non perdersi in “un’analisi critica del Congresso socialista, della trama, talvolta sconcertante, degli interventi che in esso si sono avuti, del faticoso comporsi della sua maggioranza e più dei residui d’incertezza, delle tentazioni del vecchio, delle aspre e spesso non necessarie punte polemiche”. Non sarebbe stata utile ed avrebbe sopravvalutato spinte frammentarie ed episodiche. Era l’apertura della trattativa per la nuova maggioranza il punto qualificante.
È dunque nella trattativa che si coglie, per noi, l’essenziale significato del Congresso socialista, la sua reale capacità di incidenza positiva sullo sviluppo della politica italiana. Si ritiene che non si debba giungere al negoziato? Sarebbe una grave responsabilità. Si ritiene che vi si debba giungere con limiti così rigidi, con toni così ultimativi, da rendere praticamente inutile la trattativa? Sarebbe anche questa una grave responsabilità. Ma se si pensa che all’incontro si vada con animo costruttivo, ma con la chiara visione di cose essenziali da salvaguardare e di limiti da non superare, questa ci sembra una posizione ragionevole ed accettabile. È una posizione seria che non nasconde le difficoltà, anche le grandi difficoltà, ma non vi si adagia, per risparmiare lo sforzo e l’impegno di un dialogo profondo e chiarificatore.
Questo atteggiamento, non rinunciatario, ma neppure tracotante, ci è imposto dall’importanza della posta in gioco, che non da oggi abbiamo rilevato: uno stabile e solido assetto della democrazia italiana.
Perciò invitava a fare “un passo innanzi” perché così “si costruisce lo Stato in esso inserendo, ordinatamente e non già con il soggiacere a pressioni eversive e disarticolanti, una società nuova, una società più umana, libera e giusta”. Su questo chiedeva “con la vostra comprensione, con la vostra fiducia, con la vostra critica costruttiva, con l’intatta forza contrattuale della D.C. fondata sulla sua integrità ed unità, di sostenere il nostro sforzo”.
Si aprì una discussione piuttosto tesa con le posizioni già note delle varie correnti. Ad essa il segretario rispose nella sua replica. Chiarì subito che mai aveva inteso sottrarsi al confronto con le componenti interne. “Ed io dirò anche, per tagliar corto alle tante fantasiose interpretazioni che vi sono state circa il mio atteggiamento, che la ragione esclusiva per la quale io ho inclinato verso la convocazione del Consiglio nazionale è stata questa: un atto di deferenza doverosa nei confronti di amici, leali oppositori della nostra politica, i quali in un momento innegabilmente difficile della vita del Paese, hanno chiesto di poter ascoltare le nostre ragioni e di farci ascoltare le loro, in seno al massimo organo deliberativo del Partito”.
Si trattava di aprire una trattativa che “deve svolgersi in condizioni di chiarezza e di lealtà, deve svolgersi con intento costruttivo e non con intento negativo e polemico, il che non toglie, anzi esige, che base di essa sia, da parte della DC, partito di maggioranza relativa con grandissima responsabilità nel Paese, una visione illuminata di esigenze imprescindibili, di limiti insuperabili, di interessi permanenti del Paese da difendere”. Il partito doveva avere fiducia in sé stesso, ma al tempo stesso doveva avere “un atteggiamento naturale di rispetto, di considerazione, un animo non polemico ma costruttivo nei confronti degli altri partiti. Ciò non vuol dire abdicazione, non vuol dire accettazione supina, non vuol dire disconoscimento dei limiti, ma significa solo che il dialogo si svolge lealmente e onestamente, tendendo, se è possibile, ad una conclusione positiva”. La DC era “un baluardo per la vita democratica del Paese”, ma era un partito aperto al confronto ed alla collaborazione con le altre forze che volevano operare in quella direzione.
Questo è il valore storico del tentativo che noi abbiamo compiuto e compiamo; questo è il significato profondo più volte messo in luce di questa operazione politica; una mobilitazione di energie che, una volta messe in cammino, dovrebbero agevolmente pervenire ad un’intesa più stretta, a solidarietà più operanti, sì da dare al Paese il presidio di una base più solida e larga della vita democratica.
A conclusione venne approvata a larga maggioranza una mozione a favore dell’apertura del confronto con PSDI, PRI e PSI come era stato deciso già il 2 agosto. La mozione era stata firmata in rappresentanza di varie correnti da Salizzoni, Scaglia, Forlani, Donat-Cattin, Alessi e Cossiga. Era respinta quella presentata da Scelba e Gonella a nome di “Centrismo popolare” che subordinava il dialogo col PSI ad alcune condizioni “essenziali e irrinunciabili” (le solite ben note).
In realtà i dorotei non si erano affatto arresi a quanto deliberato. Il 9 novembre partiva una lettera indirizzata a Moro firmata da Caron, Colombo, Cossiga, Gui, Gullotti, Magri, Mattarella, Piccoli, Rumor, Russo, Spataro e Truzzi. In essa si chiedeva che “di fronte alla serietà e gravità della situazione” ci fosse una netta delimitazione della maggioranza con il PSI che si impegnava a rinunciare alle “lotte di classe”. Ma soprattutto si chiedeva che nel costituendo governo entrassero per i socialisti solo autonomisti doc con esclusione dei lombardiani. Richieste non poi tanto diverse da quelle di Scelba.
I dorotei si rivolgevano a Moro più che altro come presidente del Consiglio incaricato, essendosi ormai deciso che egli avrebbe lasciato la segreteria che doveva tornare nelle mani dei dorotei con Rumor[72].
Si concludeva cosi il quinquennio della segreteria dello statista pugliese. Non era certo stata una fase priva di significato[73]. Non si era trattato semplicemente di una pur abile occupazione di un ruolo di gestione della vita del partito cattolico. Come emerge chiaramente dal ripercorrere gli interventi di Moro, egli aveva presentato una lettura del contesto storico che si stava vivendo, aveva elaborato una interpretazione del ruolo che in esso aveva avuto ed era destinato ad avere il partito dei cattolici, aveva avanzato la proposta per una risposta ai tempi nuovi.
Si può discutere quanto del suo approccio all’interpretazione del momento storico gli derivasse dalla cultura cattolica sulla crisi degli anni Trenta e Quaranta (una cultura che si era misurata con le altre), quanto dall’aver condiviso un tratto di strada con la lettura della crisi di civiltà che aveva mosso Dossetti e il suo cenacolo, quanto l’avesse perfezionata con un ritorno alle sensibilità di De Gasperi sulla peculiare complessità della situazione italiana (un riferimento che come abbiamo visto torna più volte nei discorsi del periodo che abbiamo esaminato). Sta di fatto che Moro ebbe una acuta percezione della svolta storica che era implicita in quella modernizzazione del nostro paese che tanto turbava le varie correnti del conservatorismo.
Certamente, come era tipico della sua generazione, vide un segno distintivo della crisi politica all’origine di questa svolta nello scontro fra fascismo e comunismo. E’ da rilevare che egli nel campo estraneo alla sinistra tradizionale fu tra i non molti che non ebbero problemi a considerare il fascismo un problema costante della storia italiana novecentesca ed a prendere posizione netta per una scelta antifascista che rivendicava anche per il movimento cattolico. Per questo la sua opposizione al comunismo, condotta come si è visto in maniera decisa, era però connotata dal riconoscimento che era di natura “altra” rispetto a quella del conservatorismo e del moderatismo, per cui non c’era su quello possibilità di incontro con le destre, neppure quelle moderate.
Giocava certo la sua esperienza di costituente e non a caso il riferimento alla nostra Carta fondamentale torna più volte così come quello alla Resistenza. Naturalmente a freddo si potrebbe chiedersi se la preoccupazione di allargare le basi di partecipazione dello Stato, l’inclusione in esse della “classe operaia” a cui Moro fa continuamente riferimento per legittimare la apertura verso il PSI non riprendesse una preoccupazione che fu assai viva nella prima organizzazione dei dossettiani, “Civitas Humana”, che su quel tema organizzò il suo secondo convegno nel 1947: in quella occasione furono presenti anche Fanfani e La Pira, per dire come si tratti di una sensibilità che avrà sviluppi nel tempo. Del resto quello dell’allargamento delle basi della democrazia fu anche uno dei leitmotiv dell’azione dei dossettiani al congresso della DC a Venezia nel 1949.
Però credo che accanto a questo vada ricordato il recupero del rinvio a De Gasperi, che certo non era tipico di quel tipo di cultura politica. Ad esso si riconnette, certo non pedissequamente, ma in modo creativo la caratterizzazione della Democrazia Cristiana come insostituibile partito cardine del sistema e perciò “obbligato” a governare. A volte Moro la presenta quasi come un peso a cui non si può sfuggire. Deriva però dalla percezione che l’Italia abbia bisogno di un partito capace di fare sintesi e cerniera politica, di proporre in qualche modo una cultura diffusa capace di produrre un “idem sentire de re publica” che non può essere presente negli altri partiti che sono tutti partiti per così dire di segmento sociale. Una cultura diffusa che era a lungo mancata nella storia della nazione.
De Gasperi aveva, senza possedere il dono dell’elaborazione teorizzante, una simile visione del sistema politico italiano e del ruolo che il cattolicesimo come cultura antropologica dominante poteva giocare nel dargli stabilità. Moro andava un passo avanti nel momento in cui però vedeva la struttura per gestire questo compito nella moderna “forma partito”, un concetto a mio giudizio lontano dalla sensibilità dello statista trentino. Il politico pugliese invece, come mostra chiaramente la sua vicenda di segretario della DC, era completamente convinto che la forma partito moderna, fin nella sua ormai definitiva organizzazione in correnti, fosse il luogo della composizione delle tensioni sociali e ideali e al tempo stesso della elaborazione delle risposte alle evoluzioni dei tempi. In questo si distingueva da Fanfani, che era, se è consentito, più degasperiano di lui nell’intendere il partito più che altro come la “macchina politica” che serviva per consentire ad una classe dirigente, ed in specie ad un leader, di conquistare ed esercitare la funzione di governo.
Ciò che però è davvero rilevante in Moro in questa precisa fase è la percezione nitida della svolta storica di fronte alla quale si trovava l’Italia post Ricostruzione. Quel cambiamento sociale e culturale che tanto preoccupava e spingeva alla reazione una parte cospicua delle classi dirigenti e che sul versante opposto illudeva le sinistre di essere davanti ai prodromi di una qualche rivoluzione era invece considerato da Moro come un tornante storico complesso che andava governato sia per non perdere le potenzialità di sviluppo che includeva, sia per evitare che producesse una destabilizzazione del sistema.
La scelta di rispondere a questa sfida con un cambio di quadro politico passando dal centrismo al centrosinistra fu, come ampiamente testimoniano i discorsi che abbiamo esaminato, una decisione non solo consapevole e meditata, ma gestita con lo sforzo di produrre al suo servizio una “pedagogia” che la legittimasse verso molte componenti: dai quadri del mondo politico, a cominciare naturalmente da quelli della DC, ai quadri del sistema in senso lato culturale, in cui rientravano anche i ceti dirigenti della chiesa cattolica. L’insistenza di Moro nel sottolineare che l’apertura a sinistra non era la ricerca di una nuova maggioranza politica tanto per rimanere al potere, ma la scelta di adeguarsi a quanto veniva chiesto dai tempi nuovi è un messaggio politico di grande spessore.
Certo dal punto di vista delle tattiche partitiche la vicenda i Moro è piuttosto singolare. Scelto come segretario debole da una oligarchia politica che voleva interrompere l’ascesa del leader forte si era rivelato non solo un dirigente capace, ma colui che avrebbe rimesso in sella quel leader forte perché al governo facesse le riforme senza però poter aspirare alla subordinazione del partito al suo volere. Gli oligarchi dorotei si accorsero ben presto del loro errore e iniziarono a lavorare per ripararlo. Dovettero aspettare del tempo ma infine riuscirono a sfruttare la debolezza della DC che era nel suo obbligo di tenere tutti insieme: il politico pugliese era stato un servitore convinto di quell’obbligo che era quasi un dogma, riuscendo a portare il partito sulla sua linea ma al prezzo finale di vedersi privato del ruolo di grande pedagogo per dover rivestire quello di uomo di governo, per il quale davvero, come disse una volta a Fanfani, non aveva né capacità, né salute.
Il centrosinistra senza il suo pedagogo e in un contesto che sembrava mettere in crisi lo sviluppo economico e sociale era destinato ad una esistenza depotenziata. Gli sarebbe mancato il regista che dal partito non più capace di essere sede della sintesi potesse dargli una prospettiva storica.
A. Fanfani, Diari, vol. III, 1956-1959, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012, p. 363 ↑
M. Rumor, Memorie (1943-1970), Vicenza, Editrice Veneta, 2007, p. 245. ↑
Cit. in, G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 117. La nota è del 3 luglio 1958. ↑
G. Baget-Bozzo. Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La DC di Fanfani e di Moro.1954-1962, Firenze, Vallecchi, 1977, p. 188. ↑
Per questo rinvio a P. Pombeni, L’Apertura. L’Italia e il centrosinistra 1953-1963, Bologna, Il Mulino, 2022 ↑
L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano, Soveria Manelli, Rubettino, 2008, pp. 499-501 ↑
Citato in, P. Meucci, Ettore Bernabei,il primato della politica. La storia segreta della DC nei diari di un protagonista, Venezia, Marsilio, 2021, p. 55 e n. ↑
A. Fanfani, Diari, III, p. 482 ↑
P. Nenni, Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966, Milano, Sugarco, 1982, p. 38 ↑
A. Fanfani, Diari, III, p.499 ↑
L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano, p. 521 ↑
A. Fanfani, Diari, III, p. 508; 510 ↑
Una ricostruzione piuttosto dettagliata dei lavori in G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, pp. 176-189 ↑
A. Fanfani, Diari, III, p. 513 ↑
P. Nenni, Gli anni del centrosinistra, p. 79 ↑
G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 188 ↑
L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano¸ p. 425 ↑
Il testo integrale di questo discorso, come di tutti gli altri che esaminerò è nella edizione nazionale delle opere di Moro, sezione 1958-1963 a cura di Valentina Casini. ↑
Su questo aspetto insiste M. Mastrogregori, Moro, Roma, Salerno, 2016, pp. 94-95 ↑
L. Dal Falco, Diario politico di un democristiano, p. 526. ↑
P.E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 260-261 ↑
G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura sinistra, p. 198 ↑
Qui c’è un’eco della famosa conferenza del 1951 di Dossetti: cf. ???? ↑
Per questo quadro rinvio al mio, L’apertura. L’Italia e il centrosinistra 1953.1963, e la documentazione ivi analizzata. ↑
T. Baris, Andreotti. Una biografia politica, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 208-209 ↑
Citato in G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, p. 226 ↑
P. Nenni, Gli anni del centrosinistra, p. 80 ↑
Documentazioni su questo in, G. Formigoni, Aldo Moro, pp. 131-132; P. Pombeni, L’apertura, pp. 123-125 ↑
Per i dettagli di tutta questa vicenda rinvio a P. Pombeni, L’apertura, pp. 125-130 ↑
T. Baris, Andreotti, p. 213 ↑
Cit. in G. Formigoni, Moro, p. 135 ↑
T. Baris, Andreotti, pp.214.215 ↑
G. Formigoni, Moro, p. 140, che cita da un documento d’archivio che riporta un verbale non scritto da Moro. ↑
P. Nenni, Gli anni del Centro Sinistra, p. 132 ↑
P. Nenni, Gli anni del centro sinistra, p. 137 ↑
Cf. G. Formigoni, Moro, p. 143 ↑
Su Moro e le Tribune elettorali, R. Brizzi, Aldo Moro, la televisione e l’apertura a sinistra, in, Aldo Moro nella storia dell'Italia repubblicana, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 137 - 166 ↑
Intervento su “Il Popolo” 9 Novembre 1960. La DC aveva ottenuto alle provinciali, le più adatte per misurare un trend nazionale, il 40,3% dei voti. ↑
Per questa vicenda, P. Pombeni, L’apertura, pp. 145-150; G. Formigoni, Moro, 144-147 ↑
Ovviamente i leader della destra interna Scelba, Restivo, Lucifredi, Luigi Carraro, Amor Tartufoli, Andreotti, Evangelisti, ma anche il doroteo Flaminio Piccoli che si portò dietro i suoi “trentini” Dalvit, Odorizzi e Benedetti. ↑
Su questo rinvio a P. Pombeni, L’apertura, pp. 150-152 ↑
In questo contesto, che richiama le tensioni prodotte dal Governo Tambroni, Moro si riferisce al Psdi e al Pri quando parla di forze democratiche di centro-sinistra, nella prospettiva di una coalizione non ancora aperta ai socialisti. ↑
Questo discorso è pubblicato per la prima volta in questa raccolta curata da Valentina Casini ↑
Si noti di passaggio che qui Moro disconosce la teoria delle “convergenze parallele” come sua, attribuendola invece alle ironie giornalistiche. ↑
P, Nenni, Tempo di centrosinistra, p. 184 ↑
Sulla situazione ecclesiale in quel momento, P. Pombeni, L’apertura, pp. 159-160 ↑
A. Fanfani, Diari, vol. IV, p. 268. ↑
Ma lo faceva anticipare anche sul “Popolo” il 25 luglio ↑
Si tratta del I Convegno nazionale di studio della Dc, che si sarebbe svolto a San Pellegrino Terme dal 13 al 16 settembre 1961. ↑
Su questo quadro più in dettaglio, G. Formigoni, Moro¸ pp. 149-152; P. Pombeni, L’apertura, pp. 160-175. ↑
Evidente il riferimento al fallimento della riforma elettorale etichettata poi come “legge truffa” ↑
La sottolineatura è mia per marcare l’importanza di questo inciso nel quadro delle polemiche che venivano condotte in quei mesi dall’esterno della DC ↑
Da vari ambienti si era ventilata l’ipotesi che si potesse avere una scissione nel partito cattolico, il che peraltro era un argomento ricorrente anche in tempi precedenti. ↑
Fu pubblicato su “Epoca” il 28 gennaio, ma anticipato sul “Popolo” il 23. ↑
A. Fanfani, Diari, IV, p. 393 ↑
La sottolineatura è mia ↑
Su questo, P. Pombeni, L’apertura, pp.181-184 ↑
P. Pombeni, L’apertura, pp. 189-191. La vicenda è stata ricostruita, anche con pubblicazione integrale del documento inviato ai vescovi da A. D’Angelo, Moro, i vescovi e l’aperura a sinistra, Roma, Studium, 2005. ↑
G. Formigoni, Moro, pp. 156-158; P. Pombeni, L’apertura, pp. 194-197 ↑
A. Fanfani, Diari, IV, pp. 247-248 ↑
P. Pombeni, L’apertura, p. 204 ↑
P. Pombeni, L’apertura, p. 206 ↑
Su tutto questo rinvio a P. Pombeni, L’apertura, pp. 207-2013 ↑
A. Fanfani, Diari, IV, p. 316 ↑
L’articolo comparve su “Oggi” il 27 dicembre, ma il 20 fu anticipato sul “Popolo” ↑
Su questo, G. Formigoni, Moro, pp. 160-163; P. Pombeni, L’apertura, pp. 207-20 ↑
Su questo passaggio si vedano, G. Formigoni, Moro, pp. 164-166; P. Pombeni, L’apertura, pp. 217-222 ↑
A. Fanfani, Diari, IV, pp. 567. ↑
Su questa complessa vicenda, che qui è tratteggiata in estrema sintesi, rinvio a G. Formigoni, Moro, pp. 166-167; P. Pombeni, L’apertura, pp. 225-228. ↑
La relazione di Elia è ripubblicata in, L. Elia, Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 77-114. ↑
Su tutta la fase fra settembre e novembre 1963 si veda P. Pombeni, L’apertura, pp. 232-237. ↑
Su tutto questo, G. Formigoni, Moro, pp. 171-173 ↑
Si veda per una valutazione interessante, M. Marchi, Aldo Moro segretario politico della Democrazia Cristiana. Una leadership politica in azione 1959-1964, In “Mondo Contemporaneo” 6(2010), 2, pp. 105 ss. ↑