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Introduzione

Aldo Moro e l’evoluzione della politica estera italiana, 1959-1968

di Leopoldo Nuti

Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, Il centro-sinistra (1959-1968), La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), 2024.
Quest'opera è rilasciata con licenza CC BY-NC 4.0
DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.3.2.intro


Questa introduzione analizza l’attività pubblica di Aldo Moro per l’intero arco temporale 1959-1968, esaminando quindi sia i discorsi e gli interventi del periodo in cui fu Segretario della Democrazia cristiana (1959-1963), raccolti nel primo tomo del III volume della Edizione nazionale, sia quelli relativi ai tre governi in cui fu Presidente del Consiglio dei Ministri (1963-1968), presentati nel secondo tomo dello stesso volume. A differenza di molte delle altre introduzioni, questa adotta però una prospettiva tematica, quella della politica estera italiana, per mettere meglio in risalto il contributo di Moro a questo specifico ambito della sua attività politica durante il decennio coperto dai due tomi. E’ in questi anni, infatti, che Moro inizia sempre di più a occuparsi in maniera sistematica anche di problemi di politica estera e si afferma progressivamente come statista sul piano internazionale.

Il saggio inizia ripercorrendo rapidamente le trasformazioni del sistema internazionale tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, soffermandosi brevemente sul processo di adattamento della politica estera italiana ai cambiamenti in atto. Nelle sezioni successive viene invece messa a fuoco la visione che Moro aveva del sistema internazionale e degli obiettivi della politica estera italiana. Ne emerge un quadro che, a giudizio di chi scrive, rafforza l’interpretazione di Moro offerta anche dalle altre analisi che accompagnano i vari volumi dell’Edizione nazionale, vale a dire quella di un politico in perenne equilibrio tra una forte impronta realista e la ricerca di spazi di manovra, per quanto angusti e ristretti, all’interno dei quali poter affermare le proprie idee e le proprie convinzioni.

1. L’evoluzione del quadro internazionale e della politica estera italiana tra il 1959 e il 1968

La storiografia degli ultimi decenni ha individuato nell’arco temporale coperto dal terzo volume della Edizione nazionale una significativa e profonda trasformazione del sistema internazionale. Tra il 1958 e il 1963 infatti l’equilibrio del sistema bipolare, stabilizzatosi gradualmente intorno alla metà degli anni cinquanta, venne messo a dura prova da forti tensioni che nel 1961 e nel 1962 culminarono rispettivamente nelle due gravi crisi di Berlino e Cuba, in cui l’ipotesi di un conflitto nucleare sembrò pericolosamente vicina a concretizzarsi.[1] Negli anni successivi però Stati Uniti e Unione Sovietica iniziarono la faticosa ricerca di un dialogo che riducesse quanto più possibile i rischi di uno scontro aperto: dalla fase più acuta e drammatica della guerra fredda, in cui soprattutto l’Unione Sovietica di Nikita Chruscev aveva a tutti i costi cercato di alterare lo status quo a proprio vantaggio, si passò quindi alla constatazione da parte di entrambe le superpotenze che ogni tentativo di modificare il quadro politico europeo comportava dei pericoli inaccettabili. Ebbe inizio perciò il tentativo di avviare una fase di graduale distensione, che si sarebbe poi concretizzata alla fine degli anni sessanta e avrebbe caratterizzato buona parte degli anni settanta. Non si trattò però di un processo lineare, dal momento che la ricerca del dialogo in Europa, portata avanti soprattutto sul terreno del controllo degli armamenti nucleari, ebbe come contrappunto una serie di violenti conflitti extra-europei, dalla guerra del Vietnam a quella arabo-israeliana, collegati in parte al processo di decolonizzazione e in parte all’emergere di nuove potenze regionali che si muovevano secondo logiche non sempre riconducibili a quelle del sistema bipolare. Questa progressiva trasformazione verso una forma meno rigida di confronto tra i blocchi, inoltre, condizionava in parte anche il processo di integrazione europea: il progredire del dialogo tra Mosca e Washington attenuava infatti la necessità di un’Europa coesa per fronteggiare la minaccia sovietica e lasciava spazio ai tentativi della Francia gaullista di rilanciare una politica estera dai tratti marcatamente nazionalisti, che per buona parte degli anni ’60 avrebbe inflitto una drammatica battuta di arresto al processo di integrazione.

Nel decennio che va dal 1958 al 1968 la politica estera italiana fu chiamata dunque ad adattarsi all’evoluzione di un sistema internazionale in cui i suoi due principali punti di riferimento, l’alleanza atlantica e l’integrazione europea, dovettero essere spesso ripensati e declinati secondo modalità differenti dal passato. Tra il 1958 e il 1963, in realtà, sembrò ancora prevalere una logica di profonda continuità con il passato: fino alla crisi di Cuba, infatti, la percezione di una minaccia sovietica che non solo non accennava a diminuire ma che anzi lanciava continuamente nuove sfide sembrava chiamare l’alleanza atlantica a intensificare la cooperazione e la coesione interna. Quelli sono perciò gli anni in cui la NATO è spinta a cercare formule efficaci per condividere gli strumenti attraverso i quali mettere in pratica la politica di deterrenza: in quel periodo si concretizza la prassi del nuclear sharing, la politica con cui gli Stati Uniti cercano di placare le ansie e le preoccupazioni dei membri europei dell’alleanza offrendo loro una limitata compartecipazione alla gestione delle proprie armi nucleari schierate in Europa. E sono anche gli anni in cui sembra ancora possibile contenere i primi passi della sfida gaullista e renderla compatibile con il processo di integrazione europea, bilanciando con l’allargamento alla Gran Bretagna il tentativo francese di introdurre, con il cosiddetto Piano Fouchet, meccanismi di cooperazione politica europea esterni alle strutture comunitarie allestite fino a quel momento. In questo contesto la politica estera italiana fu, fino al 1963, molto attiva sia sul fronte atlantico sia su quello europeo: i due pilastri della sua azione internazionale non vengono ancora messi in discussione ma offrono anzi spunti per numerose iniziative che si muovono lungo le linee di fondo adottate negli anni precedenti.[2]

Questa situazione relativamente stabile comincia a cambiare progressivamente tra la fine del 1962 e gli inizi del 1963, dapprima impercettibilmente e poi in maniera sempre più evidente. Man mano che a Washington emerge e si rafforza la logica della ricerca del dialogo con Mosca, infatti, in Italia si diffonde la preoccupazione che questa progressiva, e per molti versi auspicata, apertura alla distensione comporti però il sacrificio della politica di nuclear sharing della NATO attraverso intese che condizionino le aspirazioni italiane a una crescente condivisione dell’arsenale atomico americano. Timori, questi, che si concretizzarono poi tra il 1966 e il 1967, quando il dialogo tra Mosca e Washington trovò un punto di intesa in una formulazione del Trattato di non proliferazione nucleare che introdusse limiti severi a quanto le potenze nucleari firmatarie avrebbero potuto offrire ai propri alleati. Se a questa inversione di tendenza, che sembrava portare Washington a privilegiare il rapporto con Mosca a spese dei propri alleati, si aggiunge la crisi innescata nel marzo 1966 dalla decisione francese di uscire dall’organizzazione militare integrata della NATO, è facile capire come in Italia si potesse diffondere la percezione che il principale caposaldo della politica estera seguita fino a quel momento stesse subendo delle modifiche talmente profonde che richiedevano altrettanto profondi ripensamenti. L’inizio del processo di distensione e i primi risultati conseguiti nell’ambito del controllo degli armamenti con il trattato di non proliferazione vennero perciò vissuti da buona parte della classe dirigente italiana come un’alterazione del rapporto transatlantico che implicava conseguenze non sempre positive.[3]

Alterazione, questa, che veniva inoltre accresciuta e magnificata dalla contemporanea escalation della guerra del Vietnam. Per il governo italiano, infatti, quella guerra creava una situazione di particolare difficoltà – sia per l’effetto lacerante che il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti produceva per la coalizione di centro sinistra, sia per il timore che l’attenzione di Washington per i problemi del sud-est asiatico potesse implicare una minore considerazione, se non un vero e proprio disimpegno, nei confronti delle questioni europee.[4] Per non parlare poi del fatto che tra i ranghi della diplomazia italiana molti osservatori finivano per vedere un nesso tra il dialogo statunitense con Mosca in materia di controllo degli armamenti e la guerra in Asia, ipotizzando che per uscire dal pantano vietnamita gli Stati Uniti sarebbero stati costretti a chiedere l’aiuto sovietico e pagarlo a caro prezzo in termini di concessioni a spese degli alleati europei in materia di arms control e non-proliferazione.[5]

A questo quadro di diffusa incertezza atlantica si aggiungeva poi l’emergere della crisi del processo di integrazione europea, iniziata con il veto gaullista all’adesione britannica nel 1963, proseguita poi con la “crisi della sedia vuota” e la grave paralisi nelle attività delle istituzioni comunitarie della seconda metà del 1965, e culminata nel 1967 nel secondo veto francese alla rinnovata richiesta di adesione britannica nello stesso anno. “Dal 1963”, notava amaramente uno dei più acuti diplomatici italiani di allora, Roberto Ducci, “l’integrazione europea ha fatto passi indietro, come i gamberi.”[6] La sfida gaullista, minacciando non solo di bloccare ogni ulteriore rafforzamento della componente sovranazionale delle istituzioni europee, ma persino di rimettere in discussione i risultati conseguiti fino a quel momento, poneva quindi la politica estera italiana di fronte a una serie di problemi inediti, che richiedevano di essere affrontati con la massima cautela. A partire dal 1967, infine, alla crisi dei tradizionali punti di riferimento della politica estera italiana si sarebbe aggiunto il progressivo inasprimento delle tensioni legate al problema arabo-israeliano fino allo scoppio della guerra dei Sei Giorni, aprendo così un nuovo fronte di destabilizzazione in un ambito, quello mediterraneo e medio orientale, che non poteva non generare ulteriore allarme nel governo e alla Farnesina.[7]

Un’ultima considerazione da tener presente nell’analizzare l’evoluzione della politica estera italiana in questo decennio riguarda poi l’intricato e complesso rapporto con la trasformazione del quadro politico interno, e in particolare con l’apertura a sinistra. In un contesto politico quale quello italiano, la cui profonda divisione rifletteva ed era inscindibilmente connessa con la dimensione ideologica del confronto bipolare, ogni evoluzione di politica interna aveva profonde ripercussioni a livello internazionale, così come ogni alterazione dello status quo internazionale non poteva non avere conseguenze sul piano politico nazionale: talché diventa molto difficile, se non anche metodologicamente fuorviante, tenere separati i due piani. Tra il 1958 e il 1963, nella prima fase della ricerca di un’intesa tra la democrazia cristiana e il partito socialista, quella parte delle forze di governo che sostenevano questo progetto si sforzarono di dimostrare che un’eventuale collaborazione tra Dc e Psi non avrebbe intaccato minimamente le linee di fondo della politica estera seguita fino a quel momento, e che la ricerca di una stabilizzazione democratica tramite l’allargamento dell’area di governo al partito socialista non solo non contraddiceva la linea politica delle democrazie occidentali ma anzi ne costituiva in un certo senso la piena realizzazione. In quell’arco temporale, nonostante le gravi crisi che lo caratterizzano, i promotori del dialogo con il Psi sono in un certo senso facilitati nel seguire questa impostazione dal fatto che a livello internazionale la logica del confronto sembra prevalere su quella della ricerca del dialogo. Al di là di qualche timido accenno all’interesse per la distensione, da parte delle forze di governo tradizionali si chiede infatti sostanzialmente al Psi di aderire, o almeno di non alterare, le linee di fondo dell’atlantismo e dell’europeismo, presentate come immodificabili e immutabili.

Dal 1963 al 1968, cioè nel momento in cui l’esperimento di centrosinistra diventa una realtà di governo, la politica estera della nuova maggioranza si trova invece a dover affrontare una realtà in rapido cambiamento e il governo subisce - e teme - le ripercussioni e i contraccolpi di un sistema internazionale in profonda evoluzione, in cui le certezze di un tempo mostrano inquietanti incrinature. Nel momento in cui si avvia il dialogo tra Mosca e Washington e De Gaulle sferra i suoi attacchi più virulenti contro l’integrazione europea, infatti, il perimetro internazionale saldamente delineato negli anni precedenti assume contorni molto più sfumati e incerti, e il suo intreccio con la evoluzione politica interna diventa più complesso e articolato. A quale contesto euro-atlantico devono restare fedeli i governi di centro-sinistra, nel momento in cui i termini di fondo della realtà internazionale vengono rimessi in discussione? Le modalità della partecipazione italiana all’alleanza atlantica e al progetto di integrazione europea diventano quindi sempre più oggetto di declinazioni anche molto diverse, ciascuna con profonde ripercussioni sul quadro politico interno.


2. Alla Segreteria della Democrazia Cristiana

Qual è il ruolo di Aldo Moro nella formulazione della politica estera italiana nell’arco temporale coperto dal terzo volume dell’Edizione nazionale? Quale visione di politica internazionale emerge dagli scritti e dai discorsi racchiusi nei due tomi?

Innanzitutto occorre fare una distinzione, forse scontata ma comunque importante, tra il periodo della segreteria del partito e quello della Presidenza del Consiglio. Inevitabilmente, gli scritti e i discorsi presentati nel primo tomo di questo terzo volume si riferiscono per la maggior parte a questioni di politica interna e soprattutto all’organizzazione del partito. Va inoltre tenuto presente che fino a questo momento la carriera politica di Moro lo aveva visto impegnato solo sporadicamente sui grandi temi della politica internazionale, con l’unica importante eccezione del sottosegretariato agli Esteri dal maggio 1948 al gennaio 1950 – esperienza ricordata soprattutto per una sua presunta ambivalenza sul delicato tema dell’adesione al Patto Atlantico, smentita peraltro dallo stesso Moro nel suo intervento alla Camera quando, qualche giorno dopo l’approvazione dell’ordine del giorno Spataro con cui si approvava la decisione del governo di chiedere l’adesione all’alleanza allora in via di costituzione, dichiarava di approvarlo in pieno.[8] Certo, negli scritti e nei discorsi degli anni precedenti non mancano riflessioni e spunti su temi come pace, guerra, e il ruolo dello stato, ma solo occasionalmente si affrontano i temi specifici del dibattito internazionale del momento.

Con la nomina alla Segreteria invece i riferimenti a problemi e questioni di politica internazionale si fanno più frequenti, e permettono di definire con chiarezza le caratteristiche che contraddistingueranno anche in seguito la sua visione del sistema internazionale in cui l’Italia deve operare. Innanzitutto nei discorsi di Moro emerge chiaramente la consapevolezza della complessità dei temi di politica internazionale, che non possono essere analizzati con semplificazioni e banalizzazioni: “Le questioni di politica estera, caro De Mita, sono le più delicate, le più impegnative, le più difficili”, ricorda nel discorso agli iscritti del 3 luglio 1959, e richiedono la costante consapevolezza della necessità di non separare “la saldezza dei nostri ordinamenti democratici, la sicurezza del nostro paese, le operanti solidarietà internazionali nelle quali siamo inseriti” .[9] Fin dai primi mesi alla guida del partito appare chiarissimo quindi quanto per il neo Segretario lo svolgimento della “funzione storica” della DC - rafforzare la democrazia in Italia contenendo al tempo stesso la pressione del Partito Comunista – sia strettamente legato a un contesto internazionale stabile in cui l’Italia sia saldamente inserita.

Quando nei suoi discorsi si occupa di politica estera italiana, Moro ne analizza dunque i principali punti di riferimento richiamandoli sistematicamente in un ordine che sembra riflettere quasi una sorta di scala gerarchica: al primo posto, invariabilmente, viene sempre ricordata la centralità dell’Alleanza atlantica, spesso citata insieme al rapporto di “stretta amicizia” con gli Stati Uniti, che dell’alleanza era “il nucleo essenziale”. NATO e Stati Uniti erano “il dato fondamentale ed immutabile della nostra politica estera. Relativamente a questa posizione di fondo non si possono attendere revisioni od attenuazioni”.[10]

Per ribadire questa centralità della dimensione atlantica, Moro conia una definizione che usa per tutti gli anni della Segreteria e che continuerà ad usare anche da Presidente del Consiglio: quella della “pace nella sicurezza”, come a voler ricordare a chi lo ascolta che i due termini del binomio sono inscindibili, e che si può avere la prima solo garantendo saldamente la seconda. Questa definizione implica, come Moro ripete spesso, un’assunzione di responsabilità, cioè la necessità per l’Italia di svolgere un ruolo attivo nel rafforzare gli strumenti che quella sicurezza devono garantire. Impostazione, questa, che emerge chiaramente fin dal primo discorso tenuto a Bari da segretario del Partito, il 5 aprile del 1959: l’adesione alla NATO ha

assicurato una politica di intesa e di pace tra i popoli, e quando noi adeguiamo le nostre strutture difensive, rispondendo con ciò alle altrui iniziative di continuo perfezionamento degli strumenti bellici, non facciamo che continuare nella nostra linea di sicurezza nei rapporti internazionali, perché non vi sia tentazione all’aggressione e si garantisca progressivamente la pace. […] La DC è sì per la distensione e per la pace, ma non in condizioni di debolezza e di disparità.[11]

Era solo grazie a questa posizione di fermezza atlantica, argomentava Moro, che era stato possibile compiere i primi incerti passi verso il dialogo con Mosca senza intaccare la sicurezza dell’Occidente. Nell’analizzare lo svolgimento della seconda crisi di Berlino inauguratasi nel 1958 e proseguita con l’inaspettata apertura di un dialogo tra Mosca e Washington nell’anno successivo, Moro ricordava innanzitutto con parole di elogio la posizione del Segretario di Stato americano John Foster Dulles, “a cui molto si deve se l’Occidente non ha barcollato nel momento forse più difficile,”[12] per sottolineare poi come la scelta del Presidente americano Eisenhower “di aprire la via a realistici negoziati” fosse stata compiuta “in posizione di dignità e di forza.”[13] La distensione con l’URSS, ove si fosse realmente verificata, era dunque possibile solo da una posizione di condivisa solidità che non compromettesse gli interessi e gli ideali dell’Occidente. Soprattutto si doveva evitare ogni “riflesso nella polemica interna di avvenimenti dai quali può realmente dipendere l’avvenire dell’umanità”, perché ciò creava “pericolose confusioni nell’animo popolare e negli orientamenti dell’opinione pubblica italiana.”[14]

Questo concetto veniva poi ribadito fermamente da Moro per mettere il PSI di fronte alle proprie responsabilità e chiedergli una scelta netta e non una “timida accettazione degli impegni di solidarietà atlantica”: nella “sollecitudine” con cui il partito socialista sembrava accogliere le prospettive di distensione emerse alla fine del 1959 a Moro sembrava invece di vedere innanzitutto “il desiderio di essere in qualche modo sollevato dall’imbarazzo di una scelta veramente discriminante, quella che i partiti socialisti europei hanno fatto in favore del proprio Paese incondizionatamente, e del sistema di libertà che caratterizza il mondo intero” , “per evitare di assumere una posizione netta sui problemi della sicurezza.” [15] L’attuazione del progetto di centro sinistra e un eventuale dialogo tra la DC e il PSI; in altre parole, non doveva compromettere minimamente le direttrici di fondo della politica estera italiana.

Quando poi il dialogo Est-Ovest faticosamente iniziato si arrestò bruscamente in modo “sconcertante” nel 1960 “per la dura presa di posizione sovietica”, a Moro non restava che ribadire “la permanente esigenza di solidarietà occidentale e atlantica per fronteggiare con fermezza e insieme con serenità e misura la pressione sostanzialmente immutata del mondo comunista ai confini del mondo libero”, una “esigenza di chiarezza in una posizione di fedeltà atlantica senza riserve”. [16] Linea, questa, che sarebbe rimasta inalterata anche di fronte alle fortissime tensioni del 1961 e all’innalzamento del muro di Berlino nell’agosto di quell’anno.[17] Di fronte all’inasprimento della situazione internazionale e alle oscillazioni da parte del Partito socialista, che esitava a professare la sua piena adesione all’alleanza, nella seconda parte di quell’anno Moro insistette infatti ripetutamente che non sarebbe stato “in alcun modo concepibile il sovrapporsi, ad una piattaforma di politica estera atlantica, non solo di un modo pigro, stiracchiato ed eversivo di attuarla e in relazione alla ideologia neutralista professata quanto, e più, di un modo di attuazione che non solo in via di fatto, ma intenzionalmente, si rivolga a negare la validità di quella piattaforma e superarla. Sarebbe questa una certa e inammissibile menomazione dell’alleanza.”[18] Ne conseguiva che “la faticosa ricerca della pace, il perseguimento di intese anche limitate che aiutino a sciogliere, grado a grado, il groviglio delle diffidenze e dei contrasti di interesse non deve significare mai un abbandono dei principi, un’attenuazione dei giudizi, una adesione meno intensa a quegli ideali morali e politici che caratterizzano la nostra lotta per un mondo libero ed umano”.[19] Né tantomeno poteva essere accettata la surrettizia strategia che Moro riteneva di individuare nelle proposte del PCI, “quella sorta di sabotaggio interno, di continua messa in mora delle ragioni unitarie che scopertamente l’On. Togliatti suggerisce come temporaneo sostitutivo dello svincolo dell’Italia dal blocco occidentale.”[20] Anche gesti che potevano apparire non sempre in piena sintonia con questa impostazione, come il viaggio compiuto nel 1961 dal Presidente del Consiglio Fanfani in Unione Sovietica alla vigilia della costruzione del muro di Berlino, andavano ricondotti perciò senza dubbi e esitazioni “nel quadro dell’alleanza”, come iniziative messe in atto da esponenti di un governo “che intende rimanere fedele alle proprie naturali alleanze.”[21]

E’ importante inoltre ricordare che alla base di questo continuo richiamo alla solidarietà atlantica c’è una significativa scelta di parole che lasciano intravedere una lettura della realtà internazionale improntata a un realismo senza illusioni: Moro fa spesso riferimento infatti alla necessità di tener conto della “politica di potenza” praticata dagli altri e dell’importanza che l’Italia contribuisca “a realizzare un equilibrio di forze” [22] e ripete l’importanza della “fermezza che scoraggia l’altrui prepotenza e l’aggressione”, pur tenendo sempre presenti “gli immensi rischi del conflitto nucleare”[23] e la “drammatica realtà” che quell’equilibrio fosse “terribilmente esplosivo, perché fondato su armi di inimmaginabile potenza distruttiva”.[24] Certo, la sfida mondiale si combatteva sul piano della forza come su quello ideale: “Il mondo libero ha la responsabilità di fronteggiare, in un giuoco di lungo respiro, gioco di forze e di idee insieme, il mondo comunista”. Ma era solo partendo da una base saldissima che si poteva immaginare un futuro dialogo con l’avversario “La sua posizione [del mondo libero, nda] dev’essere, com’è stata sinora, di fermezza, di responsabilità, di prudenza. Esso deve avere, come ha avuto finora, capacità di dialogo e di esame oggettivo dei problemi che dividono il mondo.” [25]

A proposito della crisi di Cuba del 1962 e dei rischi gravissimi che ne erano scaturiti, avrebbe perciò commentato che

un’alterazione, tanto più deplorevole perché intenzionalmente coperta, dell’equilibrio delle forze [aveva] costretto gli Stati Uniti ad una ferma iniziativa capace di ristabilire lo stato delle cose e di impedire, per una non più controllabile concatenazione di eventi, il definitivo deterioramento della situazione ed un pericolo grave per la pace. In un mondo dominato dalla forza, ancorato all’equilibrio di potenza, è stata purtroppo necessaria, ma anche per fortuna sufficiente un’iniziativa fermissima proprio per servire la pace.

E’ vero che questa giustificazione così netta veniva poi parzialmente attenuata dalle parole successive, in cui Moro aggiungeva, in tono di approvazione che quella “iniziativa, pur così severa, è stata intenzionalmente incanalata verso l’ONU e verso il negoziato.”, ma il tono generale del discorso restava di piena condivisione della fermezza americana.[26] E in uno dei suoi ultimi discorsi da segretario del partito avrebbe spiegato nuovamente come “la solidarietà politica e militare dell’occidente, che è il nostro sistema, sia stata e sia uno strumento responsabile per l’equilibrio di potenza e perciò, nell’attuale fase, per la pace del mondo. Un’alleanza siffatta è dunque ad un tempo garanzia dell’equilibrio che assicura la pace e principio di una politica di graduale e cauto avvicinamento dei blocchi che ponga su altre e più stabili basi la pace del mondo.”[27]

La partecipazione italiana all’alleanza era quindi un tassello importante di questo complesso puzzle, un “coefficiente di un delicato equilibrio di forze, sul quale si regge, nell’attesa e nella speranza di un più stabile ed umano assetto delle relazioni internazionali, la pace del mondo.”[28] Pur ritenendo che la via delle trattative e del negoziato costituisse “l’unico mezzo per la composizione di ogni vertenza”, Moro non esitava quindi a concludere che “la pace si fondi, per quanto riguarda l’Occidente, sulla unità, sulla forza sulla reciproca collaborazione dei Paesi dell’Alleanza Atlantica”. [29] Questo significava perciò che la politica estera italiana non poteva e non doveva tirarsi indietro di fronte ai compiti che il mantenimento di quell’equilibrio richiedeva : a Luigi Pintor che nel corso di un’accesa Tribuna politica alla fine del 1961 gli chiedeva se non intendesse “prendere iniziative per chiedere l’allontanamento dal territorio nazionale di queste basi atomiche straniere” (riferendosi in maniera erronea alla presenza di missili a raggio intermedio Jupiter nelle Murge, che in realtà erano operati congiuntamente da personale statunitense e personale italiano della 36° Aerobrigata di Interdizione Strategica), Moro rispondeva che quando in Parlamento si era discusso dello schieramento di armi nucleari in Italia “si ritenne responsabilmente che alla difesa generale del mondo libero fosse necessario questo apporto che certamente schiera l’Italia tra i paesi più esposti e più partecipi alla difesa del mondo libero.”[30] In questo momento storico, avrebbe ribadito in un’altra circostanza, Moro riteneva che “il primo e più necessario comportamento dell’Occidente sia quello di non disperdere la propria [forza], di tenerla compatta ed efficiente.”[31]

Anche in una fase di nuova apertura al dialogo come quella che fu inaugurata da Kennedy e Chruscev dopo la crisi di Cuba del 1962, se la NATO riteneva opportuno rilanciare il dialogo sul nuclear sharing e mettere allo studio la creazione della cosiddetta Forza multilaterale, l’Italia doveva ribadire la sua “piena fedeltà all’alleanza”, confermando una “partecipazione ad essa fatta di dignità, di iniziativa, di effettiva corresponsabilità.” Coerentemente con questa impostazione Moro dichiarava quindi apertamente di essere “favorevole alle forme nuove che adeguando gli strumenti alla realtà dei tempi la NATO sta studiando per fronteggiare la situazione oggi con i mezzi che l’oggi richiede”. [32] E in termini meno sfumati poco dopo avrebbe chiarito che con il consenso della DC, governo e parlamento avevano “accettato la partecipazione dell’Italia all’armamento atomico multilaterale, con il che essa assume certo una posizione nuova e più impegnata in coerenza con le fondamentali ragioni dell’alleanza, ma anche contribuisce per parte sua a stornare il gravissimo rischio della disseminazione delle armi atomiche, il che renderebbe certo meno controllabile la situazione internazionale”. [33]

Altrettanto importante della fermezza atlantica così sistematicamente ribadita, nel linguaggio politico di Moro, è il processo di integrazione europea, a cui in questi anni fa spesso riferimento insieme alla NATO con espressioni come “la solidarietà atlantica e europea”, anche se talora sembra attribuirgli quasi impercettibilmente una posizione appena inferiore a quella del contesto atlantico, che nelle sue analisi di politica internazionale occupa sempre il primo posto. Dell’integrazione europea Moro coglie sia l’aspetto ideale sia quello più pratico, dal momento che nei suoi discorsi dedica spesso particolare attenzione alle ricadute positive della integrazione per l’economia italiana. Nella relazione al VII Congresso Nazionale della DC nel settembre 1959, ad esempio, rivendica con orgoglio il ruolo della DC nell’aver portato avanti l’apertura dell’economia italiana ai mercati internazionali “specie nei suoi più recenti e ardui sviluppi europeistici”

Dai criteri con cui venne configurata la tariffa doganale della nuova Italia post-bellica alla pronta adesione del nostro Paese alla politica di liberalizzazione degli scambi, alla nostra partecipazione alla Comunità del carbone e dell’acciaio prima, al Mercato Comune poi, è tutto un processo di progressiva apertura delle nostre frontiere economiche al mondo esterno e, corrispondentemente, un rafforzamento continuo delle nostre strutture produttive che, dotate di protezioni via via minori, sono state messe a confronto con mercati più vasti e indotte a cimentarsi con prodotti nuovi e più complessi.[34]

E conclude poi la sua analisi descrivendo i benefici concreti che dalla partecipazione a quel processo è lecito aspettarsi in ambito economico e sociale:

Il Mercato Comune, in quanto consente sviluppi oggi impensabili nel ristretto ambito del mercato nazionale, è destinato quindi a introdurre un potente stimolo allo sviluppo della nostra economia e a farci raggiungere in anticipo i traguardi di reddito e di occupazione che ci eravamo proposti; ovviamente il conseguimento di quelle mete implica mutamenti profondi nel nostro sistema produttivo, in sostanza tutti i mutamenti che sono necessari per aumentare più rapidamente la produttività del lavoro italiano. Questo processo di adattamento si svolgerà con gradualità e in un sistema di garanzie, di salvaguardie e di reciproci aiuti che costituiscano appunto la principale ragion d’essere del Trattato di Roma.

Questo percorso dalle ricadute così importanti sul piano economico aveva però anche, se non soprattutto, una valenza che trascendeva i vantaggi pratici immediati, e finiva per acquisire le caratteristiche di un obiettivo ideale a cui tendere con tutte le forze (anche se una lettura attenta di questa citazione non può non cogliere il riferimento in prima battuta all’alleanza):

Entro il sistema di difesa, la costruzione di una patria nuova e più grande, le cui dimensioni siano corrispettive alla intensità dei processi della vita economico sociale ed alla ampiezza del gioco politico mondiale, è il compito più positivo, più costruttivo, più duraturo, più rassicurante nel quale ci si possa cimentare. Questo può essere un ideale capace di muovere le nuove generazioni, una idea forza che dia contenuto e in certo senso concretezza agli ideali democratici. Una nuova patria nel mondo libero; un più valido sostegno per il mondo libero.[35]

Era necessario perciò rendersi conto che la costruzione dell’Europa non implicava “la perdita della patria, ma il ritrovamento di una patria più grande, in armonia con le nuove dimensioni del mondo e con la complessità degli attuali rapporti internazionali.” [36]

Questo stesso concetto avrebbe ribadito con grande vigore all’apertura della campagna elettorale del 1963:

Per i cattolici italiani l’idea europea rappresenta la sintesi delle proprie esperienze civili e sociali e la proiezione storica di un grande disegno politico. Siamo dunque per un’Europa unita, democratica, saldamente inserita nell’Alleanza occidentale, aperta verso il resto del mondo. Vogliamo un’Europa che non precluda artificiosamente nessuna delle sue possibili preziose componenti. Vogliamo un’Europa nella quale sempre più il vecchio e superato rapporto bilaterale ceda il passo ad autentiche forme d’integrazione, a qualche cosa di nuovo e di vitale. Il segno di una nuova e più alta civiltà.”[37]

Questo percorso così importante poteva accettare di essere declinato secondo vari punti di vista e tollerare al suo interno una varietà di proposte, purché si preservassero intatti i risultati conseguiti fino a quel momento e non si ritardasse o condizionasse il conseguimento dell’obiettivo finale. Moro sembrava quindi guardare con prudente interesse anche ai tentativi gaullisti di approfondire la cooperazione politica sul piano intergovernativo, il cosiddetto Piano Fouchet, a patto che non implicassero un’attenuazione degli sforzi sul piano sovranazionale:

Mentre debbono essere approfondite e ravvivate le esperienze sovranazionali già in atto in decisivi settori della vita economica, il processo d’integrazione deve continuare sospinto dal desiderio dei popoli e dalla responsabile iniziativa dei governi, utilizzando proprio per questo fine tutti gli accostamenti, tutte le intese che i quotidiani rapporti in un’Europa naturalmente solidale ed esposta agli stessi rischi vanno stabilendo. I rapporti politici tra gli Stati europei non devono essere una ragione di ritardo, ma una occasione per avviare un più ampio ed intenso sviluppo della integrazione politica europea.[38]

Se le manovre francesi per spostare l’asse della cooperazione europea dal piano sovranazionale a quello intergovernativo venivano viste dunque con una certa diffidenza, Moro mostrava invece di gradire molto di più il possibile allargamento della Comunità alla Gran Bretagna, in linea con la posizione del governo Fanfani.[39] Fin dalle prime dichiarazioni del Primo Ministro Harold MacMillan nel 1961, perciò, Moro esprimeva sia soddisfazione per la scelta britannica sia fiducia nel negoziato che stava cominciando, esprimendo anche il suo personale compiacimento per quanto l’Italia poteva aver fatto per spingere il governo britannico a un passo così importante:

Siamo lieti di poter annoverare tra i successi di questa azione la decisione britannica di rompere gli indugi e le perplessità che la trattenevano dal mettersi insieme a noi su di un cammino di sforzi comuni e di prospettive comuni. L’ultima volta che il Primo Ministro inglese Mac Millan fu ospite di Roma, nel dicembre del 1960, egli affermò che ‘quando si tengono vie separate nella difesa dei propri interessi economici, si finisce fatalmente per tenere vie separate nella difesa dei propri interessi politici’. È questa chiara visione della realtà che ha portato l’Inghilterra alla sua scelta coraggiosa. Decidendo di negoziare per entrare nel Mercato Comune, la Gran Bretagna sta per porre la parola fine alla sua lunga, secolare tradizione di splendido isolamento. Il processo di unificazione europea ha raggiunto, in questo rivoluzionario avvenimento, uno dei suoi traguardi più difficili e più necessari. Salutiamo la decisione britannica con amichevole compiacimento, con fervida speranza, come un sicuro auspicio dei successi che insieme − su questa strada − ci attendono.[40]

Quando questi due percorsi – il progetto gaullista di cooperazione intergovernativa e quello di allargamento alla Gran Bretagna – entrarono in rotta di collisione e produssero il drammatico risultato del gennaio 1963, aprendo una grave crisi nel processo di integrazione, Moro sembrò prendere atto delle crescenti difficoltà ma ribadì la ferma determinazione del suo partito a non deviare dalle scelte fatte fino a quel momento. Alla fine di gennaio del 1963, nel rispondere alla mozione di sfiducia presentata da Togliatti contro il governo Fanfani, argomentava infatti

Siamo stati sempre favorevoli ad ogni processo di espansione e di integrazione europea, cioè abbiamo guardato con favore ogni allargamento della sfera di azione dell’Europa unita, ogni approfondimento dei vincoli che nell’ambito di questa comunità tendono all’auspicata integrazione. Pare a noi che, di fronte alle difficoltà che si profilano, senza indulgere ad alcun esclusivismo, che reputiamo pericoloso, si debba procedere con decisa iniziativa per far valere, per quanto sta in noi, le vitali idee dell’integrazione europea nella quale abbiamo creduto, e continuiamo a credere, quali che siano le difficoltà che alla sua attuazione si oppongano in questo momento.”[41]

E di lì a poco avrebbe aggiunto, in una intervista a Il Quotidiano, che gli avvenimenti del gennaio 1963 avevano “destato delusione, amarezza e preoccupazione” e che si trattava di “una grave battuta d’arresto sulla difficile via dell’unità economica e politica dell’Europa.” La risposta italiana però doveva essere una sola:

Dobbiamo agire serenamente, freddamente, senza precipitazione, riaffermando gli ideali di unità sovranazionale in Europa e la solidarietà nell’alleanza con gli Stati Uniti d’America, attenti a non distruggere nessuna delle positive acquisizioni già ottenute, ad evitare per parte nostra tutto ciò che possa contraddire la costante linea di sviluppo della nostra politica europea, a cogliere ogni occasione per fare dei passi innanzi sulla via maestra dell’unità e della solidarietà.”[42]

Soprattutto, la futura evoluzione dell’Europa non doveva avere ambizioni terzaforziste o di contrapposizione all’interno dell’Occidente: di fronte alla sfida gaullista, mai nominata apertamente, si doveva respingere l’ipotesi di “un’Europa terza forza, sia essa proposta da sinistra o da destra, per fare invece dell’Europa una collaboratrice in condizioni di dignità e di eguaglianza della grande democrazia nordamericana, dalla quale in modo così largo dipendono la nostra sicurezza e la pace del mondo.”[43] Posizione, questa, che una volta alla guida del governo sarebbe stato chiamato a mantenere di fronte a difficoltà molto maggiori di quelle del gennaio 1963.

Oltre alla solidarietà atlantica e al sostegno all’integrazione europea, i discorsi degli anni della segreteria del Partito mostrano infine una crescente attenzione al ruolo delle Nazioni Unite e soprattutto al dialogo con gli stati che uscivano in quegli stessi anni dalla esperienza coloniale. Si tratta, in un certo senso, del terzo leitmotiv che caratterizza le riflessioni del Segretario Nazionale del Partito, attento a cogliere le nuove dimensioni della politica internazionale. Oltre che alla saldezza della posizione atlantica, diceva Moro nel 1961, “la nostra attenzione deve continuare tuttavia ad essere rivolta nella duplice direzione della realizzazione sempre più compiuta dell’unità europea e dello stabilimento di intensi rapporti con i paesi nuovi che si affacciano pieni di vitalità, di curiosità e di interessi sulla scena internazionale”.[44] Questa visione si fondava sulla convinzione, maturata da buona parte della classe politica italiana all’inizio degli anni cinquanta dopo la fine dell’esperienza coloniale, che l’Italia potesse svolgere un importante ruolo di interlocutore nei confronti dei paesi di nuova indipendenza.

Per i paesi nuovi si tratta di una elevazione e di un arricchimento della vita politica internazionale, di una prova impegnativa della capacità di persuadere, attrarre, influenzare, ispirare fiducia del mondo libero, di un evidente interesse del nostro paese. L’Italia può assolvere a questo proposito una utile funzione di contatto non solo per sé, ma per tutti. La sua posizione storica, la sua libertà di movimento, la mancanza di remore e di sospetti nei suoi confronti, la sua carica umana danno al nostro paese delle possibilità di azione efficace che sarebbe follia disperdere. Deve essere questo, perciò, non un indirizzo marginale, ma un interesse di fondo della nostra politica, al quale dedicare tutta l’attenzione costruttiva che esso merita.[45]

Al VII Congresso Nazionale della DC, agli inizi del 1962, Moro confermava l’importanza crescente della Nazioni Unite come l’alveo in cui i paesi di nuova indipendenza potessero trovare una sede adeguata per poter svolgere il ruolo a cui ambivano: le Nazioni Unite, “pur con inevitabili deficienze, rappresentano il foro significativo della opinione pubblica mondiale ed il preludio ad un assetto organicamente ordinato e veramente pacifico del mondo”.[46] E sui paesi di nuova indipendenza continuava

Un altro settore al quale va il nostro sguardo con particolare interesse in questa rassegna della situazione mondiale, è l’area delle nuove indipendenze, dei continenti in fase di sviluppo e dei popoli che stanno giungendo − talora felicemente, talora faticosamente e con turbate vicende − alla ribalta delle civili libertà. In questi due anni non meno di venti Paesi sono entrati a far parte della comunità delle Nazioni Unite: quasi tutti i Paesi africani, dato che l’Africa è stato l’ultimo continente ad uscire dagli schemi delle vecchie sovranità coloniali ed anzi non ne è ancora completamente uscito. È stato detto, appunto, che il decennio degli anni Sessanta sarà il decennio dell’Africa.[47]

3. Alla Presidenza del Consiglio, 1963-1968

Inevitabilmente, nei discorsi e negli articoli contenuti nel secondo tomo del III volume, le analisi di politica estera diventano non solo molto più frequenti ma anche più circostanziate e legate ad avvenimenti e problemi molto specifici. Alle riflessioni di natura più generale del periodo 1959-1963 si aggiungono perciò, nel quinquennio successivo, numerosi interventi mirati. Le linee di fondo della politica estera italiana non cambiano, e NATO, integrazione europea e Nazioni Unite restano il perimetro all’interno del quale il Presidente del Consiglio ritiene che il suo governo debba muoversi. Tuttavia il tono generale delle osservazioni di Moro si fa più articolato, l’analisi dei problemi più dettagliata e incisiva. Durante questo arco temporale quel perimetro euro-atlantico subì però progressivamente una serie di profonde trasformazioni, e soprattutto a partire dal 1965 i governi guidati da Moro si trovarono ad affrontare un sistema internazionale in cui i tradizionali punti di riferimento della politica estera italiana vennero sistematicamente rimessi in discussione.[48] Quanto queste crescenti difficoltà fossero destinate a turbare la gestione della politica estera italiana, del resto, lo confermano le complesse e tumultuose vicende che portarono prima alle dimissioni del Ministro degli Esteri Fanfani e poi a quelle dell’ambasciatore a Washington, Sergio Fenoaltea,

Il 1964, da questo punto di vista, fu un anno in un certo senso di transizione, in cui sembrava ancora possibile muoversi lungo un percorso prestabilito. Nella maggior parte dei discorsi di quel periodo prevale perciò un moderato ottimismo, nonostante le crisi dell’anno precedente e il trauma dell’omicidio di Kennedy, al cui ricordo Moro dedica parole accorate e commosse.[49] La costruzione europea, nonostante tutto, aveva dato prova di “efficacia e solidità”, dice il Presidente del Consiglio salutando la visita in Italia del Cancelliere della Repubblica Federale tedesca Ludwig Erhard, e quindi implicitamente sembrava essere stata in grado di reggere agli attacchi gaullisti, anche se i risultati auspicati fino a poco tempo prima non sembravano più di immediata attuabilità.[50] Nel suo intervento a chiusura del Congresso Nazionale della DC, nel settembre di quello stesso anno, Moro sottolineava dunque come fosse “innegabile” che la costruzione europea avesse incontrato momenti di difficoltà, “ostacoli che prima si pensava potessero essere facilmente superati”, ma questo non significava che la costruzione di un’Europa integrata a beneficio delle generazioni future non dovesse restare uno dei principali obiettivi della politica estera italiana.[51] In altre parole Moro rimaneva convinto, come dichiarò esplicitamente nel suo primo viaggio ufficiale da Presidente del Consiglio, svolto non casualmente in Gran Bretagna, che si dovesse immaginare l’Europa di domani “come una unione aperta alla collaborazione internazionale e legata ai Paesi del Nord America in intimo vincolo di solidarietà e interdipendenza”, e che “nell’insieme di questa visione politica l’amicizia fra la Gran Bretagna e l’Italia rappresenta[sse] un fattore di armonia, di stabilità e di progresso.” [52] Rivolgendosi all’Associazione della stampa estera a Londra ribadiva perciò la sua fiducia nell’Alleanza atlantica e in una Europa “aperta verso i paesi democratici”, che “non potrebbe dirsi compiuta senza la Gran Bretagna.”[53]

Anche per quanto riguarda l’alleanza atlantica, in quei primi mesi della sua azione di governo, la fiducia di Moro sembra immutata. La NATO, spiega al Congresso Nazionale DC, rimane la principale garanzia della “pace nella sicurezza.” La ricerca “delle vie della pace”, resa quanto mai necessaria di fronte alla “tragica, inimmaginabile prospettiva di una totale distruzione dell’umanità”, si deve svolgere “nell’ambito della sicurezza che ci viene garantita da un efficace schieramento di forze, […] sotto il tetto protettivo di questa drammatica impossibilità di una guerra nucleare.” Si affida quindi “in questa fase” a un equilibrio delle forze che scongiuri la guerra e permetta una politica di solidarietà e pace”, sperando che un domani l’equilibrio del terrore sia sostituito da un clima di fiducia e solidarietà.[54]

E’ a partire dal 1965 che il contesto euroatlantico comincia a registrare i primi segnali delle difficoltà che aumenteranno rapidamente nei mesi e negli anni seguenti. Nel febbraio di quell’anno, infatti, gli Stati Uniti iniziarono i sistematici bombardamenti del Vietnam del Nord prima con la breve operazione Flaming Dart e poi con Rolling Thunder, destinata a durare, sia pure con qualche interruzione, fino al 1968.[55] Per Moro il crescente impegno americano in Vietnam avrebbe costituito uno dei principali problemi di politica estera che i suoi governi si sarebbero trovati ad affrontare. Già dal 12 febbraio egli doveva rispondere a una serie di interrogazioni parlamentari sui bombardamenti statunitensi. Fu in quella occasione che il Presidente del Consiglio dichiarò per la prima volta “la doverosa comprensione” del suo governo nei confronti delle azioni americane, un’espressione che non avrebbe mancato di attirargli critiche sia da destra sia da sinistra. In questa prima fase del conflitto Moro, pur sottolineando la “viva preoccupazione” con cui seguiva quegli avvenimenti, avrebbe cercato di presentare gli inizi dell’escalation imputandone la causa soprattutto al Vietnam del Nord e sottolineando come gli Stati Uniti avessero affrontato la situazione “con senso di responsabilità” e come non si potesse imputare loro “una volontà di premeditata aggressione”.[56]

Nei mesi successivi questa posizione non sarebbe cambiata, né la guerra avrebbe condizionato l’esito del primo viaggio americano di Moro nell’aprile 1965, durante il quale egli ebbe modo di ribadire pubblicamente gli stretti rapporti tra Roma e Washington senza mai menzionare apertamente la questione vietnamita, anche se naturalmente fu oggetto di discussione tra lui e il Presidente Johnson durante una delle loro conversazioni private.[57] E’ significativo però che da un lato l’amministrazione Johnson mostrasse piena comprensione di quanto l’escalation potesse creare profonde lacerazioni all’interno del governo di centro sinistra, come scriveva al Presidente Johnson uno dei suoi più stretti assistenti, Jack Valenti, mettendo in evidenza le difficoltà del PSI;[58] e dall’altro che proprio sulla questione vietnamita in quegli stessi mesi il governo italiano ricercasse una qualche sintonia con quello laburista britannico, inviando a Londra con questo scopo in una missione confidenziale il consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica, Franco Malfatti.[59] Ed è altrettanto significativo che in quegli stessi mesi fosse il Primo Ministro britannico Harold Wilson a compiere una visita romana e che Moro utilizzasse questa occasione per ribadire gli stretti rapporti tra i due governi. In realtà, come avrebbe ricordato lo stesso Moro più avanti, il viaggio di Wilson servì anche a verificare che tra i due governi esistesse una stretta coincidenza di vedute sulla gestione della crisi vietnamita, coincidenza che avrebbe poi portato il governo italiano a svolgere “un’azione diplomatica indipendente, ma in significativo parallelismo con quelle del Governo britannico, la cui posizione è più affine a quella italiana”.[60]

Quanto il conflitto in Vietnam potesse diventare un problema drammatico per il suo governo, Moro lo avrebbe poi constatato alla fine del 1965, quando scoppiò il caso La Pira che portò alle dimissioni del Ministro degli Esteri Fanfani, dapprima respinte e poi accettate.[61] Nel susseguirsi di accuse e polemiche che quella vicenda innescò, Moro ebbe modo di ribadire con fermezza la posizione del suo governo, che seguiva sì con preoccupazione l’inasprirsi del conflitto e privilegiava la ricerca della pace, ma che intendeva farlo in un contesto che non metteva minimamente in discussione il rapporto con gli Stati Uniti. La “comprensione” nei confronti di Washington veniva perciò spiegata da Moro in termini che vale la pena riportare interamente, perché mostrano con chiarezza sia la crescente difficoltà nel mantenere un equilibrio sempre più precario tra le varie posizioni espresse dalle forze politiche che facevano parte della sua maggioranza di governo, sia l’orientamento filo-americano che egli comunque continuava a voler dare alla sua politica estera. Comprensione in fatti implicava

il naturale rispetto, la doverosa attenzione verso il più grande dei nostri alleati ed amici, alla cui solidarietà schietta e generosa l'Italia ha potuto fare ricorso nei momenti più difficili della sua storia soprattutto successiva alla Seconda guerra mondiale, trovando sempre una risposta pronta ed amichevole per i gravi problemi della ricostruzione e per le necessità, acutissime due anni fa, della nostra economia.

Comprensione significa una valutazione attenta e serena della situazione nel Sud-Est asiatico e degli obiettivi di garanzia dell'indipendenza e dell'equilibrio mondiale che gli Stati Uniti perseguono, pagando uno scotto così alto di sangue e di ricchezza nel Sud Est asiatico. Non ci si può chiedere dunque di passare dalla comprensione all'incomprensione ed anzi all'ostilità. La realtà è infatti assai più complessa di quanto non risulti da ricostruzioni o settarie o forse troppo semplici e sommarie; involge, accanto ad elementi ideologici e nazionalistici, rilevantissimi problemi inerenti all' equilibrio politico del mondo, alla garanzia di quel tanto di stabilità e di sicurezza che sono indispensabili per mantenere la pace ed impedire che si passi da settori limitati di resistenza, di cedimento in cedimento, ad un conflitto di carattere globale. Ebbene, lo spirito di amicizia e la considerazione obiettiva della realtà non ci hanno impedito di incoraggiare il Governo americano alla moderazione ed alla prudenza, in modo che sia controllata nella maggiore misura possibile e per innato senso di responsabilità una situazione difficile ed irta di pericoli, e soprattutto a quella vigorosa e sincera iniziativa di pace che ha avuto inizio con la tregua di Natale e la sospensione indefinita dei bombardamenti nel Vietnam del Nord.[62]

Nei mesi e negli anni seguenti questa posizione non sarebbe stata scalfita ma sarebbe stata declinata accentuando il richiamo alla ricerca della pace attraverso “una soluzione politica, e non meramente militare del conflitto”, auspicando ripetutamente “un negoziato sulla base degli accordi di Ginevra del 1954”, nel contesto di un impegno generale “per un più stabile e pacifico assetto delle relazioni internazionali” [63] e rimarcando sempre come da parte italiana si guardasse “con particolare favore” e con “più viva speranza” agli sforzi americani per “sottolineare la loro sincera volontà di pace, chiarire gli obiettivi della loro azione in Vietnam e sollecitare Hanoi a rendere possibile l'inizio di negoziato.”[64] Si trattava insomma di mantenere una posizione “misurata e attenta”, che non era “espressione di insensibilità ma del senso di responsabilità e della visione complessa e non passionale che sono propri di un governo.”[65] Di fronte all’intensificazione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord e della prosecuzione della guerra, e di fronte al crescere delle manifestazioni di dissenso e di protesta sia negli Stati Uniti sia in Europa occidentale e anche in Italia, mantenere questa posizione “complessa e non passionale” sarebbe diventato sempre più faticoso. In un lungo colloquio con l’Ambasciatore a Washington, Egidio Ortona, Moro gli confessa ad esempio la “sua fatica di tenere una posizione minimamente accettabile agli americani in tema di Vietnam. Tempo fa avevamo inventato la «comprensione», egli mi dice. Ora abbiamo dovuto abbandonare tale posizione. Le pressioni dei comunisti sono troppo forti. Si possono capire i risentimenti degli americani che vedono un’Alleanza Atlantica popolata da indifferenti e da nemici sul tema Vietnam.”[66] Nelle uscite pubbliche, però, alle espressioni di preoccupazione per l’aggravarsi del conflitto Moro affianca anche passaggi che, sottolineando la tolleranza con cui la democrazia americana gestiva la contestazione contro la guerra, implicitamente ribadivano la sintonia ideologica con Washington:

immaginate un paese come gli Stati Uniti d’America che consente il dibattito più aspro e più disagevole mentre la guerra infuria, un paese come gli Stati Uniti d’America che per amore della libertà rischia di perdere il contatto con la parte notevole della opinione pubblica mondiale: quello per me è un paese libero e democratico. Un paese nel quale il dissenso si può manifestare fino alle forme estreme. È un paese ricco di libertà e ricco di iniziative, ha una sua visione degli interessi mondiali, credete che non è comoda essere una grande potenza.[67]

Nelle prese di posizione pubbliche del Presidente del Consiglio in merito al conflitto nel sud-est asiatico non si trova invece alcun riferimento a una delle preoccupazioni più diffuse in quegli anni tra i diplomatici italiani, quella cioè che il progressivo coinvolgimento americano nella guerra avvenisse a scapito degli alleati europei, o che addirittura portasse Washington a cercare un’intesa con Mosca. L’intensificarsi delle trattative sul Trattato di Non Proliferazione a partire dal 1966 venne infatti percepito da molti osservatori italiani come una tacita conferma che fosse in atto una vera e propria collusione tra le superpotenze, e che questo avvicinamento potesse essere spiegato anche in base alle difficoltà crescenti che gli Stati Uniti riscontravano in Asia sud-orientale. Di questi timori nei discorsi di Moro non c’è traccia, nemmeno velata: il TNP viene sempre presentato come un obiettivo importante, che deve però essere inquadrato in una giusta prospettiva perché possa realmente portare a dei risultati equi per tutte le parti coinvolte. Se Moro sembra talora mettere in guardia contro le potenziali ricadute negative di quel trattato, è perché rischia di produrre una situazione iniqua e lesiva degli interessi italiani, ma non perché lo percepisca come il frutto di una collusione sovietico-americana a scapito dell’Europa. Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio non lasciano dubbi in merito al suo interesse per la causa del disarmo e della riduzione delle tensioni, ma mostrano anche la piena consapevolezza dei diffusi timori che la possibile entrata in vigore di quel trattato stava generando. Le dichiarazioni programmatiche al momento dell’insediamento del nuovo governo, nel febbraio 1966, peraltro, dedicano più molta attenzione alla possibilità di progredire sulla strada dell’integrazione nucleare dell’alleanza che non al conseguimento di un accordo di non-proliferazione, che viene quasi presentato come una ricaduta positiva dell’attuazione della forza multilaterale piuttosto che come un obiettivo a se stante:

Il Governo italiano partecipa, com'è noto, in base all'adesione di principio data dai precedenti governi, agli studi in corso per la cosiddetta forza multilaterale. Il Governo continua a ritenere che qualsiasi formula intesa a risolvere i complessi problemi connessi con la difesa nucleare dell'Alleanza non possa prescindere dal triplice obiettivo di garantire una sempre maggiore sicurezza del paese, di assicurare il controllo collegiale degli armamenti nucleari e di evitare i rischi della disseminazione dell'armamento nucleare. Ogni formula, che comporti integrazione di forze nucleari, soggiacerà ad un giudizio di merito in relazione a tali obiettivi. Tale giudizio interverrà, quando gli eventuali studi avessero dato luogo alla formulazione di un piano concreto ed organico.

Attenzione, sembra dire Moro, a conciliare gli obiettivi del disarmo con quelli dell’interesse nazionale ad avere una voce in capitolo nell’ambito della strategia nucleare della NATO. L’interesse del Presidente del Consiglio su questi temi, del resto, è evidente non solo dalla frequenza con cui vengono affrontati nelle sue uscite pubbliche, ma anche nella analisi dettagliata e precisa delle loro implicazioni. Quando si tratta di discutere della nascita del Nuclear Planning group in seno alla NATO (il cosiddetto comitato McNamara, dal nome del segretario alla difesa statunitense che lo aveva promosso nel 1965), Moro è molto attento nel sottolinearne l’importanza ma anche nel ribadire che non debba essere concepito come un’alternativa alla creazione di una forza militare integrata (in quanto riguarda “semplicemente un più efficace coordinamento del deterrente nucleare esistente”), mentre proprio l’allestimento di una forza nucleare atlantica rimane invece uno degli obiettivi di fondo della politica estera italiana.[68] E quando invece la bozza di TNP, presentata congiuntamente da Stati Uniti e URSS tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967, sembra non solo minacciare l’ipotesi di allestire una forza nucleare integrata, ma anche incidere sull’autonomia del programma nucleare civile italiano, Moro ribadirà pubblicamente a più riprese che l’Italia è sì interessata a promuovere la causa del disarmo e della non-proliferazione ma che il conseguimento di questi obiettivi doveva essere compatibile con il rispetto di tutta una serie di specifici interessi italiani. Nel discorso tenuto il 23 aprile del 1967 a Bergamo agli amministratori degli enti locali, ad esempio, Moro spiega benissimo quali fossero le condizioni per la partecipazione italiana a un futuro trattato di non-proliferazione:

È ancora una scelta di pace la nostra volenterosa accettazione del principio della non disseminazione nucleare nel quadro di un progressivo disarmo atomico bilanciato e controllato. Non contrasta con questo principio, sinceramente accolto dal Governo italiano, la nostra partecipazione al negoziato per l'inserimento di clausole che lo rendano equo e suscettibile di essere accettato dalla grandissima maggioranza degli Stati. Esse riguardano la massima possibile reciprocità nelle limitazioni di sovranità, come vuole la nostra Costituzione; la sicurezza del Paese che esige il convergere di analoghe rinunce dei Paesi non nucleari della nostra zona geografica; la solidità e la stabilità della garanzia atlantica; l'assicurazione del nostro libero sviluppo tecnologico senza interferenze eccedenti le rigorose finalità dei controlli più appropriati. Ed è anche comprensibile che ci preoccupiamo che non siano poste remore all'unità dell'Europa; che sia riconosciuta, nella gradualità del suo processo unitario, come una tappa significativa il controllo comune della politica estera e della difesa; che alla fusione dei popoli europei non possa essere posto l'ostacolo di una presunta violazione del trattato di non disseminazione. [69]

Le parole pronunciate pubblicamente, e ribadite a più riprese,[70] assumono un senso molto più preciso se confrontate con quanto lo stesso Moro aveva dichiarato poche settimane prima in ben altro contesto, durante una segretissima riunione del Consiglio Supremo di Difesa – l’unica di tutto il 1967, a testimonianza dell’importanza dell’argomento – convocata proprio per discutere esclusivamente del TNP:

Il Presidente del Consiglio ritiene che la firma di un trattato che sia articolato come lo schema di cui si ha conoscenza chiuderebbe la possibilità di espansione in senso europeo. La condizione di disparità fatta dallo schema ai paesi non nucleari rende inaccettabile il trattato. […] Forse la sede di Ginevra consente una possibilità maggiore di quella NATO per far valere riserve e ottenere modifiche del testo che tengano conto dei nostri interessi nazionali ed europei. A suo giudizio la linea di condotta da seguire nel Comitato dei 18 dovrebbe essere la seguente: non diniego assoluto, ma azione prudente e insistenza per ottenere la modifica dei punti che di interessano.[71]

E all’ambasciatore Ortona, di lì a qualche mese avrebbe ribadito gli “enormi torti che gli Stati Uniti ci fanno, soprattutto in tema di non proliferazione”.[72] Moro sembrava dunque condividere la necessità di rendere quel trattato “equo e ben strutturato [...] e che raccolga le più vaste adesioni”, come ribadì agli inizi del 1968 nel discorso di benvenuto al Cancelliere tedesco Kurt-Georg Kiesinger (con il quale, incidentalmente, qualche mese prima si era scambiato in privato una serie di profonde perplessità proprio sulla portata e delle conseguenze del TNP).[73]

Questa sua posizione misurata, e allineata sulle perplessità di gran parte della diplomazia italiana, si riscontra anche di fronte alle altre profonde trasformazioni che l’Alleanza atlantica è chiamata ad affrontare tra il 1966 e il 1968. Se il trattato di non proliferazione minacciava la credibilità della garanzia atomica statunitense, e quindi il principale elemento della strategia difensiva dell’alleanza, in quegli stessi anni la NATO doveva far fronte anche ad altre sfide altrettanto gravi, dalla fuoriuscita della Francia gaullista dalla struttura militare integrata alla necessaria trasformazione di fondo della sua impostazione strategica richiesta dal progressivo miglioramento delle relazioni tra Est e Ovest. Di fronte all’ ipotesi ventilata da varie forze politiche di uno scioglimento dei blocchi o di un’Europa vagamente terzaforzista, la cui sicurezza avrebbe potuto essere tutelata sia dagli Stati Uniti sia dall’ Unione Sovietica, Moro si dichiarava profondamente convinto che la NATO, sia pure con gli adattamenti resi necessari dal mutare della situazione internazionale, restasse un elemento cardinale della stabilità internazionale:

come si fa a dire che è una prospettiva ideale quella di una Italia garantita e di una Europa, purtroppo ancora tanto divisa, garantite dal solidale impegno dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti? Siamo negli ideali, cari amici, non nella realtà. La realtà invece è questa, quella di una alleanza da conservare. Si conserva anche l’altra alleanza, perché è sempre un principio di ordine, un principio di accordo, una più facile sintonia. I blocchi spariranno quando sarà maturo il tempo perché essi spariscano ma finché le condizioni non vi sono io credo che il procedere in ordine sparso sia un grande pericolo per la pace; non un grande pericolo soltanto per noi, un grande pericolo per la pace nel mondo. E quindi la mia tesi è questa, che permangono questi vincoli che abbiamo sperimentato in questi anni e dai quali abbiamo poi tratto tanti elementi fecondi di distensione.[74]

Nella sua visione politica, dunque, Moro restava convinto che l’alleanza restasse la migliore garanzia per portare avanti una politica di distensione nella stabilità, come avrebbe spiegato nel discorso al X Congresso Nazionale della DC, dopo aver ribadito che un’eventuale conferenza sulla sicurezza europea non avrebbe potuto prescindere dalla presenza degli Stati Uniti:

Dati nuovi della situazione, che indubbiamente sussistono, suggeriscono un serio aggiornamento, che già si compie in sede NATO nella Commissione Harmel. Senza anticipare su questi studi, si può dire che l'aspetto politico dell'Alleanza, la componente di dialogo e di incontro tra amici, è un aspetto non del tutto nuovo, ma che va certamente sottolineato. In questo quadro, una più intensa consultazione, franca e leale, come si conviene ad amici, pur senza estendere gli impegni italiani al di là dell'area geografica del Patto, consente un'influenza, magari limitata ma reale, sui grandi eventi della politica mondiale. Se volessimo precluderci questo contatto, rinunziare al respiro che la nostra posizione nell'Alleanza ci assicura, non saremmo certo per questo più autorevoli e più ascoltati. Abbiamo dunque tuttora bisogno del nostro spazio geo-politico, che abbiamo liberamente e ripetutamente prescelto, nel quale siamo stretti da vincoli molteplici di tradizione e di amicizia, di interessi e, in misura notevole, da ideali comuni, e nel quale troviamo l'ambiente adatto a garantire la nostra sicurezza ed una seria politica di distensione.[75]

Nonostante i profondi cambiamenti in atto, i problemi della sicurezza e dell’alleanza atlantica venivano dunque affrontati da Moro seguendo le linee già chiaramente definite negli anni in cui aveva tenuto la Segreteria del partito. L’alleanza rimaneva per lui il cardine della politica estera italiana, l’elemento che non poteva essere messo in discussione.

Altrettanta fiducia Moro continuava a esprimere nei confronti del processo di integrazione europea, nonostante le crisi altrettanto gravi che anche in questo ambito si sarebbero progressivamente verificate. Nel maggio del 1965, ad esempio, rispondendo ad alcune interpellanze ed interrogazioni parlamentari, Moro ricordava come l’azione italiana in ambito europeo si muovesse senza soluzione di continuità con il disegno portato avanti negli anni precedenti: l’obiettivo di fondo rimaneva infatti quello di rafforzare l’integrazione in senso sovranazionale, cercando di promuovere la cooperazione non solo economica ma anche politica tra i sei membri delle Comunità. A questo fine il governo italiano aveva infatti proposto di convocare una conferenza in cui si studiassero i modi per rilanciare il dialogo politico – iniziativa rimasta però in sospeso a causa dei dubbi della Francia; e aveva altresì presentato una proposta per il raddoppio dei membri del Parlamento europeo, eleggendone la metà a suffragio universale diretto, con l’obiettivo di aumentare l’importanza anche di quest’organo comunitario.[76]

A partire dall’estate 1965, però, la linea politica italiana si sarebbe scontrata sempre di più con la resistenza francese: in quei mesi cominciava infatti quella “crisi della sedia vuota” con cui la Francia del generale De Gaulle sembrava determinata a bloccare ogni ulteriore tentativo di rafforzare la dimensione sovranazionale del processo di integrazione. La risposta italiana, anche in questo caso, fu improntata a particolare cautela e prudenza: come ricordava Moro in ottobre in Parlamento, l’azione del governo si era mossa su più fronti, cercando innanzitutto di “non appesantire la situazione” e di evitare un approfondimento della frattura creatasi, sforzandosi di mantenere la coesione tra gli altri cinque 5 membri delle Comunità da un lato, e dall’altro intervenendo direttamente presso il governo francese “per auspicare che la Francia riprendesse a collaborare pienamente all'attività comunitaria e per offrire l'opera della presidenza italiana, nei modi e nelle forme che potessero essere ritenuti più utili, al fine di contribuire al ritorno alla normalità.” Di fronte però al rischio che la tendenza innescata dall’iniziativa francese portasse “alla revisione di taluni criteri essenziali della struttura comunitaria”, il pensiero del Governo era che occorresse “fare tutto il possibile perché il processo di integrazione economica in corso continui e proceda anche nelle sue implicazioni politiche, nel pieno rispetto dei trattati, nonché dei poteri delle istituzioni comunitarie dai trattati stessi create.” Era necessario in altre parole “ben distinguere tra i margini negoziali che appaiono ammissibili e la ferma difesa delle concezioni che costituiscono i pilastri di volta dei Trattati di Roma ed a cui non potremmo rinunciare senza rinunciare all'assenza dell'opera cui ci siamo accinti e che ha portato fino ad oggi cospicui frutti”.[77] Un concetto, quest’ultimo, al quale Moro sembrava tenere fermamente, perché lo avrebbe ribadito di lì a poche settimane in vari altri interventi parlamentari: al Senato in novembre avrebbe infatti ripetuto che ogni sforzo era necessario per tenere aperto il rapporto con la Francia, ma che non sarebbe stato giustificato nemmeno “l’adattamento a qualsiasi costo”, e nel gennaio del 1966 avrebbe ripreso quasi alla lettera i termini con cui in ottobre aveva definito lo spirito a cui l’azione del governo si doveva improntare.[78] Il compromesso del Lussemburgo che nel gennaio 1966 mise fine alla crisi fu quindi salutato, pur con tutti i suoi limiti, come un risultato positivo che auspicabilmente avrebbe dovuto consentire la ripresa delle attività e un graduale ritorno alla normalità, così come altrettanto positivamente venne accolto anche l’accordo sulla fusione degli esecutivi.[79]

E’ però particolarmente significativo che in ambito europeo Moro non si limitasse ad impegnarsi per impedire che i risultati conseguiti venissero rimessi in discussione dalla politica francese, ma che auspicasse anche l’ampliamento del progetto comunitario sia includendovi nuovi membri sia proiettandolo in nuove direzioni. Dal primo punto di vista, per tutta la sua azione di governo Moro dette un’importanza particolare al rapporto con la Gran Bretagna: soprattutto dopo la vittoria laburista, le relazioni con Londra sembravano infatti offrire al governo di centro sinistra un interlocutore importante (come si è visto a proposito del Vietnam) e non è un caso che gli scambi di visite al vertice tra i due capi di governo fossero tra i più frequenti nell’agenda politica del Presidente del Consiglio.[80] L’adesione britannica alle Comunità avrebbe infatti avuto “conseguenze favorevoli per la creazione di uno stabile equilibrio europeo e l’assunzione dei compiti ai quali il nostro continente è chiamato nella politica mondiale”.[81] Moro ripeteva perciò sistematicamente il suo pieno sostegno alla causa dell’adesione britannica, che veniva vista dal governo italiano “con la più favorevole disposizione.” La decisione del governo di Londra di avanzare nuovamente la propria candidatura fu perciò accolta “con viva soddisfazione”, come Moro ebbe modo di dichiarare durante le cerimonie in Campidoglio per il decimo anniversario della firma dei trattati di Roma.[82] E in un’importante intervista al Telegiornale avrebbe aggiunto

Ebbene, noi vorremmo che non fosse impiegato più del tempo che è tecnicamente necessario per questo negoziato, noi vorremmo che fossero create le condizioni di comune convinzione, le quali consentano questo ingresso e consentano che esso avvenga nelle migliori condizioni psicologiche, cioè come un fattore costruttivo nella vita dell'Europa e come tale noi lo riteniamo. Evidentemente, ci sono sfumature di opinioni diverse, è vero, tra i vari governi. lo non desidero ritornarvi in questo momento. Noi pensiamo che questo sia un fatto importante e costruttivo nella vita dell'Europa; riteniamo che la Gran Bretagna sia un coefficiente essenziale dell'equilibrio europeo, riteniamo che con la Gran Bretagna l'Europa acquisti la giusta dimensione per la gestione, in questo tessuto mondiale così vasto, di interessi e di iniziative quali appunto questo momento della storia umana, che è il termine continentale, richiede. Ecco perché pensiamo che questo che dovrebbe avvenire sia un momento importante dello sviluppo dell'Europa.

A questo forte interesse per la costruzione di un ‘Europa più ampia si aggiungeva poi la visione di un’Europa che fosse anche in grado di rispondere in maniera più adeguata alle nuove sfide che le trasformazioni della politica e della società internazionale la chiamavano ad affrontare. Dopo che nell’autunno del 1966 il ministro degli esteri Fanfani ebbe fatto circolare in ambito atlantico un documento sul Divario tecnologico dell’Europa e l’opportunità di una collaborazione internazionale per un “nuova unità”, da parte italiana si sottolineò più volte l’importanza di questa iniziativa e anche il Presidente del Consiglio non mancò di evidenziare la necessità che gli stati europei rafforzassero la loro cooperazione per ridurre il divario che li separava dalle grandi potenze e che, da soli, non sarebbero mai riusciti a colmare. Intervenendo alla inaugurazione della Fiera del Levante di Bari, in particolare, Moro ricordava come per l’Europa si delineasse una grande opportunità che, partendo dalla integrazione economica, poteva ambire alla creazione di una comunità scientifica e tecnologica che le avrebbe consentito anche di aumentare la propria importanza politica.

L’imponenza di strutture e di mezzi che richiede, nell’epoca dell’automazione e dell’elettronica, la ricerca tecnologica è tale che nessun paese dell’Europa occidentale, dentro o fuori della Comunità, potrebbe farvi fronte da solo con la sistematicità e la continuità necessarie. Il nostro termine di confronto sono gli Stati Uniti ed appunto il livello e la portata dell’opera che ci si compie in questo campo ci inducono a ritenere che quanto ora i singoli Paesi della Comunità fanno e si accingono a fare ha compiutamente senso soltanto, se concepito e preordinato come avviamento all’assunzione di questo compito da parte della Comunità. Infatti solo il complessivo potenziale materiale e umano della Comunità – specie se arricchita dall’apporto, anche sotto questo aspetto prezioso, della Gran Bretagna – potrà consentire di porci man mano al livello dei nostri grandi partners sulla scena mondiale.

Certo, molto si potrà realizzare, sul piano bilaterale e comunitario, con la collaborazione del Governo degli Stati Uniti, ma il cosiddetto “distacco tecnologico”, al quale il nostro Governo ha dato particolarissima attenzione, costituisce un problema di fondo e pone una esigenza di avvenire a medio e lungo termine, che dovrà essere soddisfatta, in ultima analisi, con lo sforzo solidale dei Paesi d’Europa, uniti nella Comunità economica. Certo l’esistenza di un mercato costituito da 200 milioni di uomini è una base indispensabile e prezioso [….] Ma […] il Mercato comune, se vorrà porsi sulla scena economica mondiale tra i protagonisti, allo stesso titolo degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, dovrà essere anche il comune centro propulsore della ricerca scientifica e tecnica nei Paesi che lo compongono.[83]

Nel novembre 1967 questo dinamismo italiano si sarebbe scontrato una seconda volta con il nuovo veto frapposto dal generale De Gaulle alla richiesta di adesione britannica, dimostrando quanto difficile il contesto europeo fosse destinato a restare ancora per molto tempo. Nel ricevere di lì a qualche mese la visita del cancelliere tedesco Kurt-Georg Kiesinger e del ministro degli esteri Willy Brandt, Moro aveva probabilmente in mente proprio queste difficoltà quando ricordava come fosse sempre più urgente la costruzione di una Europa “libera da esasperati nazionalismi, rinnovata e più vitale nelle proprie strutture” e come fosse necessario “promuovere una sempre più stretta e salda solidarietà occidentale e in primo luogo fra Europa e Stati Uniti.”[84]

Alle crescenti difficoltà in ambito euro atlantico si aggiunse infine, dopo un lungo periodo in cui il contesto medio-orientale era rimasto relativamente tranquillo, la drammatica crisi innescata dalla guerra dei sei giorni.[85] Come è noto, quella crisi ebbe profonde ripercussioni anche all’interno del governo, e Moro si trovò a dover gestire una crescente divaricazione tra l’atteggiamento moderatamente filo-arabo di Fanfani e quello apertamente filo-israeliano di quasi tutto il Partito Socialista Unificato. Gli sforzi di Moro furono rivolti a contenere queste tensioni interne per poter compiere una azione diplomatica volta inizialmente a sollecitare una soluzione negoziata della crisi, poi a ricercare una rapida cessazione delle ostilità, e infine a promuovere una formula che in seno alle Nazioni Unite consentisse una definitiva stabilizzazione della vertenza. Fin dal suo primo accenno alla crisi, pochi giorni prima dello scoppio del conflitto, Moro non esitava a definire l’inasprirsi delle tensioni come il “problema che in questo momento sovrasta le nostre menti”, ricordando che il governo italiano stava svolgendo una “intensa attività diplomatica [….] orientata a sottolineare agli amici arabi e israeliani l’assoluta necessità di astenersi da ogni atto che possa ulteriormente mettere in pericolo la pace” e che “l’essenziale” era “disinnescare la crisi in atto”.[86] Una volta iniziate le ostilità, il Presidente del Consiglio ritenne opportuno rivolgersi direttamente alla nazione con un drammatico messaggio alla RAI per ricordare come il governo italiano si fosse immediatamente adoperato presso i governi dei paesi coinvolti perché favorissero “una positiva soluzione del conflitto.” In quel discorso Moro ricordava altresì come all’ambasciatore all’ONU fosse stato dato mandato di “fare un passo presso tutti i membri del Consiglio di Sicurezza” perché le Nazioni Unite si adoperassero per ristabilire la pace nella regione.[87] Moro vedeva infatti nello scoppio della guerra anche l’opportunità “per affermare l’autorità dell’ONU”, ed è a questo stesso principio che ispirò poi il suo successivo discorso presso l’Assemblea Generale a New York, quando vi intervenne pochi giorni dopo la fine delle ostilità. In quella occasione ribadì infatti che l’Organizzazione delle Nazioni Unite doveva avere un ruolo centrale nel creare le condizioni “per la cooperazione e lo sviluppo dell’intera regione”. A questo fine, compito dell’Assemblea doveva essere innanzitutto riaffermare il diritto di ogni Stato membro “all’indipendenza politica, all’integrità territoriale e alla protezione dalla minaccia e dall’uso della forza”, lavorando però per creare condizioni tali da permettere “agli stati arabi e a Israele di riconoscere liberamente e sinceramente le rispettive esistenze, l’indipendenza e l’integrità territoriale”. Riprendendo quanto aveva affermato alla RAI, Moro utilizzava anche la tribuna dell’Assemblea Generale per auspicare, con una proposta dettagliata e articolata, che le Nazioni Unite svolgessero un ruolo centrale nell’organizzare e gestire la costruzione della pace nella regione.[88] L’esperienza della partecipazione ai lavori dell’Assemblea generale, e i negoziati intensi, e anche aspri, a cui aveva partecipato venivano poi riassunti in un lungo dibattito parlamentare in cui il Presidente del Consiglio ribadiva nuovamente la centralità dell’ONU nel trovare una soluzione che stabilizzasse definitivamente la regione, pur prendendo atto delle palesi difficoltà che egli aveva potuto constatare direttamente.[89]

In questo contesto generale di progressivo deterioramento delle relazioni internazionali, vale infine la pena ricordare l’attenzione con cui Moro seguiva sia gli sforzi per ampliare il dialogo con i paesi di oltrecortina, sia la gestione della crisi altoatesina.[90] Il graduale inasprimento del quadro internazionale, in altre parole, non ostacolava, e forse anche in un certo senso sollecitava, il tentativo di superare almeno alcune delle rigide contrapposizioni del passato per potersi lasciare alle spalle una serie di questioni irrisolte. Già a partire dal 1965 il Presidente del Consiglio sottolineava perciò l’importanza di lavorare per il miglioramento delle relazioni con gli stati dell’Europa orientale, vuoi per cogliere le opportunità di collaborazione economica che ne potevano scaturire, come nel caso dell’Unione Sovietica, vuoi soprattutto per superare gli strascichi e le eredità della guerra, come nel caso della Jugoslavia. L’appartenenza all’alleanza atlantica, infatti, non costituiva secondo il Presidente del Consiglio un ostacolo a un progressivo miglioramento dei rapporti con quei paesi:

La sua stessa posizione ai margini geografici dello schieramento occidentale attribuisce all'Italia una particolare funzione nello sperimentare possibilità di collaborazione, soprattutto nel settore economico, con l'Europa orientale. È bene aver presente, a tale proposito, che l'Italia si trova ad essere al primo o al secondo posto, tra le nazioni dell'Occidente, nell'intercambio commerciale con tutti i paesi di quel settore.[91]

Allo sviluppo delle relazioni con la Jugoslavia Moro attribuiva in particolare molta importanza, come emerge chiaramente dallo scambio di visite ufficiali tra il 1965 e il 1967: alla vigilia del suo viaggio a Belgrado li definisce infatti “un esempio di come possano esistere relazioni di buon vicinato anche tra Paesi di ordinamenti interni diversi” e ne auspica “un sempre più intenso sviluppo”,[92] e quando quasi tre anni dopo si appresta a ricevere a Roma il Presidente del Consiglio jugoslavo Mika Spiljak nota come, alla luce della difficile eredità del passato e “della diversa collocazione politica dei due Paesi”, quelle relazioni fossero “un concreto soddisfacente esempio di qualcosa di più che la coesistenza politica”.[93]

Altrettanta attenzione Moro dedica alla ricerca di una soluzione della vertenza alto-atesina, definita da Moro “un problema estremamente difficile e grave…un autentico problema nazionale”, reso ancora più difficile dall’ondata di attentati terroristici del 1966-67.[94] Intervenendo alla Camera dopo un lungo dibattito sulla questione nel settembre 1966, Moro non esitava a condannare duramente gli attentati, ribadendo la necessità di contrastarli con la massima fermezza, alludendo a “più vasti e pericolosi disegni ai quali talune rilevanti forme di terrorismo sembrano volere porre le premesse” e condividendo le parole del Ministro degli Interni che aveva parlato di “terrificanti episodi di chiara impronta neo-nazista”. La fermezza di Moro si accompagna però alla constatazione della necessità di capire le radici politiche del fenomeno e di trovare una soluzione politica della questione, rifiutando perciò soluzioni come quelle proposte dal segretario del MSI Giorgio Almirante che proponeva una gestione della crisi esclusivamente in termini di pubblica sicurezza chiedendo la dichiarazione dello stato di pericolo per l’Alto Adige e l’interruzione del negoziato con il governo austriaco.[95] Per quanto il Presidente del Consiglio non negasse le difficoltà del rapporto con l’Austria, in quella occasione sottolineava però anche le opportunità offerte dal costruttivo dialogo con la Repubblica Federale Tedesca che l’Italia aveva saputo costruire negli anni precedenti, e che facevano di Bonn un interlocutore importante nella ricerca di una soluzione politica della vicenda attraverso il negoziato con Vienna.

Di fronte alla continuazione delle attività terroristiche e, soprattutto, a un atteggiamento di scarsa collaborazione da parte del governo austriaco, il governo italiano aveva insistito nel chiedere una maggiore incisività nell’azione di repressione da parte di Vienna, come Moro riassumeva con una dettagliata ricostruzione alla Camera il 27 luglio del 1967. Nel corso di quella esposizione Moro non poteva però non sottolineare, con toni insolitamente duri, che

il Tribunale di Linz, dopo un dibattito nel corso del quale sono stati tollerati insulti e calunnie contro l'Italia, si è esaltata l'azione terroristica quale strumento di pressione sul nostro Paese e si sono fatte gravissime dichiarazioni sui retroscena di tutta l'attività criminosa in Alto Adige, ha emesso la scandalosa sentenza che ha così negativamente impressionato non solo la nostra opinione pubblica, ma quella mondiale.

In conseguenza di questo episodio e della ripresa degli attentati, il governo italiano si era risolto perciò a compiere un passo che fino a quel momento aveva cercato di evitare, vale a dire introdurre un elemento di condizionalità di fronte alla richiesta austriaca di un accordo di associazione con la CEE:

Tutto ciò […] ha indotto il Governo ad adottare una decisione seria e meditata: quella di subordinare all'accertamento delle capacità del Governo di Vienna di controllare il terrorismo con una adeguata prevenzione e repressione, il nostro consenso all'eventuale associazione dell'Austria alle Comunità Europee. Prima della scandalosa sentenza di Linz, il Governo italiano si era sforzato di evitare, per quanto possibile, un collegamento fra il terrorismo ed il complesso dei rapporti italo-austriaci in tutti gli altri settori. Ma, di fronte al rinnovato manifestarsi di una mancata assunzione delle proprie responsabilità internazionali, una nostra reazione era indispensabile.[96]

E tuttavia, pur nell’asprezza del momento, il Presidente del Consiglio respingeva le proposte di quanti chiedevano il richiamo dell’ambasciatore, se non addirittura l’interruzione delle relazioni diplomatiche con Vienna, o persino la denuncia degli accordi De Gasperi-Gruber. Nonostante le difficoltà crescenti, Moro dichiarava infatti di voler continuare a cercare una soluzione tramite il dialogo sia con Vienna sia con la comunità di lingua tedesca, senza rinunciare a garantirle quella autonomia prevista dagli accordi di Parigi e tutelata dalla Costituzione.


Conclusioni

La visione della politica estera di Aldo Moro che emerge dalla documentazione raccolta nei due tomi del terzo volume della Edizione nazionale conferma molti aspetti di quanto scritto a proposito della sua personalità e della sua azione politica. Innanzitutto il Moro che emerge dalla lettura di questi documenti è un politico estremamente attento alle specifiche particolarità della politica internazionale, che mostra sempre una meticolosa attenzione alle caratteristiche e alle peculiarità dei vari problemi che è chiamato di volta in volta ad affrontare: alcuni dei suoi interventi parlamentari, come quelli sulla guerra dei sei giorni o sulla crisi dei rapporti con l’Austria, offrono delle ricostruzioni dettagliate e precise della politica estera dei suoi governi. E’ anche un politico cauto e prudente, elementi questi tutti ampiamente messi in evidenza dalla storiografia: nel suo sforzo di coniugare realismo e idealismo, di cercare di trovare spazi di manovra all’interno di realtà rigide e ben definite, sembra quindi che prevalga soprattutto il primo elemento, la scrupolosa lettura senza infingimenti di un sistema internazionale tanto complesso quanto inesorabile nelle sue regole.

La prima definizione che si potrebbe dare della politica estera presentata nei discorsi del Moro Segretario di Partito e Presidente del Consiglio, quindi, è quella di una politica estera fermamente atlantista. L’alleanza e il rapporto con gli Stati Uniti restano il cardine intorno al quale deve ruotare ogni attività internazionale dell’Italia, come Moro stesso ripete sistematicamente in quasi tutti i suoi interventi di politica estera. Le difficoltà crescenti cui la NATO va incontro, così come le perplessità generate dall’intervento americano in Vietnam e dalle divergenze su come impostare la politica di non-proliferazione, non intaccano la centralità del rapporto con Washington, nonostante le crescenti preoccupazioni. E’ in questo alveo atlantico, perciò, che deve crescere e svilupparsi il progetto dell’integrazione europea: di fronte alle velleità della Francia gaullista, Moro respinge ogni aspirazione terzaforzista e cerca anzi di rafforzare il legame con la Gran Bretagna propugnandone l’adesione alla Comunità per favorire, per così dire, una Europa più atlantica. Questa posizione filo-britannica riflette inoltre una convergenza più ampia che va dalla volontà comune di operare insieme a Londra per trovare una soluzione alla guerra in Vietnam a una certa affinità politica tra il centro-sinistra italiano e il laburismo di Wilson.

Una seconda considerazione riguarda la scrupolosa attenzione che Moro ha della tutela dell’interesse nazionale: che si tratti di declinare la politica di non-proliferazione in maniera tale da produrre un trattato “equo e ben strutturato”, tale da non ledere le aspirazioni italiane; di impostare il negoziato sull’Alto Adige in modo da tutelare la concessione dell’autonomia alle popolazioni locali senza intaccare l’autorità dello stato italiano; o di trattare con la Francia gaullista senza rimettere in discussione i principi base che hanno consentito la costruzione europea, il Presidente del Consiglio mostra sempre una ferma determinazione a negoziare, certo, ma entro limiti ben determinati .

Un’ultima riflessione riguarda l’efficacia di questa politica estera: una volta giunto alla guida del governo, Moro, come più volte ricordato, si trova a dover fare i conti con una congiuntura internazionale che rimette in discussione sistematicamente molte delle premesse su cui la politica estera italiana era stata impostata. Di fronte al moltiplicarsi delle sfide e delle difficoltà, inevitabilmente molti degli obiettivi iniziali devono essere ripensati e riformulati, e quindi i risultati conseguiti possono apparire inferiori o quantomeno diversi rispetto alle aspettative iniziali. I fallimenti nello sforzo di aprire la Comunità europea alla Gran Bretagna, nei tentativi di facilitare la ricerca di una soluzione negoziata al conflitto in Vietnam o a quello in Medio Oriente, così come la perplessità mostrata nell’accettare un trattato di non-proliferazione che non fosse pienamente compatibile con le ambizioni italiane a costruire un deterrente atlantico multilaterale, mostrano i limiti oggettivi dell’azione diplomatica italiana. Tuttavia la politica estera dei governi Moro mostra anche una notevole capacità di adattamento ai processi storici in atto e riesce spesso a raggiungere alcuni obiettivi importanti tutelando innanzitutto l’esperimento del centro-sinistra, che Moro riesce a portare fino in fondo alla legislatura nonostante le forti ripercussioni delle tensioni internazionali sulla coesione delle forze politiche che compongono la maggioranza. Pur in mezzo a mille difficoltà quei governi riescono inoltre a migliorare le relazioni con la Jugoslavia, a creare le premesse per il raggiungimento di una soluzione della questione alto-atesina, e a introdurre nel trattato di non proliferazione alcune clausole che salvaguardino alcuni degli interessi italiani. Più in generale, come nel caso delle ripetute crisi innescate dalla Francia in ambito euro-atlantico, i governi di centro sinistra riescono almeno in parte ad attenuare le conseguenze negative dei cambiamenti in corso sulle linee di fondo della politica estera italiana.

Note

  1. Per una prima introduzione a questi temi, cfr. M. Trachtenberg, A Constructed Peace. The Making of the European Settlement, 1958-1963, Princeton, Princeton University Press, 1999.

  2. Per un’analisi dell’evoluzione della politica estera italiana, cfr. A Varsori, Dalla rinascita al declino. Storia internazionale dell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2022.

  3. Su questi aspetti mi permetto di rinviare a L. Nuti, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche, 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, in particolare Cap. VII. Per una riflessione più generale, cfr. T. A. ,Sayle, Enduring Alliance: A History of Nato and the Postwar Global Order. Ithaca, Cornell University Press, 2019; H. Haftendorn, Nato and the Nuclear Revolution : A Crisis of Credibility, 1966-1967. Oxford, New York, Clarendon Press, Oxford University Press, e A. Wenger, Crisis and Opportunity: Nato's Transformation and the Multilateralization of Détente, 1966–1968, in ."Journal of Cold War Studies” vol. 6, no. 1 (2004): 22-74.

    .

  4. Sull’Italia e la guerra del Vietnam cfr. L. Nuti, The Center-Left Government in Italy and the Escalation of the Vietnam War, in America's War and the World. Vietnam in International and Comparative Perspectives, a cura di Andreas W. Daum, Lloyd C. Gardner e Wilfried Mausbach, Cambridge, Cambridge U. Press, 2003, pp. 259-278; F. Imperato, Aldo Moro e la guerra del Vietnam negli anni del centro sinistra, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia e D. De Luca, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 423-446.

  5. Per il nesso tra TNP e guerra del Vietnam nelle riflessioni italiane, cfr. L. Nuti, la sfida nucleare, cit., pp. 311-313.

  6. L’Ambasciatore d’Italia a Vienna al Ministro degli Esteri, Sen. Medici, 30 agosto 1968, in Roberto Ducci (Roma: Servizio Storico e Documentazione Ministero degli affari Esteri, n.d.), p. 129

  7. Sulla reazione italiana alla guerra dei sei giorni cfr. D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei. La politica mediorientale mediorientale dell’Italia dalla guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006; Luca Riccardi, Il «problema Israele». Diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), Roma, Guerini e associati, 2006.

  8. Francesco Malgeri, “Moro Democristiano: dalla nascita del Partito al Consiglio Nazionale di Vallombrosa”, in Aldo Moro nell’Italia Contemporanea, cit, in particolare pp. 53-55.

  9. “Discorso agli iscritti”, 3 luglio 1959, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), a cura di Paolo Pombeni, edizione e nota storico-critica di Valentina Casini, Bologna, Università di Bologna, 2022

  10. Per il riferimento alla “Stretta amicizia”, cfr. “Sulla mozione di sfiducia al governo Fanfani”, 25 gennaio 1963, mentre per quello al “nucleo essenziale” cfr. “Discorso di apertura della campagna elettorale”, 24 marzo 1963, entrambi in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  11. Primo discorso a Bari da Segretario della DC, 5 aprile 1959, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  12. Relazione al VII Congresso Nazionale, ottobre 1959, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  13. Ibid.

  14. Ibid.

  15. Ibid.

  16. Relazione al Consiglio Nazionale della DC del 22-27 maggio 1960, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  17. Sul bilancio del Ministero degli affari esteri, 1961-1962, 29 settembre 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  18. Ibid.

  19. Il discorso di Bari, 19 novembre 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  20. Relazione al Consiglio Nazionale della Dc del 29 luglio-2 agosto 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  21. Sul bilancio del Ministero degli affari esteri 1961-2, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  22. Ibidem.

  23. Relazione all’VIII Congresso Nazionale, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  24. “Campagna elettorale a Roma”, 3 giugno 1962, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  25. Relazione al Consiglio Nazionale della DC del 20-21 luglio 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  26. Relazione al Consiglio Nazionale della DC del 10-12 novembre 1962, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  27. Relazione al Consiglio Nazionale della DC del 7 novembre 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  28. Relazione al Consiglio Nazionale della Dc del 29 luglio-2 agosto1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  29. Dichiarazione alla TV canadese, 10 gennaio 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  30. Tribuna politica 22 novembre 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  31. Relazione all’VIII Congresso nazionale, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  32. Sulla mozione di sfiducia Togliatti al governo Fanfani, 25 gennaio 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  33. Discorso di apertura della campagna elettorale, 24 marzo 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  34. Relazione al VII Congresso Nazionale, 23-28 ottobre 1959, A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  35. Relazione al Consiglio Nazionale della DC, 20-21 luglio 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  36. Sul bilancio del Ministero degli affari esteri 1961-2, 29 settembre 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  37. Discorso di apertura della campagna elettorale, 24 marzo 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  38. Relazione al Consiglio Nazionale della Dc del 20-21 luglio 1961, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  39. Sulla posizione di Moro nei confronti dell’allargamento alla Gran Bretagna, cfr. A. Varsori, Aldo Moro e l’adesione della Gran Bretagna alla CEE, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp.511-530.

  40. Relazione all’VIII Congresso nazionale, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  41. Sulla mozione di sfiducia Togliatti al governo Fanfani, 25 gennaio 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  42. Ibid.

  43. Dichiarazione a Successo, 12 febbraio 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  44. Sul bilancio del Ministero degli Affari Esteri 1961-2, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  45. Ibid.

  46. Relazione all’VIII Congresso nazionale, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.

  47. Ibidem.

  48. Per un primo bilancio generale della politica estera dei governi Moro, cfr. F. Imperato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza. La politica estera del centro-sinistra, 1963-68, Bari, Progedit, 2011; L. Nuti, La politica estera italiana negli anni della distensione. Una riflessione, in Aldo Moro nella dimensione internazionale. Dalla memoria alla storia, a cura di Alfonso Alfonsi, Milano, F. Angeli, 2013, pp. 40-62.

  49. Stupore e cordoglio in tutto il Paese, 22 novembre 1963, ora in A. Moro, Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e discorsi, vol. III, Il centro-sinistra (1959-1968), tomo I, Segretario della DC (1959-1963), cit.; e Commemorazione del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, 12 dicembre 1963, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  50. Visita del Cancelliere Erhard, 28 gennaio 1964, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), a cura di Paolo Pombeni e Leopoldo Nuti, Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), a cura di Leopoldo Nuti, edizione e nota storico-critica di Michele Cento, Bologna, Università di Bologna, 2024

  51. Intervento a chiusura del Congresso della DC a Roma, 16 settembre 1964, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  52. Discorso di Moro al pranzo in suo onore offerto dal Premier britannico Douglas Home a Downing Street, 28 aprile 1964, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  53. Discorso tenuto a Londra all’Associazione stampa estera,30 aprile 1964, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  54. Intervento a chiusura del Congresso della DC a Roma, 16 settembre 1964, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  55. Sulla guerra del Vietnam esiste una vastissima storiografia. Per una prima introduzione in lingua italiana, cfr. Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Milano, Rizzoli, 1983.

  56. Risposta a interrogazioni e interpellanze sul Vietnam presentate al Senato, 12 febbraio 1965, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  57. Editorial Note, in Foreign Relations of the United States, 1964–1968, Volume XII, Western Europe, doc. 110. Sulle conversazioni a Washington cfr. anche F. Imperato, Aldo Moro e la guerra del Vietnam negli anni del centro-sinistra, cit., p.431.

  58. Memorandum from Jack Valenti, Spec. Asst. to the Pres., to President Johnson, April 16, 1965. In Lindon B. Johnson Presidential Library, White House Central File, Confidential File, CO127, Italy (1965).

  59. Appunto di F. Malfatti per P. Nenni, 8 aprile 1965, in Archivio Centrale dello Stato, Carte Nenni, serie corrispondenza, b. 31, f. 1547

  60. Discorso alla Camera dei Deputati nel quadro della crisi di governo aperta da Fanfani a Castiglione della Pescaia, 14 gennaio 1966, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit. Sulle iniziative di pace italiane cfr. M. Sica, Marigold non fiorì. Il contributo italiano alla pace nel Vietnam, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991; G. D’Orlandi, Diario vietnamita, 1962-1968, Roma, Cooperativa 30 giorni, 2006; J. G. Hershberg, Marigold. The Lost Chance for Peace in Vietnam, Stanford, Stanford University Press, 2012;

  61. Per la ricostruzione della vicenda, cfr. la dettagliata introduzione al Discorso alla Camera dei Deputati nel quadro della crisi di governo aperta da Fanfani a Castiglione della Pescaia, 14 gennaio 1966, cit-.

  62. Ibidem.

  63. Dichiarazioni programmatiche alla Camera e al Senato per il nuovo governo, 3 marzo 1966, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  64. Replica al Senato al dibattito sulla fiducia al III governo Moro, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  65. Resoconto del discorso tenuto a Bergamo agli amministratori degli Enti locali, 23 aprile 1967, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  66. E. Ortona, Anni d’America¸vol. III, La cooperazione, 1967-1975, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 55.

  67. Discorso tenuto a Bari al Congresso DC, 29 ottobre 1967, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  68. Discorso tenuto al Senato sullo stato di previsione della spesa del Ministero degli Affari Esteri, 29 novembre 1965, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  69. Resoconto del discorso tenuto a Bergamo agli amministratori degli Enti locali, 23 aprile 1967, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  70. Intervista al Tg1 sulla visita di Stato in Gran Bretagna, 29 giugno 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  71. Seduta del 20 febbraio 1967, in Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, Sedute del Consiglio Supremo di Difesa – Verbali.

  72. E. Ortona, Anni d’America, cit. p. 55.

  73. Discorso tenuto in occasione della visita del cancelliere della Repubblica federale di Germania Kiesinger e del ministro degli Affari esteri Brandt, 1 febbraio 1968, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit. Sulle considerazioni private, cfr. Aufzeichnung, 28 Avril 1967, e 5 Juni 1967, entrambi in Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes, Bestand 150

  74. Discorso a Bari al Congresso DC, 29 ottobre 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  75. Discorso tenuto al X Congresso Nazionale della DC, 23-26 novembre 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  76. Risposta a interpellanze e interrogazioni sulla politica estera presentate alla Camera dei deputati, 14 maggio 1965, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  77. Discorso in risposta a mozioni, interpellanze e interrogazioni sulla politica estera presentate alla Camera, 14 ottobre 1965, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  78. Discorso tenuto al Senato sullo stato di previsione della spesa del Ministero degli Affari Esteri, 19 novembre 1965, e Discorso alla Camera dei Deputati nel quadro della crisi di governo aperta da Fanfani a Castiglione della Pescaia, 14 gennaio 1966, entrambi in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  79. Replica al Senato al dibattito sulla fiducia al III governo Moro, 8 marzo 1966, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  80. Cfr. l’analisi che ne fa lo stesso Moro in Intervista al Tg1 sulla visita di Stato in Gran Bretagna, 29 giugno 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  81. Brindisi in onore del Primo ministro britannico Harold Wilson a Palazzo Chigi, 16 gennaio 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  82. Intervento alla cerimonia per il decimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, 30 maggio 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  83. Discorso per l’inaugurazione della Fiera del Levante di Bari del 1967, 7 settembre 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  84. Discorso tenuto in occasione della visita del cancelliere della Repubblica federale di Germania Kiesinger e del ministro degli Affari esteri Brandt, 1 febbraio 1968, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  85. Fino alla crisi del maggio 1967, poi sfociata nella guerra dei sei giorni, il Medio Oriente era stato nominato una sola volta da Moro nei suoi interventi pubblici, il 18 marzo 1965, durante l’Intervento al Senato dopo la nomina di Fanfani a ministro degli Esteri: un bilancio dell’azione di governo. Per un bilancio complessivo della politica di Moro in Medio Oriente, che analizza anche il periodo successivo al 1968, cfr. Luca Riccardi, Aldo Moro e il Medio Oriente (1963-1978), in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 550-583.

  86. Intervento alla cerimonia per il decimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, 29 maggio 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  87. Dichiarazione alla RAI sulla situazione in Medio Oriente, 5 giugno 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  88. Intervento alle Nazioni Unite sulla questione mediorientale, 21 giugno 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit..

  89. Discorso alla Camera dei deputati sulla crisi del Medio Oriente, 13 luglio 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit..

  90. Sulle relazioni con i paesi balcanici, e in particolare la Jugoslavia, cfr. Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani¸ a cura di I. Garzia, L. Monzali e M. Bucarelli, Nardò, Salento books, 2011; M. Bucarelli, Il problema del confine orientale nella politica estera di Aldo Moro, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 485-510.

  91. Discorso tenuto al Senato sullo stato di previsione della spesa del Ministero degli Affari Esteri, 19 novembre 1965, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  92. Discorso in risposta a mozioni, interpellanze e interrogazioni sulla politica estera presentate alla Camera, 13 ottobre 1965; Dichiarazione in vista della visita di Stato in Jugoslavia, 7 novembre 1965, entrambi in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  93. Discorso in vista della visita di Stato in Italia del Presidente del Consiglio jugoslavo Mika Spiljak., 6 gennaio 1968, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  94. Le citazioni in Dichiarazioni alla Camera dei deputati su mozioni e interpellanze riguardanti l'Alto Adige, 12 settembre 1966, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit. Per due ricostruzioni dell’azione di Moro cfr. F. Scarano, Aldo Moro e la questione sud-tirolese, in Una vita, un paese. Aldo Moro e l’Italia del novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 511-532; e F. Niglia, Aldo Moro, la diplomazia italiana e la questione dell’Alto Adige (1963-1969), in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 468-484. Sul negoziato cfr. Documenti sulla politica internazionale dell’Italia, La questione dell’Alto Adige/Sudtirol: Lo sviluppo della controversia, 1964-1969, tomi 1 e 2, a cura Francesco Lefebvre D’Ovidio e Antonio Varsori, Roma, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, 2019.

  95. Replica alla Camera dei deputati al termine del dibattito sull'Alto Adige, 15 settembre 1966, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.

  96. Intervento alla Camera dei deputati sulla questione altoatesina, 27 luglio 1967, ora in ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 3, Il centro-sinistra (1959-1968), Tomo 2, La prima legislatura di centro-sinistra (1964-1968), cit.