Il periodo che va dal 1° giugno 1968 al 31 maggio 1973 fu piuttosto intenso, a tratti turbolento, per l’Italia e, conseguentemente, anche per un leader di primo piano qual era Aldo Moro. A parte le prime settimane di questa fase, in cui l’esponente democristiano restò in carica in qualità di presidente del Consiglio per il disbrigo degli affari correnti in attesa della formazione di un nuovo governo successivo alle elezioni del 19-20 maggio 1968, dal 25 giugno Moro rimase senza incarichi politici degni di nota, entrando nella commissione Istruzione della Camera dei Deputati e tornando a insegnare alla Sapienza. Si aprì una fase complessa in cui da una parte, mentre si consumava il dibattito nel mondo socialista in seguito al deludente risultato elettorale dell’unione tra Psi e Psdi, la formula del centro-sinistra restava sospesa e ci si indirizzava verso un monocolore di transizione guidato da Giovanni Leone; dall’altra Moro, un «uomo sconfitto» nella Dc[1] nonostante lo straordinario successo personale[2] e l’incremento di voti al partito che autorevoli voci della stampa estera valutarono ingenuamente come viatico alla sua conferma a Palazzo Chigi[3], trascorse qualche mese di riflessione sull’evoluzione del partito e della società italiana. Alla fine dell’anno, mentre nasceva un nuovo esecutivo di centro-sinistra guidato da Mariano Rumor, Moro maturò la scelta di assumere una «posizione autonoma» dentro al partito, fattasi poi di aperta opposizione in gennaio, diventando sostanzialmente leader di riferimento del cartello delle sinistre dc. Dopo la crisi dell’esecutivo, dovuta alla scissione socialista, nel secondo gabinetto Rumor, un monocolore democristiano nato nell’agosto del 1969, Moro accettò di assumere la carica di ministro degli Esteri, posizione che conservò fino al luglio del 1972, attraversando i governi Rumor III, Colombo e Andreotti I. In questa posizione, dalla quale non mancò mai di interessarsi della politica interna e del dibattito nella Democrazia cristiana, oltre che dei problemi del suo collegio elettorale di Bari-Foggia e delle necessità delle campagne elettorali nazionali e locali, egli trascorse uno dei periodi più densi della sua carriera politica, rivestendo in più occasioni anche i ruoli internazionali che richiedeva la turnazione della presidenza dei consigli ministeriali nelle organizzazioni di cui l’Italia era parte (Cee, Ueo, Nato, Consiglio d’Europa). Conclusa l’esperienza alla Farnesina per non aver voluto entrare nel governo Andreotti di tipo centrista, Moro divenne nel luglio del 1972 presidente della commissione Affari Esteri della Camera, proseguendo dunque, sia pure da posizioni non di prima linea, il suo impegno in politica estera. In quello stesso periodo cominciò anche la sua collaborazione con il quotidiano «Il Giorno», per il quale scrisse periodicamente editoriali di commento su temi ad ampio spettro, mentre intensificò la sua attività nel partito in vista del congresso democristiano del giugno del 1973 in cui ci sarebbe stata una nuova svolta politica (che giustifica la periodizzazione adottata in questo tomo)[4].
Tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, il mondo stava vivendo un’intensa stagione di trasformazioni, in certi ambiti anche molto accelerate e dirompenti. Il bipolarismo internazionale della Guerra fredda, in piena distensione, vide una graduale articolazione dei due schieramenti, con differenziazioni che moltiplicavano interlocutori e tavoli di confronto. In Occidente, la conclusione della presidenza francese di Charles De Gaulle (che si dimise nell’aprile del 1969) aprì le porte a graduali ma significativi passi in avanti nell’integrazione europea, con l’avvio del negoziato per l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità economica, rispetto al quale veniva a cadere il veto di Parigi, e con l’accresciuta speranza di un’accelerazione dello stesso processo di integrazione. Nel contempo, la Repubblica Federale Tedesca, con l’arrivo alla cancelleria del socialdemocratico Willy Brandt, nel 1969, aprì una nuova fase di dialogo con l’Est, inaugurando la cosiddetta Ostpolitik. La dottrina brežneviana della “sovranità limitata”, che maturò dopo l’invasione sovietica di Praga dell’estate del 1968, rallentò ma non riuscì a bloccare i fermenti nel mondo socialista e le stesse basi della distensione, che anzi trovò nuove vie di approfondimento con l’avvio del confronto tra Est e Ovest in vista della stabilizzazione della competizione atomica e – su un altro piano – di una conferenza sulla sicurezza europea, tema centrale e ricorrente in tutti i consessi internazionali a livello europeo in questo avvio di anni Settanta. Anche in Asia mutarono gli scenari formatisi nell’immediato dopoguerra: il Giappone riuscì a superare ampiamente il livello di sviluppo e di produzione antecedente la guerra, riacquisendo una leadership economica a livello continentale e cominciando a minare il ruolo preminente degli Usa nell’Asia-Pacifico, mentre la Repubblica Popolare Cinese accentuò il processo di differenziazione dall’Urss, facendosi forte di un dialogo con l’Occidente in vista di un suo riconoscimento e ingresso all’Onu in luogo della Cina nazionalista di Taiwan. Proprio nel continente asiatico andò consumandosi la fase finale del conflitto del Vietnam, dal quale la nuova amministrazione guidata da Richard Nixon, in carica dal gennaio del 1969, mostrò interesse a uscire, senza peraltro rinunciare a promuovere nel frattempo un’escalation che aggravò per un certo tempo la situazione. La guerra del Vietnam fu una delle ragioni che alimentarono il clima di diffusa insoddisfazione e protesta tra le giovani generazioni negli Usa e in Occidente, sommandosi a una più ampia ondata di contestazione giovanile trasversale a livello internazionale (ne furono infatti investiti non solo i paesi occidentali, compresi alcuni latinoamericani, ma anche quelli dell’Est). Il Vietnam, inoltre, fu chiamato in causa anche per spiegare parte di quei processi – alimentati da una serie di altre ragioni, tra cui il deterioramento della bilancia commerciale americana, l’accesa competizione delle nuove potenze industriali, l’aumento generalizzato dei prezzi delle materie prime – che avrebbero indotto Nixon a fare uscire gli Usa dalla parità fissa del dollaro con l’oro, innescando così una fase di instabilità dei mercati valutari e di tentativi di costruzione di alternative a quello che era fino allora sembrato un inamovibile pilastro del sistema economico-finanziario globale del dopoguerra allestito a Bretton Woods: è in questo contesto che la Cee sperimentò la prima forma di legame tra le valute europee – il “serpente monetario” del 1972. Nel Mediterraneo pareva consolidarsi la tentazione autoritaria (oltre alla Spagna franchista, l’Europa non socialista aveva visto affermarsi, nel 1967, la dittatura militare di Grecia, ma nel 1971 vi fu anche un peculiare golpe militare in Turchia, il cosiddetto 12 Mart Muhtırası). Sulla sua sponda orientale, tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, si stava ulteriormente articolando anche il complicato conflitto mediorientale, nel quale a uno scontro che era specchio locale del bipolarismo Est-Ovest si andava accompagnando una più autonoma presenza del movimento palestinese, che riuscì a inserirsi nel confronto Nord-Sud del mondo, agganciando i movimenti terzomondisti e sposando forme nuove di lotta contro Israele e contro gli stessi paesi arabi conservatori (si pensi al “settembre nero” del 1970 e alla tragedia delle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972). Proprio a cavallo tra i due decenni andò maturando anche un cambiamento nella concezione dei rapporti Nord-Sud, con un’enfasi maggiore sulle politiche dello sviluppo piuttosto che sul problema della collocazione dei paesi del Terzo Mondo nel bipolarismo internazionale[5].
Si cominciavano dunque a delineare gli elementi che avrebbero in seguito fatto parlare gli storici di una “crisi sistemica” degli anni Settanta facendo di questo periodo uno specifico oggetto d’indagine[6], che avrebbe investito molteplici ambiti della vita internazionale, dall’economia alla cultura, con ricadute proprie anche in Italia[7].
L’ondata contestataria del 1968 si ebbe dunque anche in Italia. Nel nostro paese, alle ragioni anti-istituzionali comuni a tutto l’Occidente si aggiunse il malessere di vasti settori della società italiana che lamentavano gli scarsi progressi in campo sociale del decennio trascorso e la percezione di un’arretratezza culturale del paese. Emersero così nuove soggettività, che chiedevano un posto e una dignità: i giovani, le donne, ma anche nuove articolazioni della sinistra e alcuni ambienti cattolici che interpretavano in forme radicali il rinnovamento conciliare. Al 1968 studentesco, inoltre, seguì il 1969 operaio, con l’esplosione delle contestazioni nelle fabbriche e le rivendicazioni di maggiori diritti nel mondo del lavoro, in un sistema economico che, appena raggiunto il modello fordista, mostrava i limiti dello stesso modello di sviluppo adottato nel ventennio precedente e le gravi conseguenze di quello che agli occhi di molti critici era apparso come un riformismo eccessivamente timido del centro-sinistra. Mentre quest’ultima formula di governo entrava in crisi – e lo sarebbe stata anche dopo la sua precaria ricostituzione con l’esecutivo guidato da Mariano Rumor, nel dicembre del 1968, – nonostante alcuni sussulti riformisti (si pensi allo statuto dei lavoratori del 1970), il paese veniva travolto dal terrorismo. Benché non fosse la prima volta che la violenza terroristica era emersa come arma di destabilizzazione del quadro politico (il riferimento immediato è all’ondata di violenza irredentista in Alto Adige, nel 1965-1967), con la strage del 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana a Milano si poteva scorgere una mano diversa, ben presto identificata con la matrice neofascista di quella che sarebbe poi stata definita una “strategia della tensione”, promossa e guidata da spezzoni reazionari della classe dirigente italiana e atlantica. Il crescere di un pericolo neofascista ebbe uno dei momenti apicali nel fallito “golpe Borghese” del dicembre del 1970 – anno in cui in alcuni ambienti più estremisti della sinistra extraparlamentare nacquero anche le Brigate Rosse – ma si alimentò anche di problematiche sorte a livello locale – come la rivolta di Reggio Calabria del 1970-1971, cavalcata dal neofascista Francesco “Ciccio” Franco –, tutti segnali di pericolo per il quadro politico e istituzionale italiano. Lo spostamento a destra dell’asse politico effettivamente si produsse, con l’affermazione del disegno neocentrista del nuovo segretario democristiano, Arnaldo Forlani, con l’approdo al Quirinale di Giovanni Leone nel dicembre del 1971 grazie ai voti decisivi dei neofascisti, con le elezioni politiche del 1972 che segnarono una significativa affermazione elettorale del Movimento sociale italiano e con la conseguente nascita di un governo di centro-destra, il cosiddetto “Andreotti-Malagodi” (Dc, Psdi, Pli). A completare il quadro politico di questo periodo, vanno segnalati i movimenti all’interno di un Partito comunista italiano in transizione dalla segreteria di Luigi Longo a quella di Enrico Berlinguer – il quale assunse l’incarico nel 1972 ma che di fatto guidava il partito dal 1969, quando fu chiamato ad affiancare il segretario indebolito dalle sue condizioni di salute. In questo contesto di difficoltà sistemica, in cui i ritardi e i problemi delle stagioni precedenti stavano venendo alla luce, l’impatto della sopra menzionata crisi monetaria del 1971 fu cospicuo, e l’Italia mostrò tutti i suoi limiti anche di fronte a un tentativo europeo di arginare gli effetti delle scelte di Nixon, decidendo all’inizio del 1973 di abbandonare il “serpente monetario”. L’Italia, insomma, appariva alla fine del quinquennio qui considerato un paese in profonda transizione, i cui approdi, agli occhi dei protagonisti dell’epoca, dovevano sembrare tutt’altro che definiti[8].
Come si può immaginare, isolare questo quinquennio nelle analisi e negli studi che negli anni sono stati compiuti non è sempre agevole. Spesso i giudizi sul Moro del periodo 1968-1973 non sono disgiunti dalla sua azione politica precedente o successiva, né ovviamente dal tragico epilogo della sua esistenza che peraltro ha a lungo rappresentato il principale oggetto d’indagine sulla sua figura[9] o ha condizionato il giudizio complessivo sul personaggio e sul suo tempo[10]. Inoltre, non tutti gli studiosi hanno sempre interpretato allo stesso modo le fasi e le cesure della vita politica di Moro. Nel suo sintetico ma autorevole saggio poi pubblicato all’interno della monumentale storia della Democrazia cristiana diretta da Francesco Malgeri, per esempio, Roberto Ruffilli delimitò l’«ultimo Moro» tra il 1968 e la sua morte, includendo quindi in un unico discorso organico il quinquennio qui trattato e il successivo[11]. Ma in molti casi il trauma della sua uccisione ha avuto una sensibile influenza nel centrare l’attenzione degli studiosi sulla “terza fase”, comunemente considerata direttamente legata alle cause del suo rapimento[12]. Non è facile, così, individuare una specifica attenzione al quinquennio 1968-1973, non da tutti considerato come momento a sé nella vicenda morotea. A questo va aggiunto che numerose pubblicazioni, nel corso degli anni, hanno inquadrato l’opera di Moro all’interno di storie più ampie, in cui quindi il focus dell’analisi non è la figura dello statista democristiano, ma la storia dell’Italia o la storia della Democrazia cristiana. Su questi punti, due notevoli rassegne storiografiche di Renato Moro e di Francesco Malgeri del 2008 hanno tratto un primo bilancio degli studi in materia: il primo ha svolto un’ampia disamina della presenza del leader democristiano nelle storie d’Italia, offrendo un affresco molto variegato di giudizi e di punti di vista degli storici sul ruolo e il peso di Moro nella storia italiana[13]. Il secondo ha invece concentrato la sua attenzione sulla presenza di Moro nelle ricerche intorno alla storia della Democrazia cristiana[14].
I primi studi e spunti interpretativi sul Moro del quinquennio in esame sono coevi alla sua esperienza politica e si concentrano soprattutto sul suo profilo di leader nazionale, sulle sue scelte e proposte politiche interne e sulla sua visione di partito. Si tratta di scritti perlopiù di stampo giornalistico – non per questo disprezzabili nel loro tentativo di proporre analisi approfondite, per quanto talvolta piegate alla polemica politica del momento o a uno sguardo poco distaccato e con un orizzonte di breve periodo – anche se non mancarono alcune prime riflessioni condotte da storici, nell’ambito di ricostruzioni più ampie. Fu comunque soprattutto dopo la sua morte nel 1978 che diversi storici si interrogarono sulla figura dello statista democristiano, a testimonianza della percezione diffusa di una sua centralità nella storia dell’Italia. Già Francesco Traniello, nel 1981, segnalava l’urgenza di uno studio su Aldo Moro, ma anche una serie di difficoltà legate a numerosi fattori – dalla mancanza di fonti complete alla stessa complessità dello statista democristiano[15]. Il grande tema che richiamava l’attenzione già degli autori dell’epoca era legato ai nuovi accenti di Moro rispetto ai rapporti con il Partito comunista e al confronto con i movimenti di rinnovamento della società italiana. Limitatamente a questo quinquennio, dunque, la domanda da porsi era se nel discorso di Moro vi fosse già in nuce un disegno coerente e continuativo sulla evoluzione del sistema politico italiano, se l’approdo alla collaborazione con i comunisti gli fosse ben chiaro fin dall’inizio e se questa fosse per lui solo strumentale a salvaguardare la centralità della Democrazia cristiana o se invece fosse il viatico a un’evoluzione ulteriore della democrazia italiana nella logica di una possibile alternanza. Si trattava poi di pubblicazioni che risentivano ancora delle prime interpretazioni sul Moro della stagione del centro-sinistra, fase che per molti versi, essendosi chiusa, si prestava ai primi tentativi di storicizzazione. Una su tutte era l’immagine di “Giolitti cattolico” con cui, a partire da un fortunato articolo di Paolo Colliva del 1960 sulla rivista «Il Mulino», si era designata la figura del leader democristiano ideale per gestire la nuova fase del centro-sinistra, un uomo cioè capace di integrare i socialisti nella maggioranza senza turbare gli equilibri della Dc né quelli delle istituzioni democratiche[16]. Proprio nel 1975 lo storico Giampiero Carocci, non casualmente un profondo conoscitore del giolittismo, decise di dedicare un ampio spazio all’analisi del centro-sinistra, ricorrendo alla definizione di “Giolitti cattolico” per Aldo Moro, intendendo con ciò riferirsi alla capacità del presidente del Consiglio di inizio Novecento, pur da posizioni di fatto conservatrici, di integrare le masse operaie nello Stato liberale. Il rimando al giolittismo, peraltro, accanto alla sua accezione positiva di riformismo e attenzione alla classe operaia, ne aveva anche una negativa di inclinazione al trasformismo e al clientelismo[17]: critiche, queste, che continueranno a rincorrere la figura di Moro in molte interpretazioni successive.
Quello del “Giolitti cattolico” era soltanto uno dei molti esercizi retorici di parallelismo tra Aldo Moro e altre figure della storia o della cultura popolare: almeno finché il leader pugliese fu in vita, la riflessione meditata e il colore di un giornalismo leggero, se non addirittura scandalistico, si mescolarono tra loro. Un pamphlet particolarmente sarcastico e critico nei confronti del leader democristiano, scritto nel 1976 da due giornalisti, Costanzo Costantini e Guido Moltedo, e intitolato Messaggi di fumo, era di fatto la sintesi di un’ampia gamma di pubblicazioni altrui su Moro uscite dagli anni Sessanta in poi. Esso segnalava l’attenzione per certi versi spasmodica nei confronti del personaggio, di cui era proposta una lunga lista di accostamenti allora in voga, molti dei quali usati in termini sarcastici o dileggianti[18].
La prima vera e propria biografia di Moro apparsa negli anni Settanta fu scritta da Gino Pallotta, un giornalista collaboratore di diversi giornali dell’area della sinistra, che nel 1975 pubblicò Moro: ritratto di un leader[19] – poi riedito nel 1978 con qualche lieve modifica, alcuni aggiornamenti e un corposo apparato di scritti e discorsi di Moro e di articoli a lui dedicati[20]. Nell’ampio spazio dedicato alle vicende successive alle elezioni del 1968, Pallotta sottolineò la capacità di Moro di cercare «il sincronismo tra il Paese e la società politica»[21]. Certo, la scelta dell’opposizione nella Dc cadeva in un momento in cui egli aveva perduto le alte cariche fino allora ricoperte: Moro era «contro il potere soltanto adesso che il potere non l’aveva più»[22]. Nel complesso, però, il giornalista vedeva in questa scelta un discorso politico, una trasposizione del confronto su un piano alto. A differenza di Fanfani, rispetto al quale «si calcava la mano sul personaggio», Moro, «una volta dette alcune cose (introverso, tortuoso, poco comprensibile, inavvicinabile), era quel che era. Restava il discorso politico»[23]. Ugualmente considerata con chiara consapevolezza politica era la cosiddetta “attenzione” verso le sensibilità altre: la «“strategia dell’attenzione” andava intesa non soltanto in senso recettivo (trarre alimento dalla realtà) ma anche come capacità di scelta. Per cui l’attenzione andava rivolta a ogni sensibile novità»[24]. Pallotta ipotizzava che questo fosse il piano sul quale Moro intendeva sfidare il comunismo, rifuggendo le «contrapposizioni frontali» ed evitando «una politica di soli “no”, per lo più emotivi»[25]. Una frattura fra il Moro al governo e il Moro all’opposizione interna dopo il 1968 fu individuata anche dallo storico Carlo Pinzani, che nel 1976 diede alla capacità del leader dc di leggere i «moti di fondo della società italiana» un giudizio positivo[26]. Molto negativa fu invece la lettura di Moro proposta da Lidia Menapace, già partigiana cattolica ed ex esponente democristiana, che in un saggio polemico sul suo ex partito accusò il leader pugliese di essere funzionale a un sistema di potere in cui, per ottenere il consenso elettorale nel Mezzogiorno, la Dc ricorreva a «pratiche mafioso-clientelari», e lo definì «notabile politico borghese del Sud, eventualmente illuminato nella capitale, ma fornito di mazzieri e di galoppini elettorali nel suo collegio»[27]. Va detto che Menapace era uscita polemicamente dalla Democrazia cristiana nel 1968, accusando il partito di eccessiva dipendenza dalle gerarchie della Chiesa[28] e aderendo a percorsi più marcatamente di sinistra che nel 1973 l’avrebbero portata a essere tra i promotori del movimento dei Cristiani per il socialismo[29]: pertanto il suo giudizio va certamente soppesato alla luce di tali trascorsi anche personali, peraltro rilevanti per tutti gli autori coevi.
Per Aniello Coppola, giornalista comunista che pubblicò una biografia di Moro nel 1976, la “strategia dell’attenzione” rivelava un «condiscendente paternalismo» da parte dello statista. Citava l’intervento di Moro al Congresso democristiano del giugno del 1969, nel quale il leader pugliese aveva sostenuto: «non si pensi che il Partito Comunista eserciti, nel gioco democratico, una sua influenza, senza essere a sua volta influenzato; esprima cose significative, senza ricevere le cose significative che, nella loro sensibilità e funzione, la Democrazia Cristiana e le forze di Governo a loro volta esprimono. Un gioco democratico serio contribuisce a ricondurre in limiti accettabili le tensioni del sistema sociale ed a garantire i giusti equilibri politici […]»[30]. Coppola riteneva che questo fosse «un modo meno drastico per continuare a negare all’opposizione comunista il diritto di proporsi come alternativa di governo alla DC»[31]. La stessa idea di una Dc «alternativa a se stessa»[32] era una «forma più elegante e suggestiva» per sostenere che il Pci non sarebbe mai giunto alla guida del paese[33]. Tuttavia, Coppola riconosceva che la «preclusione nei confronti del PCI, comunque», non era «più di principio e, in questo senso, la “strategia dell’attenzione”» segnava «il superamento della “sfida”»[34]. Secondo il giornalista comunista, l’interpretazione morotea dei processi in atto nel Pci, a partire dalla denuncia dell’invasione sovietica di Praga nel 1968 condotta dal partito, aveva grosse lacune, perché il leader democristiano la faceva discendere «da uno stato di necessità e dal condizionamento ambientale», senza cogliervi «il valore di principio […] risultante da una lunga preparazione e che si rivelerà carica di conseguenze»[35]. Questa incomprensione di fondo del mondo comunista si traduceva anche in un doppio standard, quando, secondo Coppola, alle critiche della repressione in atto a Est Moro non aveva accompagnato uguali condanne delle azioni statunitensi in America Latina o nel Vietnam[36]. Anche un intellettuale della sinistra cattolica come Ruggero Orfei, vicino alla corrente di “Forze Nuove” di Carlo Donat Cattin, vide i limiti della “strategia dell’attenzione” di Moro. Essa «voleva qualificarsi in modo nuovo verso i comunisti, ma escludendo drasticamente ogni alleanza, relegava il problema ad una questione di metodo che non implicava una nuova politica». Concludeva Orfei: «Ciononostante Moro riuscì a dare l’illusione di un suo corso a sinistra, che probabilmente finì per irretire anche i comunisti, i quali nell’enigmatico uomo pugliese immaginarono un’intenzione che non ci fu e non ci sarà mai»[37]. La “strategia dell’attenzione”, secondo Orfei, era comunque una prosecuzione e un aggiornamento del dialogo che in precedenza aveva caratterizzato il confronto con il Psi, pur «mantenendo equivoca la partecipazione al potere» del Pci[38].
In quegli anni andarono consolidandosi anche certi cliché interpretativi su Moro condotti da alcuni intellettuali che lessero la crisi della Dc di inizio anni Settanta come una crisi sistemica di potere. Pier Paolo Pasolini, che accennò a Moro in un suo celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 1975, il leader democristiano era tra i responsabili della torsione che stava vivendo la Dc negli ultimi anni, benché non fosse tra i più compromessi. Secondo l’intellettuale friulano, nella fase da lui definita di “scomparsa delle lucciole”, «gli uomini di potere democristiani» avevano «quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere»[39]. Un’immagine implacabilmente riproposta l’anno dopo anche al cinema, con il film Todo Modo diretto da Elio Petri[40] e tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia[41].
Nel 1978, poco prima del rapimento di Aldo Moro, uscì una storia della Democrazia cristiana scritta da Giorgio Galli, politologo allora su posizioni socialiste libertarie, nonché attento osservatore della vita politica italiana. Il suo giudizio sullo statista democristiano era tutt’altro che positivo: Moro esercitava in Puglia un «potere clientelare sociale», che almeno – concedeva lo studioso – era «non legato a condizionamenti direttamente mafiosi»[42]. La lettura che Moro aveva dato del 1968, secondo Galli, era decisamente opportunistica, dato che l’esponente dc era stato «il presidente del Consiglio che aveva contrapposto al nuovo che maturava nella società italiana degli anni Sessanta il più gretto immobilismo legislativo»[43]. Gli stessi dorotei, continuava Galli, considerarono «risibili» le considerazioni di «un uomo come Moro, noto per l’inerzia, la stanchezza, la tecnica del rinvio»[44]. Il problema posto dal leader dc era quello di «“dare la sensazione” ai giovani, come l’aveva data ai socialisti, di essere un riformatore e non un conservatore. Decise quindi di darla questa sensazione, adottando il suo astruso linguaggio per questa operazione di cosmesi»[45], il tutto esclusivamente nell’interesse del partito, di cui copriva «il fianco sinistro presso i giovani contestatori, così come fino al 1968 l’aveva coperto blandendo i socialisti»[46]. Questa devozione al partito, secondo lo storico, si sarebbe vista anche nel 1972, quando Moro aveva accettato di entrare nel governo pre-elettorale guidato da Andreotti: «il partito – concludeva Galli – che nel corso delle elezioni presidenziali ha dato una prova lampante di divisione e di faziosità, si ritrova unito a livello ideologico attorno alla concezione della teologia politica “eusebiana”, di cui la presenza di Moro e Donat Cattin nel governo Andreotti, inventato da Leone, è la traduzione sul piano elettorale»[47].
Anche Italo Pietra, giornalista socialista già direttore de «Il Giorno», in una biografia pubblicata nel 1983, individuò nella lettura morotea del 1968-1969 un passaggio chiave, sia per la critica nei confronti della Dc, sia per l’analisi raffinata dei movimenti sociali in corso. «Le sentenze sulla Dc, sul suo arroccamento, sulla scuola invecchiata, sul distacco tra società civile e società politica sono ineccepibili», sostenne Pietra. Nondimeno, a suo avviso, Moro parlava «come se tornasse in Italia dopo una assenza di molti lustri»[48]. Secondo il giornalista, dunque, vi era uno scarto tra le posizioni enunciate – lucide e acute – e una politica di lunga data sostanzialmente conservatrice, tesa a salvaguardare interessi e potere della Dc[49]. A Moro, tuttavia, Pietra riconosceva il merito di avere contribuito a condurre la Democrazia cristiana sulla strada della laicità nell’approdo al centro-sinistra e nella sua conduzione, una laicità che aveva contribuito alle stesse riflessioni morotee sul dialogo con il Pci. «Nel settembre [sic, novembre] 1968 – scrisse Pietra – il Nostro fa un grande passo avanti; distingue la dimensione religiosa da quella politica, che naturalmente è una dimensione di lotta; dichiara inammissibile che un indirizzo politico debba essere disegnato sul rigore di un principio religioso. Rifiuta il cattolicesimo politico così come il dogmatismo socialista; tutto deve rimanere aperto, nessuna via deve essere chiusa, tranne quella che esclude le libertà essenziali dell’uomo nel quadro della democrazia. È una laicità che porta a disputare anche del dogma anticomunista»[50].
A fronte di testi che, a volte accanto a riconoscimenti, contenevano diversi elementi di critica, non mancarono ovviamente anche letture agiografiche, come quella del docente cattolico Eugenio Cutolo del 1980[51], di cui appare alquanto interessante, oltre ai giudizi dell’autore sul leader pugliese, anche la nota dell’editore Teti, marcatamente marxista, per il quale era «destino delle persone vicine ad Aldo Moro dover ricorrere a testate o case editrici a loro estranee per dare alle stampe i propri messaggi: ciò accadde alla famiglia Moro durante il rapimento, ciò accade oggi a Eugenio Cutolo con questo libro che la figura dello statista scomparso intende evocare»[52]. Finalizzata a enfatizzare il ruolo di Moro come «martire»[53] fu anche la sintetica ricostruzione di Domenico Orati, che al periodo qui esaminato dedicò uno spazio specifico, sottolineando il carattere di innovazione della lettura morotea del ‘68 e della scelta dell’opposizione, ma anche di continuità con le esperienze delle stagioni precedenti e successive[54].
Sembra evidente, in questi primi studi su Moro, una sottovalutazione della sua esperienza alla Farnesina come momento a sé, degno di attenzione e meritevole di analisi. Tra i pochi che ne parlarono, Pallotta lo fece solo di sfuggita, liquidando questa fase sbrigativamente e dando al ruolo di Moro come ministro degli Esteri una funzione soprattutto di interlocutore della Santa Sede in vista del confronto sul tema del divorzio. «Moro – raccontava Pallotta – rientrò nel governo come ministro degli Esteri. A parte la situazione internazionale, tra i problemi con i quali si trovò alle prese ce n’era uno delicatissimo, ed era direttamente legato al tema legislativo e politico forse più scabroso di tanti anni di storia italiana, il divorzio»[55]. Secondo Giorgio Galli, l’incarico di ministro degli Esteri sarebbe stato per Moro finalizzato a giocarsi la presidenza della Repubblica a fine 1971: il leader pugliese – scriveva – «prepara la sua campagna elettorale per la presidenza da ministro degli esteri, quasi fosse più interessato all’assetto del mondo che alle meschine beghe di partito»[56]. Caricaturale e macchiettistica, oltre che ancillare alla politica nazionale e anche indicativa della posizione che la politica estera aveva in larga parte del giornalismo italiano, è la rappresentazione dell’esperienza di Moro alla Farnesina fatta da Italo Pietra. Nel suo sferzante ritratto di Moro, Pietra scrisse che il leader pugliese «non brilla né come guardasigilli né come ministro della Pubblica Istruzione né come presidente del consiglio. Se la cava come ministro degli Esteri perché non deve affrontare né cifre né problemi concreti»[57], salvo poi attenuare un giudizio così impietoso, sostenendo che, benché non amasse l’incarico alla guida della diplomazia italiana – per la sua scarsa dimestichezza con le lingue straniere, per la ritrosia a viaggiare a causa di un disturbo cardiaco e per il suo riserbo nei pranzi ufficiali – «alla Farnesina costituisce una sorpresa, fin dai primi giorni»: «A detta degli esperti, – concludeva Pietra – lavora con un senso del dovere e con un rigore che nella diplomazia italiana non si vedevano dai tempi remoti di Sonnino». Tuttavia, secondo Pietra, il periodare moroteo risultava di difficile comprensione sia ai suoi interlocutori sia agli interpreti. Come per Galli, la tesi del giornalista era che l’attivismo di Moro alla Farnesina fosse dovuto alla sua necessità di consolidare un profilo autorevole per diventare un valido candidato alla presidenza della Repubblica nel 1971, da qui anche alcune iniziative più politiche, mirate alla costruzione di un consenso interno: «durante una riunione tenuta al Quay d’Orsay, sotto la presidenza Schuman, sulla questione del Medio Oriente, lascia interdetta la delegazione italiana facendo inopinatamente marcia indietro dalle posizioni previste. La cosa pare dovuta al disegno di non scontentare un grande elettore come La Malfa con una tesi troppo sgradita a Israele»[58]. Nonostante l’episodio, Pietra segnalò la grande attenzione di Moro al mondo arabo e alla causa palestinese e la proiezione mediterranea della sua politica estera, con l’apertura di credito nei confronti di Gheddafi fin dal 1970[59]. Ma aggiunse che, nonostante «il vecchio sodalizio con Giorgio La Pira, Moro non è particolarmente sensibile ai problemi del Terzo Mondo»[60]. Tra le fonti a cui Pietra attinse vi era un testo del 1982 che, sia pure nella forma della memorialistica piuttosto che della compiuta analisi storica, l’ambasciatore Roberto Ducci, dal 1970 direttore degli Affari politici della Farnesina, pubblicò per ripercorrere la propria carriera diplomatica, narrando anche alcuni episodi che coinvolgevano il leader democristiano, che peraltro definì un «eccellente ministro degli Esteri»[61]. Ma un apprezzabile tentativo di avviare una riflessione sulla politica estera morotea, in questo periodo, era anche in un breve saggio dell’ex sottosegretario Mario Pedini[62].
Altrettanto sfuocate e poco approfondite sono le analisi di quegli anni sul rapporto tra Aldo Moro e la sua terra d’origine, nell’ottica di individuazione di una politica meridionalistica del leader democristiano. Fu Giovanni Di Capua a proporre nel 1978 una prima raccolta di testi morotei sul Mezzogiorno, in un volumetto intitolato Il meridionalismo di Aldo Moro, da cui il curatore ravvisava, nella sua nota introduttiva, una visione moderna e di lungo periodo[63]. Va anche detto che l’unico contributo relativo al quinquennio qui considerato era un estratto del discorso congressuale del giugno del 1969. Il libro fu presentato nell’ottobre del 1978 da Tommaso Morlino e Francesco Compagna, i cui interventi furono poi pubblicati a corredo di una riedizione del volume curato da Di Capua nel 1986[64]. In relazione al periodo 1968-1973, fu Compagna a ricordare un episodio personale, un dialogo tra lui stesso e Moro, che il politico repubblicano faceva risalire al 1970-1971: lo statista democristiano aveva espresso preoccupazione per le modalità con cui si stava attuando un passaggio nel quale aveva fortemente creduto, ossia l’autonomia regionale, che però a suo parere avrebbe contribuito a creare «un indebolimento della autorità dello stato, un rallentamento dei processi decisionali, una insidia alla stessa vocazione nazionale dei partiti politici», con gravi ripercussioni nelle regioni del Mezzogiorno[65]. Tra 1978 e 1979, vanno anche segnalati due interventi sul rapporto tra Aldo Moro e il Mezzogiorno: uno di Paolo Alatri, su «Incontri Meridionali»[66], e uno di Gabriele De Rosa, che avanzò una lettura del meridionalismo di Moro, che, se non esplicativa della fase 1968-1973, ne proponeva una indagine di lungo periodo[67]. Dello stesso periodo era un altro contributo, scritto da Federico Pirro, Il laboratorio di Aldo Moro, che nonostante le premesse del titolo era soprattutto una storia dell’insediamento pugliese della Democrazia cristiana, della sua evoluzione e del suo modello di sviluppo locale, con qualche riferimento all’opera di Moro, e che toccava soltanto alla fine del volume l’inizio del periodo qui esaminato[68]. Non incentrato sul pensiero meridionalista, al quale dedicherà comunque un paragrafo a conclusione del testo[69], ma dedicato all’esperienza pugliese di Moro è il volume scritto da Antonio Rossano, giornalista della «Gazzetta del Mezzogiorno», per narrarne la «battaglia parallela a quella che conduceva a livello nazionale per la politica di centro-sinistra»[70]. Nel raccontare anche il contesto emotivo del suo ritorno a Bari dopo i mesi di tensioni e delusioni successivi alle elezioni politiche e alla emarginazione nella Dc, Rossano vide nel discorso che Moro tenne a Bari nel gennaio del 1969[71], e nel quale chiaro era l’invito a guardare ai movimenti sociali in corso, «gli elementi di base della svolta politica che porterà Moro a dichiarare prossimo l’avvento di una “terza fase” nella vita politica italiana»[72]. Va detto che, al di là di questi lavori, ben poco è stato in seguito scritto sul radicamento di Moro in Puglia e sulla sua riflessione meridionalistica, lasciando questo ambito di un aspetto della vita e dell’impegno politico dello statista ancora parzialmente in ombra.
A poche settimane dall’uccisione di Moro, Giovanni Di Capua pubblicò anche una prima raccolta di discorsi dello statista, significativamente intitolata Nella società che cambia. Discorsi della prima, seconda e terza fase, come numero monografico della rivista da lui diretta, «Appunti»[73]: si trattava di venti testi che andavano dal 1959 al 1978, sei dei quali compresi nel quinquennio di nostro interesse[74]. Essi erano dunque inseriti in un discorso che sottolineava la continuità tra tutte le fasi della democrazia italiana nella lettura di Moro. Tra i numerosi convenuti, per la presentazione, alla Libreria Paesi nuovi di Roma, il 31 luglio 1978, vi furono Gaetano Arfè, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Giovanni Spadolini, Giovanni Galloni, Dino De Poli, Francesco Compagna, Tommaso Morlino, Guido Bodrato, oltre naturalmente allo stesso direttore della rivista. I loro brevi interventi sarebbero poi stati raccolti in un altro monografico di «Appunti», pubblicato nel 1979 e intitolato Il segno di Aldo Moro. Come si può immaginare, vista la tragedia da poco consumatasi, molta parte delle riflessioni di quella giornata si incentrò sull’ultimo periodo dell’esperienza morotea, la “terza fase” ritenuta strettamente legata alle ragioni del rapimento e dell’assassinio, ma non mancarono incursioni nei periodi precedenti. Leopoldo Elia condivise la scelta di Di Capua di individuare una continuità nelle diverse fasi della vita politica di Moro: «i problemi del rapporto col partito comunista e, prima, col partito socialista» – disse Elia – il leader democristiano «non li ha mai visti in chiave di discriminazione, in chiave di esclusione. Ha sempre ritenuto di prendere realisticamente atto di situazioni di diversità, che erano, soprattutto, situazioni psicologiche». L’impressione del giurista era che per Moro non esistesse «una sorta di predestinazione dei ruoli: la democrazia cristiana sempre, in eterno, al governo; il governo [sic, partito] comunista sempre all’opposizione, che sarebbe, oltretutto, ridicola nei termini in cui viene proposta». La “strategia dell’attenzione” di Moro non nasceva dunque dalla «sua piccola traversata del deserto, alla opposizione, all’interno del suo partito, dal ‘68 fino praticamente al congresso del ‘73», periodo denso di «contributi estremamente originali e anche molto pungenti, sul piano critico, talvolta»; l’interesse per l’evoluzione del Pci risaliva invece in forme specifiche al periodo 1964-1968[75]. Anche Giovanni Galloni riteneva che l’«approdo lento» al «superamento della politica di centro sinistra» fosse il risultato di una capacità di lettura acuta delle trasformazioni della società italiana. «Chi ha conosciuto Moro o ha avuto la fortuna di conoscere Moro da vicino – disse Galloni – sa […] come si sia sforzato, lui che proveniva da una esperienza di vertice, di segretario del partito di maggioranza, di presidente del consiglio per tanti anni, quasi un uomo staccato, ormai, da quella che era la realtà di base del paese, lo sforzo da lui compiuto per capire che cosa stava succedendo nel paese dopo il ‘68. La sua passione rinata per l’incontro coi giovani, con gli studenti, per la ripresa, anche attiva, della sua vita di docente, che è tipica di quegli anni, nel tentativo di capire che cosa stava avvenendo. E di qui nasce quella sua formula, che non era solamente una formula retorica, era un fatto profondamente vissuto, della “strategia dell’attenzione”, attenzione per quello che stava accadendo nel paese»[76].
A quello stesso anno risale una delle prime riflessioni in prospettiva storica e con uno sguardo di lungo periodo, condotta da un accademico specificamente sulla vicenda di Moro, con una lettura davvero originale e incisiva. In un’intervista concessa ad Alfonso Alfonsi, a corposa introduzione di una raccolta di testi curati da Gianni Baget Bozzo, Mario Medici e Dalmazio Mongillo, a conclusione di una prima fase di lavoro della Fondazione Aldo Moro, lo storico tedesco-americano George L. Mosse ricondusse l’esperienza politica morotea alla grande crisi dei sistemi democratici parlamentari occidentali nel XX secolo, individuando la centralità del 1968 nel pensiero politico di Aldo Moro e ritenendo che egli fosse stato tra i pochi a comprenderne la reale e dirompente portata[77]. Secondo Mosse, Moro capì che «gli studenti rappresentavano la futura classe dirigente dei partiti politici. Perciò, se proprio questo settore della società ripudiava più di ogni altro non solo la struttura socio-economica presente, ma anche l’intero sistema parlamentare, la crisi si faceva estremamente seria, ed Aldo Moro si dedicò alla ricerca di una sua possibile soluzione. [...] Ancora una volta, a questo proposito, l’intuizione fondamentale di Aldo Moro, quella dell’allargamento dell’area di consenso, era ovviamente giusta»[78]. Tale intuizione favorì una lettura articolata ma anche molto puntuale della crisi in corso in quella fase da parte dello storico americano: «Mi pare che la chiave del pensiero politico di Aldo Moro – continuava Mosse – si possa trovare nel fatto che le aspirazioni, le speranze ed i desideri della gente – che in un certo senso sono abbastanza statici, ma in un altro si manifestano in maniera dinamica, secondo le varie crisi che si attraversano – devono potersi esprimere attraverso il processo democratico parlamentare. Io sono convinto che tutto quel che Moro diceva era in qualche modo collegato a questi principi. Sia che si tratti di allargare la base politica all’inizio degli anni ‘60, sia che si tratti di un tentativo di riassorbire nel processo parlamentare la rivolta studentesca della fine del decennio, sia che si tratti dei problemi relativi al compromesso storico, sono convinto che il principio rimanga sempre lo stesso»[79]. L’idea di includere il Pci nell’area del consenso era in qualche modo frutto di questa riflessione[80]: «Il “confronto polemico” stabilito alla fine degli anni ‘60, – sosteneva Mosse – stava già portando ad un processo dialettico il cui sbocco finale si supponeva essere una più decisa immissione del Partito comunista nell’orbita democratica, e quindi in quella delle responsabilità di governo del Paese. Se questo processo poi dovesse assumere la forma di un voto di astensione o quella della assunzione diretta di responsabilità di governo da parte dei comunisti, è un problema che in questo momento perde di reale importanza di fronte al fatto stesso del mutamento che ha avuto luogo. Credo che non dobbiamo considerare la strategia di Moro verso il PCI frammentaria, dal momento che le polemiche che si supponeva conducessero ad un compromesso su obiettivi a lungo termine non erano certo polemiche fini a se stesse. In tal caso non ci sarebbe stato alcun cambiamento rispetto all’atteggiamento passato»[81]. L’intervista di Mosse non ebbe grandi echi in Italia, e anzi fu per certi versi letta con distacco e insofferenza dagli intellettuali italiani che si occuparono della vicenda politica di Aldo Moro: nella riedizione dell’intervento dello studioso tedesco-americano del 2015, per la quale Renato Moro ha proposto un sintetico ma efficace inquadramento delle tesi di Mosse all’interno del suo personale itinerario culturale[82], Donatello Aramini ha svolto un’accurata ricostruzione della recezione del testo mossiano, evidenziando come la sua scarsa accoglienza abbia rappresentato a lungo un’occasione perduta per vagliare nuovi filoni interpretativi e uscire da certe ingessature stereotipate sulla figura di Moro[83]. Merita comunque segnalare che nell’edizione del 1979 le tematiche cruciali di questo quinquennio (in realtà qui prolungato al 1974), definito da Baget Bozzo quello della «maturità del pensiero e della statura di Aldo Moro»[84], furono inserite in una sezione unitaria introdotta dal moralista Dalmazio Mongillo. In questa sezione erano ricompresi quattro capitoli (uno sulla contestazione, uno sull’eversione, uno sulla concezione di partito e uno sui rapporti con il Pci) contenenti la selezione di testi morotei secondo un ordine logico piuttosto che cronologico[85]. «L’aspirazione, sempre nuova e sempre la stessa – scrisse Mongillo – che, come filigrana, sottende, unifica, rende armonica l’attività politica di Moro dall’inizio della sua storia, è stata quella di condividere, cogliere e interpretare le esigenze della realtà sociale italiana, orientarle per la via della crescita democratica nella libertà, promossa attraverso i partiti e garantita dalle strutture dello Stato democratico». Secondo l’autore, Moro si sentì sollecitato dalle nuove rivendicazioni che sorgevano «nelle famiglie, nei giovani, nelle donne, negli operai, nella popolazione scolastica», per cercare di colmare la distanza tra «società civile e società politica», nella piena «convinzione della continuità e dell’armonia tra le esigenze autentiche della realtà sociale e quelle della vita cristiana». Il valore di questo impegno, secondo Mongillo, andava ben al di là dei risultati concreti della sua azione politica, ed era da ricercare «nella coerenza perseverante» con cui Moro aveva «spinto la DC e il governo a rimanere aderenti alle aspirazioni emergenti nel popolo e a fornire ad esso gli strumenti adeguati a favorirne la crescita nella giustizia, nella libertà». Il teologo domenicano, infine, svolse qualche considerazione sulla presenza della fede cristiana nei discorsi di Moro: se li si leggeva cercando riferimenti espliciti, non la si sarebbe trovata. «Se invece si pensa la fede come dimensione che qualifica l’esistenza e che cresce nella storia che trasforma, la si coglie in ogni pagina [...]. Dall’insieme della sua esperienza viene fuori l’immagine di una fede veramente incarnata: una fede fatta terra, storia, sangue, cultura, aspirazione di popolo. L’abbandono a Dio è stato sorgente di responsabilità per la partecipazione reale, concreta, fattiva, alla costruzione della società»[86].
Sempre nel 1979, Pietro Scoppola, all’epoca tra gli animatori della Lega democratica, movimento nato nel 1975 che aveva avuto con Moro un rapporto ambivalente[87], in un’intervista, diede del leader democristiano una lettura – in questo senso in continuità con la vicenda di De Gasperi – di promotore dello «sviluppo della società italiana», contestando peraltro la definizione di un Moro «mediatore»[88]. Negli anni che seguirono l’assassinio dello statista pugliese, comunque, proprio le origini della “terza fase” sembrarono una delle principali questioni all’attenzione degli studiosi. Roberto Ruffilli, nel suo intervento del 1983 già precedentemente evocato, volle smentire la tesi di una “conversione” di Moro nel 1968 e di uno scarto tra la sua politica degli anni Cinquanta e Sessanta e quella della nuova fase all’opposizione nel partito, che come abbiamo visto era comune ad alcune interpretazioni degli anni precedenti. Ruffilli vide nel linguaggio moroteo del post-‘68 «un’attenzione usuale per così dire […] già negli scritti giuridici giovanili, negli interventi alla Costituente, nonché poi nei due momenti più alti della riflessione morotea dopo il 1948: e cioè la relazione al convegno dei giuristi cattolici sullo stato nel 1951, e la relazione al congresso di Napoli della Dc nel 1962»[89]. Ruffilli concedeva la diversità di linguaggio: «dopo il ‘68 vengono adottati da Moro termini come quello di “liberazione” ed in generale talune categorie delle analisi più “critiche” allora correnti sul mutamento sociale»; ma la continuità rimaneva nella «visione già esplicitata in precedenza: quella imperniata sulla riconduzione del mutamento sociale ad uno sviluppo della persona umana, in senso non individualistico, secondo la linea emersa nel cattolicesimo sociale e politico in Europa durante gli anni Trenta»[90]. Nella sua disamina, lo studioso intravide nei discorsi di Moro in questa fase, oltre ai riferimenti culturali e spirituali profondamenti radicati in lui, anche nuove sensibilità influenzate dalla lezione post-conciliare (e dall’esigenza della lettura dei “segni dei tempi”), dall’invito a superare gli steccati ideologici contenuto nella Octogesima Adveniens di Paolo VI del 1971, perfino – ipotizzava Ruffilli – dalla “teologia della liberazione”[91]. La linea di dialogo con il Pci, in particolare, oltre a inserirsi in un contesto di apporti culturali così complessi e compenetrati l’uno con l’altro, nasceva dunque per Ruffilli dal fermo rifiuto della tesi del consolidamento dello Stato attraverso un rafforzamento dell’esecutivo e le tentazioni autoritarie, ritenendo al contrario che si dovesse prendere atto dei limiti del centro-sinistra, ormai incapace di fare da catalizzatore dei consensi e della legittimazione popolare, trovando nel dialogo con i comunisti l’unica forma possibile di «ampliamento del consenso popolare allo stato democratico»[92]. Questo dialogo, reso ancor più urgente dall’emergere nel 1969 della “strategia della tensione”, sarebbe stato favorito da una visione morotea della democrazia analoga a quella di una «comunità ecclesiale, imperniata su un pluralismo di ruoli aconflittuale per così dire, e caratterizzata dalla tendenza alla “concordia discors” ed alla “complexio oppositorum”, con la neutralizzazione dei contrasti ad opera della gerarchia e di un governo discendente dall’alto»: da qui la convinzione di Ruffilli che il concetto di “mediazione” in Moro fosse ben distante da quello frequentemente riproposto di un Moro fautore della “democrazia consociativa” egemonizzata dalla Dc e finalizzata a depotenziare approcci più riformatori e progressisti[93]. Sul tema del consociativismo si esprimeva anche lo storico liberale Elio D’Auria, che proponeva nel 1983 una lettura critica in chiave moderata e di lungo periodo del moroteismo. D’Auria vedeva una continuità nell’azione di Moro dalla fine degli anni Cinquanta in poi, e riteneva che la stessa apertura ai socialisti fosse in realtà finalizzata all’obiettivo di giungere al dialogo con i comunisti. Ribaltando l’accusa rivolta a Moro da sinistra di nascondere dietro agli slanci progressisti una politica conservatrice, lo studioso riteneva che Moro avesse sempre fatto l’opposto, ossia spostato progressivamente la Dc a sinistra, tradendone l’identità originaria[94]. Ricorrendo all’analoga categoria del “trasformismo”, Paul Ginsborg sostenne al contrario che la logica che muoveva la politica morotea sarebbe stata quella di depotenziare le istanze progressiste del Pci come prima era riuscito a fare con il Psi[95]. Renato Moro ha individuato una specularità dell’interpretazione del liberale D’Auria e di quella di certi storici di cultura marxista: se il primo proiettava all’indietro l’apertura ai comunisti, anticipandone le basi all’inizio della sua carriera, diversi studiosi di sinistra tendevano a leggere il dialogo con il Pci come prosecuzione del «trasformismo immobilistico del centro-sinistra»[96]. Questa lettura, comune con qualche sfumatura a diversi altri studiosi, fu poi ribadita nel corso degli anni Ottanta da altri, come Carlo Tullio Altan[97], nonché Giorgio Galli e Aldo Alessandro Mola all’interno dell’ultimo volume della Storia d’Italia diretta da Ruggiero Romano[98]. Renato Moro ha in particolare evidenziato il tentativo di Altan di inserire questa ricostruzione nella sua ricerca delle cause della mancanza di “spirito pubblico” in Italia, individuando i limiti dell’allargamento delle basi democratiche voluto dallo statista democristiano nella scelta di perseguire l’obiettivo attraverso lo strumento del trasformismo clientelare; di Mola ha sottolineato invece la sua interpretazione sull’origine religiosa del trasformismo democristiano, frutto di una relativizzazione della politica incompatibile con il liberalismo[99].
Nel 1982, in un tentativo di ricostruire il disegno complessivo del pensiero politico di Moro, Sandro Fontana individuava nel leader democristiano la capacità di essere «al tempo stesso l’interprete e l’autore, in un rapporto dialettico ed incessante tra dimensione conoscitiva ed intervento operativo», del sistema politico italiano[100]. E rinveniva nell’opera di Moro tre fattori che avevano condizionato lo sviluppo democratico dell’Italia: la fragilità delle istituzioni «dovuta soprattutto alla mancata riforma dell’amministratone dello Stato»; l’assenza di un partito conservatore e la presenza di un partito popolare come la Dc; la presenza di un forte partito comunista. A questo Fontana aggiungeva le ricadute del sistema proporzionale, che tendeva a esaltare le diversità ideologiche e le identità particolari delle forze politiche e che per Moro era indispensabile per evitare torsioni clerico-moderate o perfino autoritarie della Dc. L’apice dell’azione politica di Moro, secondo Fontana, si dispiegò nel corso dell’ultimo decennio, quando il leader democristiano – scriveva – «ricava soprattutto la sensazione che, tanto nella società quanto nelle forze politiche, stiano venendo meno i presupposti essenziali che stanno alla base del sistema politico: […] il ruolo centrale e popolare della D.C., l’alleanza con i partiti della sinistra al centro dello schieramento, la tenuta delle forze politiche nei confronti delle spinte provenienti dalla società»[101]. In questa fase Fontana vedeva confermata la capacità di Moro di osservare la società e di riflettere sull’evoluzione delle forze politiche, ma anche la sua debolezza nel non formulare un disegno di riforma istituzionale, dallo studioso ritenuta invece necessaria per assecondare il processo moroteo di inserimento progressivo delle masse nello Stato. L’ultima fase del percorso politico di Moro si sarebbe dunque divisa in tre momenti diversi, dei quali il primo, dal 1968 al 1975 comprendeva quindi il quinquennio di questo tomo dell’Edizione Nazionale. Esso era incentrato tutto, secondo Fontana, sulla «riconquista del partito» e sul «rilancio del ruolo centrale e popolare della D.C.», di fronte al pericolo di una sua involuzione che, oltre a non recepire le istanze nuove provenienti dalla società, rischiava di assecondare la radicalizzazione della lotta politica nel paese[102]. Fontana si richiamava alla lettura di Mosse, di cui apprezzava l’approccio complessivo, salvo valutarla mancante di considerazione della specificità della politica italiana[103].
All’inizio degli anni Ottanta risale anche una analisi della politica di Aldo Moro nel periodo qui considerato, condotta specificamente da Gianni Baget Bozzo e Giovanni Tassani. Il volume trattava come momento unitario il periodo 1962-1973, quello in cui, secondo gli autori, Moro avrebbe rivestito nei confronti della Democrazia cristiana un ruolo “pastorale”, ossia di cura di un partito che, perduto il riferimento diretto alla Chiesa, egli guidò divenendone la «figura legittimante». Il Moro di Baget Bozzo e Tassani era il “mediatore” per eccellenza, colui che preferiva «la mediazione allo scontro, la composizione alla soluzione» come nel paese così nella Dc – che volle sempre unita e di cui tenne in considerazione anche le posizioni più distanti da lui. «Egli assegna alla DC un fine alto – sostenevano i due autori –: una società cui tutti possano partecipare, una democrazia compiuta, in cui l’uguaglianza sia realizzata per mezzo della democrazia». In questo, centrale era la sua matrice cristiana, affermata con un linguaggio laico. La sua specificità cristiana spiegherebbe, secondo gli autori, l’interesse di Moro per il mondo mediterraneo e per il Terzo Mondo in politica estera – a differenza della «cultura laico-democratica, ferventemente occidentalista». La politica estera, dunque, come terreno di elezione specifico di Moro. Baget Bozzo e Tassani individuavano nell’evoluzione della concezione di politica estera, la cui maturazione avvenne solamente nel periodo alla Farnesina, cioè dal 1969, la vera originalità nella politica morotea, orientata al dialogo con l’Est e con il Sud del mondo, per la costruzione di una «politica nazionale», che «non significa una politica anti-americana». Il disegno di Moro sarebbe stato quello di ridurre l’influenza americana sull’Italia, allentando i rapporti privilegiati tra Washington e la Democrazia cristiana: per portare a termine questo passaggio, che significava convincere la Dc a rinunciare a quelle che fino allora erano state considerate sue prerogative, Moro avrebbe favorito la ricerca di un «riequilibrio a sinistra dell’asse politico» che tuttavia nel 1968 egli si rese conto non potesse essere retto dal Psi, da qui lo sguardo nuovo verso il Pci[104]. La rottura nella Dc dopo i mesi di progressivo isolamento, nel 1968, con un Moro che sceglieva consapevolmente la strada minoritaria e incerta senza sicurezza sull’approdo, aveva dato origine, secondo Baget Bozzo e Tassani, a un altro Moro rispetto al decennio precedente. «Il Moro degli anni 1958-1968 – scrivevano i due studiosi – è un Moro progressista moderato: il progresso come orientamento, la moderazione come metodo capace di suscitare consenso attorno al progresso. Il Moro dopo il ‘68 non ha più una bussola, è l’evento stesso che segna la direzione, è l’avvenimento che reca in sé la sua intelligenza. Se il fine è sempre quello di produrre progresso civile, aumento della libertà nel consenso, la prassi tuttavia è assai diversa. È una prassi che chiede contratto, compagnia, e non pretende omogeneità e omologazione». In questo senso mutava anche il ruolo dello Stato, che – proseguivano Baget Bozzo e Tassani – «rimane come punto di riferimento ma è uno Stato non portatore di messaggi e valori, ma strumento per produrre il massimo di libertà attraverso il massimo di consenso». Con questa rottura, il leader democristiano si era posto in conflitto anche «con le posizioni non teoriche» (perché di fatto era già tutto previsto dal Concilio Vaticano II), «ma pratiche della Chiesa in Italia»[105]. La stessa collocazione all’opposizione aiutò Moro a guardare con maggiore distacco ai problemi, e a cogliere le difficoltà di un contesto nuovo, con uno spostamento a destra del quadro politico nazionale e internazionale: secondo i due autori, Moro sarebbe riuscito a cogliere, prima ancora di piazza Fontana, il piano inclinato del sistema politico italiano, con i movimenti in seno all’apparato militare italiano a tutela di un ruolo cruciale del paese nello scacchiere dell’Alleanza Atlantica nel Mediterraneo, e avrebbe voluto operare immediatamente per dissociare la Dc, o almeno la maggioranza di essa, da questi disegni ambigui: Moro sarebbe stato dunque protagonista di una consapevole scelta della strada «che – scrivevano i due autori – lo condurrà al supremo sacrificio»[106]. In uno dei discorsi precongressuali del leader, quello di Udine del 1969[107], Baget Bozzo e Tassani vedevano un passaggio cruciale nel pensiero politico moroteo, che lo poneva in nettissimo anticipo anche rispetto alle analisi della realtà condotte dal Pci: l’intuizione cioè della sfida della violenza politica al sistema politico, come elemento di «crisi di governabilità della società occidentale, dovuta alla perdita di omogeneità di valori e dalla complessità crescente degli interessi che si differenziano e contrastano»[108]. La “lezione” del ‘68 sembrò influenzare Moro anche nelle modalità con cui doveva svolgersi il rapporto con il Pci. La sua “strategia dell’attenzione” fu infatti strumentalmente piegata da De Mita per proporre un “patto costituzionale” con i comunisti, ma il «terreno di Moro» era altro ed era «quello della politica come dimensione libera, di cui il partito» era «portatore come associazione di soggetti, nei confronti della “tecnostruttura”»[109]: di fatto – facevano notare i due autori – Moro si fece portatore in Italia del linguaggio e della tematica che aveva «le sue origini nella crisi maoista del marxismo e che si rifrangeva in molte forme nella cultura e nella politica occidentale»[110]. Da questo approccio nuovo, egli trasse anche fiducia nella base operaia del Pci, che poteva addirittura essere il motore di quel rinnovamento di cui il partito aveva bisogno per evolvere[111]. Questa capacità di visione dei problemi d’insieme e di «intuizione del tempo e della storia» sono le ragioni per cui secondo Baget Bozzo e Tassani l’esperienza di Moro agli Esteri sarebbe da considerare una fase molto proficua e meritevole di attenzione da parte degli studiosi[112].
Nel 1983 i gruppi parlamentari della Democrazia cristiana organizzarono a Maglie, città natale dello statista, un convegno intitolato “Il messaggio di Aldo Moro”, poi confluito in una pubblicazione[113]. Nel corso del suo intervento, Roberto Ruffilli, segnalando l’avvio di interessanti percorsi di ricerca sulle radici culturali del giovane Moro a opera di giovani storici come Agostino Giovagnoli e Renato Moro, avvertiva «la difficoltà di storicizzare i processi nei quali Moro» era «stato coinvolto, non essendo i medesimi ancora conclusi», ma anche la tendenza alla polemica politica, su tutte quella intorno al “sistema democristiano”. Ruffilli indicava un destino comune a Giolitti e a Moro, nel disprezzo riservato da un’ampia classe intellettuale al concetto di “mediazione”, che, in particolare nel caso dello statista pugliese, veniva da taluni vista come fine a se stessa. Era opinione di Ruffilli che obiettivo di Moro fosse «l’affermazione di una democrazia finalmente compiuta: quella caratterizzata dalla possibilità dell’alternanza fra maggioranza ed opposizione, sulla base dell’adesione a comuni regole del gioco politico e sociale, nella linea dei valori della persona fissati nella Costituzione», ma che ciò non comportasse la scomparsa delle differenze tra Dc e Pci, per cui immaginava la configurazione di un «corretto rapporto maggioranza ed opposizione»[114]. Al convegno intervenne anche Roberto Gaja, dal 1969 segretario generale della Farnesina, sollecitando un approfondimento della permanenza di Moro al ministero degli Esteri: secondo Gaja, quel periodo fu «una delle stagioni più creative della nostra storia recente» proprio grazie al titolare del dicastero. Tre furono per l’ambasciatore le grandi conquiste italiane di quel tempo: l’aperto appoggio a un allargamento della Cee, la chiusura della controversia italo-austriaca sull’Alto Adige e il riorientamento della politica estera italiana verso i popoli arabi. Su quest’ultimo punto, giudicato «una pagina esemplare della diplomazia italiana», Gaja ritenne un successo anche la gestione della dolorosa vicenda dell’espulsione degli italiani dalla Libia, nell’estate del 1970: Moro avrebbe saputo non solo circoscrivere il progressivo deterioramento delle relazioni italo-libiche senza che i rapporti tra i due paesi si interrompessero consentendone un rapido ripristino, ma soprattutto sarebbe riuscito a isolare diplomaticamente Tripoli, che non ebbe nessun appoggio da parte degli altri paesi arabi, compresi quelli ideologicamente più affini al regime rivoluzionario[115]. Nel 1986, anche Giovanni Di Capua diede un notevole contributo a colmare le lacune documentarie sulla politica estera morotea, pubblicando un volume di raccolta di testi specifici, che solo in parte erano discorsi, più frequentemente erano sintesi giornalistiche e ampi resoconti. Si tratta di documenti di sicuro interesse e per oltre un ventennio le uniche fonti disponibili in materia[116]. Nella sua nota introduttiva, Di Capua si mostrò consapevole dell’importanza della politica estera per interpretare Moro, così come della compenetrazione della dimensione nazionale con quella internazionale e della ricerca di una autonomia italiana, pur nella fedeltà atlantica, grazie al nuovo contesto della distensione[117].
Proprio la politica internazionale fu il tema di uno dei panel di un altro convegno, organizzato nel 1988 a Roma in occasione del decennale dell’uccisione dello statista pugliese, dall’Accademia di studi storici Aldo Moro, intitolato “Aldo Moro: Stato e Società”[118], i cui contributi avevano più il carattere dell’affresco di tematiche da approfondire che di analisi strutturate[119]. Oltre a un intervento di Gaja, che sostanzialmente riprendeva i contenuti di quello pronunciato cinque anni prima a Maglie[120], altri erano incentrati più sul “magistero” o sulla “influenza” di Moro in altri contesti nazionali[121]. Di un certo interesse, anche se non sviluppato in modo articolato per necessità di sintesi, fu l’intervento di Bruno Bottai, dal 1987 segretario generale della Farnesina, che sottolineava il legame tra dimensione internazionale e politica italiana negli anni in cui Moro guidò il dicastero, ma denunciava anche una sottovalutazione generale della rilevanza della politica estera italiana degli anni Sessanta e Settanta, a suo giudizio dovuta all’appiattimento tipico del decennio Ottanta sui parametri economici come misura del successo di un paese[122]. Molti interventi di quegli anni, nei convegni come nelle pubblicazioni, come si vede, avevano il carattere della memoria e della testimonianza personale, come il ricordo di Pietro Boselli, uno dei giovani che si avvicinò a Moro dopo la sua esclusione dal governo del 1968[123], o la raccolta di interventi edita da Ave nel 1987[124]. Ma nel 1988, in occasione del decennale, uno studioso come Giorgio Campanini propose per un editore francese un primo profilo biografico di Moro che tentava di rendere giustizia della «sproporzione» fra l’attenzione destata dal suo rapimento e dalla sua morte e la sua lunga carriera politica precedente[125].
Incentrata sulla figura di Moro, e interessante per noi non da ultimo per la periodizzazione proposta (1962-1978), era anche una ricostruzione storica della Democrazia cristiana proposta da Pierluigi Castellani nel volume curato da Francesco Malgeri già citato e pubblicato proprio in coda al decennale[126]. Partendo dal discorso del novembre del 1968, quello dei “tempi nuovi”, Castellani vi scorgeva una continuità con un precedente intervento pronunciato da Moro il 19 marzo di quell’anno davanti ai giovani democristiani bolognesi, con un’acuta analisi dei risvolti problematici che il mancato ascolto delle istanze avanzate avrebbe comportato[127]. Secondo l’autore, l’uscita di Moro dalla corrente dorotea, con il venir meno della sua leadership unificante, sarebbe stata la principale ragione della frattura tra le sue multiformi componenti, e la scelta dell’opposizione, al di là dei numeri che determinava, avrebbe costituito la causa della debolezza della segreteria di Flaminio Piccoli nata nel Consiglio nazionale di gennaio[128]. Si trattava di scelte, secondo l’autore, frutto di una lettura che vedeva nella Dc una inadeguatezza ad affrontare una nuova fase della storia repubblicana, e che la doveva spingere a cercare un rinnovamento profondo[129].
Queste vicende di partito furono toccate anche da Mariano Rumor, di cui furono pubblicate le memorie nel 1991 e la cui carriera, come si è visto, tra 1969 e 1970 più strettamente che in altre fasi, si intrecciò con quella di Moro[130]. Dopo avere ricordato lo stato di profonda desolazione provata dallo statista pugliese per il suo «accantonamento» successivo alle elezioni del 1968[131], Rumor di fatto faceva sue, naturalmente con una prospettiva diversa, le critiche a Moro tradizionalmente mosse da sinistra, non da ultimo per intestarsi il ruolo di vero riformatore nella Dc di quel periodo: persa la presidenza del Consiglio, le correnti della sinistra dc «ritenevano di rifarsi indebolendo l’area dorotea con l’incalzarla su posizioni di sinistra che, in verità, il Governo Moro aveva semmai ridotte, preferendo la routine e concedendo poche spanne di terreno al riformismo socialista». In questo Rumor non risparmiava nemmeno il segretario del Psi: «Moro e Nenni erano congeniali: per entrambi la nota dominante era politique d’abord e i problemi di schieramento soverchiavano quelli di contenuto riformistico»; anzi, negli anni precedenti la sinistra dc era «rimasta assopita per non disturbare Moro»[132]. Dopo avere illustrato il distacco di Moro nelle riunioni tra i maggiorenti della Dc nel corso della seconda metà del 1968, Rumor citava il discorso moroteo al Consiglio nazionale di novembre: dopo la raffinata e per lui condivisibile analisi sui “tempi nuovi”, «inaspettatamente, con largo tornante dialettico – che io ritengo sofisticamente appiccicato all’ultimo momento – egli dichiarava […] di staccarsi dalla corrente dorotea e presumibilmente formarne una propria. Non credevo alle mie orecchie». Rumor riferiva, ritenendola fondata, l’analisi di alcuni esponenti democristiani, tra cui Flaminio Piccoli ed Emilio Colombo, secondo cui la scelta di Moro avrebbe rischiato di favorire uno scivolamento a destra della corrente dorotea[133]. A chiusura della sua rievocazione autobiografica, Rumor scriveva di un colloquio avuto con Moro, ministro degli Esteri nel suo secondo governo, incentrato sul tema del divorzio e sulle conseguenti tensioni con la Santa Sede. L’impressione che il presidente del Consiglio ebbe in quell’incontro di fine giugno 1970 è che il leader pugliese stesse ricorrendo ai suoi viaggi all’estero – in quei giorni era infatti in partenza per una serie di visite in Africa e in Medio Oriente – come pretesto per non occuparsi della questione, lasciando il compito al capo del governo: «Lo accompagnai alla porta – concluse Rumor – e mi congedai da lui con una inevitabile freddezza»[134].
La conclusione della fase della storia repubblicana comunemente definita “prima repubblica” condusse diversi storici a svolgere analisi complessive di quella che ormai sembrava una storia di cui fosse possibile trarre già un bilancio. In queste analisi, Moro finiva spesso per diventare un simbolo della “prima repubblica”[135]. Alcuni studiosi poterono giovarsi anche di una prima analisi sistematica delle fonti: nel 1990 era infatti stata completata la raccolta degli scritti e dei discorsi di Aldo Moro a cura di Giuseppe Rossini, avviata già nel 1982[136]. Renato Moro ha rilevato che, mentre «indiscusso era il riconoscimento che veniva a Moro dagli storici di orientamento cattolico, molto più contrastata, nel nuovo contesto degli anni Novanta, fu la posizione della cultura comunista, divisa tra la possibilità di vedere in lui uno dei protagonisti del tentativo più lucido […] di superare i limiti della politica democristiana e le vecchie critiche alla prudenza e al conservatorismo»[137].
Pietro Scoppola, nel suo celebre saggio La Repubblica dei partiti, evidenziò la capacità dello statista pugliese di cogliere la debolezza e i limiti della democrazia italiana e di vedere come unica possibile soluzione il rifiuto delle contrapposizioni frontali, promuovendo al contrario la cooperazione fra tradizioni diverse ma accomunate da un unico interesse di rafforzamento della democrazia[138]. Un giudizio analogo sembrava giungere anche da alcuni storici che venivano dalla tradizione marxista, come Aurelio Lepre, che nella sua Storia della prima Repubblica individuò nel consolidamento della democrazia italiana l’obiettivo di Moro[139]; o come Franco De Felice, che, come Scoppola, attribuiva al leader democristiano la comprensione delle difficoltà della democrazia italiana[140], ma gli conferiva anche un disegno per il quale il Pci, dopo l’apertura e il dialogo con la Dc, sarebbe comunque dovuto rimanere forza d’opposizione[141]. Anche Enzo Santarelli guardò con attenzione all’evoluzione del pensiero moroteo dopo il 1968[142]. Altri storici di formazione marxista invece conservarono la lettura critica dominante nel passato: Nicola Tranfaglia riconobbe il ruolo avanzato di Moro negli anni Settanta, rinvenendo nelle sue posizioni una contraddizione rispetto all’immobilismo che gli attribuiva negli anni precedenti, quelli della presidenza del Consiglio[143]. Di altro tenore erano le riflessioni provenienti da ambienti molto critici dell’esperienza morotea. Da destra, l’opera di due giornalisti come Indro Montanelli e Mario Cervi, tanto imprecisi nelle loro ricostruzioni quanto popolari tra il pubblico conservatore, contribuiva a rafforzare tutti gli stereotipi più negativi su Aldo Moro, dalla presunta astrusità del suo linguaggio ad atteggiamenti di fatto machiavellici[144]. Su fronti diversi, Silvio Lanaro indicò in Moro uno dei responsabili delle difficoltà italiane, essendo promotore di «una variante “minima”, flebile, riduttiva della democrazia»[145]; mentre Luciano Cafagna, storico di matrice socialista che puntava il dito contro il “consociativismo” tra Dc e Pci, individuava nella cultura della “mediazione” uno dei principali problemi della politica morotea, per la sua tendenza a indebolire in ultima analisi lo Stato[146]. Di responsabilità morotee nell’affermazione del “consociativismo” parlò anche Ennio Di Nolfo, denunciandone le responsabilità nell’impedire la costruzione di una normale democrazia dell’alternanza[147]. Piero Ignazi, anch’egli critico di Moro, vide in ogni sua scelta politica, compresa la disponibilità al dialogo con la sinistra, un orientamento in fondo conservatore[148]. Nell’ultimo aggiornamento del suo noto e diffuso volume sulla storia d’Italia, il principale storico inglese dell’Italia post-unitaria, Denis Mack Smith, oltre a riprendere l’immagine “giolittiana” del Moro del centro-sinistra[149], ne confermava un profilo sostanzialmente conservatore nella fase post-1968: si trattava a suo avviso di un politico che avrebbe accettato passivamente il corso degli eventi. Mack Smith scriveva infatti che il leader democristiano, allarmato «dai tumulti studenteschi, dagli scioperi operai e dalla persistenza degli attacchi terroristici, accettava la necessità di un allargamento della base del consenso popolare», purché il potere restasse nelle mani della Dc[150].
Renato Moro individua nel volume sulla Storia d’Italia contemporanea di Piero Craveri, storico liberale, uscito nel 1995, l’avvio di una delle prime forme di storicizzazione autentica di Aldo Moro, sia per il ricorso a un’abbondanza di fonti poco usate da altri studiosi, sia perché libero da alcuni cliché interpretativi sul ruolo dei partiti politici nella storia italiana. A detta di Craveri, Moro fu tra i pochi a cogliere la lezione dei due dopoguerra sulla fragilità del sistema democratico e sulla necessità di tenere il problema della democrazia al centro del discorso politico, pur tra i limiti di un contesto generale arretrato[151]; questa capacità si sarebbe manifestata anche nel 1968, quando Moro «avvertì allora la fragilità istituzionale dello Stato democratico», di fronte alle sollecitazioni che derivavano dai movimenti, vedendo nel partito, piuttosto che nello Stato, lo strumento per ricondurre a unità queste tensioni[152]. Nello stesso periodo era uscito il volume di sintesi di Agostino Giovagnoli sulla storia della Democrazia cristiana, in cui naturalmente la figura di Moro ricopriva un posto centrale nelle diverse fasi della vita del partito, di cui era esaltato in senso positivo il ruolo di “mediazione” tra la società e le istituzioni, impostazione acquisita dallo statista democristiano negli anni della segreteria[153], dovuta alla necessità di evitare l’approdo dell’Italia a un modello di democrazia bipolare che avrebbe inevitabilmente spinto la Dc su posizioni conservatrici[154].
Al 1997 risale la prima biografia di Aldo Moro scritta da un giovane storico, Guido Formigoni. Anche se si trattava di un testo sintetico – per via della collana nella quale era inserito –, esso conteneva alcune interpretazioni che poi avrebbero rappresentato l’architrave del più ampio lavoro biografico dello stesso autore di vent’anni dopo, e che sembrano anche aver fatto tesoro della lettura del pensiero moroteo condotta da Mosse nel 1979. In particolare, Formigoni sottolineava la centralità del passaggio del 1968-1969 per l’evoluzione della posizione morotea sul Pci[155], partito che doveva essere coinvolto in un processo di rafforzamento della democrazia: non «si trattava ancora – per Formigoni – di un problema di maggioranze di governo, ma era un problema vitale per gli equilibri di una democrazia fragile»[156]. La biografia riprendeva anche, sul piano della riflessione storiografica, una organica analisi sulla specificità della politica estera nell’esperienza politica di Moro. In particolare, Formigoni sottolineava la ricerca di un «dinamismo originale» dell’Italia nell’ambito dell’atlantismo, recuperando la formula del “neoatlantismo” cattolico di derivazione dossettiana. In quest’ottica, secondo l’autore, Moro volle dare all’Italia un profilo «euro-mediterraneo», trovando una posizione attiva nel contesto mediorientale e sostenendo l’Ostpolitik di Willy Brandt, promuovendo una «certa differenziazione della posizione italiana nell’Occidente, senza rotture con i contenitori politico-militari tradizionali» e con un tentativo di valorizzazione dell’Onu come tavolo sempre più centrale di discussione e risoluzione dei conflitti[157]. Negli anni successivi, Guido Formigoni approfondì le sue analisi sul legame tra la dimensione nazionale e quella internazionale, ritenendo che le condizioni nuove del sistema bipolare a cavallo tra anni Sessanta e anni Settanta avessero condotto Moro a riflettere sull’opportunità che ciò consentisse nuovi equilibri nella politica italiana, facendone maturare la democrazia[158].
Sempre nell’ottica di una storicizzazione dell’opera morotea, l’anno dopo, in occasione del ventennale della sua morte, l’Università degli Studi di Bari dedicò allo statista democristiano un convegno, incentrato sugli anni giovanili e sulla sua formazione giuridica, ma in cui nelle relazioni dei presenti non mancavano i riferimenti a periodi successivi. Tra i relatori vi furono Pietro Scoppola, Gaetano Contento, Renato Moro, Nicola Antonetti, Vincenzo Robles, Giuseppe Ruggiero, Carlo Forcella, Rodolfo Bozzi, Antonio Muolo, Silvio Suppa, ma vi parteciparono anche la moglie di Moro, Eleonora, con i figli Maria Fida e Giovanni, e il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro[159].
Nella seconda metà degli anni Novanta il contesto italiano favorì in qualche modo un rinnovato interesse anche pubblico intorno alla figura e al pensiero di Moro. Da un lato infatti si assisté nel 1995 alla nascita dell’Ulivo, la coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi, che traeva la sua origine e la sua forza dall’incontro tra gli eredi del Pci, il Partito democratico della sinistra (Pds), che dell’esperienza comunista sembrava voler valorizzare proprio il periodo del rinnovamento berlingueriano, e quelli della Dc, il Partito popolare italiano (Ppi), che raccoglieva prevalentemente i vari filoni della tradizione della sinistra democristiana (dal sindacalismo forzanovista al moroteismo), con personalità come Mino Martinazzoli, Franco Marini, Sergio Mattarella, Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti. L’idea che Aldo Moro potesse rappresentare un punto di riferimento e una fonte cui attingere si radicò in quest’area di incontro tra cattolici democratici ed ex comunisti: non a caso dall’eredità di Moro prese specularmente le distanze il leader del centrodestra, Silvio Berlusconi[160]. Si pensi che il Consiglio nazionale del Ppi del 16 marzo 1998 (il giorno del ventennale del rapimento di Moro) si tenne significativamente a Bari e il segretario del partito, Franco Marini, parlò da un palco davanti a una gigantografia di Aldo Moro, che citò nel corso del suo intervento[161]. Dall’altro lato però, in quello stesso periodo, gli osservatori più acuti potevano ravvisare il ricorrere di tematiche tipiche della fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, con una diffusa sensazione (o illusione), nel mondo politico e in quello intellettuale, che la crisi italiana potesse risolversi attraverso una taumaturgica riforma istituzionale che rafforzasse il potere esecutivo su quello legislativo – e ancora una volta si riaffacciava la proposta presidenzialista, talvolta declinata nella forma del “premierato”. Pertanto la lezione di Moro, che già trent’anni prima aveva rifiutato l’idea che dalla crisi epocale della democrazia si potesse uscire con il rigetto del sistema parlamentare, tornò di un certo interesse e con essa letture come quella che ne aveva fatto George Mosse[162].
Accanto alle analisi più specificamente storiche, dunque, il “ritorno” di Moro nel dibattito pubblico portò anche all’emergere di conflitti di memoria – a cui qualche studioso non si sottrasse – che contenevano ampie tracce della polemica politica corrente e che, pur incentrati sul periodo strettamente a ridosso del suo sequestro, in certi casi si addentravano nel quinquennio qui considerato. Nell’autunno del 1998, l’inaugurazione di una statua dello statista democristiano a Maglie, che lo rappresentava con in tasca una copia del quotidiano comunista «L’Unità»[163], scatenò una polemica sulle interpretazioni del dialogo tra Dc e Pci. Sul «Corriere della Sera», lo storico Giovanni Belardelli mosse una dura critica alla scelta compiuta dall’amministrazione comunale. «Attraverso un effetto simbolico – affermò lo studioso, – Moro finisce dunque con l’essere considerato, e consegnato alla memoria delle prossime generazioni, quasi come un ulivista ante litteram». Belardelli sosteneva che l’obiettivo del dialogo avviato da Moro fosse al contrario quello di «conservare al suo partito le leve del potere»[164]. La tesi, che come abbiamo visto non era nuova, fu fermamente rigettata da Enzo Roggi, editorialista de «L’Unità», il quale sostenne che era «un torto grave alla verità storica e alla persona di Moro porre all’apice del suo pensiero, almeno a partire dal 1968, l’idea di un eterno e esclusivo dominio democristiano». Secondo Roggi, a riprova di questa lettura stava il suo stesso omicidio, dopo il quale la politica italiana aveva percorso una strada opposta a quella raffigurata da Moro[165]. Su questo tema, pochi mesi dopo, Giovanni Sabbatucci scrisse un breve intervento a sostegno del collega Belardelli, all’interno di un più ampio volume che mirava a smontare i “miti” dell’Italia unita[166].
Nel 1999, riprendendo le intuizioni interpretative di Mosse, Andrea Ambrogetti curava un’antologia di scritti di Aldo Moro sul tema della crisi della democrazia, con un’attenzione naturalmente a ciò che il pensiero moroteo avrebbe potuto insegnare al tempo presente. Nella sua introduzione, Giovanni Moro sottolineava il valore della testimonianza del padre «sulla natura, il significato e il valore della politica intesa come strumento per rendere concreta la potestà – meglio la sovranità – sul proprio destino da parte di una comunità civile». Dall’esperienza morotea emergeva, secondo Giovanni Moro, la finalità di «favorire il processo di liberazione della società da condizioni di subordinazione e marginalità, da ritardi e squilibri, da zone d’ombra e da situazioni non più tollerabili di negazione della dignità umana», partendo dal presupposto che «la società ha maturato una propria autonoma soggettività politica e una propria capacità di esprimersi, al di là dei canali tradizionali della rappresentanza politica»: da qui la lettura complessa e acuta che Aldo Moro aveva fatto del fenomeno del ’68[167]. Ancora nell’ottica di uno sguardo al presente, ma con un tentativo di ricostruzione rigorosa di lungo periodo, in un volume prefato da Pietro Scoppola, Fabio Vander riprese invece la già utilizzata categoria del “trasformismo”, proponendo una lettura piuttosto critica di Aldo Moro come espressione più cristallina di tale tendenza della politica italiana dall’Unità in poi, che dal 1945, ossia dopo l’affermazione dei partiti politici di massa, si sarebbe tramutata in “consociativismo”, inteso come pratica finalizzata a far convergere al centro le forze potenzialmente destabilizzanti[168].
Nel 2000 Giuseppe “Marco” Follini, già giornalista ed esponente democristiano – nonché figlio del giornalista moroteo Vittorio Follini –, diede alle stampe un volume sulla Dc, pubblicato nella collana “L’identità italiana” diretta da Ernesto Galli della Loggia. In quel momento Follini era deputato di primo piano del Centro cristiano democratico (Ccd), la componente ex dc che nel 1994 aveva scelto di allearsi con il centrodestra. Rappresentando Aldo Moro, Follini ne indicò la capacità di portare «il suo partito dove gran parte di esso non voleva andare […]. Li rassicurò, – spiegava Follini – li convinse e li garantì uno ad uno. Li tenne assieme con pazienza e fatica»[169]. E individuava nel periodo successivo al 1968 quello in cui maggiormente questa capacità di Moro si era mostrata, perché egli era riuscito nel suo intento pur guidando una corrente assolutamente marginale sul piano numerico. Follini non prendeva invece posizione sulla reale natura del dialogo proposto da Moro con il Pci, ritenendo ancora non chiaro se l’approdo fosse un governo insieme o una sottile strategia per contrastarlo. «Era l’alleato dei comunisti, o il loro dirimpettaio istituzionale, o magari addirittura l’artefice del loro logoramento?» si chiedeva, rispondendosi che proprio questa ambiguità gli aveva consentito di riscuotere consensi in una Dc in cui molto variegate erano le posizioni sul rapporto con i comunisti[170].
Al termine del primo decennio del nuovo secolo la storiografia su Aldo Moro ha subito un ulteriore impulso. È stato notato che per la prima volta i contributi di studio sugli anni precedenti il “caso Moro” hanno superato in quantità quelli intorno al rapimento e all’omicidio. Due sono le ragioni: da un lato la disponibilità delle carte politiche del suo archivio personale, ora fruibili presso l’Archivio Centrale dello Stato; dall’altro la ricorrenza dei trent’anni dalla sua morte, percepita come cambiamento anche di fase storiografica[171]. È evidente dunque che anche il quinquennio 1968-1973 è stato maggiormente studiato rispetto al passato.
Anche la memoria pubblica, peraltro, sembrò rapportarsi diversamente alla vicenda di Moro, consegnandone il lascito alla storia e superando alcune delle profonde divisioni di appena dieci anni prima: così, accanto alla prevedibile memoria di coloro che erano o si consideravano eredi diretti dello statista pugliese e ad alcune mai sopite polemiche, si affacciarono nuovi, non scontati estimatori, questa volta anche a destra. Nel maggio del 2007 il Parlamento italiano approvò l’istituzione di un “Giorno della memoria” per le vittime del terrorismo, scegliendo come data il 9 maggio, giorno del rinvenimento del corpo esanime di Moro. Nata da un’iniziativa parlamentare del gruppo dell’Ulivo (prima firmataria la deputata Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, il sindacalista ucciso dalle Br nel 1979), la proposta di legge fu alquanto contrastata da destra e da sinistra, perché ciascuna forza politica espresse date alternative generalmente avvertite come più “identitarie”[172], ma alla fine quella su cui si trovò ampia convergenza tra maggioranza (in quel momento il centrosinistra prodiano) e opposizione fu proprio la data legata alla morte dello statista democristiano[173]. Quando, nell’aprile del 2008, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari votò contro l’intitolazione dell’ateneo ad Aldo Moro (la vicenda si sarebbe poi chiusa positivamente in seguito, grazie al voto favorevole delle altre facoltà), tra le voci di dissenso rispetto a questa posizione negativa se ne levarono anche alcune provenienti da esponenti politici pugliesi del Popolo della libertà (Pdl), il partito unitario del centrodestra berlusconiano, segnando una rottura con il gruppo studentesco di destra che con successo si era fatto portabandiera del voto contrario e che aveva convinto a opporvisi perfino il preside di facoltà[174]: che quelle dei dirigenti locali del partito fossero posizioni convinte o che esse fossero strumentali, esse segnalavano comunque un mutamento di accenti rispetto al recente passato in alcune componenti un tempo ostili. All’inizio di maggio, poi, una settimana dopo la sua elezione a presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, ex segretario del Msi, il partito che tanto duramente aveva contrastato lo statista dc quando era in vita, e ora tra i leader di spicco del centrodestra, propose l’intitolazione di una sala di Montecitorio ad Aldo Moro, rifiutandosi peraltro di intitolarne un’altra a Oriana Fallaci come richiesto da alcuni ambienti di destra, nella logica del classico “bilancino” della memoria pubblica[175]. Insomma, questi sembravano i segnali, sia pure non uniformi e certamente non unanimi, di una nuova stagione non solo storiografica, ma anche pubblica.
I convegni, prevalentemente legati alle ricorrenze, sono stati uno dei principali vettori delle nuove iniziative di studio e di ricerca, facendo emergere spesso storici giovani, portatori di nuovi percorsi di indagine storiografica. Limitandoci a quelli che più direttamente toccano il quinquennio qui trattato, va innanzitutto segnalato il convegno internazionale, organizzato dall’Accademia di studi storici Aldo Moro e intitolato “Il governo delle società nel XXI secolo. Ripensando Aldo Moro”, che ha avuto luogo nel novembre del 2008 ed è poi scaturito in un numero monografico di «Mondo contemporaneo» a sua volta pubblicato come volume nel 2011[176] e in un altro volume collettaneo incentrato sulla dimensione internazionale, pubblicato nel 2013[177].
Altri due precedenti convegni, che hanno coinvolto numerosi storici, hanno offerto materiali e piste di ricerca alquanto notevoli. Organizzati da diverse istituzioni culturali italiane (Luiss, Luspio, Università di Bari, Università del Salento, Archivio centrale dello Stato, Miur, Mibact), si sono svolti il primo a Lecce (“Aldo Moro e le relazioni internazionali dell’Italia”) e il secondo a Roma (“Aldo Moro nella politica italiana”): il frutto dei due eventi è stato pubblicato in un corposo testo curato da Francesco Perfetti, Andrea Ungari, Daniele Caviglia e Daniele De Luca[178]. Due convegni, rispettivamente del 2010 e del 2011, organizzati da istituzioni culturali pugliesi (Università di Bari, Fondazione Gramsci di Puglia, Centro Studi e Formazione nelle Relazioni Interadriatiche di Bari) hanno contribuito ad ampliare la conoscenza della visione internazionale di Moro: il primo era intitolato “Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani. Momenti e problemi della politica estera italiana 1963-1978” ed è stato riversato in un volume curato da Italo Garzia, Luciano Monzali e Massimo Bucarelli[179], mentre il secondo, intitolato “Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo”, ha avuto come approdo una consistente pubblicazione collettanea curata da Italo Garzia, Luciano Monzali e Federico Imperato[180]. In questi ultimi due volumi, va precisato, il focus dei saggi non era sempre Aldo Moro, ma talvolta questioni strettamente legate al periodo e all’impegno politico dello statista democristiano. Un altro convegno del 2013 organizzato dall’Accademia di studi storici Aldo Moro, intitolato “Studiare Aldo Moro per capire l’Italia”, ha poi favorito la pubblicazione di un voluminoso libro collettaneo curato da Renato Moro e Daniele Mezzana[181].
In occasione del centenario della nascita di Aldo Moro, nel 2016, un convegno organizzato dall’Università degli Studi di Bari sul rapporto tra Moro e la sua terra d’origine ha dato come frutto un volume curato da Angelo Massafra, Luciano Monzali e Federico Imperato[182]. L’Università Sapienza di Roma ha organizzato lo stesso anno un convegno intitolato “Aldo Moro: gli anni della Sapienza (1963-1978)”, anch’esso divenuto una pubblicazione curata da Augusto D’Angelo e Mario Toscano[183]. Nell’ambito della stessa ricorrenza, l’Istituto Sturzo di Roma ha organizzato un convegno nel 2018 intitolato “Aldo Moro nella storia della Repubblica”, poi divenuto un volume curato da Nicola Antonetti[184]. L’Archivio Flamigni ha inoltre dedicato un sito internet ad Aldo Moro, nel tentativo di raccogliere tutte le risorse utili allo studio dello statista dc[185], mentre l’associazione Città dell’Uomo legata alla figura di Giuseppe Lazzati ha promosso una riflessione su «Appunti di cultura e politica», partendo dalla biografia scritta da Guido Formigoni[186]; nello stesso anno, infine, l’Accademia di studi storici Aldo Moro ha raccolto, a cura di Alfonso Alfonsi e Luciano D’Andrea, una serie corposa di brevi interventi e memorie di studiosi o di testimoni che hanno partecipato a iniziative della stessa istituzione dal 1984 al 2017[187]. Non connesso alla ricorrenza, ma con essa coincidente, è la pubblicazione nel 2017 delle memorie di Emilio Colombo, che dedica qualche accenno – in verità molto scarno – al Moro di questo quinquennio[188].
Accanto a questa densa attività convegnistica e alle relative ricadute in pubblicazioni di varia e diversificata qualità, sono state pubblicate anche diverse monografie su momenti e temi specifici della vita politica di Aldo Moro, e tra queste vanno annoverate anzitutto le due biografie politiche scritte da Guido Formigoni e Massimo Mastrogregori, andate in stampa in occasione del centenario della nascita dello statista pugliese, nel 2016[189], mentre non sono mancate, come negli anni passati, le interpretazioni su Moro nelle storie d’Italia e della Democrazia cristiana e le memorie di protagonisti dell’epoca: in quest’ultima categoria si segnalano almeno le preziose testimonianze di Corrado Guerzoni, a lungo collaboratore di Moro, di Giovanni Galloni e della figlia Agnese[190]; ma va menzionata anche la biografia scritta da Luigi Ferlicchia, da giovane legato agli ambienti morotei di Bari, che, oltre a una ricostruzione generale della vita del leader democristiano, offre qualche spunto originale sulle vicende pugliesi della corrente morotea[191].
Come si può facilmente intuire dall’abbondanza di studi e di contributori nei volumi collettanei citati, nel corso di appena un decennio l’interesse per la figura e la storia dello statista pugliese è andato aumentando e le piste di ricerca si sono moltiplicate, anche grazie al dialogo ora possibile tra la documentazione delle carte Moro e altri archivi, mentre si è finalmente realizzato l’auspicio di chi chiedeva che la storiografia su Moro si smarcasse dalla dipendenza dalla tragedia del “caso Moro”.
L’idea diffusa è che Aldo Moro fosse così strettamente legato alla storia della Repubblica, da «farsi carico – come ha scritto Piero Craveri – di tutti gli elementi di fragilità della democrazia italiana», avendo la capacità «di cogliere quello che è il nocciolo del sistema politico, che è anche il nocciolo dell’unità nazionale»[192]. La consapevolezza della centralità della figura di Moro nella storia della democrazia italiana ha fatto sì che, anche in questa nuova stagione di studi, uno dei temi che ha continuato a interessare gli storici sia il dialogo con il Pci. In particolare, restano due i filoni interpretativi che hanno contraddistinto la storiografia sul tema: da un lato l’idea che il dialogo con i comunisti avesse una finalità precipuamente tattica, legata a superare una fase complessa della democrazia italiana, al fine di rendere permanente la centralità della Dc; dall’altro lato la tesi secondo cui il progetto moroteo fosse più di lungo respiro e che avesse come obiettivo la prosecuzione dello sforzo di consolidamento della democrazia, attraverso la valorizzazione della rappresentanza delle masse popolari e il loro inserimento in una logica di assunzione di responsabilità (e l’esito di questo processo non avrebbe così escluso la possibile evoluzione del sistema politico italiano verso l’alternanza). In questo senso, gli anni 1968-1973 hanno ricevuto un nuovo interesse perché subito precedenti alla fase avanzata del dialogo con i comunisti e perché sono quelli in cui matura e si dispiega la “strategia dell’attenzione” di Moro. Paolo Acanfora ha rappresentato questo periodo come la seconda fase del dialogo repubblicano tra democristiani e comunisti – essendo la precedente quella legata all’alleanza antifascista e alla fase costituente (1945-1947) e la successiva quella propria della solidarietà nazionale (1976-1979). E ha rilevato come, al di là delle diverse interpretazioni degli studiosi, a differenza degli altri due periodi questa fase sia legata essenzialmente alla figura di Moro[193]. Nella sua ricerca sui rapporti tra Aldo Moro e il Pci tra il congresso democristiano del novembre del 1967 e l’avvio della “strategia della tensione” nel dicembre del 1969, Giovanni Mario Ceci ha ricostruito la genesi e l’evoluzione della “strategia dell’attenzione” morotea, incrociando la riflessione dell’esponente democristiano con altre fonti archivistiche (del Pci, di esponenti politici della Dc, del Dipartimento di Stato Usa) e a stampa[194]. Ceci ha individuato così un nocciolo di continuità tra il discorso al congresso di Milano del 1967 – nel quale Moro pure mantenne, ma con accenti nuovi, una sostanziale linea anticomunista – e quello del Consiglio nazionale dell’anno dopo, l’occasione in cui maturò l’idea di un diverso «confronto» con i comunisti, con un mutamento di lessico e di toni. Quest’ultimo era dovuto, secondo Ceci, a tre problemi emersi nel frattempo: la necessità di spostare gli equilibri nel partito in un momento in cui sembrava che la Dc si trovasse in difficoltà; il bisogno di leggere gli eventi della contestazione giovanile in corso, con serietà e rispetto; in terzo luogo l’implosione dell’unificazione socialista che indeboliva l’orizzonte del centro-sinistra, suggerendo il riconoscimento da parte della Dc del mutato quadro politico da cui il Pci usciva invece rafforzato. Accanto a queste ragioni di breve periodo, secondo l’autore, che si pone sulla linea interpretativa di Mosse, vi era in Moro una consapevolezza della fragilità della democrazia italiana e la ricerca di un suo costante rafforzamento attraverso una progressiva opera di espansione delle sue basi. Insomma, ragioni contingenti spinsero Moro a declinare secondo i tempi nuovi la sua visione generale e complessiva della realtà italiana. La ricostruzione di Ceci ha posto poi in luce le successive modalità di consolidamento della “strategia dell’attenzione” morotea e le reazioni da essa suscitate, ma poi anche la sua scomparsa dall’orizzonte politico dello statista pugliese dopo l’estate del 1969, quando le fibrillazioni nel mondo socialista (che vide la scissione tra le due componenti che prima avevano favorito la fusione tra Psi e Psdi) e la prima manifestazione della “strategia della tensione” suggerirono a Moro di accantonare il tema, ritenendo che «la strada di rapporti più avanzati col PCI, da lui numerose volte suggerita nei mesi precedenti, fosse in quel momento non solo non valida, non solo non utile, non solo non necessaria, ma forse addirittura dannosa e rischiosa», ottenendo su questo la comprensione dello stesso Enrico Berlinguer[195]. Di fatto l’autore ha delineato una cesura tra la “strategia dell’attenzione” e la fase successiva, quella del dialogo della metà degli anni Settanta.
Restano, nell’interpretazione del rapporto tra Moro e il Pci, le due principali letture che si sono sviluppate nel corso degli anni. In questa nuova stagione di studi, le due principali biografie hanno evidenziato due approcci diversi, pur presentandoli con i tratti di una realtà più complessa, da non ridurre a schematismi affrettati. Mastrogregori ha accentuato, nella sua analisi, l’aspetto strumentale delle aperture di Moro al Pci, al fine di preservare in ultima analisi la centralità della Dc e di ridare slancio alla prospettiva del centro-sinistra[196]. L’autore non sottovaluta il disegno di lunga durata dello statista dc, dimostrato anche dalle iniziative di maggiore coinvolgimento dell’opposizione dei comunisti nella legislatura 1963-1968, ma i discorsi di Moro tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969 gli sembrano più che altro «qualcosa di spregiudicato e di movimentista». «Nel sostenere che i rapporti col Pci andavano “fluidificati”, Moro stava facendo ciò che per Nenni era impossibile fare, ma che era necessario che qualcuno facesse, nell’area del governo: rendere possibile un nuovo centro-sinistra, dopo l’esplosione dell’unificazione socialista»[197]. In tutti i casi, secondo Mastrogregori che fonde la scelta dell’opposizione nel partito e l’apertura al Pci in un unico disegno, le sorti della Dc restavano al centro dell’azione politica di Moro. «La sua operazione – scrive – era dovuta anche alla necessità di evitare la rottura dell’unità dei cattolici su quel lato: mettendosi alla guida delle sinistre del partito, provò a presidiare quell’importantissima frontiera, subito al di qua dell’altra, fondamentale, costituita dal partito socialista (in pieno tumulto per la scissione). Attenzione e confronto servivano a contenere le posizioni estreme a sinistra (compreso il Pci)»[198]. Formigoni ha invece enfatizzato le ragioni più alte di Moro, legate, come si è già visto, alla sua lettura di lungo periodo della crisi della democrazia italiana. Secondo l’autore, «cambiando l’approccio del partito di maggioranza, la pressione di questa novità avrebbe indotto anche il Pci a continuare la sua revisione. Pesava ancora una volta la primaria preoccupazione di Moro: stabilizzare la fragile democrazia italiana»[199]. Legato a questo disegno di lungo periodo vi era, secondo Formigoni, l’auspicio di Moro che il Pci, di cui aveva incontrato segretamente il segretario Berlinguer nel corso del confronto per la presidenza della Repubblica, compisse decisivi passi in avanti, dopo quelli già fatti nel senso di una maggiore autonomia dall’Urss e di adesione alla Cee, con una scelta in favore della Nato[200]. Su questa lettura di prospettiva di cambiamento “sistemico” Formigoni si è confrontato in seguito, nel corso di una tavola rotonda, anche con Paolo Soddu, che ne ha condiviso l’interpretazione, e con Roberto Chiarini, che invece su questo si è mostrato più scettico[201].
Nel commentare le diverse conclusioni dei due principali biografi di Moro, Giovagnoli ha ipotizzato che esse possano anche coesistere, ritenendo cioè possibile l’ambivalenza delle posizioni dello statista, variabili con diverse analisi e priorità a seconda del momento politico, ma anche rese necessarie dalle difficoltà di fronte alle contraddizioni di una realtà complessa difficilmente inquadrabile in un disegno coerente[202]. Nonostante le biografie citate abbiano rappresentato un decisivo punto di arrivo su questo tema del rapporto tra Moro e il Pci, non sono mancati ulteriori contributi pubblicati in seguito. Si pensi alla ricerca di Daniela Saresella, che ha cambiato il punto di vista inserendo la vicenda morotea nel contesto dei rapporti di lungo periodo tra cattolici e comunisti[203], e a quella di Alexander Höbel, che, pur incentrandosi su una fase precedente – quella che porterà alla nascita del primo governo di centro-sinistra organico –, ha rilevato la continuità del tema della democrazia come centro del confronto tra Moro e il Pci[204].
Il discorso del novembre del 1968 al Consiglio nazionale, con cui Moro avviava il proprio percorso di attenzione nei confronti del Pci[205], come già si è visto, è stato al centro anche delle riflessioni degli studiosi relative alla lettura degli eventi del ‘68 proposta dal leader democristiano, che sarebbero poi proseguite in numerosi altri, successivi interventi. La trattazione che ne hanno fatto le due biografie, legandola variamente al nuovo approccio ai comunisti, è stata significativa e si è giovata anche di ricerche specifiche. Lo stesso Piero Craveri, nella voce sullo statista dc del Dizionario biografico degli italiani del 2012[206], lega strettamente il tema dell’apertura al Pci a quello della lettura di Moro delle rivendicazioni nuove del 1968; analisi del resto comune a quella condotta da Giovagnoli nella sua storia d’Italia[207]. Il punto di partenza per comprendere come Moro si rapportasse ai nuovi fenomeni sociali è, secondo Luciano D’Andrea, il presupposto della sua concezione politica: ossia l’idea del primato della società sulla politica e la comprensione, rara tra gli uomini politici dell’epoca ma molto sentita dallo statista pugliese, di vivere una fase di passaggio e di mutamenti epocali. D’Andrea ha ricordato che Moro fu tra i primi in Italia a parlare, già nel discorso congressuale del 1969[208], di “società post-industriale”, concetto allora largamente riservato a pionieristici studi specialistici, che vedevano la messa in discussione delle tradizionali gerarchie e la segmentazione delle centrali decisionali[209]. In questo senso sono di grande interesse le analisi, entrambe di lungo periodo, di Beatrice Pisa sulla presenza delle tematiche legate al femminismo in Moro[210], e di Liviana Gazzetta sulla sua elaborazione da una iniziale condivisione del modello ideologico proposto dal Movimento femminile della Dc alla più autonoma comprensione del movimento femminista[211]. Ugualmente Umberto Gentiloni Silveri, nella sua Storia dell’Italia contemporanea del 2019, ha sottolineato l’unicità di Moro nel panorama politico italiano di fronte al ’68. Gentiloni richiama le parole dello stesso esponente democristiano del novembre del 1968: «non si tratta di cercare un piccolo aggiustamento interno, né di puntare al riequilibrio dei rapporti di forza tra le componenti del partito o del governo […]. La dimensione dei fenomeni non è comprimibile dentro gli schemi conosciuti e frequentati nel dopoguerra»[212].
Anche sul fenomeno del terrorismo, che come abbiamo già visto è coevo nelle sue manifestazioni iniziali al quinquennio 1968-1973 da noi considerato, si sono sviluppati ulteriormente gli studi. In particolare Giovanni Mario Ceci vi ha dedicato qualche riflessione evidenziando che Moro fu tra i primi esponenti politici a dare un peso politico alla violenza terroristica – prevalentemente di destra negli anni qui esaminati –, senza derubricarla ad atto di efferata criminalità, ma leggendovi un tentativo di affermare un disegno politico eversivo[213]. Mastrogregori ha ipotizzato che i tempi sorprendentemente prematuri dell’intuizione di Moro sulle trame eversive, espressi in un discorso a Mestre il 16 marzo 1969[214], derivassero da possibili informazioni riservate che lo avrebbero notevolmente preoccupato[215]. Formigoni ha visto in questi interventi[216] – in cui non vi è un riferimento esplicito al terrorismo, ma alle precondizioni che poi di lì a breve lo avrebbero favorito – la «intuizione unica delle dinamiche che stavano per mettersi in moto, a sinistra come a destra, nel sistema italiano, del tutto diversa da una visione organicistica di negazione del conflitto»[217]. L’analisi delle posizioni di Moro sul terrorismo viene inserita da Formigoni in un discorso unitario che tiene conto della crisi politica vissuta dal centro-sinistra nei travagliati passaggi da un governo all’altro (in particolare dal Rumor II al Rumor III e poi a quello guidato da Colombo) e delle interlocuzioni con l’ambasciatore americano Graham Martin, in un quadro di deterioramento dei rapporti con la Santa Sede per la questione del divorzio. Ed è in questo schema che quello che Formigoni ha definito il «partito dell’immobilismo» (alternativo al «partito dell’evoluzione» di cui Moro era evidentemente parte) riuscì nel suo intento di consolidare l’assestamento a destra del quadro politico[218].
Le ricerche degli ultimi anni hanno ulteriormente ampliato l’attenzione su aspetti particolari della concezione politica di Moro e dei rapporti di questi all’interno del sistema politico italiano. In questo senso la raccolta curata da Perfetti, Ungari, Caviglia e De Luca ha dedicato ampio spazio alle relazioni tra lo statista dc e altre realtà politiche o istituzionali, con periodizzazioni differenziate. Tra quelli che interessano il quinquennio 1968-1973 vi sono gli interventi di Paolo Mattera sul Psi[219], Gerardo Nicolosi sui radicali[220], Andrea Ungari sul Msi[221]. Ma vanno menzionati anche i saggi di Augusto D’Angelo sul rapporto tra Moro e il mondo cattolico[222] e, in un’altra raccolta, di Andrea Ambrogetti su quello con i servizi di informazione[223]. Un aspetto significativo segnalato da Francesco Malgeri è invece l’assenza di studi specifici sulle vicende della corrente degli “amici dell’on. Moro”, circostanza che crea un vuoto negli studi sulle correnti democristiane coincidente proprio con questo quinquennio[224]. Non vanno tuttavia dimenticate le riflessioni di Rossano su alcuni personaggi gravitanti intorno al leader dc in Puglia e le sue considerazioni sul perché non si fosse creata intorno a Moro una vera e propria “scuola”[225]. Il corposo volume di Vera Capperucci sulle correnti nella prima fase della vita della Democrazia cristiana, fino cioè all’avvento di Fanfani alla segreteria nel 1954, lascia intendere che spazi per una ricerca in tal senso siano possibili anche per i periodi successivi e per le nuove correnti costituitesi in seguito[226]. Ma non vanno nemmeno trascurate le osservazioni di Giorgio Balzoni, nel suo interessante volume sulla figura di Moro docente universitario, maturate dopo una conversazione con Nerino Rossi sulla corrente dello statista pugliese: «I “morotei” sono semplicemente i democristiani che lo frequentano e lo ascoltano di più. Lui, che pure è disciplinatissimo, non pretende disciplina ma ascolto»[227]. L’assenza di una corrente strutturata e organizzata è dunque un tema che non va ignorato nella ricostruzione di questo aspetto dell’impegno politico di Moro.
Come si è già anticipato, sulla politica estera di Moro nel periodo del ministero degli Esteri (1969-1972) negli ultimi anni si è prodotta un’abbondanza di studi e di pubblicazioni, con analisi che spesso hanno tenuto conto anche delle sue posizioni da presidente del Consiglio nel periodo 1963-1968 e 1974-1976, oltre che di ministro degli Esteri nel 1973-1974. Questa ricchezza di contributi è sicuramente dovuta alla moltiplicazione degli studi d’area, che hanno sviscerato l’interesse di Moro e il suo disegno rispetto ai più diversi scenari globali e alle svariate problematiche internazionali. Si tratta di una messe di lavori che ha contribuito a rendere le due biografie politiche di Formigoni e di Mastrogregori un punto di raccordo e di riordino dei tanti percorsi avviati nel decennio precedente. Entrambi gli autori, infatti, hanno dedicato ampio spazio all’esperienza di Moro alla Farnesina, confermando l’impressione ricavata nella più recente storiografia che questa non fu una parentesi in attesa di nuove, prestigiose cariche in Italia, ma una fase qualificante della carriera politica e della maturazione del pensiero moroteo. La politica estera – ha osservato Formigoni (che ha attinto anche a documentazione del Dipartimento di Stato e dell’intelligence statunitensi) – rientrava in una visione organica e complessiva del pensiero di Moro. Per lo statista democristiano si poteva addirittura intravvedere un vero e proprio «parallelismo fra tre elementi: la richiesta di maggiore apertura dei partiti alla società per rispondere alla stagione dei movimenti sociali, la dialettica serrata da sviluppare con il Partito comunista (nella confermata alterità delle posizioni) e la ricerca di strade che allargassero il significato della distensione nel sistema internazionale»[228]. Fu certamente in questa fase, secondo l’autore, che si crearono nuove e particolari opportunità in questo senso per Moro, che «aveva già insistito molto sui nessi tra politica internazionale e interna negli interventi a cavallo tra 1968 e 1969, che divennero ora il perno per la ricerca di una sintesi politica nuova che rispondesse alla crisi della democrazia»[229]. La lettura dell’operato di Moro condotta dall’autore rientra peraltro in un più complesso e ampio percorso di ricerca di Formigoni sulle relazioni molto strette tra la politica nazionale e quella internazionale, di cui dunque lo statista democristiano sarebbe risultato uno dei più acuti interpreti[230]. Ciò è stato formulato del resto in modo più sintetico dallo stesso studioso in una delle prime pubblicazioni uscite in coincidenza con il trentennale, ossia una riflessione sul rapporto tra cattolici e sviluppo democratico italiano, che a Moro dedicava un capitolo a sé[231]. Mastrogregori, che nello studio della politica estera morotea è ricorso anche a documentazione tratta dalla Nixon Library e dalla Ford Library, ha ricostruito le stesse modalità di lavoro quotidiano di Moro al ministero degli Esteri, ribaltando l’immagine di scarso impegno del nuovo ministro che era stata proposta in alcune delle prime biografie che abbiamo visto. Ha concluso Mastrogregori: «chi ha scritto di una sua indifferenza di fondo alla politica estera, usata solo come strumento, indiretto, per quella interna – la corsa per il Quirinale, l’avvicinamento al Pci – si è privato di una chiave d’accesso alla sua personalità (e alla sua politica)»[232]. L’inizio in tarda mattinata della sua giornata lavorativa da ministro – che era spesso motivato dalla decisione di non perdere un solo giorno di lezione e di contatto con gli studenti («Ma possibile che gli impegni del ministro degli Esteri siano scanditi dal ritmo delle lezioni universitarie? […] Non ci sarà giorno della sua vita – neppure durante defatiganti campagne elettorali, crisi di governo, congressi di partito – in cui l’appuntamento all’università non sarà considerato prioritario», ha ricordato Giorgio Balzoni)[233] – si traduceva in orari d’ufficio che si concludevano in tarda serata e un ritmo di lavoro tutt’altro che rilassato[234].
La centralità del ruolo di ministro degli Esteri nell’esperienza politica di Moro, secondo Guido Formigoni, sta tutta nella modalità in cui egli vi giunse: in un governo monocolore (il Rumor II), nella logica di una tregua interna alla Dc, ma con il proposito di svolgere un ruolo nuovo. Scrive Formigoni: «la radicalità della crisi, come egli aveva ben compreso, si giocava sul crinale tra evoluzione interna e collegamenti o interdipendenze internazionali, per cui su questo delicato terreno si poteva e si doveva tentare di costruire una risposta politica alle difficoltà del paese». Inoltre, «il ruolo ministeriale di Moro si esprimeva in una posizione molto personale, quasi da battitore libero»[235]. L’idea che informò il progetto politico del nuovo titolare della Farnesina era quella di individuare nella distensione l’opportunità di trovare nuovi spazi di manovra per l’Italia e per l’Europa. Quest’ultima, con l’apertura del negoziato con la Gran Bretagna, avrebbe potuto aspirare a costruire un «quarto polo» della politica internazionale, valorizzando però anche la peculiare posizione mediterranea dell’Italia, foriera di relazioni speciali con il Nord Africa e il Medio Oriente[236]. Questo disegno chiaro e ambizioso, più volte espresso nei pronunciamenti pubblici dallo stesso Moro, si deve però necessariamente mettere a confronto, secondo Formigoni, con la sua declinazione pratica (e su questo bisognerà probabilmente attendere di studiare le carte della Farnesina, quando saranno disponibili). Secondo lo storico, infatti, «appare meno facile e lineare (almeno allo stato attuale degli studi) attribuire con precisione la responsabilità di snodi specifici e la titolarità di idee, proposte e azioni tra il responsabile del dicastero e i tecnici protagonisti della diplomazia italiana»[237]. Parzialmente legato a questo tema è il dibattito intorno alla natura stessa della politica estera morotea, di cui alcuni studiosi come Antonio Armellini hanno sottolineato gli slanci prevalentemente ideali del leader pugliese[238], mentre altri come Leopoldo Nuti hanno evidenziato la prospettiva realista[239].
Partendo da queste premesse, si può dare uno sguardo alle principali ricerche sulla politica estera di Aldo Moro, per aree di studio.
Il primo tema messo in primo piano dallo stesso nuovo ministro in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’8 ottobre 1969, fu l’impegno italiano per la pace mondiale nel quadro della politica societaria. Secondo Luciano Tosi, questa concezione era una ricaduta della formazione politica e religiosa di Moro, per il quale le relazioni internazionali erano «strumento per la piena realizzazione della dignità di tutti gli uomini, non tanto per la tutela degli interessi degli Stati». Lo studioso ha così rinvenuto una continuità tra il Moro del 1969-1973 e la fase precedente di presidente del Consiglio, riuscendo a integrare questa concezione con l’adesione italiana all’Alleanza atlantica. La fiducia nell’Onu si traduceva quindi in proposte che, in sede di colloqui con i suoi interlocutori internazionali, Moro avanzò per rafforzare gli organi societari, adeguandoli politicamente e finanziariamente alle crescenti necessità della politica internazionale. Si trattava di un impegno, secondo Tosi, che in fondo doveva recepire i movimenti in atto nelle società occidentali, in cui si stavano affermando l’aspirazione alla pace e il rifiuto della guerra in quanto tale. In questa logica rientrava anche l’attenzione per i nuovi rapporti tra Nord e Sud del mondo, da cui dovevano partire le politiche per estirpare le cause remote dei conflitti[240]. Federico Imperato ha osservato che con Moro il mutamento di rotta della strategia internazionale dell’Italia si può riassumere come un passaggio «dalla “pace nella sicurezza” alla “sicurezza nella pace”», aggiungendo che in parte ciò era «il riflesso della frustrazione di avere un ruolo limitato nel sistema delle relazioni internazionali e che, di conseguenza, nell’impossibilità di accrescere la propria presenza, occorresse sminuire quella degli altri, attraverso l’affermazione di strumenti di discussione, di negoziato e di soluzione delle controversie multilaterali e condivisi»[241]. Secondo lo studioso di Storia delle relazioni internazionali, il discorso dell’ottobre del 1969 rappresentava la prima volta che in sede Onu un delegato italiano offrisse «argomentazioni così ricche di prospettive»[242]. Tali posizioni però – ha osservato Luciano Tosi –, nonostante l’oggettivo riconoscimento internazionale che portò l’Italia a essere eletta membro non permanente del Consiglio di Sicurezza per ben due volte tra 1972 e 1974, si scontrarono con il clima sostanzialmente ostile generato dalla politica estera dell’amministrazione Nixon[243]. Sulle origini culturali della politica estera di Moro, hanno scritto anche Giuseppe Fioroni e Giovanni Iannuzzi in un loro brevissimo intervento del 2018, sostenendo che essa aveva alla base gli stessi riferimenti della sua azione politica interna, perché «egli seppe rinnovare la migliore tradizione del personalismo, interpretando i rapporti internazionali in termini di rapporti tra popoli e non in una chiave strettamente geopolitica»[244].
Non deve dunque sorprendere un’attenzione specifica di Moro alle questioni relative al Terzo Mondo, su cui ha riflettuto Massimo De Giuseppe. Ad avviso di quest’ultimo, era «costante e insistito» in lui il «nesso pace-sviluppo», con chiari echi della Populorum progressio di Paolo VI, nell’ambito del quadro offerto dalle Nazioni Unite. Su questo tema, De Giuseppe ha sottolineato anche iniziative concrete, oltre alle numerose occasioni in cui il ministro si espresse nel corso dei viaggi all’estero, a partire dagli accordi preferenziali con alcuni paesi dell’Africa subsahariana, che dovette difendere anche in sede comunitaria: la promozione del percorso che avrebbe condotto all’approvazione della legge 1.222 del 1971 sulla cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo, con ricadute di lungo periodo nell’evoluzione delle politiche italiane in materia; la nascita dell’Istituto per le relazioni con Africa, America Latina e Medio Oriente (Ipalmo) nel 1971, che «univa all’attività di studio, ricerca e promozione, la costruzione di reti diplomatiche e di formazione dei ceti dirigenti ma al contempo proiettava forme di dialogo interpartitico (DC-PCI-PSI) su terreni extra governativi». Sul Terzo Mondo, dunque, Moro sperimentò «il lancio di un organismo di supporto alla politica estera, aperto alla trasversalità rispetto agli equilibri governo-opposizione su temi delicati quali sviluppo, cooperazione, lotta alla povertà, ma anche conflitti regionali e dinamiche Nord-Sud»[245]. Sulla politica estera come banco di dialogo con il Pci, hanno scritto anche Elena Calandri, che ha parlato di «distensione» tra maggioranza e opposizione[246], e Silvio Pons, che ha evidenziato «un autentico rispecchiamento tra alcune opzioni di fondo dei comunisti e le strategie governative, che sotto la guida di Moro come ministro degli Esteri segnarono sensibili novità dopo un decennio di sostanziale conservatorismo»[247]. Secondo Pons, che sfuma dunque l’idea della centralità delle iniziative personali di Moro ministro degli Esteri, le convergenze del titolare della Farnesina con il Pci in politica estera erano «il risultato di una competizione e una interazione con i comunisti, più di quanto gli stessi protagonisti fossero disposti ad ammettere»[248]. Sull’interesse di Moro per l’America Latina, con un’analisi di più lungo periodo, ha scritto invece Gianni La Bella, che ha ricostruito il personale impegno dello statista pugliese nel favorire i rapporti euro-latinoamericani[249], che Massimo De Giuseppe ha inserito in una più generale, peculiare attenzione dei cattolici italiani nei confronti del continente latinoamericano, nel quadro di un più deciso multilateralismo[250], non da ultimo utile a contribuire a contenere le spinte radicali dei movimenti in Italia[251]. Giampaolo Malgeri ha invece dedicato uno studio specifico alla politica morotea nel Corno d’Africa[252].
L’approccio di Moro al Terzo Mondo e all’America Latina, secondo gli autori citati, aveva un forte radicamento nella Comunità economica europea, che, come si è visto, egli vedeva come potenziale futuro attore di primissimo piano. Proprio la politica morotea verso l’Europa, in tutte le sue sfaccettature, è stata oggetto di indagine di diversi studiosi, che hanno scandagliato questo aspetto meno studiato negli anni precedenti. Anche se attinente a una fase lontana, si potrebbe individuare nelle riflessioni di Paolo Acanfora un punto di riferimento in materia. Analizzando il pensiero e la formazione del primo Moro, egli infatti ne ha dimostrato l’attenzione fin dagli inizi dell’integrazione comunitaria al tema dell’Europa come una «nuova e più ampia patria in cui possono riconoscersi e includersi le patrie tradizionali»; e ha sottolineato che questa concezione era a sua volta frutto di un complesso intreccio in cui faro indiscusso dell’orizzonte moroteo era la costruzione di una democrazia sempre più avanzata[253]. Antonio Varsori ha evidenziato l’impegno di lungo periodo di Moro perché la Gran Bretagna aderisse alla Cee, anche se ha rilevato scarsa incisività nel biennio 1969-1970, causata, secondo lo storico delle relazioni internazionali, dalle difficoltà interne italiane e dall’insorgere di nuove sfide a livello internazionale che ridussero l’attenzione del ministro sul negoziato con Londra[254]. Allargando l’analisi alla politica europea in generale, Varsori ha individuato elementi di debolezza nell’operato di Moro nei primi tempi alla Farnesina: il nuovo ministro, a suo avviso, sembrava impacciato e incapace di far valere le ragioni italiane, mostrandosi debole nel negoziato Cee sulla politica agricola (Pac)[255]. Moro al contrario si mostrò, secondo Varsori, molto più attivo e propositivo quando si trattava di affrontare le implicazioni internazionali delle politiche comunitarie: Varsori citava a questo proposito un incontro bilaterale tra Moro e il collega britannico Michael Stewart del 1970, in cui il ministro italiano trattò sbrigativamente le questioni relative alla Pac, dedicando invece molta più attenzione alla cooperazione politica implicata dall’ingresso della Gran Bretagna – il che significava trattare di Medio Oriente, Indocina, Nato, Grecia[256], e così via. Sembra dunque dalla ricostruzione di Varsori che Moro fosse poco a suo agio con le questioni tecniche dei negoziati sulla politica agricola (nonostante la consapevolezza delle implicazioni per il Mezzogiorno e anche per le difficoltà della posizione negoziale italiana) e più fiducioso delle proprie competenze sulle grandi questioni internazionali. Maggiori successi Moro li ottenne proprio su altre questioni più direttamente collegate allo sviluppo del Sud Italia, con un forte avanzamento all’inizio degli anni Settanta delle politiche sociali comunitarie[257]. Carla Meneguzzi Rostagni, che ha individuato un disegno moroteo ambizioso e di lungo periodo di costruzione europea, ha sottolineato anche che queste difficoltà derivavano dalla durevole solidità dell’asse franco-tedesco, che la Germania Occidentale difficilmente avrebbe messo in discussione pur trovandosi negli anni di Brandt più in sintonia con le posizioni italiane. Da qui derivarono sia l’interesse a creare un polo alternativo con la Gran Bretagna, sia l’iniziativa morotea verso i paesi terzi della European free trade association (Efta) non candidati all’adesione[258]. Moro fu anche promotore di un’iniziativa che indirizzasse la Cee verso politiche specifiche per i giovani, giovandosi in questo caso delle intuizioni del deputato dc (dal 1972 commissario europeo) Carlo Scarascia Mugnozza[259]: su questa figura, e conseguentemente sulle sue interazioni con Aldo Moro, va segnalato l’approfondito studio di Antonio Bonatesta[260], che peraltro ha analizzato anche, con uno sguardo di lungo periodo, gli effetti delle politiche regionali della Cee in Puglia, la regione dello stesso statista democristiano[261]. Su questo impegno di Moro per i giovani europei ha scritto anche Simone Paoli, che ha rilevato come l’assenza di risultati concreti nell’immediato, dovuta essenzialmente a una scarsa sensibilità sul tema dei colleghi europei del ministro italiano, abbia tuttavia favorito l’avvio di una serie di iniziative unitarie da parte delle organizzazioni giovanili europee, politiche e non, a livello comunitario, anticipando così una pratica e una politica di integrazione che sarebbero emerse con maggiore incisività negli anni successivi[262]. Un aspetto di grande rilevanza, inoltre, nella definizione della politica europea di Moro è dato dalla sua lettura della crisi monetaria che investì l’Occidente dopo la sospensione della convertibilità del dollaro decisa da Nixon, nell’agosto del 1971. Maria Elena Guasconi ha messo in evidenza come Moro provò a rilanciare il progetto di unione economica e monetaria, come soluzione europea alla fine di un sistema imperniato sugli Usa[263]. Sul tema dello sviluppo europeo, vi sono stati accenni di riflessione – verosimilmente forieri di nuovi, ulteriori studi in merito – anche sul rapporto tra Moro e Altiero Spinelli, nominato nel 1970 commissario europeo dal presidente della Commissione Franco Maria Malfatti. Piero Graglia, nella sua corposa biografia dell’esponente federalista, ha citato il pessimismo di Spinelli sulle prospettive europee dell’Italia all’indomani della nomina del leader pugliese alla Farnesina[264], mentre Antonio Armellini ha evidenziato le differenze di concezione tra i due, sostenendo che Moro fosse diffidente del progetto federalista, e ritenendo che preconizzasse un modello di sviluppo dell’integrazione europea piuttosto simile a quello che si è poi delineato negli anni Novanta[265].
Restando nel continente europeo, diversi studi hanno analizzato l’opera di Moro su numerosi fronti bilaterali. Uno di quelli su cui il ministro ebbe un ruolo decisivo, anche perché si trattava qui di completare quanto da lui stesso avviato come presidente del Consiglio, è considerato quello dell’Alto Adige/Südtitol con la soluzione della vertenza con l’Austria. Su questo tema gli studi prendono naturalmente in esame molto più ampiamente il periodo precedente, ma è noto che la vicenda si concluse con Moro alla Farnesina, quando il Parlamento italiano approvò il “pacchetto” nel novembre del 1969, e poi, come coda specificamente italiana, con l’approvazione dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige. La vicenda ebbe però anche ricadute europee, dato che, come conseguenza dell’appianamento della controversia, l’Italia levò il proprio veto all’associazione dell’Austria alla Cee. Su questo hanno scritto notevoli saggi Federico Niglia[266] e Federico Scarano[267]. Nella stessa area di confine, Moro ebbe un ruolo anche nella chiusura della vertenza con la Jugoslavia, dando un contributo decisivo al percorso che avrebbe condotto al trattato di Osimo del 1975. Massimo Bucarelli ha inserito questo sforzo nel quadro della già ricordata coerente «dottrina italiana per la pace» proposta da Moro nel discorso all’Assemblea Generale dell’Onu del 1969[268]: su questo la partita era più complicata, e Bucarelli ha ricostruito i passaggi che il ministro degli Esteri sapientemente e pazientemente condusse per evitare soluzioni affrettate foriere di reazioni scomposte negli ambienti neofascisti ma anche in alcuni settori conservatori della Dc, che avrebbero visto il compromesso come una rinuncia alle istanze irredentiste[269]. Su queste problematiche disponiamo di altri significativi contributi: il saggio di Diego D’Amelio[270]; la ricostruzione più generale di Benedetto Zaccaria in cui la cruciale opera di Moro è inserita in un contesto più ampio[271]; il già ricordato convegno sull’Italia e i Balcani del 2010, che ha fornito contributi particolarmente interessanti. Tra questi ultimi, va ricordato quello di Luciano Monzali che ha ripercorso la vicenda inserendola in una logica di vera e propria Ostpolitik italiana[272], mentre Massimo Bucarelli l’ha riletta dal punto di vista jugoslavo, con un saggio sulla Westpolitik di Belgrado[273]. Il convegno ha poi spostato lo sguardo su tutti gli altri scenari balcanici e adriatici a cui l’Italia negli anni di Moro guardò con interesse: Luca Micheletta ha studiato i rapporti con l’Albania[274], Alberto Basciani con la Romania[275], Federico Imperato con la Bulgaria[276]; Lorenzo Medici ha costruito un discorso unitario sulle politiche di Moro verso i paesi comunisti dei Balcani[277], mentre Marco Galeazzi, confermando una tendenza ai parallelismi tra le iniziative comuniste e quelle morotee, ha studiato la politica del Pci nell’area[278]. Questa specifica attenzione di Moro all’area balcanica è stata letta come la via scelta dal leader democristiano per declinare il contributo italiano all’Ostpolitik. In quest’ottica, Luca Riccardi ha individuato nell’inizio degli anni Sessanta l’avvio di quella che si può definire una vera e propria Ostpolitik morotea, che aveva necessariamente ricadute interne nei rapporti con il Pci e che alla fine del decennio trovò una sponda nella Ostpolitik di Brandt e nel dialogo favorito dalla distensione internazionale[279]. È noto che l’apogeo della distensione fu la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) di Helsinki del 1975. Francesca Zilio ha ricostruito il contributo di Moro alla preparazione della conferenza – la cui impostazione si sarebbe mantenuta nel periodo di “interregno” di Giuseppe Medici nel governo “Andreotti-Malagodi” –, mostrando un significativo apporto, pur nella debolezza strutturale della politica estera del paese, ma con «una visione e una pianificazione che non possono essere ricondotte a un mero esercizio di retorica»[280]. Anche Meneguzzi Rostagni ha evidenziato che «tra il 1969 e il 1972, era stata elaborata una politica estera che aveva tenuto conto di fattori interni e esterni, Est e Ovest, interessi nazionali e spinte globali, cooperando alla soluzione dei problemi internazionali con modalità prive di demagogia e emotività», mentre la Farnesina provò ad allargare la Csce all’intera area mediterranea, ritenendola così strettamente legata alle sorti dell’Europa[281].
Anche fuori dall’Europa però si stava giocando in quegli anni una partita cruciale con un paese socialista, la Repubblica popolare cinese. Il riconoscimento di Pechino da parte dell’Italia avvenne il 6 novembre 1970, proprio mentre alla Farnesina sedeva Moro, che se da un lato non fece che portare avanti il programma del suo predecessore Pietro Nenni, dall’altro – come ha sottolineato Imperato – impostò l’approccio diplomatico alla Cina comunista in modo nuovo, cercando come sempre di ricomporre tutte le esigenze italiane e internazionali, tenendo conto anche del contesto delle alleanze in cui si muoveva Roma[282]. Ciò non impedì però alcune incomprensioni con l’amministrazione Nixon, come evidenziato da Gentiloni Silveri[283].
È stato notato che lo sguardo attento alle evoluzioni nell’Europa socialista si affiancava a una posizione più rigida nei confronti della Grecia dei colonnelli, che Moro ricondusse nei limiti che la situazione internazionale gli consentiva: come ha scritto Paolo Soave, la necessità di garantire l’integrità della Nato spinse lo statista democristiano a svolgere «una funzione morale» nelle istituzioni europee, le uniche in cui la condanna del regime era esplicitamente percorribile[284]. Gaetano La Nave ha invece affrontato il tema individuando il nesso tra la dimensione nazionale e quella internazionale, scorgendo nella vicenda greca uno scenario fortemente influente per la politica interna dell’Italia, che contribuì, da un lato, al rafforzamento del Pci come terminale di composizione democratica delle «lotte rivendicative» e, dall’altro, almeno momentaneamente, alla prospettiva del centro-sinistra come soluzione per impedire involuzioni radicali[285]. Su questa linea, Marialuisa Lucia Sergio ha svolto un’indagine d’insieme sulla strategia morotea nei confronti dei tre paesi dittatoriali dell’Europa meridionale di inizio anni Settanta, ossia Grecia, Spagna e Portogallo[286].
Dunque fu il Mediterraneo l’area di maggiore interesse per Moro, quella su cui lo statista dc esercitò la sua attenzione – e su cui conseguentemente sono più abbondanti gli studi specialistici. È stato notato che proprio con Moro la politica mediterranea dell’Italia non solo si dimostrò più vivace, ma fu anche molto attiva nell’ambito del conflitto arabo-israeliano e comunque manifestò un’attenzione pronunciata nei confronti dei vari fronti regionali[287]. Secondo Italo Garzia, Moro partiva da una «visione prevalentemente ideale di un mare che deve unire e non dividere», ma che «non è tuttavia disgiunta da considerazioni di ordine squisitamente politico che costituiscono, anzi, il terreno privilegiato sul quale si sviluppa il pensiero moroteo». Il Mediterraneo era inoltre inserito in «una visione di insieme di estrema organicità, nella quale ciascun elemento contribuisce a definire un disegno generale che molto spesso si proietta in uno spazio temporale di non breve durata». «Mediterraneo, Europa e sistema internazionale nel suo insieme appaiono così come tre cerchi concentrici che, in quanto tali, non possono che essere interdipendenti, non possono non condizionarsi a vicenda sia quando la strada da percorrere porta verso processi di distensione, sia quando appare decisamente in salita»[288]. Riprendendo l’immagine di Moro offerta da Sciascia, Luciano Monzali ha parlato di un «pessimismo» che «alimentava e ispirava il suo realismo politico, la qualità che gli permise prima di emergere come leader democristiano e poi di destreggiarsi abilmente in campo internazionale». Il metodo di Moro era «fondato su uno spiccato pragmatismo e sulla ricerca continua della mediazione, del compromesso, dell’incontro fra diversi interessi al fine di costruire sintesi e posizioni comuni»; e questo, in ultima analisi, era dovuto alla lettura delle fragilità dell’Italia e della sua necessità di trovare incessantemente risposte pratiche alle numerose sfide di un paese complesso. Da qui un attivismo insolito per un ministro degli Esteri italiano, che se da un lato seppe riconoscere i pregi di una tradizione diplomatica nazionale, che non fu mai sconfessata, dall’altro seppe plasmarla per farle affrontare nuove sfide. Moro, secondo Monzali, intuì le difficoltà americane nell’area mediterranea e cercò di ritagliare in essa un posto originale per l’Italia: da qui le iniziative verso i paesi nordafricani, con attenzione particolare al Maghreb, verso Malta (che proprio negli anni di nostro interesse viveva la difficile transizione guidata da Dom Mintoff), verso il Medio Oriente. Culmine di questo impegno fu, secondo lo studioso, la proposta nel 1972 di una Conferenza per la cooperazione e la sicurezza nel Mediterraneo, sul modello della Csce che si stava organizzando proprio nello stesso periodo[289]. Luca Riccardi ha osservato che alla Farnesina Moro cercò inizialmente di attenersi a una linea di continuità con quanto svolto in precedenza da presidente del Consiglio, appoggiando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu 242 del 1967 e conservando una certa “equidistanza”. Perciò le sue iniziative passarono dalla critica a Israele per il mancato adempimento della risoluzione delle Nazioni Unite all’invito agli arabi a perseguire la ragionevolezza. La novità della politica morotea fu soprattutto nel riconoscimento del “problema palestinese” in quanto tale, sia in termini che, andando oltre l’emergenza assistenziale, diventavano politici, sia come fattore di potenziale radicalizzazione delle diverse posizioni[290]. La “questione palestinese” come tema rilevante, ha evidenziato Miriam Rossi, fu assimilata da Moro con gradualità, dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, e venne fatta propria dal leader democristiano con notevole forza nel corso della sua esperienza alla Farnesina. Ciò avvenne in collegamento con l’attenzione che egli – ma l’opinione pubblica e parte della classe politica italiana che si interessava di politica estera, a partire dall’ultimo Nenni – dedicò al tema della salvaguardia dei diritti umani attraverso le istituzioni societarie[291]. In un certo senso, dunque, Moro sembrava recepire lo spostamento di significativi settori della stessa opinione pubblica cattolica italiana, che negli anni in cui egli fu ministro degli Esteri si stava collocando su posizioni di comprensione e adesione alla causa palestinese[292]. Su questa linea, Daniele Caviglia ha dedicato alcune riflessioni allo slittamento in senso filo-arabo della politica estera italiana in virtù dell’impegno di Moro nel garantire le posizioni di cooperazione ad ampio raggio con i popoli del Mediterraneo e di consolidamento anche degli interessi specifici italiani[293]. In un lavoro d’insieme, Imperato ha ripercorso le linee della politica mediterranea morotea, «tra equidistanza e filoarabismo», mostrando i tentativi di Moro di adattare la sua aspirazione per una pacificazione dell’area alle continue complicazioni che le vicende imponevano all’attenzione internazionale. Tali difficoltà sono ben rappresentate, come acme della crisi mediorientale, dalle tragiche vicende del “settembre nero” del 1970 – ossia la repressione della resistenza palestinese da parte dell’esercito di una Giordania sempre più a rischio di tracollo, con ricadute di lungo periodo nel Libano e con l’annessa vicenda della successione tra Nasser e Sadat in Egitto[294]. Le difficoltà nel tenere insieme i tanti scenari regionali spinsero Moro a svolgere una incessante politica di contatti bilaterali con i paesi dell’area. Diversi studi, con periodizzazioni differenti, hanno dunque analizzato l’opera dello statista democristiano (a volte trattando il tema all’interno di uno sguardo più ampio sulla politica estera italiana) nel consolidare i rapporti con l’Iran[295], con la Turchia[296], con l’Egitto[297], con Cipro[298], con il Libano[299] e, allargando il concetto di Medio Oriente, con il Pakistan[300]. Altri lavori hanno indagato le implicazioni per l’industria petrolifera italiana nella regione[301].
Ma lo scenario regionale che mise maggiormente alla prova la tenuta del disegno di Aldo Moro alla Farnesina fu probabilmente quello libico. Il 1° settembre 1969, poche settimane dopo la sua nomina a ministro degli Esteri, lo statista democristiano dovette affrontare il cambio di regime in Libia, un paese in cui l’Italia aveva notevoli interessi economici, oltre che una residua presenza di connazionali, eredità della dominazione coloniale. Nell’estate del 1970, la situazione si deteriorò per la scelta del nuovo leader libico, Mu’ammar Gheddafi, di espellere gli italiani presenti in Libia, circa 17.000, confiscandone anche le proprietà e chiedendo a Roma il risarcimento per i danni del colonialismo[302]. La vicenda, che peraltro coincise con una crisi politica interna, con il passaggio dal governo Rumor III al governo Colombo, costrinse l’Italia ad accogliere i profughi provenienti dalla Libia e a rivedere le proprie relazioni bilaterali con l’antica colonia. Moro dunque si trovò di fronte essenzialmente a due problemi: da un lato, l’urgenza di trovare il modo per ricostruire, su basi diverse, i rapporti italo-libici e, dall’altro, la necessità di affrontare per la prima volta il tema dell’eredità del colonialismo italiano – che nel caso libico non si poteva semplicisticamente ridurre a un’iniziativa del totalitarismo fascista, ma abbracciava anche la politica dell’ultima fase dell’Italia liberale. Nel 1970 infatti non era ancora stata avanzata una seria critica storiografica, né uno studio documentario rigoroso sul tema. I libri che circolavano erano ancora redatti da storici che rappresentavano un elemento, in qualche modo, di diretta continuità tra l’Italia repubblicana e l’esperienza coloniale fascista. Perlopiù gravitanti intorno al Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, istituito nel 1952, questi studiosi (Raffaele Ciasca, Giotto Danielli, Giuseppe Vedovato e Carlo Giglio) erano di chiara fede colonialista e produssero una poderosa serie di volumi agiografici dell’esperienza italiana in Africa[303]. Di conseguenza, la prima riflessione critica sulle vicende del colonialismo italiano, e in particolare su quello in Libia, si può far risalire alle sinossi della raccolta documentaria di Giorgio Rochat del 1972[304]. Tutto ciò rappresenta una premessa fondamentale per comprendere il clima che Moro affrontò di fronte alle rivendicazioni libiche e alle pressioni che venivano dall’Italia, con il Msi in prima fila nel tentativo di capitalizzare politicamente con toni nazionalistici le difficoltà della comunità italiana in Libia. A questo tema molti studiosi hanno dedicato qualche attenzione: tutti i saggi relativi alle politiche mediterranee di Moro poc’anzi ricordati, ma anche le due biografie più volte citate lo menzionano ampiamente[305]. Il lavoro monografico più completo dedicato alla vicenda libica è comunque quello prodotto da Arturo Varvelli nel 2009, che ha ricostruito i fatti accedendo anche a documentazione del ministero degli Esteri. In particolare sono due i punti su cui lo studioso ha insistito. Da un lato la risposta alla cacciata degli italiani dalla Libia e dall’altro la ricostruzione delle relazioni bilaterali. Sul primo fronte, l’accurata disamina di Varvelli ha dimostrato la capacità di Moro di reagire sempre con lucidità alle provocazioni di Gheddafi, spesso dettate dalla scarsa dimestichezza della classe dirigente libica con la complessità dei problemi internazionali, dosando sapientemente le iniziative di ritorsione a testimonianza di una disponibilità al dialogo, con l’obiettivo primario di consentire l’evacuazione degli italiani dopo il decreto di espulsione del 21 luglio 1970. Moro sembrò cogliere l’importanza del discorso fortemente anti-italiano che Gheddafi pronunciò a Misurata il 9 luglio[306], ma Varvelli ha ricordato che la crisi politica italiana in corso gli rendeva impossibile occuparsi pienamente della Libia[307]. Lo studioso non ha mancato di evidenziare anche un errore molto grave compiuto dalla diplomazia italiana che, se riuscì con successo a ottenere ampia solidarietà dagli altri paesi arabi, nondimeno fece troppo affidamento sulla possibilità che Nasser potesse mediare convincendo il leader libico a recedere dai suoi propositi[308]. Moro provò anche a gestire con equilibrio il fronte interno, da un lato rifiutandosi di condannare pubblicamente il colonialismo italiano (come chiedevano i comunisti)[309] e dall’altro cercando di evitare che le iniziative della Farnesina potessero andare nella logica di una sua esaltazione[310]. L’altra questione su cui il ministro si impegnò fu il recupero di un rapporto che era nell’interesse reciproco: non solo l’Italia aveva bisogno del petrolio libico, ma anche la Libia aveva bisogno degli investimenti e del know how garantito dai tecnici italiani. Da queste considerazioni lo statista pugliese avviò una serie di pazienti e meticolose iniziative di ricucitura, che nel medio termine favorirono il ripristino della cooperazione[311]. Lorenzo Medici ha interpretato la vicenda libica come una dimostrazione di grande capacità da parte di Moro di proporre una politica «estremamente accorta e intelligente, consapevole del contesto nel quale operava e quindi dei limiti presenti, capace di contemperare i vari livelli, in particolare quello etico-ideale e quello della realpolitik, e volta a perseguire una pluralità di interessi […] anche al costo di attirarsi le critiche di parte dell’opinione pubblica interna». Tutto questo rientrava, secondo Medici, nel più generale disegno di Moro di costruzione di una politica mediterranea dell’Italia e dell’Europa, che non poteva dunque permettersi di perdere il cruciale tassello libico[312]. Anche Massimiliano Cricco ha enfatizzato la capacità di Moro di porre subito le basi per una ricostruzione dei rapporti bilaterali, evidenziando come, dopo appena un decennio e grazie alla reattiva e paziente opera del ministro degli Esteri, la popolazione italiana in Libia, ovviamente trasferitasi in un contesto e per ragioni molto diversi, avesse superato quella espulsa nel 1970 – salvo poi tornare a diminuire in una delle tante fasi degli altalenanti rapporti tra i due paesi[313]. Tutti gli studi citati hanno messo in relazione le vicende italo-libiche con la questione energetica e il flusso di greggio dal paese nordafricano all’Italia: a questo tema ha dedicato uno studio più mirato Ilaria Tremolada, che ha evidenziato come proprio su questo terreno si fossero poste le basi per un rapido riavvicinamento fra Tripoli e Roma[314]. Anche su questo fronte, dunque, quell’immagine di una politica estera passiva e remissiva che era stata offerta da una parte della prima storiografia – con alcune importanti eccezioni, come abbiamo visto – sembra oggi del tutto superata.
In un intervento di sintesi pubblicato su «Il Regno» nel 2021 e che rifletteva sulla vastità dei temi e delle ricerche sullo statista dc, Guido Formigoni ha sottolineato gli aspetti ancora centrali (proprio perché inattuali) per un cittadino odierno e che possono essere rinvenuti in Moro: «l’inattualità di un richiamo alla complessità della politica, alla forza della parola disarmata e logica rispetto alla creazione di novità in politica, alla necessità di coltivare progetti che vadano al di là di un orizzonte di sopravvivenza, alla capacità di tener conto del dialogo e della convinzione ragionevole come strada maestra e decisiva per risolvere i problemi della convivenza collettiva»[315].
Come si può immaginare, l’apparato di testi presenti in questa edizione allarga notevolmente il recinto della conoscenza del pensiero di Aldo Moro, ovviando anche all’ostacolo della ormai difficile reperibilità delle antologie già esistenti.
Le due più consistenti sono quelle curate da Giuseppe Rossini per le edizioni Cinque Lune[316] e da Giovanni Di Capua sulla politica internazionale[317]. Altre raccolte hanno consentito la diffusione dei testi morotei fin dagli anni Settanta, quando Moro era ancora vivo, a partire dalle pubblicazioni dell’Agenzia «Progetto», quasi coeve alle vicende trattate[318]. Si sono aggiunte poi la citata antologia del 1979[319], quella relativa ai Discorsi parlamentari del 1996 curati da Emilia Lamaro[320] e le altre, talvolta meno organiche e strutturate, che sono state citate nella rassegna storiografica. Si tratta di antologie che hanno rappresentato per molti anni l’unica fonte intorno al pensiero di Moro. Molti di questi volumi presentano errori e imprecisioni: pur non intaccando l’originalità e l’autenticità del pensiero di Aldo Moro, non v’è dubbio che queste raccolte si discostino dai testi originali. Nella sua antologia, Rossini tende a riformulare in prima persona i testi riassuntivi delle trascrizioni fatte dalla segreteria dei discorsi che Moro pronunciava a braccio (generalmente poi pubblicati su «Il Popolo» o trasmessi dall’Agenzia «Progetto»). Di Capua usa come fonte principale il quotidiano democristiano, che era solito accomodare i testi trasmessi dalla segreteria di Moro secondo criteri redazionali propri (prevalentemente nell’uso delle maiuscole). I Discorsi parlamentari dal canto loro ripropongono gli stenografici d’aula, che si discostano dai testi presenti in archivio, a volte con variazioni anche significative[321]. Non essendo all’epoca i testi originali ancora a disposizione dei curatori delle antologie, non si può accusare nessuno dei casi citati – va da sé – di imperizia. Essi, anzi, hanno svolto un lavoro prezioso che, come si è visto, è stato a lungo l’unica fonte dei testi morotei cui hanno potuto attingere gli storici.
In questa Edizione Nazionale, comunque, si sono ricondotti tutti i testi delle raccolte citate alla documentazione archivistica del fondo Moro presente nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma: solo nel caso di testi archivistici particolarmente deteriorati ha fatto fede la versione pubblicata ritenuta più attendibile. In massima parte, però, la versione prevalente su cui ci si è basati è quella presente nell’archivio, nella sua ultima stesura, quella destinata alla lettura o pubblicazione, secondo lo stile e le scelte originali di Moro. Le uniche, saltuarie correzioni apportate, in alcuni casi, sono relative a evidenti refusi di stampa, ossia di punteggiatura (in genere per evitare la separazione tra soggetto e predicato) o di accenti (sostituzione dell’accento grave con l’accento acuto dove richiesto dall’ortografia). In taluni, rari casi, laddove il confronto tra le diverse stesure ha lasciato intendere che fosse di qualche utilità segnalare al lettore una porzione di testo modificata da Moro da un passaggio all’altro, lo si è opportunamente indicato nelle note o nel testo stesso, con specifici segni a cui si è fatto cenno nella sinossi iniziale. Come si vede, dunque, il criterio dell’edizione è quello della fedeltà all’originale. Per quanto riguarda la titolazione dei documenti, tra parentesi quadre si sono indicati i titoli redazionali proposti dal sottoscritto laddove originariamente non ci fossero indicazioni chiare nei dattiloscritti. Senza parentesi invece sono i titoli originali, laddove presenti. Poiché è difficile distinguere nei dattiloscritti la sottolineatura che va intesa in quanto tale e quella che invece intende sostituire il corsivo, il criterio qui seguito prevede l’uso del corsivo per le parole straniere o latine (nel dattiloscritto sottolineate) e il mantenimento del sottolineato negli altri casi (per esempio, i titoletti dei paragrafi di discorsi lunghi o le porzioni di frasi che, si presume, Moro volesse enfatizzare con un diverso tono di voce nel corso della lettura).
Diversi testi pubblicati in questa raccolta non hanno una corrispondenza nell’archivio delle carte Moro. Perciò la loro fonte unica è il quotidiano che li pubblicò nella qualità di resoconti di discorsi pronunciati a braccio dal politico pugliese. Tali quotidiani sono in genere «Il Popolo», che seguiva con una certa regolarità Moro, e «La Gazzetta del Mezzogiorno», che dava conto delle numerose visite dello statista dc nel suo collegio elettorale. In entrambi i casi, i frutti dello spoglio dei quotidiani si sono tradotti in una pubblicazione in questa Edizione Nazionale, ma limitatamente a quelli in cui negli articoli erano riportate frasi dirette o indirette di Moro in quantità sufficiente a dar loro una fisionomia da discorso autonomo, per quanto anche molto breve. In un caso la fonte è il libro di Antonio Rossano, che pubblica un testo frutto di una registrazione individuata dall’autore presso suoi contatti personali nella Dc foggiana[322]. In un altro caso è la Fondazione Gramsci che conserva il resoconto del “discorso segreto” del 1971, tenuto da Moro nel corso di una riunione della sua corrente[323]. Solo in un caso è stato pubblicato un discorso non pronunciato da Moro. Si tratta di un testo che, per i suoi contenuti e per la sua collocazione archivistica sembra una versione più ampia del discorso sui “tempi nuovi” pronunciato da Moro nel Consiglio nazionale della Dc il 21 novembre 1968[324]. Non sarebbe tuttavia corretto definirlo una versione preliminare, non solo perché è scritto in una stesura che appare per molti versi compiuta, ma anche perché le differenze tra i due testi sono notevoli. Non conosciamo le ragioni per cui il testo fu riscritto da principio, riutilizzando del precedente solo alcune brevi proposizioni: un’ipotesi è che la prima versione fosse troppo lunga (è circa il doppio di quella effettivamente pronunciata) e che non fosse possibile operare semplici tagli, quanto piuttosto una riscrittura[325]. Limitatamente al 1972, si è infine ricorso alla pubblicazione annuale della Farnesina, avviata proprio quell’anno come prosecuzione di un’opera preliminare più sintetica e limitata (e risalente proprio all’arrivo di Moro al dicastero, nel 1969): da essa sono stati tratti alcuni resoconti di incontri istituzionali di Moro, i quali riportano, a volte, le dichiarazioni del ministro degli Esteri nella forma del discorso diretto e, altre volte, una semplice sintesi di suoi interventi[326].
L’Edizione Nazionale aggiunge così, nel complesso, un notevole corpus di testi inediti. La gran parte di questi testi nuovi è costituita da discorsi pronunciati in occasioni ufficiali o conviviali con ministri degli Esteri, capi di Stato, capi di governo, giornalisti e ambasciatori di altri paesi, in Italia o nei viaggi di Moro all’estero. Vi sono anche diversi testi di cui è qui pubblicata una versione inedita, a fronte di versioni non complete pubblicate in passato in altre antologie. O ancora interviste comparse in testate straniere, non pubblicate in italiano (o sintetizzate da «Il Popolo»). Non pochi sono i testi in lingua francese, preferita all’inglese da Moro in alcuni incontri internazionali. In questo caso il criterio adottato nella loro pubblicazione è il seguente: nel caso di interviste con domande in francese e risposte in italiano, esse sono presentate in originale con la traduzione dal francese in nota; nel caso di discorsi presenti in francese e in italiano, l’ipotesi più verosimile è che il testo di base fosse quello italiano, e quindi si è favorita quest’ultima versione; nel caso di testi presenti soltanto in francese, senza la presenza di testi in italiano, l’originale è da considerarsi in francese ed è la versione qui pubblicata. In quest’ultima circostanza, la presenza di diversi errori di battitura e di imprecisioni ortografiche, oltre che la corruzione di numerosi testi che ha reso complesso individuare la precisa scelta ortografica adottata, hanno suggerito l’opportunità di uniformare l’ortografia al francese contemporaneo, quello successivo alle «rettifiche» del 1990[327], non essendo comunque questo un aspetto rilevante che intacchi la semantica e lo spirito dei discorsi.
Tutto fa credere che, nonostante la mole e la ricchezza di testi inediti presenti in questa Edizione Nazionale, vi siano testi che non è stato possibile aggiungere per assenza di una loro qualsivoglia traccia scritta o registrata. La lettura di quotidiani come «La Gazzetta del Mezzogiorno» ci fa pensare che molti interventi dello statista democristiano in Puglia – magari riportati sommariamente all’interno di cronache più ampie – siano andati perduti, perché tenuti a braccio nel corso delle numerose tappe delle sue visite nel collegio, senza che un membro della segreteria li trascrivesse o li sintetizzasse e senza che il giornalista al seguito li riportasse nella loro organicità. Così come non abbiamo i testi dei suoi lunghi interventi al Civis, la casa dello studente a pochi passi dalla Farnesina, dove Moro partecipava e coordinava periodici dibattiti serali sui temi d’attualità, riservandosi una sintesi finale (evidentemente non scritta) – che secondo la testimonianza di Balzoni poteva durare oltre un’ora e di cui al momento sembrano non esserci trascrizioni o registrazioni[328]. Non esiste poi un archivio dell’Agenzia «Progetto», espressione delle idee della corrente “amici dell’on. Moro”, i cui lanci erano, secondo un comune sentire tra gli studiosi, scritti o vagliati direttamente da Aldo Moro. Le uniche fonti a cui si è potuto attingere sono dunque le citate raccolte delle note più significative pubblicate dalla stessa agenzia e, in rari casi, i testi conservati in alcuni fascicoli archivistici. Del resto, lo stesso Moro, in un breve scambio di battute con il deputato monarchico Alfredo Covelli, durante una seduta parlamentare il 26 febbraio 1971, ebbe a dire: «Io ho un’agenzia che ha il pregio di non uscire»[329], confermando l’aleatorietà della conservazione dei testi da essa pubblicati.
Una considerazione di carattere generale che deriva dalla lettura dei testi qui proposti è certamente legata al linguaggio di Aldo Moro, oggetto di uno dei più ricorrenti cliché che hanno attraversato le diverse fasi anche della storiografia[330]. Il tema del presunto linguaggio astruso, involuto e in definitiva incomprensibile di Moro ha antiche radici ed è stato fin dal 1960 reso proverbiale dall’espressione erroneamente attribuitagli delle “convergenze parallele” – notoriamente coniata da Eugenio Scalfari[331] – e poi consolidato da una diffusa pubblicistica, che ha forse trovato il suo apice nell’articolo di Pasolini del 1975 più sopra ricordato[332]. Non estranei a questa costruzione dell’immagine di un Moro incomprensibile furono alcuni stessi democristiani che gli si si contrapponevano: si pensi alla fanfaniana “politica delle cose”, spesso opposta ai discorsi morotei. Certo, l’impressione che si può trarre dalla lettura dei testi del Moro di questa fase è che il leader pugliese fosse ben distante dalla pratica, già allora diffusa, di ricorrere a slogan e icastiche immagini retoriche adatte a essere sintetizzate in un titolo di giornale o in un manifesto elettorale: c’è invece in ogni suo discorso un tentativo di costruire pazientemente un ragionamento, accompagnando l’interlocutore verso una tesi o una conclusione, effettivamente senza il ricorso a un lessico complesso o eccessivamente tecnico (tranne nei casi di discorsi in sedi ufficiali in cui ciò era necessario). L’ostacolo maggiore per una facile fruizione dei suoi discorsi era forse la loro lunghezza, legata proprio al processo discorsivo pedagogico-didattico che richiedeva di svolgersi compiutamente. Come ha suggerito Francesco De Donato, nel sistema logico di Moro si partiva sempre da «una obiettiva descrizione della realtà com’egli la percepiva nella sua intricata evoluzione fenomenologica», e questo avveniva in ogni suo ragionamento. Per Moro, «descrivere una realtà complessa con un linguaggio semplicistico – conclude De Donato – è o impossibile o ingannevole»[333]. Lo stesso Moro, in un discorso pronunciato il 1° dicembre 1972 a un convegno della sua corrente, rammentò quasi rassegnato questo equivoco: «Di quando in quando qualche mia frase, anche quelle che non ho detto, come le convergenze parallele, sono riprese»[334].
Ripercorrendo solo alcune delle grandi tematiche affrontate dagli studiosi in questa rassegna – con la consapevolezza che non è compito di questa Nota operare un’approfondita analisi ad ampio raggio ma solo indicare alcuni possibili percorsi offerti dall’Edizione Nazionale –, va anzitutto detto che, se nel complesso i discorsi qui pubblicati non modificano il quadro interpretativo generale, essi forniscono però certamente una più ampia quantità di fonti e, soprattutto, possono offrire l’opportunità di svolgere qualche considerazione sulla densità (e quindi l’importanza che ne tributava Moro) di certi temi rispetto ad altri.
Certamente sono rafforzate le interpretazioni che hanno identificato nella lettura che Moro fece del ‘68 un momento dirimente nella vita politica e nella riflessione culturale dello statista democristiano. Sono confermate le sue nitide riflessioni sulla questione generazionale, sull’irruzione dei giovani e delle loro rivendicazioni ed esigenze. Oltre ai cruciali discorsi al Consiglio nazionale della Dc, quello del 21 novembre 1968 e del 18 gennaio 1969, e al menzionato discorso “non letto”, il tema fu ripreso con insistenza nei mesi seguenti, segnalando così una preoccupazione non transitoria ma profonda, nei discorsi precongressuali – a dimostrazione di una precisa volontà di farne una questione fondamentale per l’identità del partito – e anche in seguito. L’aspetto peculiare dei discorsi di Moro è che egli, tutt’altro che a disagio con il fenomeno, sembrò non limitarsi a registrare gli eventi per trovare una risposta, ma ne colse gli aspetti qualificanti:
Il crescere rigoglioso e sempre più rapido negli ultimi tempi, della società civile, la più larga rivendicazione di diritti e poteri di decisione, l’affermarsi della persona umana con tutta la sua dignità, la più ampia sfera di autonomia riservata alla società la quale condiziona incisivamente il potere politico, sono tutti fenomeni caratterizzanti della nostra epoca. Essi toccano da vicino il modo di fare politica, interpretando e soddisfacendo i bisogni della società. Oggi la radice delle opportune soluzioni si trova piuttosto alla base che non al vertice del potere e dal basso sale non soltanto l’esigenza, ma anche un’articolata ed autorevole proposta di assetto sociale, benché essa debba essere collocata in un quadro generale di rapporti e di equilibri.
E ancora:
Chi vorrebbe, chi potrebbe rinunciare al significato profondo di questo risveglio della coscienza, di questo allargarsi degli orizzonti della democrazia che si fa, se non esclusivamente, più largamente diretta e perciò universale e vera? Questo processo, che è proprio del nostro tempo, è dunque irreversibile nella logica della storia. E parimenti l’immissione di una carica giovanile, ormai determinante, nella vita sociale e politica non può essere né ritardata né sterilizzata[335].
Poche settimane dopo a Milano rilanciò:
L’emergere impetuoso dei giovani è il segno più rilevante del rinnovamento in corso nella nostra società. Esso riassume in sé tutte le altre esigenze ed attese presenti nel corpo sociale. Ed il problema dei giovani, del loro appagamento, della loro adesione al mondo del quale sono protagonisti riassume pure in sé tutti gli altri problemi che travagliano, in attesa di uno sbocco positivo, la società italiana[336].
Che non fosse solo una battaglia congressuale del 1969 è confermato dalla permanenza della questione negli anni successivi: si è detto del progetto moroteo di promuovere una “Europa dei giovani”, come ebbe a dire, ormai da ministro degli Esteri, al Consiglio ministeriale della Cee dell’aprile del 1970:
Riteniamo infatti che senza il contributo dell’immaginazione e dell’audacia che sono retaggio dei giovani, sarà sempre difficile dare all’Europa quella configurazione che sola può assicurarle vitalità all’interno e simpatia all’esterno. Per raggiungere questo risultato sta a noi forgiare una politica comunitaria della gioventù, che alimenti e sviluppi nei giovani il convincimento che il loro avvenire personale, professionale e sociale potrà essere in futuro assicurato solo in un ambito che superi quello nazionale e si identifichi piuttosto con il più vasto ambito europeo.
Da qui le proposte di una «Costituente dei giovani» e di un’Università europea[337].
Più avanti, associando al ‘68 studentesco anche il ‘69 operaio, Moro parlò spesso e volentieri nelle stesse proposizioni di giovani e di lavoratori, parimenti simbolo di una nuova vitalità della società italiana[338], e poi delle donne, anch’esse esempio di nuova soggettività da considerare con attenzione[339]. Gli esempi sono numerosi, ma proprio nella parte conclusiva del quinquennio da noi considerato, quando Moro ormai ebbe lasciato la Farnesina, i toni di sostegno alle rivendicazioni giovanili crebbero, in particolare in riferimento alle questioni scolastiche – «il problema dei problemi», come ebbe a definire l’istruzione in un articolo su «Il Giorno» nel settembre del 1972[340]. Il contesto era quello delle agitazioni degli anni scolastici 1971/1972 e 1972/1973, di fronte alle prove di repressione giudiziaria dei movimenti studenteschi. Con la nascita del governo Andreotti-Malagodi, si era avuto anche il tentativo di restaurazione condotto dal ministro della Pubblica Istruzione Oscar Luigi Scalfaro – dopo le timide aperture di alcuni suoi predecessori, come Sullo e Misasi – accompagnato dall’aspirazione di alcuni ambienti conservatori di tornare indietro su temi cruciali come il diritto d’assemblea e l’accesso alle università, e perfino rispetto alle conquiste del centro-sinistra, con la proposta di reintrodurre il latino nella scuola media[341]. Moro, che nel 1957-1959 era stato ministro della Pubblica Istruzione, auspicò che si riuscisse a «conciliare i diritti della persona e le ragioni di un ordine collettivo, la doverosa neutralità della scuola (segno di rispetto verso tutti) e la sua pur necessaria aderenza agli orientamenti della vita sociale ed al significato del tempo in cui viviamo»[342].
Dopo i fatti di Milano del gennaio del 1973, quando in seguito agli scontri tra i giovani del Movimento studentesco e la polizia morì uno studente universitario, Moro accusò la politica di non avere fatto abbastanza per venire incontro alle rivendicazioni giovanili, avendole erroneamente giudicate come frutto di una stagione limitata al ‘68 e non dettate da reali esigenze. Il Movimento studentesco non era per lui una mera questione di ordine pubblico:
se anche la calma fosse mantenuta o ristabilita, potremmo mai pensare che tutto sia a posto e che il movimento esploso nel ‘68 in tutto il mondo, coinvolgendo le masse giovanili, sia terminato senza raggiungere i suoi obiettivi e senza lasciare tracce, quasi fosse immotivato e sterile? […] L’impazienza e la preoccupazione non sono certo ingiustificate[343].
A Bari, nel marzo del 1973, affermò che «l’atto più reazionario che noi potremmo compiere in questo momento sarebbe cercare di fermare la volontà di sapere e di salire dei giovani»[344].
La connessa questione della “strategia dell’attenzione”, come si è visto, è stata una delle più sviscerate dalla storiografia fin dagli anni Settanta. Perciò non ci soffermeremo a lungo su di essa. I discorsi di questa Edizione Nazionale mostrano, passo per passo, la costruzione del discorso di Moro sul Pci, consentendo di apprezzarne le sfumature da un testo all’altro, da una fase all’altra. Evidente appare nei discorsi del 1969 il ricorso a un lessico non ostile e certamente sfumato che, pur non contemplando una collaborazione fattiva con i comunisti nella gestione del governo, proprio per il linguaggio utilizzato fu colto dai contemporanei di Moro come una rottura rispetto a una rigida, precedente contrapposizione. Interessante appare poi il raffronto tra i testi pronunciati nei momenti pre-congressuali e nei consessi ufficiali della Dc e i discorsi elettorali. In quest’ultimo caso, la polemica anticomunista sembra prevalere, a conferma di una generale fedeltà dello statista democristiano alla linea ufficiale del partito, pur nella conservazione di toni mai accesi. Per limitarsi a un periodo circoscritto, in un discorso elettorale a Trapani, in vista delle regionali siciliane del 1971, Moro evidenziò «la perdurante inattuabilità di una comune politica con il partito comunista che, non avendo elaborato un modello credibile ed accettabile di sviluppo sociale e di valori umani, resta in bilico tra autonomia ed ortodossia dello schieramento proletario internazionale, tra gestione parlamentare e conquista del potere»[345]. Pochi giorni dopo, a Bari, precisò che «al di fuori della dialettica democratica e parlamentare, una collaborazione con il partito comunista, per le forti diversità e le polemiche contrapposizioni è impossibile e che, ancora una volta, la difesa della libertà e dei suoi contenuti umani e sociali è affidata non all’ambiguità e alla confusione, ma alla serena e ferma assunzione di responsabilità delle forze democratiche»[346]. L’anno dopo, a Padova nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche, definì Dc e Pci «diversi ed inconciliabili»[347]. A Lecco parlò di «gravi conseguenze» se il Pci avesse ottenuto consensi troppo alti[348]. E gli esempi potrebbero continuare. Ma, in un contesto non elettorale, in un’intervista a un giornale universitario pugliese nel dicembre di quello stesso 1972, si rallegrava del fatto che, nonostante il progresso elettorale del Msi alle elezioni politiche, i giovani avessero confermato in massa il proprio voto ai partiti a presidio della democrazia, tra cui inserì il Partito comunista, senza premiare i neofascisti né le sigle alla sinistra del Pci[349]. Al convegno dei morotei di quello stesso mese, Moro chiarì che una confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione avrebbe potuto favorire «una dura reazione fascista»[350]. Nel marzo del 1973, a Lecce, confermò che la “attenzione” verso il Pci non significava necessariamente compartecipazione al potere, ma piuttosto collaborazione democratica a livello parlamentare:
Questa attenzione che io ho richiesto, che non significa altro se non quello che dice questa parola […], significa capire, significa prendere in considerazione esigenze sociali di cui anche i comunisti si facciano portatori; proposte di conduzione di carattere democratico perché talune condizioni proposte non sono tipicamente comuniste, sul tema della scuola, dell’università ci sono delle proposte comuniste che io non vedo perché non debbano essere considerate, magari respinte, – perché no – eppure di quando in quando, pure col governo centrista, passa qualche emendamento[351].
Il pericolo neofascista fu una delle maggiori preoccupazioni di Moro in questo quinquennio. Gli studi in materia hanno messo in luce la lucidissima analisi dei rischi per la democrazia che lo statista dc compì fin dalla primavera del 1969, con largo anticipo sui tempi della “strategia della tensione”. Questa Edizione Nazionale tende a confermare un’attenzione costante e continuativa di Moro sull’insorgere di rischi autoritari e di una reviviscenza del fascismo, pur in forme nuove. Non serve ricordare i discorsi pre-congressuali di Mestre, Udine, Milano, già precedentemente evocati. Altri discorsi più avanti nel tempo, meno citati dagli studiosi, mettono in luce lo stesso tema: a Bari nel giugno del 1971, parlò di rischi di «involuzioni autoritarie»[352], espressione che ricorrerà in questa formula in altri discorsi (in una nota della «Progetto» del luglio del 1971[353], a Foggia nel maggio del 1972[354]), e nella più semplice formula di «involuzione» della democrazia in diversi altri (ma in questo caso non sempre riferibili al solo pericolo fascista). Proprio nel pieno dello scivolamento a destra del quadro politico nazionale nel 1972, Moro rilanciò con grande enfasi il rischio fascista a suo avviso in corso. Su «La Stampa», nell’ottobre del 1972, sostenne che la Dc e i suoi alleati dovessero «evitare, con una qualsiasi incertezza su questo punto, che il fascismo si faccia avanti o almeno si faccia valere una politica sostanzialmente conservatrice sul terreno non solo sociale, ma politico»[355]. La settimana dopo, a Bari, fu più esplicito:
resta da richiamare, poiché i tempi che viviamo potrebbero portare all’equivoco o anche indurre in tentazione, la nostra ripulsa fermissima del fascismo in tutte le sue forme ed anche in quella radice retriva di conservazione e timore del nuovo che lo condiziona e lo prepara. Io ho cercato, quando ho avuto la responsabilità del potere, di non lasciare spazio alla pericolosa reazione della destra estrema. Ma non siamo qui per dire i nostri ricordi, ma per assumere, proprio in questo momento, l’impegno unanime di non fare passare il fascismo in quest’Italia indissolubilmente legata all’Europa democratica[356].
Al convegno della sua corrente, il 1° dicembre 1972, evocò perfino il rischio di una Dc che si piegasse ad accettare un ruolo pericoloso di «surrogato» di fascismo:
Non accettiamo l’idea, che non è nostra certamente, di nessuno di noi, ma di qualcuno, di una Democrazia Cristiana che sia una specie di garanzia attenuata, di surrogato di un fascismo sgradevole. No, la Democrazia Cristiana è veramente nel profondo una grande forza popolare[357].
In una prima versione, poi non comparsa nella versione pubblicata, di una delle sue risposte a un’intervista al giornale svizzero «24 Heurs», Moro parlò di «influenze sotterranee» e di «centri di potere» che condizionavano normalmente le democrazie, evocando la necessità di un governo «autorevole e rappresentativo» per farvi fronte[358]. Dunque, anche su questo tema, appaiono confermate le letture di chi ha enfatizzato le preoccupazioni di Moro sulla tenuta del quadro democratico di fronte al pericolo fascista e sui rischi di una deriva autoritaria che la Dc rischiasse perfino di assecondare[359].
Appare significativo che, nel corso di tutto il quinquennio di nostro interesse, uno dei temi studiati dagli storici, ossia la posizione di Moro sul problema del divorzio, sia trattato dallo statista pugliese in forma diretta soltanto una volta, in occasione peraltro del “discorso segreto” del luglio del 1971. In quell’occasione Moro criticò duramente la segreteria della Dc, che aveva condotto il partito a uno scontro che avrebbe rischiato di lacerarlo:
Una delle questioni più urgenti da affrontare è il referendum sul divorzio, che fa incombere sul paese una minaccia enorme. Da parte dell’attuale DC si è lasciato che l’intero mondo cattolico italiano corresse a cuor leggero su una strada lungo la quale si può frantumare la stessa forza residua del nostro partito e si può frantumare la democrazia. Si vorrà giungere ora, per evitare il referendum, alle elezioni politiche anticipate?[360]
La circostanza tenderebbe a confermare la tesi secondo cui Moro fosse in dissenso molto profondo con il proprio partito su questo, senza però portare le differenze a un livello di rottura pubblica che avrebbe danneggiato in ultima analisi proprio la Dc, la cui integrità egli non avrebbe mai voluto a rischio – «io di quel partito sono stato segretario» avrebbe rivelato nel 1974 a Balzoni per giustificare il proprio voto favorevole al referendum, secondo le indicazioni del partito, nonostante la sua contrarietà personale[361].
Come si è anticipato, molti spunti sono offerti anche dagli interventi di politica estera, su cui molto la recente storiografia si è spesa. Uno dei tratti salienti che emerge nello stile moroteo è il continuo riferimento al dialogo e ai rapporti tra i popoli. Nel caso di incontri bilaterali, ciò significava individuare momenti della storia in cui i destini del popolo italiano e del popolo con i cui rappresentanti interloquiva si erano incrociati, se non fusi insieme. Va detto che non sappiamo quale parte giocarono gli uffici diplomatici nel preparargli eventualmente gli spunti; per cui queste osservazioni si fondano sulla presunzione che comunque Moro dettasse un indirizzo generale. Solo per fare qualche esempio, in Bulgaria evidenziò lo sviluppo coevo dell’indipendenza (la seconda metà dell’Ottocento), sottolineando la partecipazione di alcuni patrioti bulgari alle avventure di Garibaldi e l’amore di alcuni artisti del paese balcanico per l’Italia[362]. Anche del Giappone fu messa in evidenza l’ascesa sul proscenio mondiale in epoca simile all’Italia (Moro tenderà anche negli altri incontri con i rappresentanti di Tokyo a soprassedere sulla tragica alleanza nella Seconda guerra mondiale). Forse in mancanza di riferimenti storici più diretti, egli accennò a una vicenda del 1703 particolarmente nota della storia giapponese, che ebbe il suo epilogo proprio nel giardino di quella che ora era l’ambasciata italiana a Tokyo[363]. Della Finlandia sottolineò le influenze italiane del celebre architetto Aalto[364]. In Senegal, oltre a dimostrare la vasta conoscenza dell’opera del presidente-poeta Senghor (probabilmente grazie ai contatti con La Pira), Moro evocò gli antichi viaggi di Cadamosto in Africa nel XV secolo[365]. Al collega iraniano ricordò i legami «millenari» tra le due civiltà[366], mentre in una pubblicazione del Comité intergouvernemental pour les migrations européennes scrisse un lungo intervento per raccontare il contributo degli italiani al progresso dei paesi latinoamericani[367]. Si potrebbe evidentemente continuare, ma questi sporadici esempi sono già indicativi di un metodo consolidato.
Passando dallo stile alle visioni di lungo periodo, appare interessante l’approccio di Moro alle questioni europee, su cui, come si è visto, le interpretazioni degli storici sono in chiaroscuro. Come già sottolineato da alcuni studiosi, il ministro degli Esteri si sentiva meno a suo agio di fronte ai negoziati tecnici – anche se non mancò di dire la sua su questi temi –, ma molto più sicuro di sé quando si trattava di dispiegare visioni di lungo periodo. I riferimenti alla Cee sono costanti, in Moro, anche negli incontri bilaterali con paesi terzi, in particolare africani, asiatici e sudamericani. È noto il suo impegno, che qui pare confermato, perché la Comunità costruisse rapporti più stretti con l’America Latina. Esso risiedeva anche nella convinzione che le Americhe avessero un radicato patrimonio comune con l’Italia e l’Europa: «in poco meno di cinque secoli, un patrimonio umanistico e culturale di ispirazione cristiana si è dilatato, attraverso la scoperta d’America, uscendo da confini geograficamente angusti per svilupparsi rigogliosamente nel Nuovo Mondo»[368]. Si può dire che la solidarietà atlantica, per Moro, si rivolgesse naturalmente anche all’America Latina, che come gli Usa aveva un legame profondo con il “vecchio continente”.
L’idea che Moro aveva dell’Europa però andava ben oltre le relazioni culturali e commerciali con l’esterno. In alcuni discorsi sembra evidente la sua adesione a un modello di integrazione di stampo federalista, di cui l’unione economica e monetaria doveva essere un passaggio – ancor più urgente dopo l’iniziativa di Nixon dell’agosto del 1971. Si trattava, secondo il ministro degli Esteri, dell’unico modo perché i paesi europei potessero contare nel mondo. Nel discorso che tenne in qualità di presidente di turno del Consiglio della Cee al Parlamento europeo nel novembre del 1971, Moro affermò che era «assolutamente necessario procedere verso la realizzazione della unione economica e monetaria, il che comporta – precisò – passi paralleli sulla via del rafforzamento della solidarietà politica tra noi». Aggiunse che la nuova Europa dei Dieci doveva guardare con maggiore attenzione a ciò che avveniva ai suoi confini, sulle sponde del Mediterraneo e in Africa[369]. Al Consiglio ministeriale della Cee del maggio del 1972, che doveva preparare la conferenza al vertice prevista a Parigi alla fine di quello stesso anno, fu più esplicito:
È dunque nostra meditata convinzione che dalla riunione al Vertice dovranno uscire progressi significativi nel campo politico e del divenire istituzionale della costruzione europea, se vogliamo che esso non deluda le aspettative delle nostre opinioni pubbliche, le quali sentono istintivamente che è venuto il momento per noi di predisporre le misure necessarie a giungere a quel “salto qualitativo”, senza il quale rischiamo di pregiudicare gli stessi progressi della costruzione comunitaria e dell’unione economico-monetaria.
E poi si disse favorevole a un’Europa federale, eventualmente da raggiungere in forme graduali:
Incominciando dal traguardo istituzionale, direi che il modello giuridico ideale cui dovremo puntare è quello dello Stato federale, che riteniamo il più consono alle esigenze dell’unità europea. D’altra parte, riconosciamo che sarebbe difficile puntare immediatamente su un obiettivo istituzionale di portata definitiva, e siamo pronti dunque ad accettare frattanto possibili soluzioni intermedie, scegliendo quelle forme integrative che più si avvicinino all’ideale federale, inclusa naturalmente, fra esse, quella confederale.
L’Europa doveva poi dotarsi di un sistema giudiziario integrato e di un sistema bicamerale sul modello statunitense:
Una idea che ci sembra degna di considerazione è quella di dotare la futura Confederazione di un sistema bicamerale, basato su una “Camera dei popoli” eletta a suffragio universale diretto su base proporzionale alle popolazioni dei vari Stati (ma eventualmente con alcuni accorgimenti diretti ad accrescere il coefficiente di rappresentanza dei Paesi meno popolati), e su un “Consiglio degli Stati” nel quale tutti i Paesi della Comunità siano rappresentati su base paritaria. Le due Camere eserciterebbero congiuntamente l’attività legislativa.
Il potere esecutivo si sarebbe dovuto trasformare, gradualmente, da un organo collegiale rappresentativo di tutti i paesi membri a un governo unitario. L’integrazione inoltre doveva riguardare subito anche la politica estera e la difesa[370]. Proprio per questa sua radicata convinzione di un inestricabile destino comune, nel marzo del 1973 Moro fu molto critico di fronte alla scelta del governo italiano di far fluttuare la lira, rompendo dunque la fragile costruzione del “serpente monetario”, e cioè del primo tentativo di offrire una alternativa europea alla fine del sistema integrato di Bretton Woods. Lo fece con un articolo che esordiva criticando la «retorica europeistica» vigente in Italia che non andava di pari passo con la necessaria conoscenza dei problemi europei[371].
La questione della proiezione mediterranea dell’Italia, come si è visto nella rassegna storiografica, è stata largamente studiata e non c’è molto da aggiungere. Tuttavia l’Edizione Nazionale consente certamente di percepire direttamente l’evoluzione del pensiero di Moro, anche nelle sue sfumature. Si prenda il caso della vicenda libica dell’estate del 1970. È stato ricordato che il clima di quelle settimane di luglio e agosto era particolarmente complesso, con spinte opposte provenienti dai diversi settori dell’opinione pubblica che si stava interessando di Libia: da un lato infatti, in pieno clima di contestazione, radicati erano in molti ambienti italiani sentimenti anticoloniali, di rifiuto di un’eredità inevitabilmente richiamata dall’esistenza stessa dei profughi, che in molti casi erano incolpevolmente accusati di fascismo; dall’altro, presso ambienti conservatori – non necessariamente fascisti, anche se poi il Msi cercò di approfittarne politicamente – permaneva l’idea che la presenza italiana in Libia avesse anche diversi meriti e che si trattasse di un’esperienza da non rigettare del tutto. Moro, che in più occasioni sembrò consapevole della portata post-coloniale della – per molti versi inevitabile – vicenda libica, parve anche voler contemperare tutte le posizioni presenti in Italia, cercando di limare gli eccessi in un senso o in un altro, anzitutto tentando di rimanere su un piano meramente tecnico. Ma se si mettono a confronto i due discorsi nelle commissioni Esteri di Camera e Senato, tenuto l’uno a pochi giorni dall’altro (e quindi largamente sovrapponibili), si avverte un mutamento di toni. Nel commentare la richiesta libica di risarcimento per i danni provocati dal colonialismo, Moro disse alla Camera:
È da rilevare, infine, che il Governo libico non soltanto ha annunziato la confisca dei beni italiani senza prevedere alcun indennizzo, ma è giunto ad annunziare una pretesa di risarcimento per i danni che l’amministrazione italiana avrebbe recato in Libia. A parte la considerazione che siffatta pretesa è giuridicamente inammissibile, essendo stata l’amministrazione italiana della Libia internazionalmente legittima, è da rilevarsi che l’Accordo italo-libico del 1956 ha impegnato lo Stato libico a non sollevare alcuna contestazione “per fatti del Governo e per la cessata amministrazione italiana della Libia, intervenuti anteriormente alla costituzione dello Stato libico” [372].
Al Senato il registro mutò:
È da rilevare, infine, che il Governo libico non soltanto ha annunziato la confisca dei beni italiani senza indennizzo, ma ha anche avanzato una richiesta di risarcimento per i danni che l’amministrazione italiana avrebbe recato in Libia. A parte la considerazione che tale pretesa non tiene affatto conto dell’apporto storico che i nostri concittadini hanno dato allo sviluppo economico ed al progresso in genere della Libia, è da rilevarsi che essa è giuridicamente inammissibile, perché l’Accordo italo-libico del 1956 ha impegnato lo Stato libico a non sollevare alcuna contestazione “per fatti del Governo e per la cessata amministrazione italiana della Libia, intervenuti anteriormente alla costituzione dello Stato libico” [373].
Che cosa era accaduto nel frattempo da indurre Moro, abituato a dosare con perizia ogni parola, a modificare il testo in chiave che, a prima vista, presentava accenti che definiremmo nazionalistici? Un’ipotesi è che il cambiamento del testo fosse conseguente alla conversazione del 1° agosto a Beirut con il ministro libico degli Esteri Busir: nel corso di quel colloquio, che pure nel complesso fu proficuo per l’Italia e segnò qualche risultato diplomatico, Busir alzò i toni del confronto, accusando l’Italia di avere condotto una «politica di annientamento» in Libia, ricorrendo ad argomentazioni che, accanto a elementi di verità, contenevano ricostruzioni eccessive e poco accurate[374]. È possibile che Moro volesse riequilibrare la narrazione libica delle vicende storiche, per di più in presenza di una situazione che, tra un discorso e l’altro, si era notevolmente aggravata per gli italiani in Libia, con uno stillicidio di notizie di prevaricazioni da parte delle autorità di Tripoli[375].
Rispetto alle vicende mediorientali, si è detto come Moro colse le profonde trasformazioni in corso nel conflitto arabo-israeliano, dando prova di tenere in considerazione la dimensione politica del problema palestinese. Così si espresse alla Camera nei giorni in cui si stava consumando la repressione giordana del “settembre nero”:
Sull’originario conflitto arabo-israeliano, conflitto tra Stati, si è venuto innestando in termini politici, e cessando di essere questione meramente umanitaria, il problema dei rifugiati palestinesi. Esso è divenuto il nodo centrale del conflitto e ne condiziona la soluzione. Noi non abbiamo certo lo scrupolo di non averne tempestivamente avvertito le parti, ammonendo che il tempo non avrebbe giocato in favore di nessuno né della pace ed avrebbe introdotto elementi di complicazione sempre più gravi. Le organizzazioni palestinesi hanno preso coscienza di sé e dello straordinario fascino che il problema palestinese suscita dunque nelle masse arabe[376].
Qualche giorno dopo, al Senato, sembrò cercare di capire le origini profonde della lotta palestinese:
La sollevazione dei palestinesi traduce infatti il timore che un componimento pacifico del conflitto si possa fare a spese di coloro che sono le prime vittime della guerra, trascurati nei loro diritti umani e nella loro esistenza come popolo[377].
In seguito, Moro ribadì la necessità che la Comunità europea contribuisse alla risoluzione del conflitto. All’Europa, disse, «spetta anche un’iniziativa economico-sociale di sviluppo che potrebbe utilmente esercitarsi anche nella qualificata partecipazione allo sforzo internazionale che dovrà essere compiuto per la soluzione di problemi che toccano non solo politicamente, ma socialmente i rifugiati palestinesi»[378].
Su questa stessa linea, su diversi altri temi si possono fare ulteriori raffronti tra le tesi esposte dagli studiosi citati nella rassegna e i copiosi testi della politica estera qui raccolti.
Dunque, come si vede, i discorsi e gli scritti presenti in questa Edizione Nazionale offrono l’occasione di comprendere meglio, allargando e approfondendone la conoscenza attraverso le sue stesse parole, il pensiero di Aldo Moro, grazie alla possibilità di coglierlo nella sua evoluzione e nei passaggi che si sono dispiegati nel corso dei cinque anni qui presi in esame, e apprezzandone uno stile che, per quanto inconsueto nel linguaggio politico perfino dell’epoca, appare limpido e di agevole accesso anche a un lettore contemporaneo.
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 229. ↑
Alle elezioni del 19-20 maggio 1968, nella circoscrizione di Bari-Foggia la Dc passò dal 41% del 1963 al 43,8% e Moro ricevette 291.137 preferenze, risultando il deputato democristiano più votato in tutta Italia (l’unico altro candidato dc a superare le 200.000 preferenze fu Giulio Andreotti, che a Roma ne ottenne 249.047). Cfr. Questi i prescelti per Montecitorio, in «Il Popolo», 23 maggio 1968; R. Manfellotto, I più votati e gli esclusi, in «Corriere della Sera», 23 maggio 1968. ↑
Si veda, a questo proposito, la rassegna della stampa estera condotta in Il centro-sinistra ha resistito alla prova, in «Corriere della Sera», 23 maggio 1968. ↑
Su questo periodo della vita di Moro, cfr. le recenti biografie di G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., pp. 229-274 e di M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, Roma, Salerno, 2016, pp. 162-207. ↑
Per un inquadramento delle vicende internazionali si rimanda a G. Formigoni, La politica internazionale dal XX al XXI secolo, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 256 ss.; A. Varsori, Storia internazionale. Dal 1919 a oggi, Bologna, Il Mulino, 20202, pp. 284 ss.; M. Flores, Il mondo contemporaneo (1945-2020), Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 133 ss.; ma cfr. anche il punto di vista peculiare di T. Detti e G. Gozzini, L’età del disordine. Storia del mondo attuale (1968-2017), Roma-Bari, Laterza, 2018, passim. Per gli sviluppi relativi alla Comunità economica europea in questa fase, cfr. M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 95-107; B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino, 20153, pp. 61-81. Sugli Usa e l’Urss in questo periodo, cfr. rispettivamente M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo (1776-2016), Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 354 ss.; A. Graziosi, L’Unione Sovietica (1914-1991), Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 338 ss. Sulle vicende cinesi qui citate, cfr. G. Samarani, La Cina contemporanea. Dalla fine dell’impero a oggi, Torino, Einaudi, 2017, pp. 299 ss. Sulla fine della “età dell’oro” postbellica, cfr. R. Gilpin, Economia politica globale. Le relazioni economiche internazionali nel XXI secolo, Milano, Università Bocconi Editore, 2009, pp. 245 ss. Sul conflitto mediorientale, cfr. J.L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Torino, Einaudi, 2007, pp. 224-234. Sul Terzo Mondo, cfr. S. Lorenzini, Una strana guerra fredda. Lo sviluppo e le relazioni Nord-Sud, Bologna, Il Mulino, 2017, passim. ↑
The Shock of the Global. The 1970s in Perspective, edited by N. Ferguson et al., Cambridge-London, Harvard University Press, 2010. ↑
G. Formigoni, La globalizzazione dall’ideologia alla storia: l’impatto italiano della crisi sistemica degli anni ’70, in (S)confinamenti. Esperienze e rappresentazioni della globalizzazione, a cura di M. Ceruti e G. Formigoni, Bologna, Il Mulino, 2020, pp. 67-91. Per un inquadramento più ampio sulle ricadute della Guerra fredda in Italia, cfr. G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 363-434; L. Cominelli, L’Italia sotto tutela. Stati Uniti, Europa e crisi italiana degli anni Settanta, Firenze, Le Monnier, 2018, pp. 37-130; ma anche U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Torino, Einaudi, 2009, pp. 15 ss. ↑
Tra i numerosi testi di riferimento per questa fase della storia repubblicana, cfr. A. Lepre, Storia della Prima repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 223-249; G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2020, pp. 217 ss.; A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani (1946-2016), Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 74 ss.; G. Formigoni, Storia essenziale dell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 91 ss. Sui diversi movimenti, cfr. M. Tolomelli, L’Italia dei movimenti. Politica e società nella Prima repubblica, Roma, Carocci, 2015, passim; sulla contestazione nella scuola, cfr. M. Galfré, La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana, Roma, Viella, 2019; sull’emersione in Italia dei giovani come forza sociale distinta, cfr. A. Cavalli e C. Leccardi, Le culture giovanili, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, tomo I, Istituzioni, politiche, culture, Torino, Einaudi, 1996, pp. 707-800. Sul terrorismo e sul suo impatto nella società italiana, cfr. A. Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Milano, Mondadori, 2019, pp. 159 ss.; L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, a cura di R. Brizzi et al., Roma, Carocci, 2021. Sulla posizione italiana in Europa in questa stagione, cfr. A. Varsori, La cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 a oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 225-283. Sulla crisi economica di inizio decennio, cfr. E. Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, Bologna, Il Mulino, 2020, pp. 283 ss. Sull’attenzione alle dinamiche del Terzo Mondo, cfr. P. Acanfora, L’Inter Press Service e il nuovo ordine internazionale. Informazione e terzomondismo negli anni della Guerra Fredda, Roma, Reality Book, 2019. ↑
«È come se l’epilogo della vicenda umana dello statista avesse “fagocitato” la figura e la personalità di Moro, finendo per porre su uno sfondo appannato e indistinto il resto»: questa la considerazione di R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di Mondo contemporaneo, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 68. «Dopo la sua morte tragica ma emblematica, le infinite discussioni sugli aspetti oscuri e misteriosi di quelle vicende hanno sovrastato una comprensione più articolata della sua vita: cinquantacinque giorni sono sembrati contare più dei sessantadue anni di vita»: questa l’osservazione di G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 8. «È impossibile parlare di Aldo Moro e della storia d’Italia senza ricordare la sua tragica fine»: questo l’avvio della riflessione di A. Giovagnoli, Introduzione alla seconda edizione, in Id., Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 20182, p. IX. ↑
Un attento osservatore della realtà del cattolicesimo italiano come Giuseppe Lazzati sembrò esprimere un giudizio tranchant sulla condizione dell’intero laicato cattolico dopo la scomparsa dello statista dc, quasi non vi fossero, dopo Moro, altri interpreti possibili. «Morto Moro nel modo in cui è morto, e non per niente è morto lui, – sostenne all’inizio degli anni Ottanta – oggi non c’è più nulla». Lazzati espresse anche giudizi negativi sull’evoluzione della Dc demitiana e sul suo declamato rinnovamento, ma anche sui politici cattolici italiani, incapaci di essere «attori», accontentandosi di essere «spettatori». Cfr. A colloquio con Dossetti e Lazzati, intervista di L. Elia e P. Scoppola (19 novembre 1984), Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 98-99. ↑
R. Ruffilli, L’ultimo Moro: dalla crisi del centro-sinistra all’avvio della terza fase, in «Quaderno dell’Istituto di Storia della Resistenza in Provincia di Alessandria», VI (1983), 11, pp. 59-78, poi in Storia della Democrazia cristiana, a cura di F. Malgeri, vol. IV, Dal centro sinistra agli «anni di piombo» (1962-1978), Roma, Cinque Lune, 1989, pp. 317-334. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., p. 30. ↑
Ivi, pp. 17-69. ↑
F. Malgeri, Aldo Moro nelle storie della Democrazia cristiana, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, cit., pp. 71-80. ↑
F. Traniello, Partito e società nel pensiero di Aldo Moro, in «Appunti di cultura e politica», IV (1981), 5-6, pp. 32-37. ↑
P. Colliva, Un nuovo Giolitti?, in «Il Mulino», IX (1960), 3, pp. 487-493. ↑
G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 354-355. ↑
Tra questi, oltre al già accennato riferimento a Giovanni Giolitti, anche Agostino Depretis, Alcide De Gasperi, Amleto, Benedetto Croce, Luigi Facta, Aleksandr Kerenskij, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, Giovanni XXIII, Cristoforo Colombo, Jawaharlal Nehru, perfino Greta Garbo e così via. Cfr. C. Costantini, G. Moltedo, Messaggi di fumo. Aldo Moro: i pensieri di un cavallo di razza, Milano, SugarCo, 1976, pp. 14-15. Costantini era giornalista di costume e cinema. ↑
G. Pallotta, Moro: ritratto di un leader, Isola del Liri, Pisani, 1975. ↑
Id., Aldo Moro: l’uomo, la vita, le idee, Milano, Massimo, 1978. ↑
Id., Moro: ritratto di un leader, cit., p. 138. ↑
Ivi, p. 135. ↑
Ivi, p. 134. ↑
Ivi, p. 143. ↑
Ibidem. ↑
C. Pinzani, L’Italia repubblicana, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. IV, Dall’Unità ad oggi, tomo III, Torino, Einaudi, 1976, p. 2724. ↑
L. Menapace, La Democrazia cristiana. Natura, struttura e organizzazione, Milano, Mazzotta, 1975, p. 117. ↑
Ead., Sinistra vecchia e nuova, in «Settegiorni», II (1968), 41, p. 18. ↑
D. Saresella, I Cristiani per il Socialismo in Italia, in «Studi Storici», LIX (2018), 2, pp. 525-549. ↑
A. Moro, Discorso all’XI congresso nazionale della Democrazia cristiana, in Archivio Centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Scritti e Discorsi [d’ora in poi ACS, AAM, SD], b. 21, f. 469, ora in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.041. ↑
A. Coppola, Moro, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 130. ↑
A. Moro, Discorso all’XI congresso nazionale della Democrazia cristiana, cit. ↑
A. Coppola, Moro, cit., p. 133. ↑
Ivi, pp. 130-131. ↑
Ivi, p. 131. ↑
Ibidem. ↑
R. Orfei, L’occupazione del potere. I democristiani ‘45/’75, Milano, Longanesi, 1976, p. 246. ↑
Ivi, p. 251. ↑
P.P. Pasolini, Il vuoto del potere in Italia, in «Corriere della Sera», 1° febbraio 1975. ↑
Todo modo, film di E. Petri, 1976. ↑
L. Sciascia, Todo modo, Torino, Einaudi, 1974. ↑
G. Galli, Storia della Democrazia cristiana, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 297. ↑
Ivi, p. 304. Analoghe impietose considerazioni su una insincera pretestuosità della lettura morotea sul ‘68 si trovavano in un pamphlet polemico uscito pochi mesi prima, con prefazione di dom Giovanni Franzoni, scritto dal giornalista A. Bisegna, Le piaghe d’Italia, Sora, Pasquarelli, 1977, pp. 153-154. ↑
G. Galli, Storia della Democrazia cristiana, cit., p. 304. ↑
Ivi, p. 306. ↑
Ivi, p. 308. ↑
Ivi, p. 355. Il riferimento è alla definizione di teologia politica “eusebiana” (da Eusebio di Cesarea) delineata nel capitolo introduttivo in G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti (1945-1954), Firenze, Vallecchi, 1974, pp. 1-37. ↑
I. Pietra, Moro, fu vera gloria?, Milano, Garzanti, 1983, p. 153. ↑
Ivi, p. 210. ↑
Ivi, p. 154. ↑
E. Cutolo, Aldo Moro: la vita, l’opera, l’eredità, Milano, Teti, 1980. ↑
Cfr. la quarta di copertina, ivi. ↑
D. Orati, Aldo Moro, Padova, Edizioni Messaggero, 1979, p. 9. ↑
Ivi, pp. 86-91. ↑
G. Pallotta, Moro: ritratto di un leader, cit., p. 149. ↑
G. Galli, Storia della Democrazia cristiana, cit., p. 340. ↑
I. Pietra, Moro, fu vera gloria?, cit., p. 8. ↑
Ivi, pp. 160-161. ↑
Ivi, p. 165. ↑
Ivi, p. 164. ↑
R. Ducci, I Capintesta, Milano, Rusconi, 1982, p. 54. ↑
M. Pedini, Moro e la politica internazionale, in «Studium», LXXVI (1981), 5, pp. 535-544. ↑
G. Di Capua, Il meridionalismo di Aldo Moro, Roma, Centro Studi e Iniziative per il Mezzogiorno «Aldo Moro», 1978. ↑
Aldo Moro e il Mezzogiorno, a cura di G. Di Capua, Roma-Brescia, Ebe-Moretto, 1986. ↑
F. Compagna, Quattro convincimenti, ivi, pp. 150-157. ↑
P. Alatri, Aldo Moro, in «Incontri Meridionali», XVII (1978), 7-8, pp. 5-20. ↑
G. De Rosa, Una prima lettura del pensiero meridionalista di Aldo Moro, in «Orientamenti Sociali», XXXVI (1980), 1, pp. 7-22. Si trattava del testo di una relazione letta dallo storico a un seminario svoltosi a Napoli nell’aprile del 1979. ↑
F. Pirro, Il laboratorio di Aldo Moro. Dc, organizzazione del consenso e governo dell’accumulazione in Puglia (1945-1970), Bari, Dedalo, 1983. ↑
A. Rossano, L’altro Moro, Milano, SugarCo, 1985, pp. 189-194. ↑
Ivi, p. 18. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 20, f. 468, ora A. Moro, [Dall’autonomia all’opposizione: discorso ai dirigenti della Dc di Bari], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.008. ↑
A. Rossano, L’altro Moro, cit., p. 126. ↑
A. Moro, Nella società che cambia. Discorsi della prima, seconda e terza fase, numero monografico di «Appunti», (1978), 15-17. ↑
Selezionati con i titoli Evitare il vuoto politico, 21 novembre 1968 (pp. 157-168), Perché in minoranza, 18 gennaio 1968 (169-177), Autonomia nella Dc, 31 gennaio 1969 (179-190), Attenzione verso il Pci, 21 febbraio 1969 (191-192), Perché siamo alla guida della società, 13 aprile 1969 (193-205), La società è cambiata, 3 giugno 1969 (207-233). ↑
L. Elia, Equilibrio nel sistema, in Il segno di Aldo Moro, numero monografico di «Appunti», (1979), 20, pp. 9-12. ↑
G. Galloni, Allargamento della democrazia, ivi, pp. 18-23. ↑
G.L. Mosse, L’opera di Aldo Moro nella crisi della democrazia parlamentare in occidente, intervista di A. Alfonsi, in A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, a cura della Fondazione Aldo Moro, Milano, Garzanti, 1979, pp. IX-LXXV. L’intervista è poi stata riedita con un’introduzione di Renato Moro e un saggio di Donatello Aramini in G.L. Mosse, Intervista su Aldo Moro, a cura di A. Alfonsi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015. ↑
G.L. Mosse, L’opera di Aldo Moro nella crisi della democrazia parlamentare in occidente, cit., p. XLIV. ↑
Ivi, p. XLVI. ↑
Ivi, p. XLVIII. ↑
Ivi, p. XLIX. ↑
R. Moro, Introduzione, in G.L. Mosse, Intervista su Aldo Moro, cit., pp. VII-XVII. ↑
D. Aramini, La società di massa e i ricorrenti pericoli per la democrazia parlamentare, ivi, pp. 93-116. Lo stesso autore ha svolto una ricostruzione dell’interpretazione mossiana di Moro in Id., “Un innovatore del contesto politico”. Aldo Moro nel pensiero di uno dei più grandi storici del XX secolo, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 271-290. ↑
G. Baget Bozzo, 1968: tra contestazione e partecipazione, in A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, cit., p. 187. ↑
La scelta dei testi ne prevedeva alcuni di periodi precedenti e successivi agli estremi cronologici qui indicati, nell’ottica di mostrare una continuità in tutta la riflessione morotea anche nei temi divenuti centrali caratterizzanti il periodo 1968-1974. ↑
D. Mongillo, La visione della società civile (1968-1974), ivi, pp. 181-186. ↑
L. Biondi, La Lega democratica. Dalla Democrazia cristiana all’Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica, Roma, Viella, 2013, pp. 115-164. Il volume ricostruisce anche le vicende relative ai rapporti tra questo gruppo di cattolici di sinistra e Aldo Moro negli anni successivi al referendum sul divorzio, ma le fondamenta della lettura che il gruppo faceva dell’esperienza morotea erano evidentemente di lungo periodo. ↑
F. Schneider, Anche De Gasperi avrebbe realizzato l’attuale politica del confronto, colloquio con P. Scoppola, in «La Discussione», 25 dicembre 1978, pp. 10-11. ↑
R. Ruffilli, L’ultimo Moro: dalla crisi del centro-sinistra all’avvio della terza fase, cit., p. 320 (le pagine qui considerate si riferiscono all’edizione del 1988). ↑
Ivi, p. 321. Un utile approfondimento delle questioni sollevate da Ruffilli è nella ricostruzione delle radici culturali della classe dirigente democristiana proposta da A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa Cattolica e identità italiana (1918-1948), Roma-Bari, Laterza, 1991. ↑
R. Ruffilli, L’ultimo Moro: dalla crisi del centro-sinistra all’avvio della terza fase, cit., p. 321. ↑
Ivi, p. 327. ↑
Ivi, p. 328. Ruffilli citava a questo proposito i lavori di G. Amato, L. Cafagna, Duello a sinistra, Bologna, Il Mulino, 1982; A. Ronchey, Accadde in Italia (1968-1977), Milano, Garzanti, 1977; G. Baget Bozzo et al., I socialisti e la questione cattolica, Roma, Mondo Operaio, 1979; F. Cassano, Il teorema democristiano, Bari, De Donato, 1979; M. Tronti, Il tempo della politica, Roma, Editori Riuniti, 1980; N. Bobbio, Le ideologie e il potere in crisi: pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Firenze, Le Monnier, 1981. ↑
E. D’Auria, Gli anni della «difficile alternativa». Storia della politica italiana (1956-1976), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1983, pp. 92-93. ↑
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica (1943-1988), vol. II, Dal “miracolo economico” agli anni ’80, Torino, Einaudi, 1989, p. 510. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., p. 36. ↑
C.T. Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1986, passim. ↑
Storia d’Italia, a cura di R. Romano, vol. X, L’Italia oggi (1945-1989), Milano, Bompiani, 1989, passim. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., pp. 37-39. ↑
S. Fontana, Moro e il sistema politico italiano, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, quaderno della rivista «Il Politico», Milano, Giuffrè, 1982, pp. 123-189. Il tema sarà ripreso, con un accento maggiore sull’ultima fase successiva al quinquennio qui analizzato, in S. Fontana, Partito e società nell’ultimo Moro, in «Quaderno dell’Istituto di Storia della Resistenza in Provincia di Alessandria», VI (1983), 11, pp. 135-146. ↑
Id., Moro e il sistema politico italiano, cit., p. 158. ↑
Ivi, pp. 159-160. Gli altri due momenti comprendevano la ricucitura dei rapporti con il Psi e con i partiti laici (in parte collimante con la fase precedente) e poi il coinvolgimento del Pci nella maggioranza. ↑
Ivi, pp. 183-185. ↑
I caratteri interpretativi essenziali del libro sono sinteticamente delineati nella premessa in G. Baget Bozzo e G. Tassani, Aldo Moro. Il politico della crisi (1962/1973), Milano, Sansoni, 1983, pp. 5-18. ↑
Ivi, pp. 330-331. ↑
Ivi, p. 350. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 21 f. 474, ora A. Moro, [Discorso a Udine in vista del congresso], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.018. ↑
G. Baget Bozzo e G. Tassani, Aldo Moro. Il politico della crisi (1962/1973), cit., pp. 351-352. ↑
Ivi, p. 358. ↑
Ivi, p. 359. ↑
Ivi, p. 370. ↑
Ivi, p. 388. ↑
Aa.Vv., Il messaggio di Aldo Moro, Roma, Studium, 1987. ↑
R. Ruffilli, Dignità della politica, ivi, pp. 75-85. ↑
R. Gaja, La politica internazionale, ivi, pp. 87-100. ↑
A. Moro, L’Italia nell’evoluzione dei rapporti internazionali. Discorsi, interventi, dichiarazioni e articoli recuperati e interpretati da Giovanni di Capua, Roma-Brescia, Ebe-Moretto, 1986. I testi erano precedentemente stati pubblicati, per periodi, su «Appunti». ↑
G. Di Capua, Una presenza originale, in A. Moro, L’Italia nell’evoluzione dei rapporti internazionali, cit., pp. 5-19. ↑
Aldo Moro. Stato e società, a cura di A. Cicerchia, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, [1990?]. ↑
Per di più molti testi furono pubblicati senza la revisione dei loro autori. ↑
R. Gaja, La politica estera del centro-sinistra, ivi, pp. 167-174. Dell’ex segretario generale del ministero degli Esteri, va necessariamente segnalata anche la monografia uscita pochi anni dopo sulla politica estera italiana, in cui egli ribadì il giudizio positivo su Moro, ritenuto capace di fare sintesi delle posizioni degli interlocutori internazionali. Cfr. Id., L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Bologna, Il Mulino, 1995, p. 185. ↑
Si vedano i saggi di A. Cañellas, La democrazia nascente e la democrazia matura, in Aldo Moro. Stato e società, a cura di A. Cicerchia, cit., pp. 151-159; R. De León Schlotter, L’America Latina e il magistero di Aldo Moro, ivi, pp. 160-166; K. Kellmann, L’influenza di Aldo Moro sulla politica tedesca, ivi, pp. 175-178. ↑
B. Bottai, Politica interna e politica estera nell’opera di Aldo Moro, ivi, pp. 186-189. ↑
P.M. Boselli, Aldo Moro: una amicizia (1968-1978), Napoli, Società editrice napoletana, 1984. ↑
Aa. Vv., Aldo Moro. Il cristiano, l'intellettuale, il politico, Roma, Ave, 1987. ↑
G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma, Studium, 1992, p. 177 [ed. orig. Aldo Moro, temoignage du card. C.M. Martini, Paris, Beauchesne, 1988]. ↑
P. Castellani, La Democrazia cristiana dal centro-sinistra al delitto Moro (1962-1978), in Storia della Democrazia cristiana, a cura di F. Malgeri, vol. IV, Dal centro sinistra agli «anni di piombo» (1962-1978), cit., pp. 5-116. ↑
Ivi, p. 46. ↑
Ivi, pp. 47-48. ↑
Ivi, p. 49. ↑
M. Rumor, Memorie (1943-1970), a cura di E. Reato e F. Malgeri, Vicenza, Neri Pozza, 1991. ↑
Ivi, p. 358. ↑
Ivi, p. 363. Il riferimento è al celebre articolo di Noi [P. Nenni], Politique d’abord, in «Avanti», 28 giugno 1930, i cui contenuti furono poi ripresi dallo stesso leader socialista in interventi successivi. ↑
M. Rumor, Memorie (1943-1970), cit., pp. 369-370. ↑
Ivi, p. 473. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., p. 42. ↑
La raccolta era in sei volumi. Cfr. A. Moro, Scritti e discorsi, vol. I, 1940-1947, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1982; A. Moro, Scritti e discorsi, vol. II, 1951-1963, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1982; A. Moro, Scritti e discorsi, vol. III, 1964-1965, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1986; A. Moro, Scritti e discorsi, vol. IV, 1966-1968, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1986; A. Moro, Scritti e discorsi, vol. V, 1969-1973, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1988; A. Moro, Scritti e discorsi, vol. VI, 1974-1978, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1990. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., pp. 45-46. ↑
Giudizio ribadito nella nuova edizione qui consultata. Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 357-358. ↑
A. Lepre, Storia della prima Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 197. ↑
F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo, nazione e crisi, Torino, Einaudi, 2003, pp. 167-170. ↑
Id., Nazione e crisi: le linee di frattura, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, tomo I, Economia e società, Torino, Einaudi, 1996, pp. 39-40. ↑
E. Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, passim. ↑
N. Tranfaglia, L’Italia democratica. Profilo di un primo cinquantennio (1943-1994), Milano, Unicopli, 1994, p. 45. ↑
I. Montanelli e M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo (1965-1978), Milano, Rizzoli, 1991, passim. ↑
S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1992, p. 331. ↑
L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 121-122. ↑
E. Di Nolfo, La Repubblica delle speranze e degli inganni. L’Italia dalla caduta del fascismo al crollo della Democrazia cristiana, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, passim. ↑
P. Ignazi, I partiti e la politica dal 1963 al 1992, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, vol. 6, Dal 1963 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 109-110. ↑
D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Roma-Bari, Laterza, 2020 [1997], p. 598. ↑
Ivi, p. 614. ↑
P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, pp. 51-52. ↑
Ivi, pp. 422-423. Per l’analisi di quest’opera, cfr. R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., pp. 59-61. ↑
A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 106. ↑
Ivi, p. 103. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. L’intelligenza applicata alla mediazione politica, Milano, Centro Ambrosiano, 1997, p. 56. ↑
Ivi, p. 57. ↑
Ivi, pp. 59-60. ↑
Id., L’Italia nel sistema internazionale degli anni ’70: spunti per riconsiderare la crisi, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, a cura di A. Giovagnoli e S. Pons, vol. I, Tra guerra fredda e distensione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 271-298; G. Formigoni, La Democrazia Cristiana, in I partiti politici nell’Italia repubblicana, a cura di G. Nicolosi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 55-89. ↑
Convegno di studi in memoria di Aldo Moro nel ventennale della sua scomparsa, atti del convegno (Bari, 28 maggio 1998), a cura di S. Suppa, Bari, Servizio Editoriale Universitario, 2001. ↑
Per Berlusconi, lo statista pugliese rappresentava «una classe politica lontana dalla gente. Il suo parlare era fatto per tenerla distante, la gente, non per sintonizzarla con le scelte di governo. La sua costruzione politica non mi è mai stata chiara». Cfr. l’intervista di Ferdinando Adornato a Silvio Berlusconi su «Liberal», cit. in Berlusconi, analisi del passato prossimo, in «Corriere della Sera», 27 aprile 1995. ↑
Si vedano le cronache di P. Cascella, Marini: «Ulivo a rischio», in «L’Unità», 17 marzo 1998; R. Zuccolini, Marini accusa D’Alema di indebolire l’Ulivo, in «Corriere della Sera», 17 marzo 1998. ↑
G.L. Mosse, L’opera di Aldo Moro nella crisi della democrazia parlamentare in occidente, cit. ↑
La statua fu inaugurata il 23 settembre 1998 dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. ↑
G. Belardelli, Moro, l’inganno della memoria, in «Corriere della Sera», 28 settembre 1998. ↑
E. Roggi, Perché dà tanto fastidio Moro con l’Unità?, in «L’Unità», 29 settembre 1998. ↑
G. Sabbatucci, I misteri del caso Moro, in G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia, G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 217-221. ↑
G. Moro, Introduzione, in A. Moro, La democrazia incompiuta. Attori e questioni della politica italiana (1943-1978), a cura di A. Ambrogetti, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 11-17. ↑
F. Vander, Aldo Moro. La cultura politica cattolica e la crisi della democrazia italiana, Genova, Marietti, 1999. ↑
M. Follini, La DC, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 118. ↑
Ivi, pp. 119-120. ↑
Una rassegna di questa nuova fase della storiografia su Moro è in G. Formigoni, Il rinnovamento della storiografia su Aldo Moro dopo il 2008, in Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), a cura di A. D’Angelo e M. Toscano, Roma, Studium, 2018. pp. 27-38. Ma si veda anche R. Moro, Introduzione, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 17-29. ↑
Rifondazione comunista e il Partito dei comunisti italiani (Pdci) avevano proposto il 12 dicembre (anniversario dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969); il Pdci aveva suggerito anche il 1° maggio (per ricordare la strage di Portella della Ginestra del 1947); Alleanza nazionale il 23 maggio (data dell’omicidio di Giovanni Falcone nel 1992), l’11 settembre (anniversario dell’abbattimento delle Twin Towers di New York nel 2001) e il 12 novembre (ricorrenza della strage di Nassiriya nel 2003); la Lega Nord aveva proposto il 26 marzo (giorno dell’omicidio dal portavalori Alessandro Floris per mano del Gruppo XXII Ottobre nel 1971). Cfr. L. Salvia, Giornata delle vittime del terrorismo: sì al 9 maggio. Sinistra divisa, in «Corriere della Sera», 3 maggio 2007. ↑
Legge 56/2007, Istituzione del «Giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. Per una argomentata critica intorno alla scelta di questa data, dovuta non tanto al problema della figura di Moro ma al rischio di una riduzione della memoria pubblica del terrorismo a quello brigatista e al ricordo solo delle “vittime eccellenti”, cfr. B. Tobagi, 9 maggio. Giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, in Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, a cura di A. Portelli, Roma, Donzelli, 2017, pp. 91-107. ↑
Ateneo dedicato a Moro, a Bari è guerra tra docenti, in «La Repubblica», 18 aprile 2008; Il no all’Università Moro spacca la cultura barese, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 18 aprile 2008. ↑
La Camera: «La Sala Gialla ad Aldo Moro», in «Corriere della Sera», 8 maggio 2008. Un altro episodio legato a Fini, qualche mese prima, vide coinvolto l’ex moroteo, ora berlusconiano, Giuseppe Pisanu che, nel corso di un convegno nel quale l’ex leader missino aveva espresso un mea culpa per l’incomprensione del ‘68 da parte della destra, riconoscendo piuttosto i meriti e i lasciti di quella stagione, sostenne che Fini aveva parlato come Aldo Moro. Cfr. A. Garibaldi, Fini e il ‘68: la destra perse un’occasione, in «Corriere della Sera», 3 febbraio 2008. ↑
Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di Mondo contemporaneo, cit. ↑
Aldo Moro nella dimensione internazionale. Dalla memoria alla storia, a cura di A. Alfonsi, Milano, Franco Angeli, 2013. ↑
Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., Firenze, Le Lettere, 2011. ↑
Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a cura di I. Garzia, L. Monzali e M. Bucarelli, Nardò, Besa, [2011?]. ↑
Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, a cura di I. Garzia, L. Monzali e F. Imperato, Nardò, Besa, [2013?]. ↑
Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit. ↑
Aldo Moro e l’Università di Bari. Fra storia e memoria, a cura di A. Massafra, L. Monzali e F. Imperato, Bari, Cacucci, 2016. ↑
Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), a cura di A. D’Angelo e M. Toscano, cit. ↑
Aldo Moro nella storia della Repubblica, a cura di N. Antonetti, Bologna, Il Mulino, 2018. ↑
Cfr. www.aldomoro.eu. ↑
Aldo Moro. L’uomo, il politico, il credente, in «Appunti di cultura e politica», XXXIX (2016), 5. ↑
Aldo Moro. Un percorso interpretativo, a cura di A. Alfonsi e L. D’Andrea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018. ↑
Emilio Colombo. L’ultimo costituente, a cura di D. Verrastro e E. Vigilante, Roma-Bari, Laterza, 2017. In particolare appare significativo che Colombo riconducesse la scelta di Moro di passare all’opposizione a Piccoli, nel gennaio del 1969, a una mera conseguenza del suo mancato coinvolgimento nella formazione della maggioranza per la segreteria. Cfr. ivi, pp. 138-139. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit. e M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, cit. ↑
C. Guerzoni, Aldo Moro, Palermo, Sellerio, 2008; G. Galloni, 30 anni con Aldo Moro, Roma, Editori Riuniti, 2008; A. Moro, Un uomo così: ricordando mio padre, Milano, Rizzoli, 20112. ↑
L. Ferlicchia, I tempi di Aldo Moro. Quando la politica era una vocazione, [Bari], Federazione dei Centri Studi “Aldo Moro e Renato Dell’Andro”, 2014. Meritano in particolare una certa attenzione, per i dettagli del racconto, le pagine dedicate alla turbolenta fase successiva alle elezioni del 1972, quando Moro subì la sfida locale di Vito Lattanzio, il quale condusse una campagna piuttosto aggressiva e spregiudicata per il controllo della Dc al congresso provinciale di Bari. Cfr. ivi, pp. 309-321. ↑
P. Craveri, Aldo Moro e la storia della Repubblica, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di Mondo contemporaneo, cit., pp. 9-16. ↑
P. Acanfora, Il dialogo tra democristiani e comunisti, in «Mondo Contemporaneo», XIV (2018), 2-3, pp. 179-192. ↑
G.M. Ceci, Moro e il PCI. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Roma, Carocci, 2013; più sinteticamente anche Id., «Moro apre ai comunisti?». Aldo Moro, la Dc e il Pci (1967-1969), in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 363-384. ↑
G.M. Ceci, Moro e il PCI. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), cit., pp. 180-181. ↑
Tesi sostenuta anche da A. D’Angelo, Dal centrosinistra alla terza fase, in Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), a cura di A. D’Angelo e M. Toscano, cit., pp. 39-53. ↑
M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, cit., pp. 169-170. ↑
Ivi, p. 171. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 236. ↑
Ivi, p. 265. ↑
A. Carioti, Vero statista o capo di partito. Non c’è pace per Aldo Moro, conversazione con R. Chiarini, G. Formigoni e P. Soddu, in «La Lettura», 28 gennaio 2018. ↑
A. Giovagnoli, Introduzione alla seconda edizione, in Id., Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. XXXIII. ↑
D. Saresella, Catholics and Communists in Twentieth-Century Italy. Between Conflict and Dialogue, London-New York, Bloomsbury, 2019, p. 108. ↑
A. Höbel, Moro e il Pci, in Il Segretario, lo Statista. Aldo Moro dal centro-sinistra alla solidarietà nazionale, a cura di A. Sansoni, P. Totaro e P. Varvaro, Napoli, Federico II University Press, 2019, pp. 183-211. Il volume, incentrato su una fase diversa della vita politica di Moro, raccoglieva gli atti di tre giornate di studi, due nel 2016 intitolate “L’azione politica di Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana (1959-1964)”, e una nel 2018 intitolata “A 40 anni dall’assassinio di Aldo Moro. Inchieste giornalistiche e ricostruzioni storiche”. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 20, f. 465, ora A. Moro, [Tempi nuovi per l’Italia: discorso al Consiglio nazionale della Dc], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.006. ↑
P. Craveri, Moro, Aldo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. LXXVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2012, pp. 16-29. ↑
A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani (1946-2016), cit., p. 76. Ma si veda anche la lettura di P. Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica (1946-2013), Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 135-143. ↑
A. Moro, Discorso all’XI congresso nazionale della Democrazia cristiana, cit. ↑
L. D’Andrea, Politica e società in Aldo Moro, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 129-154. ↑
B. Pisa, Aldo Moro e la “terza fase” delle donne, ivi, pp. 293-311. ↑
L. Gazzetta, Moro, il Movimento delle donne Dc e la “questione femminile” (1959-1977), ivi, pp. 337-362. ↑
U. Gentiloni Silveri, Storia dell’Italia contemporanea (1943-2019), Bologna, Il Mulino, 2019, p. 120. ↑
G.M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi e alle trame eversive (1969-1978), in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, cit., pp. 167-206. Il tema è stato ulteriormente trattato, allargando lo sguardo alla posizione della Dc, dallo stesso autore in Id., La Democrazia cristiana, i terrorismi e la magistratura, in Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa. Storici e magistrati a confronto, a cura di C. Fumian e A. Ventrone, Padova, Padova University Press, 2018, pp. 311-329, poi ripubblicato con il titolo La Democrazia cristiana di fronte ai terroristi, in L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, a cura di R. Brizzi et al., cit., pp. 19-33. Alcuni cenni, già negli anni Novanta, anche in R. Drake, Il caso Aldo Moro, tr. it., Milano, Marco Tropea, 1996, p. 38. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 21 f. 471, ora A. Moro, [Discorso a Mestre in vista del congresso], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.011. ↑
M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, cit., p. 169. ↑
L’autore cita una porzione del discorso di Udine del 13 aprile 1969 (cfr. A. Moro, [Discorso a Udine in vista del congresso], cit.), che coincide con un precedente discorso tenuto a Mestre il 16 marzo citato supra, circostanza che avvalora ulteriormente la lettura di Formigoni. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 239. ↑
Ivi, pp. 251-258. ↑
P. Mattera, Moro e il Psi, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., cit., pp. 179-193. ↑
G. Nicolosi, Aldo Moro, uomo politico e statista democristiano, nella percezione dei radicali italiani (1955-1978), ivi, pp. 209-227. ↑
A. Ungari, Aldo Moro e il Movimento sociale italiano, ivi, pp. 229-256. ↑
A. D’Angelo, Moro e il mondo cattolico, ivi, pp. 81-103. ↑
A. Ambrogetti, Aldo Moro e i servizi di informazione. Le sfide degli anni Sessanta e Settanta, in Aldo Moro e l’intelligence. Il senso dello Stato e le responsabilità del potere, a cura di M. Caligiuri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018, pp. 19-41. ↑
F. Malgeri, Aldo Moro nelle storie della Democrazia cristiana, cit., p. 77. ↑
A. Rossano, L’altro Moro, cit., pp. 170-189. ↑
V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010. ↑
G. Balzoni, Moro, il professore, Roma, Lastarìa, 20182 [2016], pp. 38-39. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 243. ↑
Ibidem. ↑
Id., Storia dell’Italia nella guerra fredda (1943-1978), cit.; Id., Storia essenziale dell’Italia repubblicana, cit. ↑
Id., Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ‘900, Trento, Il Margine, 2008, pp. 189-202. ↑
M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, cit., p. 178. ↑
G. Balzoni, Moro, il professore, cit., p. 13. ↑
M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, cit., p. 179. ↑
G. Formigoni, Moro ministro degli Esteri, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, a cura di N. Antonetti, cit., pp. 137-152, in part. p. 138. ↑
Ivi, pp. 140-141. ↑
Ivi, p. 142. ↑
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A. Armellini, La politica estera di Aldo Moro. Spunti per una riflessione, cit., pp. 29-32. ↑
F. Niglia, Aldo Moro, la diplomazia italiana e la questione dell’Alto Adige (1963-1969), in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., cit., pp. 469-484. ↑
F. Scarano, Aldo Moro e la soluzione della questione sudtirolese, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 511-532. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 22 f. 486, ora A. Moro, [Discorso alla XXIV sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.050. ↑
M. Bucarelli, Il problema del confine orientale nella politica estera di Aldo Moro, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., cit., pp. 485-509. ↑
D. D’Amelio, La normalizzazione adriatica. Il moroteismo, la questione di Trieste e i nuovi rapporti italo-jugoslavi, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 489-510. ↑
B. Zaccaria, La strada per Osimo. Italia e Jugoslavia allo specchio (1965-1975), Milano, Franco Angeli, 2018. ↑
L. Monzali, “I nostri vicini devono essere nostri amici”. Aldo Moro, l’Ostpolitik italiana e gli accordi di Osimo, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a cura di I. Garzia, L. Monzali e M. Bucarelli, cit., pp. 89-114. ↑
M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella Westpolitik jugoslava degli anni Sessanta, ivi, pp. 115-160. ↑
L. Micheletta, La tacita alleanza: le relazioni tra Italia e Albania durante la guerra fredda. Una proposta interpretativa, ivi, pp. 161-187. ↑
A. Basciani, Tra aperture e neostatalismo. Italia e Romania negli anni Sessanta e Settanta, ivi, pp. 188-216. ↑
F. Imperato, I rapporti italo-bulgari nell’epoca della distensione (1963-1976), ivi, pp. 217-246. ↑
L. Medici, Aldo Moro e la diplomazia culturale italiana verso i paesi comunisti balcanici, ivi, pp. 283-310. ↑
M. Galeazzi, L’azione internazionale del Partito comunista italiano fra Mediterraneo e Balcani (1963-1978), ivi, pp. 266-282. ↑
L. Riccardi, Appunti sull’Ostpolitik di Moro (1963-1975), ivi, pp. 58-88. Fermandosi al 1968, Sara Tavani ha analizzato la politica morotea verso l’Est ai tempi del centro-sinistra, individuando la capacità dell’esponente democristiano di cogliere i mutamenti in corso e quindi la necessità di superare il neoatlantismo della fase precedente. Cfr. S. Tavani, Alle origini dell’Ostpolitik italiana: l’evoluzione della politica orientale dell’Italia negli anni del “centrosinistra organico” di Aldo Moro, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 467-486. Con una periodizzazione in parte sovrapponibile, Alessandro Salacone ha studiato in modo più dettagliato le relazioni con l’Urss a partire dalla documentazione sovietica. Cfr. A. Salacone, Le relazioni italo-sovietiche negli anni dell’avvio del centro-sinistra e dei primi tre governi Moro nelle carte della diplomazia sovietica, ivi, pp. 443-465. ↑
F. Zilio, Moro e la CSCE: dalle parole ai fatti della politica distensiva italiana, ivi, pp. 643-660. ↑
C. Meneguzzi Rostagni, Aldo Moro, l’Italia e il processo di Helsinki, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., cit., pp. 387-409. ↑
F. Imperato, Aldo Moro, l’Italia e la diplomazia multilaterale. Momenti e problemi, cit., pp. 152-188. ↑
U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, cit., pp. 52-55. ↑
P. Soave, L’Italia e la Grecia dalla dittatura militare al processo di democratizzazione, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a cura di I. Garzia, L. Monzali e M. Bucarelli, cit., pp. 247-265. ↑
G. La Nave, Aldo Moro e la parabola greca. Dalla vittoria di Georgios Papandreu alla fine del regime dei Colonnelli (1963-1974), in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 583-614. ↑
M.L. Sergio, «Abbiamo la responsabilità del dire certi sì e certi no». Aldo Moro e le transizioni democratiche nell’Europa mediterranea (Grecia, Spagna, Portogallo), ivi, pp. 559-582. ↑
Per inquadrare queste iniziative nell’ambito più generale della politica estera italiana, cfr. G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda (1943-1978), cit., p. 391. ↑
I. Garzia, Il Mediterraneo nel pensiero politico di Aldo Moro, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, a cura di I. Garzia, L. Monzali e F. Imperato, cit., pp. 56-67. ↑
L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera dell’Italia repubblicana nel Mediterraneo (1969-1978). Momenti e problemi, ivi, pp. 68-124. Su questo tema, con una periodizzazione a cavallo tra il quinquennio 1968-1973 e quello successivo, si vedano anche i saggi di G. Garavini, Moro, la Comunità europea, la distensione nel Mediterraneo, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., cit., pp. 585-605; e di L. Medici, Aldo Moro e la cooperazione culturale nel Mediterraneo, ivi, pp. 607-622. ↑
L. Riccardi, Aldo Moro e il Medio Oriente (1963-1978), ivi, pp. 551-583. Dello stesso autore si rimanda anche alla sua precedente ricostruzione, a cui ha largamente attinto per il saggio citato, intorno alla politica mediorientale del Pci, che proprio sul Medio Oriente maturò una complessa evoluzione che interloquì con le posizioni morotee e che possiamo considerare come parte di questa recente stagione storiografica, nonostante l’anno di pubblicazione, perché utilizza già alcune carte dell’archivio Moro. Cfr. L. Riccardi, Il «problema Israele». Diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), Milano, Guerini, 2006, pp. 322 ss. ↑
M. Rossi, Aldo Moro, l’Italia e la questione palestinese, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, a cura di I. Garzia, L. Monzali e F. Imperato, cit., pp. 233-274. Sul tema, si veda anche G. Salzano, Un costruttore di pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro, Napoli, Guida, 2015. ↑
Mi permetto di rimandare a E. Palumbo, Cultura cattolica, ebraismo e Israele in Italia. Gli anni del Concilio e del post-Concilio, Brescia, Morcelliana, 2020, pp. 261-300. ↑
D. Caviglia, Tempi nuovi. Moro, Israele e la svolta filo-araba della diplomazia italiana (1967-1976), in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, a cura di I. Garzia, L. Monzali e F. Imperato, cit., pp. 215-232. Per uno sguardo al cambiamento di approccio della diplomazia italiana tra le due guerre del 1967 e del 1973, cfr. la precedente ricostruzione di D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. ↑
F. Imperato, Tra equidistanza e filoarabismo. Aldo Moro e il conflitto arabo-israeliano, in Fra diplomazia e petrolio. Aldo Moro e la politica italiana in Medio Oriente (1963-1978), a cura di F. Imperato, R. Milano e L. Monzali, Bari, Cacucci, 2018, pp. 47-97. ↑
R. Milano, Aldo Moro e l’Iran (1969-1974), ivi, pp. 99-117; S. Coliaei, Aldo Moro e le relazioni italo-iraniane, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, a cura di I. Garzia, L. Monzali e F. Imperato, cit., pp. 199-214. ↑
F. Imperato, Un aspetto della politica mediterranea dell’Italia: le relazioni con la Turchia (1964-1974), ivi, pp. 119-153. ↑
M. Cricco, L’Italia e Moro tra Nasser e Sadat, ivi, pp. 275-301. ↑
P. Soave, L’Italia e la crisi cipriota, ivi, pp. 163-198. ↑
A.R. La Fortezza, Un’amicizia italo-araba. Italia e Libano negli anni Sessanta e Settanta, in Fra diplomazia e petrolio. Aldo Moro e la politica italiana in Medio Oriente (1963-1978), a cura di F. Imperato, R. Milano e L. Monzali, cit., pp. 155-197 ↑
G. Spagnulo, Aldo Moro e le relazioni italo-pakistane (1963-1973), ivi, pp. 199-238. ↑
S. Labbate, Aldo Moro e la politica energetica dell’Italia, in Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti et al., cit., pp. 705-734; S. Labbate, L’Eni e la politica estera italiana in Siria e in Libano, in Fra diplomazia e petrolio. Aldo Moro e la politica italiana in Medio Oriente (1963-1978), a cura di F. Imperato, R. Milano e L. Monzali, cit., pp. 400-440; M. Bucarelli, L’Eni e la questione petrolifera in Iraq negli anni Sessanta, ivi, pp. 441-497; R. Milano, L’Eni e l’Algeria (1963-1973), ivi, pp. 498-533. ↑
Sulla vicenda, in generale, cfr. A. Del Boca, Gheddafi. Una sfida del deserto, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 45-51. ↑
A.M. Morone, I custodi della memoria. Il Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, in «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale», XXIII (2010), 3, pp. 24-38. Sul problema della «rimozione» del colonialismo italiano nel dopoguerra, cfr. A. Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 111 ss. ↑
Qui si fa riferimento all’edizione dell’anno successivo. Cfr. G. Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, Loescher, 1973, pp. 96-105. Con riferimento alle conquiste africane nell’Ottocento, l’unica opera seria sul colonialismo edita nel dopoguerra è quella di R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino, Einaudi, 1958. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., p. 250; M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, cit., p. 184. ↑
A. Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974), Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009, pp. 99-100. Sulle vicende specifiche degli italiani in Libia, si rimanda anche al saggio di L. Scoppola Iacopini, I «dimenticati». Da colonizzatori a profughi. Gli italiani in Libia (1943-1974), Foligno, Editoriale Umbra, 2015; Id., Le vicende della comunità italiana in Libia (1956-1974), in Italia-Libia. Storia di un dialogo mai interrotto, a cura di G. Rossi, Roma, Apes, 2012, pp. 105-234; S. Trinchese, La Libia nella storia d’Italia (1911-2011), in La Libia nella storia d’Italia. 1911-2011, a cura di S. Trinchese, Messina, Mesogea, 2015, pp. 5-43 (che però cita Moro solo sfuggevolmente); più recentemente anche G. Breccia e S. Marcuzzi, Le guerre di Libia. Un secolo di conquiste e rivoluzioni, Bologna, Il Mulino, 2021, p. 237. ↑
A. Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974), cit., p. 101. ↑
Ivi, p. 107. ↑
Ivi, p. 111. ↑
Ivi, p. 149. ↑
Ivi, pp. 158 ss. ↑
L. Medici, Moro, l’Italia repubblicana e la Libia. Momenti e problemi delle relazioni bilaterali, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, a cura di I. Garzia, L. Monzali e F. Imperato, cit., pp. 302-340. ↑
M. Cricco, Aldo Moro, l’Italia e la Libia di Gheddafi (1970-1976), in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 713-732. A conclusioni simili a quelle di Medici e di Cricco giunge anche la sintesi di lungo periodo di L. Palma, Il nostro miglior nemico. Gheddafi, l’Italia e il Mediterraneo dalla Guerra Fredda alle Rivolte Arabe, in Tripoli, Italia. La politica di potenza nel Mediterraneo e la crisi dell’ordine internazionale, a cura di A.F. Biagini, Roma, Castelvecchi, 2020, pp. 61-83. ↑
I. Tremolada, Nel mare che ci unisce. Il petrolio nelle relazioni tra Italia e Libia, Milano, Mimesis, 2015, pp. 202 ss. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro. La forma politica del dialogo, in «Il Regno», LXVI (2021), 4, pp. 101-104. ↑
I due volumi che interessano questo quinquennio sono A. Moro, Scritti e discorsi, vol. IV, 1966-1968, cit., pp. 2594-2609; Id., Scritti e discorsi, vol. V, 1969-1973, cit., pp. 2635-3054. ↑
Id., L’Italia nell’evoluzione dei rapporti internazionali. Discorsi, interventi, dichiarazioni e articoli recuperati e interpretati da Giovanni di Capua, cit., pp. 51-424. ↑
Relativamente al periodo 1968-1973, si segnalano: A. Moro, Una politica per i tempi nuovi, Roma, Agenzia «Progetto», 1969; Id., Per la società italiana e la comunità internazionale, Roma, Agenzia «Progetto», [1971]; Id., Prima e dopo il 7 maggio, Roma, Agenzia «Progetto», [1972]; Id., In vista del congresso, Roma, Agenzia «Progetto», [1973]; Id., Per una iniziativa politica della Democrazia cristiana, Roma, Agenzia «Progetto», [1973], pp. 7-75. ↑
Id., L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, cit., passim. ↑
Id., Discorsi parlamentari, vol. II, (1963-1977), a cura di E. Lamaro, Roma, Camera dei Deputati, 1996, pp. 1391-1459. ↑
Gli stenografici sono stilisticamente diversi dal corpus delle altre centinaia di testi originali di Moro presenti in archivio – nell’uso delle maiuscole, nell’elisione degli articoli determinativi femminili singolari, nella punteggiatura ecc. Pertanto, le variazioni sono verosimilmente attribuibili agli stenografi. Da qui discende la considerazione intuitiva che anche le piccole variazioni nei contenuti siano presumibilmente frutto di errori di comprensione da parte degli stenografi. Del resto, Moro era solito annotare a mano anche sui testi definitivi le minime variazioni che intendeva apporre ed è difficile immaginare che solo nei discorsi parlamentari si fosse attenuto ad abitudini diverse, operando soltanto modifiche a braccio. ↑
A. Rossano, L’altro Moro, cit., pp. 150-153, ora A. Moro, [Discorso a Foggia], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.238. ↑
Cfr. il discorso in Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Paolo Bufalini, Pci-Pds, Varie sul Pci, f. 106, ora A. Moro, [Il “discorso segreto” di Moro], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.204. Una fedele sintesi fu pubblicata da I. Avellino, Una esclusiva eccezionale. Il discorso segreto di Aldo Moro, in «Giorni. Vie Nuove», I (1971), 16, pp. 18-19. ↑
A. Moro, [Tempi nuovi per l’Italia: discorso al Consiglio nazionale della Dc], cit. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 20, f. 464, ora A. Moro, [Le nuove dimensioni della libertà umana], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.005. ↑
Ministero degli Affari Esteri, Testi e documenti sulla politica estera italiana: 1972, Roma, Servizio Storico e Documentazione, s.d. ↑
Conseil supérieur de la langue française, Les rectifications de l’orthographe, in «Journal officiel de la République française», 6 dicembre 1990. ↑
G. Balzoni, Moro, il professore, cit., p. 82. ↑
Camera dei Deputati, Atti parlamentari – V legislatura, Seduta del 26 febbraio 1971, p. 26184, ora Sulle dichiarazioni di un’agenzia di stampa, in A. Moro, Discorsi parlamentari, vol. II, (1963-1977), cit., pp. 1433-1434. Questo testo, che la curatrice del volume ha considerato alla stregua di un discorso parlamentare di Moro, non è stato inserito nella presente Edizione Nazionale perché di fatto non è un discorso, ma uno scambio polemico di battute – se ne trovano molti negli stenografici delle sedute d’aula – pronunciato dal ministro degli Esteri nel corso di un discorso di Covelli, nel quale peraltro emerge, più che il pensiero di Moro, piuttosto il provocatorio protagonismo del deputato monarchico. Il testo delle battute di Moro è comunque disponibile online, alla pagina sopra indicata in: http://legislature.camera.it/_dati/leg05/lavori/stenografici/sed0415/sed0415.pdf. ↑
R. Moro, Un bilancio tra storiografia e politica, in Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), a cura di A. D’Angelo e M. Toscano, cit., p. 15-26. ↑
E. Scalfari, Il governo geometrico, in «L’Espresso», 24 giugno 1960. ↑
P.P. Pasolini, Il vuoto del potere in Italia, cit. ↑
F. Di Donato, Sul presunto linguaggio criptico nell’elaborazione politico-istituzionale di Aldo Moro, in Una vita, un paese. Aldo Moro nell’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, cit., pp. 245-269. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 26 f. 576, ora A. Moro, [Intervento al convegno degli “Amici di Moro” a Roma], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.288. ↑
A. Moro, [Discorso a Mestre in vista del congresso], cit. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 21 f. 482, ora A. Moro, [Discorso a Milano in vista del congresso], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.034. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 495, ora A. Moro, Intervento al Consiglio ministeriale della Cee, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.080. ↑
Cfr. per esempio il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 521, ora A. Moro, [Discorso a Trapani in vista delle elezioni regionali], Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.182; a Bari, nel giugno del 1971, parlò di «impazienza dei giovani», «inquietudine del Mezzogiorno», «presa di coscienza del mondo del lavoro»: cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 524, ora A. Moro, [Discorso a Bari in vista delle elezioni comunali], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.189. ↑
Si veda, tra i tanti esempi, il discorso in ACS, AAM, SD, b. 25 f. 532, ora A. Moro, [Un partito popolare, democratico e antifascista: intervento al Consiglio nazionale della Dc], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.209. ↑
A. Moro, Impegno per la scuola, in «Il Giorno», 28 settembre 1972, ora Id., Impegno per la scuola, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.280. ↑
M. Galfrè, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, Roma, Carocci, 2017, pp. 239-248, 256. ↑
A. Moro, Impegno per la scuola, cit. ↑
Id., Impazienza giustificata, in «Il Giorno», 8 febbraio 1973, ora Id., Impazienza giustificata, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.299. In seguito si scagliò contro il “numero chiuso” all’Università. Cfr. A. Moro, Numero chiuso inaccettabile, in «Il Giorno», 4 marzo 1973, ora Id., Numero chiuso inaccettabile, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.303. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 27 f. 591, ora A. Moro, [Intervento al convegno dei giovani democristiani a Bari], Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.305. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 521, ora A. Moro, [Discorso a Trapani in vista delle elezioni regionali], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.182. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 524, ora A. Moro, [Discorso a Bari in vista delle elezioni comunali], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.189. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 26 f. 547, ora A. Moro, [Discorso a Padova in vista delle elezioni], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.248. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 26 f. 551, ora A. Moro, [Discorso a Lecco in vista delle elezioni], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.253. ↑
Intervista con Aldo Moro, in «Il Goliardo», Natale 1972, ora A. Moro, [Intervista a «Il Goliardo»], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.291. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 26 f. 576, ora A. Moro, [Intervento al convegno degli “Amici di Moro” a Roma], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.288. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 27 f. 608, ora A. Moro, [Discorso a Lecce in vista del congresso], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.304. ↑
A. Moro, [Discorso a Bari in vista delle elezioni comunali], cit. ↑
Cfr. la nota in ACS, AAM, SD, b. 25 f. 530, ora A. Moro, Esigenze del momento, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.207. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 26 f. 557, ora A. Moro, [Discorso a Foggia in vista delle elezioni], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.262. ↑
Moro: in che modo si potrebbe tornare a un governo con il psi, in «La Stampa», 22 ottobre 1972, ora A. Moro, [Intervista a «La Stampa»], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.283. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 26 f. 571, ora A. Moro, [Intervento al Congresso provinciale della Dc di Bari], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.284. ↑
A. Moro, [Intervento al convegno degli “Amici di Moro” a Roma], cit. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 27 f. 578, ora A. Moro, [Intervista a «24 Heurs»], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.318. ↑
I discorsi di questa Edizione Nazionale tendono a farci ritenere verosimile un’indiscrezione sui commenti di Moro ai gravi fatti occorsi a Battipaglia (Salerno), quando il 9 aprile la polizia caricò la popolazione che protestava per la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio, provocando due vittime tra i manifestanti. Vittorio Bruno, del «Secolo XIX», dava infatti conto di un duro attacco di Moro al presidente del Consiglio Rumor, opportunamente fatto filtrare alla stampa, proprio per la gestione della vicenda di Battipaglia: «“Durante i miei governi – ha detto ieri Moro a un amico di partito prima di andare a Bari, sede del suo collegio elettorale – la polizia non ha mai sparato e comunque non ha mai risposto con la violenza alla violenza”». Cfr. V. Bruno, Rumor discute sull’ordine pubblico coi capi della polizia e dei carabinieri, in «Il Secolo XIX», 13 aprile 1969. ↑
A. Moro, [Il “discorso segreto” di Moro], cit. ↑
G. Balzoni, Moro, il professore, cit., p. 89. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 495, ora A. Moro, Conferenza all’Istituto di politica estera dell’Accademia delle scienze, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.086. Cfr. sul tema I. Penkov, Riflessi del Risorgimento in Bulgaria, in «Rassegna storica del Risorgimento», LIII (1966), 2, pp. 371-416. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 495, ora A. Moro, Brindisi in occasione del pranzo offerto in onore del ministro degli Esteri giapponese Aichi, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.132. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 513, ora A. Moro, Brindisi al pranzo offerto dal ministro degli Esteri di Finlandia Leskinen, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.179. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 513, ora A. Moro, [Risposta al brindisi del ministro degli Esteri senegalese Gaye], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.164. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 513, ora A. Moro, [Brindisi in onore del ministro degli Esteri iraniano Zahedi], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.180. ↑
Cfr. il testo in ACS, AAM, SD, b. 25 f. 537, ora A. Moro, [Il contributo degli italiani allo sviluppo economico e sociale dei paesi d’oltremare], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.233. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 22 f. 486, ora A. Moro, [Brindisi in occasione dell’anniversario dello sbarco di Colombo in America], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.053. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 24 f. 513, ora A. Moro, [Discorso al Parlamento europeo], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.225. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 25 f. 546, ora A. Moro, [Intervento al Consiglio ministeriale della Cee], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.269. ↑
A. Moro, Italia ed Europa. Una polemica utile, in «Il Giorno», 25 marzo 1973, ora Id., Italia ed Europa. Una polemica utile, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.307. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 500, ora A. Moro, [Intervento alla Commissione Esteri della Camera sui fatti di Libia], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.114. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 501, ora A. Moro, [Intervento alla Commissione Esteri del Senato sui fatti di Libia], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.115. ↑
A. Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli italiani, le armi e il petrolio (1969-1974), cit., pp. 126-133. ↑
C. Guarino, Il drammatico esodo dalla Libia nel racconto dei profughi sbarcati, in «Corriere della Sera», 2 agosto 1970. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 502, ora A. Moro, Intervento alla Commissione Affari Esteri della Camera, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.121. ↑
Cfr. il discorso in ACS, AAM, SD, b. 23 f. 503, ora A. Moro, Intervento alla Commissione Esteri del Senato, in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.123. ↑
Moro a Parigi illustra ai «Sei» l’azione italiana per la pace, in «Il Popolo», 14 maggio 1971, ora A. Moro, [Posizione italiana sulla politica estera europea], in Edizione nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, vol. IV, tomo I, Al Ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968-maggio 1973), cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.175. ↑