Indice

Introduzione

Al ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973)

di Guido Formigoni

Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Scritti e Discorsi, Al ministero degli Esteri e all’opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), 2021
Quest'opera è rilasciata con licenza CC BY-NC 4.0
DOI: 10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.intro


L’Aldo Moro del quinquennio 1968-1973, i cui scritti sono raccolti in questo tomo, è una figura che presenta molteplici aspetti inediti. Il politico pugliese assunse infatti un atteggiamento e una posizione quasi contrastanti con molte delle rappresentazioni e delle immagini che l’avevano accompagnato fino al 1968. Dopo aver nei fatti guidato la Dc e il centro-sinistra a un risultato complessivamente non negativo nelle elezioni del maggio di quell’anno, l’autorevole uomo politico abituato per un decennio a ruoli di vertice restò fuori da ogni organigramma per parecchio tempo: tornerà ad assumere un ministero solo un anno dopo, ma in un ruolo particolarmente defilato. Il prudente mediatore, gestore accorto degli equilibri interni al maggior partito di governo, ruppe gli accordi oligarchici precedenti e passò all’opposizione polemicamente, senza paura di assumere un ruolo di minoranza fastidiosa e ammonitrice nella Dc. Il timoroso provinciale non a suo agio con le lingue, con i viaggi aerei e i rapporti internazionali, scelse di acquisire il ministero degli Esteri, iniziando a girare vorticosamente il mondo e costruendosi un ruolo, un’autorevolezza e una dimestichezza diplomatica fino ad allora del tutto impreviste.

Si chiuderà sostanzialmente questo periodo proprio nell’estate del 1973. Moro riprese proprio nella primavera di quell’anno a tessere un accordo di maggioranza nella trama delle relazioni dei vertici della Dc. Il tentativo ebbe successo, venendo ratificato al congresso di giugno con il noto accordo di Palazzo Giustiniani. Egli seguirà quindi il processo di ricostituzione del governo di centro-sinistra, con molta maggior centralità. Acquisirà in questo modo lo slancio per entrare in quello che lui non sapeva ancora essere l’ultimo quinquennio della sua esperienza vitale. Un’ultima stagione in cui svolse ancora il ruolo di tessitore principale della tela politica italiana, fino alla tragica morte.

Moro sembrò in sostanza cambiare volto, e questo pone il tema di come leggere la nuova stagione. In un quadro di progressivo e solido allargamento dell’interesse storiografico attorno alla sua figura, la pubblicazione di questo volume permette quindi di arricchire la nostra lettura e analisi questi anni, che hanno una loro così accentuata peculiarità[1]. Non è facile peraltro interpretarli con sicurezza, anzitutto per una banale ragione documentaria: nonostante lo straordinario arricchimento delle fonti su cui possiamo contare, è ancora indiscutibile che abbiamo sugli anni ’70 molti meno documenti rispetto a quelli sul periodo 1959-1968, che ci hanno permesso di chiarire molti aspetti delle intenzioni e delle scelte del leader democristiano nel periodo precedente. Sugli anni che ci interessano, sono più scarsi soprattutto quei documenti di tipo riservato ed epistolare che permettono di fare meglio luce sulle posizioni pubbliche adottate. Siamo indotti quindi ancora, per diversi aspetti, a ricorrere a ipotesi interpretative dotate di margini congetturali (anche se certamente non del tutto infondate).

La rottura all’interno del partito democristiano

Pur non avendone testimonianza diretta ed esaustiva, è del tutto comprensibile la delusione di Moro per l’andamento post-elettorale. Da presidente del Consiglio di un governo non certo bocciato dagli elettori, con un’affermazione personale addirittura straordinaria di preferenze nel suo collegio e con un risultato del suo partito sostanzialmente lusinghiero (6 deputati e 3 senatori in più rispetto al 1963), egli si trovò in breve emarginato. La ripercussione del pesante risultato negativo dei socialisti uniti si riflesse in un giudizio generale di fallimento per il centro-sinistra, mentre si combinava con le incertezze della segreteria democristiana, da cui era scaturito un accordo tra i maggiorenti dorotei, che già da tempo pensavano a sostituirlo[2]. Egli si trovò in una posizione quasi di scomodo capro espiatorio di un assetto in crisi. Sostituito alla guida del governo da Giovanni Leone, che imbastì un esecutivo monocolore di transizione, egli venne messo ai margini anche dal percorso per la ricostituzione di un nuovo esecutivo di centro-sinistra, con Mariano Rumor che si apprestava ad andare a guidarlo dopo pochi mesi. Possiamo ipotizzare che lo colpisse soprattutto l’interruzione del pur contrastato e dialettico rapporto con Amintore Fanfani, con il quale fino al 1968 aveva in linea di massima tenuto la barra di un comune approccio riformatore[3].

Moro si prese quindi un periodo di silenzio, che durò parecchi mesi. Si astenne rigorosamente dal partecipare al dibattito pubblico (come vedrete in questo volume, non sono stati trovati testi tra giugno e novembre, se non d’occasione), tornò all’insegnamento, meditò addirittura il ritiro dalla politica (come in alcune altre occasioni: già nel 1950, poi ancora nel 1974 o nel 1978). Ci sono testimonianze, tra cui quelle della figlia Agnese, che ci parlano con chiarezza di una fase di distacco critico, ma poi anche di rinnovamento, quasi di un mutamento interiore, in vista di un nuovo rilancio della sua volontà politica[4].

Egli dovette essere comunque impegnato in una riflessione approfondita sui dati essenziali della propria esperienza, condotta per dieci anni in posizione di preminente responsabilità. Non emerse subito un orientamento chiaro, ma una ricerca condotta tra dubbi e incertezze, come traspare da una lettera all’amico e collaboratore Piero Pratesi[5]. Lo vediamo anche da un testo piuttosto tormentato rinvenuto nel suo archivio, qui pubblicato per la prima volta, che preparava le due posizioni pubbliche che assumerà il 21 novembre e poi il 18 gennaio 1969, in sede di consiglio nazionale della Dc. In questo abbozzo, egli difendeva in modo articolato il ruolo e la centralità del suo partito, secondo una visione non neutrale della «natura popolare e democratica della Democrazia Cristiana»[6]. Rilanciava quindi la necessità di chiudere la fase transitoria per riprendere organicamente l’alleanza di centro-sinistra. Iniziava però ad inserire su questo tronco, che potremmo definire tradizionale, alcuni ragionamenti originali. Il primo era una considerazione sugli effetti della contestazione giovanile, che collegava – questo è il punto – ad una critica al sistema politico e alla funzione dei partiti:

[…] il fermento sociale si è approfondito ed allargato, è diventato più critico ed indefinito, è largamente sfuggito a forme di stabile organizzazione, mettendo, tra l’altro, sensibilmente in crisi la funzione rappresentativa dei partiti e degli stessi sindacati e muovendo obiettivamente una critica, se non d’inutilità, almeno d’insufficienza al sistema democratico e parlamentare.

Egli insisteva soprattutto su una sorta di radicalizzazione morale che aveva messo in discussione la lineare logica dello sviluppo precedente, collegata soprattutto all’idea di benessere e libertà. Ne vedeva gli aspetti incoerenti e violenti, ma anche gli spunti innovativi, manifestando quindi la preoccupazione di ricondurre tale dinamica al gioco democratico.

Il secondo tema era la necessità di un rapporto più articolato nelle istituzioni – e in primis ovviamente in parlamento – con la sfida dell’opposizione comunista. Egli riservava comunque parole dure per il Pci, nonostante la recente presa di distanza dal comportamento sovietico a Praga. Ma considerava come l’opposizione godeva di parte del consenso del mondo in movimento, e quindi occorresse un nuovo approccio alla sua capacità di critica e proposta, uscendo dalla mera contrapposizione.

Il punto di caduta di questa rilettura e di questa analisi delle novità storiche fu in prima battuta la decisione «di assumere una posizione autonoma nella organizzazione interna della Democrazia cristiana», comunicata a Rumor e poi manifestata al Consiglio nazionale del partito del 20-22 novembre, staccandosi definitivamente dal gruppo doroteo con cui aveva condiviso un percorso di lunga data, pur magari sempre in una posizione originale[7]. Subito dopo, si aggiunse la decisione di passare all’opposizione interna, polemizzando contro l’accordo che portò Flaminio Piccoli alla segreteria il 19 gennaio del 1969, dopo l’avvio del governo Rumor. Moro sostenne in questa occasione: «ho pensato che si dovesse compiere questa operazione dolorosa, ma feconda, dello scomporre, per ricomporre, dell'abbandonare a poco a poco il vecchio, per permettere al nuovo di nascere». Una scelta collegata ancora alla difesa dell’alleanza di centro-sinistra, cui però voleva aggiungere una «strategia dell’attenzione» verso il Pci, di nuovo tipo. Egli suggeriva cioè di considerarne il ruolo di opposizione come capace di concorrere all’indirizzo del paese «ragionevolmente proponendo, correggendo, richiamando, rappresentando»[8]. Nella direzione Dc disse che dalla «sfida aperta» che egli aveva proposto nei precedenti discorsi, si passava alla prospettazione di «corretti e […] utili rapporti» tra maggioranza e opposizione. Era una chiara e nuova legittimazione del ruolo politico svolto dai comunisti nell’integrare nel sistema i fermenti sessantottini e le proteste operaie[9].

Moro preparò quindi il congresso democristiano di giugno 1969 con una campagna decisa per cambiare la maggioranza interna. L’analisi che portò in giro per il paese era sostanzialmente chiara: occorreva rompere il circolo vizioso tra rischi di degenerazione violenta delle proteste e certezza di una risposta reazionaria a questa radicalizzazione. A Udine disse:

La protesta è comprensibile e può essere, se sincera e sofferta, un fermento vitale dell'ordinamento e del progresso sociale. La violenza invece, che mette in crisi le libere istituzioni e la loro permanente e continua funzione di incanalare, in una linea di evoluzione, le spinte sociali non è mai ammissibile ed utile. […] Proprio chi vuole il nuovo moto ascensionale della società, chi ne intende il profondo ed irriducibile significato, chi non vuole tornare verso i tempi oscuri dell'autoritarismo e della non partecipazione, dev'essere fermissimo nel non aprire la via ad una esperienza rovinosa di violenza, che non ha nulla a che fare con la protesta e la proposta sociale ma scardina il sistema ed offre l'ambiente idoneo ad un riflusso illiberale[10].

Nel discorso pre-congressuale di Milano, invece, concentrò l’attenzione su un analogo problema sul fronte economico: erano comprensibili le rivendicazioni sociali e le richieste di aumenti salariali, ma se queste fossero uscite dai limiti, avrebbero innescato spirali inflazionistiche, contrarie a quello sviluppo equo che era necessario per il paese[11].

Queste prese di posizione hanno avuto varie interpretazioni, che ovviamente trovano le loro origini nelle visioni e nei giudizi dei protagonisti dell’epoca, giungendo a essere riprese nella riflessione successiva di testimoni e storici. Le possiamo raccogliere grosso modo attorno a due poli: da una parte le linee di lettura secondo cui Moro, «ossessionato» dall’avanzata delle sinistre e del comunismo, era ormai rassegnato pessimisticamente a subire questo esito, e riteneva ci si dovesse semplicemente adattare alla linea della storia[12]. Dall’altra parte, si possono enumerare le visioni secondo cui in realtà egli intendeva semplicemente accelerare l’iniziativa per reagire alla crisi, ricompattando la Dc sulla propria sinistra, impedendo la diaspora in corso di molti gruppi giovanili e cattolici conciliari ormai scontenti del riformismo, per «contenere» quindi la riduzione dei consensi al partito e la crescita comunista[13]. Si ricordino in questo senso le riflessioni di Donat-Cattin sul peso di questa svolta morotea nel compattamento della maggioranza di Forze nuove, che ridimensionò fortemente il numero di coloro che uscirono dal partito verso il progetto «laburista» dell’Acpol di Livio Labor[14].

Ci sono elementi e spunti nei discorsi del leader democristiano che possono portare l’analisi in entrambe le direzioni. A mio parere però, ambedue tali prospettive sono insufficienti a rendere il senso delle sue intenzioni e delle sue mosse. I riferimenti ai cambiamenti in corso erano infatti sempre chiaramente collegati da Moro a un’idea principale, che era quella della necessità per la Dc di mutare rotta per interpretare meglio le novità sociali e culturali del periodo. Egli collegava questa richiesta a una lettura di più lungo periodo della società italiana, che vedeva pericolosamente lacerata tra le spinte al cambiamento e le resistenze conservatrici. Non era una novità: la dialettica del centro-sinistra era vissuta continuativamente di queste tensioni. Ma ora la situazione peggiorava, diventava pericolosamente fuori controllo, quasi il pendolo intensificasse il suo moto. A suo parere, quindi, il modo per combattere il rischio di scivolamenti rivoluzionari, e quindi di parallela involuzione reazionaria, che emergevano dall’apparente slavina verso sinistra dell’opinione del paese (ma più in generale del mondo occidentale) non era né quello di assecondare pericolosi velleitarismi, né quello di contrapporsi al cambiamento. Occorreva tornare a interpretare, guidare, correggere, incanalare il nuovo che avanzava, riducendone in questo modo la pericolosità diretta, ma anche gli effetti negativi indiretti. Certamente ai suoi occhi questo non voleva dire abbandonare le certezze: il ruolo centrale della Dc e l’importanza riformista dell’alleanza di centro-sinistra. Ma non bastava semplicemente difendere e stabilizzare questi perni essenziali del sistema: occorreva darne un’interpretazione fortemente rinnovata e quindi adeguata ai «tempi nuovi».

Questo obiettivo Moro iniziò a perseguire, nella consapevolezza di un’azione di minoranza. Con una forza di condizionamento correntizio limitato, utilizzando anche i classici mezzi di dialogo e incontro, di pressione e condizionamento di vertice, potremmo dire, rispetto ai leader del suo partito. Ma non temendo la marginalizzazione possibile. La sfida posta al congresso del 1969 infatti, nonostante la conquista da parte del fronte di sinistra interna di circa un terzo del partito, con la sua leadership di fatto, non ebbe successo. Il controllo dei dorotei – del resto sempre più a loro volta divisi – fu salvato dalle scelte che egli interpretò come timorose e arretrate di Fanfani e Taviani (su cui aveva invece contato come figure di potenziale mediazione centrale nel partito).

Peraltro, nell’incombente nuova crisi di governo dovuta alle conseguenze della nuova scissione socialista, fu approvata la riconferma della inizialmente stentata segreteria Piccoli con una direzione unitaria: il partito si compattava forzatamente e Moro non si mostrò insensibile alle rinnovate esigenze di stabilità. È stato convincentemente già osservato che egli mise sostanzialmente un freno agli aspetti più innovativi del suo discorso[15].

L’assunzione degli Esteri

In questo contesto delicato, l’esperienza di Moro al ministero degli Esteri doveva divenire importante, anche per allargare la consapevolezza del contesto internazionale delle vicende italiane. Essa fu lunga: quasi tre anni iniziali (6 agosto 1969 -26 giugno del 1972), poi ancora un anno e mezzo dopo l’interruzione legata alla parentesi del governo Andreotti (8 luglio 1973 - 26 novembre 1974).

Tale esperienza iniziò peraltro in modo piuttosto occasionale e contingente. Da critico interno alla Dc, Moro aveva rifiutato di entrare nel governo quadripartito Rumor di fine 1968. Nell’estate del 1969, invece, decise invece di non negarsi all’offerta dello stesso presidente del Consiglio di entrare in quello che si profilava come un nuovo monocolore democristiano d’emergenza. Il clima era quello di un rischio, più forte che in passato, di affossamento dell’esperimento di centro-sinistra, anche se Moro ottenne l’accordo dei socialisti per dare al dicastero così faticosamente nato il senso politico di un orientamento programmatico di continuità con il precedente corso, che giustificava la fiducia dei quattro partiti, accompagnato dalla dichiarazione che si sarebbe lavorato per ricostituire le basi dell’ormai precaria alleanza. In questo senso, egli valutò la scelta come una sorta di tregua politica all’interno del proprio partito, per non accelerare la crisi del sistema. Il che non gli impediva di continuare ad esprimere un orientamento critico nella Dc, contro la segreteria Piccoli e poi quella di Arnaldo Forlani, eletto il 9 novembre del 1969[16].

La scelta personale degli Esteri, in tale contesto, non era affatto casuale: la radicalità della crisi, come egli aveva ben compreso, si giocava sul crinale tra evoluzione interna e collegamenti o interdipendenze internazionali, per cui questo delicato terreno era una sponda importantissima per tentare di costruire una risposta politica alle difficoltà del paese[17]. Del resto, egli aveva iniziato a costruire questa visione più ampia già negli anni di guida del governo[18]. In un certo senso, proprio per queste condizioni, il ruolo ministeriale di Moro si esprimeva in una posizione molto personale, quasi da battitore libero, vissuta peraltro «con impegno e grande passione», annoterà nel «memoriale» del carcere brigatista molti anni dopo. Precisando di ricordare nei viaggi da ministro che lo tenevano lontano da Roma «l’unico modo decente perché non si determinassero sgradevoli incontri in Consiglio dei ministri, o nelle riunioni nella direzione del partito, tra me e i nuovi dirigenti»[19]. Non a caso, egli non sembrò vivere quel ruolo con spiccata collegialità: per quanto ne sappiamo, gli scambi con i colleghi del governo furono ridotti al minimo (i verbali del Consiglio dei ministri registrano rarissimi dibattiti su queste materie)[20]. Per converso, abbiamo testimonianza di un inserimento cordiale nel dialogo con la struttura diplomatica del ministero, dove erano importanti in quel momento figure non necessariamente ispirate alla sua stessa visione, ma accomunate da una stima reciproca significativa[21].

Le intenzioni di Moro ministro – anche sulla base di una crescente letteratura[22] – appaiono abbastanza facili da delineare. La sua esercitata capacità di lettura delle situazioni e dei dinamismi internazionali lo aveva ormai condotto a tracciare una rappresentazione piuttosto consolidata sulla situazione globale, e in essa sul ruolo dell’Italia, le sue mete e le sue possibilità. Si trattava di una posizione che intendeva continuare a sviluppare il perno della solidarietà atlantica come elemento di permanente equilibrio della politica internazionale, capace peraltro di evolversi gradualmente grazie al percorso della «grande distensione», fino a ipotizzare – come Moro sosteneva fin dal 1967 – un approdo di superamento progressivo dei blocchi militari in Europa. La formula usata in questo periodo sarebbe stata rivelatrice: «Il problema che oggi si pone alle grandi come alle minori Potenze è, dunque, di non perdere un equilibrio che garantisce la pace ed insieme di preparare con la propria politica un assetto diverso delle relazioni internazionali»[23]. Su questo problema pesavano naturalmente anche i riflessi dell’incertezza economica e dell’instabilità politica interna sui rapporti con gli Stati Uniti (e con i paesi maggiori dell’Europa), come ormai è stato messo in luce da una letteratura diffusa[24].

In questo orizzonte, si situava una linea tesa a valorizzare il protagonismo del percorso di integrazione europea nella Cee: egli colse la stagione post-gollista dopo la conferenza dell’Aja del 1969 come opportunità per allargare alla Gran Bretagna la compagine comunitaria e giungere quindi a giocare un ruolo sempre più comune nelle organizzazioni multilaterali, fino a presentare ambiziosamente l’Europa occidentale come «il quarto polo della politica mondiale»[25], dotata di una «funzione riequilibratrice» nella politica globale[26]. Erano formule ambiziose, che si sarebbero verificate di lì a poco ad esempio sul terreno della discussione per la possibile e progettata conferenza paneuropea. Tale approccio si completava con la coscienza della cruciale necessità di coltivare la sponda dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, per realizzare una partnership pacifica e duratura con i paesi emergenti di quell’area, o almeno evitare i contraccolpi delle loro crisi striscianti. E tale politica si allargava naturalmente a una considerazione più generale della sfida allora proveniente agli assetti globali dal nuovo protagonismo delle convergenze nate tra i paesi del Terzo Mondo. Moro espose piuttosto organicamente una linea di questo tipo nei suoi tre ricchi discorsi pronunciati consecutivamente all’Assemblea dell’Onu nelle sessioni autunnali del 1969, 1970 e 1971[27].

In questo orizzonte metodologico e concettuale sistemico, egli riconosceva che l’Italia non era una «grande potenza», essendo il nostro paese consapevole di non avere «le chiavi della pace e della guerra», ma sosteneva che essa potesse e dovesse comunque svolgere un ruolo non secondario nell’evoluzione dello scenario mondiale, proprio nella misura in cui una certa «democratizzazione» dell’ordine internazionale stava permettendo di valorizzare anche le voci di Stati intermedi. Per svolgere questo ruolo, naturalmente, il paese avrebbe dovuto trovare un equilibrio interno tra ordine e progresso[28]. Nel nesso tra queste due prospettive stava una sottolineatura non scontata, proprio in quegli anni travagliati: anzi, possiamo dire che proprio nella preoccupazione per questa capacità dell’Italia di essere all’altezza dei problemi nuovi posti dai tempi si collocava un elemento di apprensione e via via sempre più palesemente di drammaticità nella proposta politica dello statista pugliese.

Se queste erano in sintesi le mete e le intenzioni, appare meno facile e lineare (almeno allo stato della documentazione e degli studi) attribuire con precisione la responsabilità di snodi specifici e la titolarità di idee, proposte e azioni, tra il responsabile del dicastero e i tecnici protagonisti della diplomazia italiana. In generale, il primato teoricamente accordato alle iniziative multilaterali si scontrò con le difficoltà sistemiche di quella fase storica in cui il già problematico ordine bipolare si indeboliva, per cui nella pratica il governo accentuò piuttosto la moltiplicazione di relazioni bilaterali: come un acuto osservatore contemporaneo ebbe occasione di notare, quasi nell’intenzione di «soffocare» lentamente il bipolarismo[29]. Su queste mosse e queste scelte pratiche, al di là dell’impostazione politica generale, abbiamo già molti studi, ma si può e si deve ancora molto ricercare, anche in attesa che si renda disponibile una documentazione diplomatica più copiosa e diretta.

Sulla visione d’assieme del ruolo svolto da Moro nella politica estera italiana, è pesato per anni un giudizio piuttosto forte sulla debolezza del paese in questo decennio, condizionato pesantemente dalla crisi economica e dalla fragilità degli assetti politici, che si sarebbe riflessa in un’azione debole e velleitaria[30]. Recentemente, mi pare che questo approccio si stia riequilibrando con considerazioni sull’attento realismo e sulla lungimiranza nell’approccio dinamico alla distensione e nella scelta di alcune prospettive euro-mediterranee messe a fuoco (anche e soprattutto) da Moro, in un rapporto di continuità con gli assi fondamentali di riferimento della politica estera italiana già sperimentati in precedenza e sviluppati in seguito: era un sistema più instabile e difficile da gestire, quello che si stava delineando, proprio per un paese intermedio come l’Italia, ma il tentativo di trovare nuove strade per gestire tale situazione non fu disprezzabile[31].

Aprono un originale filone di riflessione su questo aspetto della vicenda morotea le osservazioni recenti di Silvio Pons, secondo cui gli orientamenti del titolare della Farnesina su moltissime questioni erano «il risultato di una competizione e una interazione con i comunisti, più di quanto gli stessi protagonisti fossero disposti ad ammettere»[32]. Si indentifica cioè in questo modo un terreno di avvicinamento dialettico tra i due mondi cultural-politici del tutto diverso da quelli normalmente privilegiati.

L’eversione e la «strategia della tensione»

L’offensiva di quello che ho avuto modo di definire come un composito «partito dell’immobilismo»[33] contro l’evoluzione democratica del paese stava intanto accelerandosi, proprio in risposta e come reazione allo scomposto ma vitale muoversi della società italiana nel senso della critica antiautoritaria ed egualitaria degli assetti stabiliti. Una frangia di queste resistenze non disdegnò la via della violenza per intervenire in tali processi. Si pensi al clima tetro della cosiddetta «strategia della tensione», alle difficoltà del centro-sinistra anche dopo che formalmente l’alleanza venne ricostituita a seguito di una nuova durissima crisi di governo nella primavera del 1970, ai tentativi golpisti più o meno articolati e alla radicalizzazione della violenza dei gruppi estremisti di destra che preparava e giustificava un rigurgito violento anche da parte di alcuni eredi dei movimenti sociali sessantottini[34].

La bomba di Piazza Fontana fu certamente il punto di svolta in questa direzione: era l’improvviso emergere alla luce di una situazione rischiosissima, tutta da decifrare. Oggi sappiamo che i gruppuscoli neofascisti cercavano di creare un’ondata di sdegno e risentimento reazionario da sfruttare politicamente. La direzione di questo sforzo restava peraltro confusa e indeterminata. Abbiamo sempre più la certezza che lo snodo della crisi, dopo la possibile proclamazione di uno «stato d’emergenza» o di un simile irrigidimento emergenziale, fosse la precipitazione dell’ipotesi – che peraltro circolava già negli ambienti politici da qualche settimana – di sciogliere anticipatamente le camere. Accelerare le decisioni e radicalizzare lo scontro, in uno scenario di preoccupazioni e tensioni, significava preparare un passaggio elettorale convulso, che sfruttando le paure diffuse orientasse la crisi a destra. Questo punto resta cruciale, sia che si interpreti la strategia sottostante alle bombe come mirata a provocare una svolta fortemente conservatrice se non autoritaria, sia che in modo più sottile si pensi all’ipotesi di leggere tutta l’operazione come finalizzata a una stabilizzazione moderata di una società inquieta[35]. L’ipotesi di chiudere la legislatura però venne sconfitta, certamente a causa della coagulazione di un fronte contrario, oltre che probabilmente per il tentennamento degli ipotetici protagonisti che dovevano intestarsi politicamente la mossa in questione (interpretare le singole mosse di figure come Saragat, Fanfani e Rumor – che ricoprivano le più alte cariche dello Stato – in quelle settimane non è tuttora facile).

Sotto questo aspetto, non abbiamo elementi documentari solidissimi per descrivere precisamente il ruolo giocato da Moro in questa direzione, ma esso appare importante, da molte tracce e da molte testimonianze. Se non altro notiamo l’opposizione netta e precoce alle ipotesi di anticipare le elezioni («la più dannosa delle scorciatoie», la definì in un discorso letto da un suo fidato collaboratore come Corrado Belci, già prima della bomba milanese)[36]. Dopo la tragedia di piazza Fontana, Moro chiese con decisione di non aprire una crisi al buio, ma contemporaneamente lavorò per evitare ogni slittamento e rinvio nella ricerca del già previsto rinnovo dell’accordo quadripartito, collegando il tutto alla necessità di tornare allo «spirito del centro-sinistra originario»[37].

Non abbiamo conferme definitive dell’ipotesi, da tempo avanzata, secondo cui lo schieramento politico contrario alla forzatura istituzionale imponesse un compromesso a Saragat (un incontro-chiave tra Moro e il presidente sarebbe avvenuto il 23 dicembre): la ricostituzione di un esecutivo di centro-sinistra, in cambio di una sostanziale acquiescenza a insabbiare la ricerca della verità sulla «pista nera», cioè l’ipotesi che si stava facendo strada come consapevolezza via via più solida dopo le prime accuse agli anarchici e a Valpreda[38]. Sappiamo che Moro si impegnò a difendere la reputazione del presidente Saragat, come ministro degli Esteri, rispetto alle polemiche di stampa che lo indicavano coinvolto nella strategia reazionaria[39]. Sappiamo però anche che divenne proprio in questo frangente una bestia nera della stampa reazionaria e dei neofascisti[40].

Egli fece quindi di tutto per far ripartire l’accordo di centro-sinistra, come si espresse in direzione in febbraio, parlando del reincarico a Rumor: «Se riusciremo nell’impresa, senza mancare alla sensibilità che ci era stata propria e ci aveva condotto alla scelta di centro-sinistra, senza alterare il patrimonio politico accumulato in questi dieci anni, avremo dato anche un determinante contributo ad arrestare un pericoloso processo di radicalizzazione della lotta politica in Italia»[41]. La successiva disponibilità di Moro a compiere egli stesso nel marzo 1970 un tentativo (fallito) di ricostituire un governo a quattro di centro-sinistra fu sintomo della sua determinazione a stabilizzare il sistema in quella direzione. E questo nonostante il perdurante problema di un accordo labile nella Dc – dove la segreteria Forlani aveva solo leggermente reso più flessibili le precedenti rigidità – e le incomprensioni politiche reiterate con Saragat[42].

Si nascondeva dietro a questo passaggio – lo ricordiamo – anche l’eco pesante dell’estenuante vicenda della legge sul divorzio, con le pressioni ecclesiastiche sulla Dc perché operasse per impedirne l’approvazione finale, che in quel frangente si sposavano alle proposte di interrompere traumaticamente la legislatura. Vicende che quindi complicavano gli assetti democratici e che avrebbero creato più di una incomprensione e di una difficoltà per Moro sulla sponda vaticana. Il leader pugliese, nella sua prudenza, non si espresse mai in pubblico sulla questione, anche dopo l’approvazione della legge alla fine del 1970, ma è piuttosto chiaro ne fosse molto preoccupato e che la vivesse come un ulteriore fardello di quest’epoca difficile[43].

In pubblico, Moro fu peraltro singolarmente parco – lungo tutto il quinquennio in esame – anche nei riferimenti alla questione della violenza stragista. Non sappiamo se questo si possa ascrivere a quel contesto citato di un ipotetico compromesso raggiunto attorno a una sfocata versione degli eventi, o forse a una volontà di non discutere di questioni incerte e problematiche sulle forme, cause e matrici di tali fatti. Risulta anche da questa raccolta più ricca di testi che egli non usasse mai la formula «strategia della tensione», che probabilmente venne coniata – come ha messo in luce recentemente Francesco Biscione – in un contesto giornalistico italiano (con echi in Gran Bretagna), in cui era piuttosto centrale il calco e la contrapposizione rispetto all’espressione morotea «strategia dell’attenzione»[44]. Sarà solo in occasione della prigionia brigatista che la riprenderà, mettendola per iscritto nelle risposte all’interrogatorio subito[45].

Già prima delle bombe, però, ad esempio nel discorso di Mestre nel marzo del 1969, Moro aveva messo in guardia da ipotesi di reazione autoritaria:

[…] di fronte ad una instancabile e confusa rivendicazione, di fronte ad una universale e quasi istituzionalizzata insoddisfazione, che intralcia un’ardita, ma ordinata strategia delle riforme, sembra delinearsi una condizione della società italiana, che potrebbe essere controllata solo con il più rigoroso regime autoritario. Dobbiamo stornare questo grave pericolo.

Occorreva quindi decisione contro le velleità rivoluzionarie, ma anche «un’eguale fermezza nel respingere il condizionamento di forze reazionarie od eversive»[46]. Moro cominciò quindi a parlare sempre più frequentemente in pubblico di un rischio di involuzioni autoritarie, o almeno di «una soluzione di destra dei problemi nazionali» che sarebbe «una sciagurata e sterile alternativa ad una crisi della democrazia italiana, che partiti e popolo devono ad ogni costo scongiurare». Ma in parallelo egli confermava e precisava il discorso sui rapporti a sinistra, polemizzando contro ogni slittamento semantico della propria proposta di una «strategia dell’attenzione»: «Scambiare la dialettica maggioranza-opposizioni con una intesa aperta od occulta con il Partito Comunista è un errore o un inganno». In questo orizzonte, allargava ancora il discorso al nesso società-politica:

Occorre che le forze politiche facciano un passo verso una società inquieta, comprendendola, ma senza alcuna abdicazione ai propri compiti di guida intelligente ed aperta. Occorre che le forze sociali, senza logorarsi in un frazionamento senza limiti ed in chiusure corporative incompatibili con la libertà di tutti, facciano a loro volta un passo verso il potere, per condizionarlo certo, per parteciparvi certo, ma con una sufficiente consapevolezza delle esigenze dell’insieme, del fatto che a tutti tocca di essere in qualche misura non solo pungolo ma guida[47].

Come sempre, il riferimento agli schemi politici e alle formule di governo si collegava perciò ai temi del governo sostanziale del paese. A Bari in campagna elettorale per le amministrative, qualche settimana dopo, Moro rilanciò il metodo della programmazione di fronte all’emergere di richieste faticose da governare. Il resoconto dell’intervento recita:

La forza dei sentimenti sospinge a dare una risposta positiva, ma la ragione c’impegna a compiere un essenziale lavoro di selezione e di raccordo e ad indicare delle priorità. Non si tratta, ha proseguito l’on. Moro, di rinunziare a niente, ma di volere tutto, ordinatamente, nei tempi giusti e nei modi giusti. È questo il modo per non rinunciare. […] È solo nel quadro della programmazione, e cioè fuori del tumultuoso accavallarsi di rivendicazioni frammentarie ed incompatibili, che può essere concepita una autentica politica di riforme, quale certamente il Paese chiede. Ciò comporta un’assunzione di responsabilità dello Stato nello scegliere la sua politica e nel fare quel che ad esso compete per la tutela del bene comune. Ma ciò comporta altresì che singoli e gruppi, condizionati dalla politica dello Stato, illuminati circa ogni riflesso del proprio comportamento, chiamati a partecipare alle scelte decisive, assumano a loro volta un atteggiamento coerente e tale da non rendere irraggiungibili gli obiettivi, di riforma e di sviluppo, che sono indicati nel Programma[48].

Al momento della nuova crisi del governo Rumor, in luglio, egli sottolineò subito le responsabilità della Dc nel tenere la barra ferma sulla ricostituzione del centro-sinistra[49]. Dopo tale crisi, risolta con la costituzione di un governo Colombo, ancora precariamente quadripartito, Moro sembrò però allentare la pressione politica sul proprio partito. Si è parlato relativamente al periodo 1970-‘71 di una sua «afasia»[50], con un approccio che avrebbe sfiorato il pessimismo dimissionario. In effetti non risultano interventi in questa raccolta che riguardino temi politici interni italiani dall’ottobre 1970 al maggio 1971. Ci sono peraltro segnali nella documentazione di una sua disponibilità – parallela al silenzio pubblico – a riprendere qualche contatto con Fanfani per una gestione collegiale degli equilibri politici nella Dc, ma ancora su tracce molto labili e iniziali[51]. In qualche modo, peraltro, la sua concentrazione sulla politica estera poteva essere collegata alla minimale soddisfazione per aver contribuito a tutelare l’equilibrio democratico, non solo alla mancata volontà di perseguire un’ipotesi di correzione di rotta nel suo partito.

La lotta contro il neo-centrismo e la vicenda presidenziale

Nella campagna per le amministrative parziali di giugno del 1971, Moro riprese invece a intervenire con discorsi ancora centrati sul nesso tra novità delle attese sociali e necessità di una responsabile sintesi politica, che evitasse un «bipartitismo delle posizioni estreme»[52]. Confermava con forza l’avvertimento sul netto rifiuto della violenza (si pensi che era ormai emersa in pubblico notizia del tentato golpe Borghese). E insisteva: «la Democrazia Cristiana deve preservare il proprio volto e la propria immagine, e cioè la propria peculiare identità, di partito democratico, popolare, antifascista»[53]. Si trattava di una formula che precedentemente non era stata consueta nel suo linguaggio (anche se l’aveva utilizzata non a caso una prima volta nella crisi del 1960), e che invece doveva essere ripetuta all’infinito da qui in avanti.

L’estate del 1971 sembrava delineare una nuova svolta a destra della segreteria Forlani, in rapporto con le pressioni dell’opinione pubblica e l’avanzata missina nel voto amministrativo. In questo contesto, Moro riprese la battaglia politica. Egli mostrò precocemente di nutrire la preoccupazione che attorno alla segreteria doroteo-fanfaniana si creasse un assetto interno al partito funzionale alla correzione delle alleanze di governo. Nel consiglio nazionale del 25-30 settembre, Forlani alzò il tiro della critica al Psi e propose una clausola di sbarramento del 15% per eleggere i consiglieri nazionali della Dc. Vi si contrappose una forte polemica di Moro, in uno dei suoi discorsi più duri su ambedue le questioni: egli interpretava queste mosse come un tentativo di isolarlo e indebolirlo nel partito, chiudendolo a sinistra con la sola corrente di Forze Nuove, e temeva che questo passaggio interno al partito avrebbe preparato una svolta di centro-destra nel sistema politico.

Era il tema del possibile «blocco d’ordine», che si affacciava con forza:

Nulla sarebbe infatti più innaturale, più dannoso, mi si passi l’espressione, più impossibile, sul terreno storico, sul terreno degli ideali, che condurre la Democrazia Cristiana, privata della sua funzione vitale, ad essere componente effimera e dissolventesi di un blocco d’ordine, che immagini di risolvere i gravi problemi del Paese in termini diversi da quelli della libertà e del progresso[54].

L’illusione di recuperare voti a destra, secondo Moro avrebbe potuto invece causare una frana elettorale a sinistra e un peggioramento ulteriore delle condizioni del paese, come disse riservatamente a un gruppo di amici della sua corrente[55].

La vicenda delle elezioni presidenziali si inserì in questo snodo politico. In sintesi, quello che oggi sappiamo molto meglio è che Moro non cercò inizialmente la candidatura del suo partito, ma a fronte del fallimento delle candidature contrapposte di Fanfani e De Martino e dell’esasperazione crescente dei rapporti nel centro-sinistra, sarebbe stato disponibile a farsi eleggere per contribuire al consolidamento degli assetti democratici, considerata la delicatezza del ruolo del Quirinale (come sperimentato da molto tempo, ma soprattutto negli ultimi anni, tra Segni e Saragat). A proposito del suo atteggiamento, qualche settimana dopo, parlando a Foggia, evocherà un colloquio con Giovanni XXIII che gli aveva spiegato il proprio approccio, sintetizzato nell’espressione: «Nulla chiedere, nulla rifiutare»[56].

Di fronte allo stallo della prima soluzione individuata, per la resistenza di un gruppo di parlamentari Dc e dei partiti laici a sostenere la candidatura Fanfani, il segretario Forlani si convinse di poterlo candidare, mentre il Psi e il Pci fecero sapere che avrebbero potuto votarlo, ma un asse a lui ostile manovrò per condurre a contrapporgli una candidatura gradita piuttosto agli alleati centristi laici minori di Pli e Psdi, che – dopo un ulteriore tentativo fallito di rilanciare Fanfani – fu quella di Giovanni Leone. Una votazione conclusiva dei gruppi parlamentari democristiani lo vide soccombere per pochi voti. Ed egli rifiutò di prendere in considerazione l’idea di farsi votare contro il suo partito. L’elezione finale di Leone al ventitreesimo scrutinio, alla vigilia di Natale, con una risicata maggioranza, aperta sostanzialmente a destra (i liberali e i missini surrogarono l’opposizione persistente di un manipolo di elettori delle sinistre democristiane), fu un ulteriore segno di ridislocazione a destra della Dc, ammorbidita peraltro alla figura «notabiliare», istituzionale e non provocatoria del candidato scelto[57].

Il contraccolpo diretto della nuova manifestazione di fragilità dell’intesa di centro-sinistra fu la crisi del governo Colombo, che portò inesorabilmente alle prime elezioni anticipate della storia della Repubblica, che la Dc si apprestò ad amministrare con un governo elettorale monocolore di Andreotti: una scelta fortemente criticata da Moro[58]. Rispetto alla campagna elettorale, impostata esplicitamente dalla segreteria Forlani sul tema degli «opposti estremismi», egli rilanciò ulteriormente la propria critica alla svolta neocentrista[59], facendo di nuovo balenare i timori di una deriva a destra:

State attenti – ha detto l’on. Moro rivolgendosi a quelli che ne hanno la tentazione – che andando a destra si rischia la guerra civile. La pace politica di cui abbiamo goduto per oltre vent’anni è un bene essenziale per l’Italia […] Il voto dato a destra nell’illusione di piegare la Dc in quella direzione, è un voto dato a vuoto perché noi non saremo mai componente di un blocco d’ordine»[60].

In quella campagna elettorale, peraltro, anch’egli si acconciò in qualche occasione ad accennare un discorso contro gli «opposti estremismi» (senza citare il centro-sinistra…), mentre insistette come sempre sull’unità e centralità della Dc, recuperando gli slogan coniati dalla segreteria[61]. Ma restava forte e ripetuto, collegato a questi accenti, il suo monito sulla differenza della Dc dalla destra: «Il nostro anticomunismo non è dunque certo, e tale non è mai stato, quello della destra reazionaria»[62].

Le elezioni del 7-8 maggio 1972 videro risultati in parziale controtendenza, se valutati sullo sfondo dei trend elettorali precedenti: gli spostamenti risultarono di dimensioni ancora una volta molto più contenute rispetto a molte attese o timori. Si consolidava ancora leggermente il Pci, mentre sia i due partiti socialisti (di nuovo divisi) che la Dc restavano sostanzialmente fermi attorno ai voti ottenuti nel 1968. Gli unici fortemente soddisfatti nel centro-sinistra erano i repubblicani di La Malfa. Raddoppiavano invece i voti missini, giungendo all’8,6%, ma senza sfondare decisamente al centro (parzialmente, infatti, si trattò dell’incorporazione dei voti monarchici e parzialmente l’avanzata avvenne a scapito dei liberali, che persero 500.000 voti).

La situazione tornava ad essere quindi sul piano parlamentare aperta a diverse soluzioni. Forlani sarebbe anche stato d’accordo sull’ipotesi di un monocolore democristiano di decantazione, ma la maggioranza dorotea (pur con un Rumor perplesso) votò per tentare un governo neo-centrista con i liberali, attaccandosi alla indisponibilità socialista a ripristinare immediatamente il centro-sinistra. Alla Direzione Dc del 14 giugno Moro si pronunciò contro la svolta che si profilava: «non possiamo dire che le condizioni di crisi della nostra vita politica siano tutte da addebitare ai socialisti. Vi sono anche le difficoltà obiettive, vi sono eccessi critici e fatti dissociativi nella maggioranza, vi sono incertezze ed assenze della stessa Democrazia Cristiana»[63]. Al Consiglio nazionale del 6 agosto attaccò con decisione: «la soluzione adottata è un atto di imprudenza ed il principio di una svolta involutiva». Il timore era di polarizzare il paese: «Da qui il rischio dell’irrigidimento o, come si usa dire, della radicalizzazione nella vita politica, con la tendenza ad un sostanziale appiattimento e confusione tra i partiti nell’ambito di una scelta rigorosa a sinistra o a destra»[64]. La polemica sul punto doveva continuare, estendendosi anche nella coerente scelta di restar fuori dal governo Andreotti-Malagodi, come del resto pressoché tutte le sinistre democristiane.

La linea inaugurata in questo frangente continuò per parecchi mesi. Moro lo disse a Bari in occasione del congresso provinciale, in una seduta peraltro piuttosto tesa e financo drammatica:

Quale può essere in mancanza di questa iniziativa, difficile eppure affascinante, l’alternativa di reggimento politico nella situazione reale del nostro Paese? Può essere solo quella della contrapposizione frontale, dell’urto di blocco contro blocco. In tali circostanze la D.C. sarebbe snaturata, non più partito cioè democratico, popolare, antifascista, ma coacervo di forze di resistenza contro il nuovo, amalgama intriso di mediocrità e spirito di conservazione[65].

La preparazione dell’accordo di Palazzo Giustiniani e del congresso del 1973

La nuova pausa forzata dalle responsabilità di governo portò Moro a rilanciare una propria vocazione di commentatore politico, che non era mai svanita del tutto. Sono molti i temi che toccò, in un’organica collaborazione iniziata con «Il Giorno», oltre che con interviste a tutto campo, rilasciate ad organi di stampa italiani e stranieri, tornando ad esprimersi anche sulla stampa cattolica, dove da parecchio tempo il suo nome non compariva. Nel frattempo, tornato un semplice deputato, lavorava alla Commissione Esteri della Camera.

Il tema cruciale restò per parecchi mesi lo stesso: occorreva ripensare all’errore compiuto, dal punto di vista di Moro. Occorreva ripristinare una formula più ampia di cooperazione, meno angusta, più aperta al futuro, cogliendo i segni di una lenta revisione delle posizioni socialiste. Al Psi egli chiedeva autonomia dal Pci e senso delle compatibilità di governo: niente di più. Al proprio partito, Moro chiedeva una revisione approfondita: ipotesi che poco per volta avrebbe fatto breccia, almeno in una parte dei suoi interlocutori, nonostante provenisse da «un notabile prestigioso e autorevole situato alla periferia politica del partito»[66]. Si inaugurava cioè un percorso – tipico degli ultimi anni della sua vita – in cui egli riusciva a tornare a influire sugli avvenimenti, nonostante la drammaticità crescente del rapporto tra le componenti essenziali della sua proposta: l’innovazione sociale e politica, la stabilità democratica, l’equilibrio democristiano, il bilanciamento delle pressioni immobilistiche.

Una tormentata intervista a «La Stampa», nell’ottobre del 1972, fece il punto della situazione dal suo punto di vista: «È un momento di crisi per tutti, di decadenza – si corregge – di stanchezza». Registrava poi la fine di «alcuni anni di vitalità forse disordinata» nel paese, a fronte di una ripresa di un «sentimento di destra conseguenza di qualche nostra incapacità e di stati d’animo che riaffiorano». Di contro, il problema del rilancio del centro-sinistra era solo quello di «ritrovare la sua autentica ed originaria impostazione ed anche, mi consenta, l’entusiasmo, la fiducia in se stessi ed un grande senso di solidarietà»[67].

Nella richiesta di una svolta politica, come sempre, le valutazioni sugli schieramenti tra i partiti andavano insieme a riflessioni sul rapporto tra governo e paese. Normalmente, nella dialettica politica si usava da diversi fronti criticare Moro per il suo presunto approccio «politicista» che avrebbe anteposto le questioni di schieramento a quelle del programma riformistico o dell’azione concreta di governo. Era proprio la situazione difficile del paese a chiedere una revisione politica, sosteneva invece Moro (vale la pena ripotare una citazione piuttosto completa):

La situazione del Paese, certamente difficile, lo richiede. Il rischio di un arretramento, di un declassamento, di una sorta di obiettiva dissociazione dall’Europa, è tale che impone un esame di coscienza nel senso di quell’accettazione della logica propria del Governo, sulla quale da tempo non mi sono stancato di richiamare l’attenzione. […] È innegabile, certo, che il grande balzo in avanti della nostra società non è riuscito ad assestarsi in conquiste significative e stabili. La materia incandescente non è stata adeguatamente contenuta negli schemi politici ed istituzionali. Occorre riformare ed insieme creare un ordine nelle riforme. […] Bisogna, salvaguardando un modo umano di vita, trovare il senso della misura, le ragioni di compatibilità, la linea di uno sviluppo armonico e continuo. Ma è questo appunto il disegno della programmazione economica e sociale. […] Ma se questo è il problema, di un serio esame di coscienza cioè, al fine di salvare il nostro sistema democratico e le prospettive avvenire del Paese, se è in questo senso, e non meccanicamente, che si parla di una tregua per riprendere slancio in un cammino che non è finito, possono mai ritenersi insignificanti le formule di Governo, gli schieramenti politici?[68]

Più disteso l’intervento al convegno della sua corrente, che merita un’attenzione particolare. La situazione che si era creata nella dinamica politica era stata frutto di una scelta della Dc, non di una condizione obbligata, disse. E quindi si poteva cambiare con una altrettanto responsabile scelta diversa. Moro polemizzò quindi contro una concezione restrittiva della centralità, evocando De Gasperi: «ricordiamoci come De Gasperi avesse qualificato in quei tempi, di fronte ad un partito comunista di tipo staliniano, di fronte sostanzialmente ad una sua alleanza in atto con il Partito socialista, la Democrazia Cristiana come centro, certamente, che muove verso sinistra». La polarizzazione era sempre definita come esiziale sia per la Dc, che più in generale per la politica democratica italiana: «Avremmo un irrigidimento delle posizioni […] Avremmo una Democrazia Cristiana omogeneizzata, assimilata, diventata fatalmente, in qualche misura, destra»[69].

Nell’allargare lo sguardo alla società italiana, Moro in questi mesi tornò spesso sulla questione del coinvolgimento dei giovani nella vita politica e nella democrazia: «Affezionare i giovani alla politica (una politica che sia degna di loro) può essere un grande compito oggi per la classe dirigente tutta intera, al Governo come all’opposizione»[70]. Collegata a questo ragionamento, c’era la sollecitazione a una presa in carico della questione scolastica, che andava razionalizzata dopo i cicli di riforma già effettuati. Il tema stava nelle sue corde fin da giovane, data la vocazione mai dismessa all’insegnamento. Ma Moro si misurò anche con la provocazione di Ivan Illich sulla «descolarizzazione», sostenendo: «più che descolarizzare la società, noi dobbiamo impegnarci a descolarizzare la scuola. In altre parole dobbiamo impegnarci a togliere ad essa tutto quello che c'è di cristallizzato, di meschino, di rigorosamente istituzionale, realizzando, il che è possibile, un rinnovato e libero rapporto docente-discente»[71]. Di fronte a episodi violenti della contestazione ribadiva come la soluzione vera non potesse che essere la politicizzazione democratica del confronto e dello scontro di idee: «Una dialettica democratica tra autentiche correnti di opinione, tanto nobile quanto i giovani possono desiderarla, libera perciò dalle meschinità che ci appesantiscono ancora ogni giorno, è forse capace di ispirare fiducia, d’incoraggiare, di muovere, di costituire, insomma, un’alternativa reale all’esplosione, sempre rovinosa, della violenza»[72].

Seguiva sempre anche le vicende internazionali e quelle europee con attenzione, identificando addirittura in un vertice dei Nove (appena allargata la Cee) un’occasione da sfruttare per un salto di qualità «costituente» del processo integrativo[73]. In seguito, salutava un passo avanti in direzione della pace, registrando i nuovi accordi sulla situazione tedesca in Europa e un maggiore equilibrio globale, che impediva alla legge della forza di essere considerata dominante[74]. Esultò, con «commozione», per l’annuncio del cessate-il-fuoco in Vietnam: era la fine della tragedia di un popolo e di un conflitto che era apparso «simbolo proprio della inammissibilità della guerra», quindi anche «fine di un incubo nella vita morale di ciascuno di noi»: era un commento che evidenziava la profondità del trauma vissuto attorno a quegli eventi[75]. Il nesso tra situazione interna e politica estera era ricorrente: «Non si tratta di volere astrattamente l’Europa, ma prima di tutto di europeizzare l’Italia, perché essa vi possa stare efficacemente e dignitosamente dentro, che è il solo modo di starci»[76].

La costruzione paziente di un’uscita dall’impasse del neo-centrismo sembrò raggiungere qualche risultato nella primavera del 1973, con la fissazione della data del congresso a lungo richiesto da Moro e con le prime correzioni di rotta dei capi democristiani, a partire da Fanfani. Il leader pugliese si permetteva quindi di riprendere il suo ragionamento[77]. Lo collegava puntualmente alla crisi del paese – evidenziata nella vicenda dello scivolamento fuori dal serpente monetario europeo e nella severa svalutazione resasi necessaria – per ribadire come l’acquisizione di una prospettiva politica di movimento si collegasse alla possibilità di guidare l’economia «sostituendo a schemi di sviluppo spontaneo ed arbitrario altri invece non casuali e quindi razionali e giusti, nei quali ogni elemento sia collocato ad un posto appropriato e sia assicurato il vantaggio della collettività e delle componenti relativamente più deboli come le forze di lavoro»[78]. La programmazione implicava riforme, proprio per affrontare il carattere strutturale della crisi. Non c’era del resto alternativa: «Se non saremo capaci di tenere saldamente in mano il Paese con gli strumenti della democrazia, l’iniziativa passerà nelle mani di chi crede soltanto nella violenza. E la usa»[79].

La sfida avrebbe assunto nell’ultimo quinquennio della sua vita caratteri sempre più drammatici. Di fronte alle crescenti difficoltà degli equilibri economico-sociali del paese, Moro tornò infatti a ricoprire una posizione di governo, cercando di salvare gli accordi di centro-sinistra. La sua collocazione negli equilibri della Dc non era solidissima, nella nuova maggioranza di «unanimità guidata»[80] uscita dal congresso del 1973. Mentre la stessa Dc si stava avvitando in una serie di difficoltà (dall’emersione di ripetuti scandali alla sconfitta nel referendum sul divorzio), che aumentavano un certo discredito nell’opinione pubblica, fino a far parlare di una «questione democristiana».

Moro tornò per un anno abbondante agli Esteri e poi guidò ancora per un anno e mezzo un governo, che nonostante tutto cercò di imprimere un approccio riformatore ai problemi italiani. Avrebbe elaborato in questi anni una visione della necessaria «solidarietà nazionale», che tornò al centro della scena di fronte alla crescita del voto comunista e alle difficoltà ulteriori delle intese di governo, questa volta collegate soprattutto alla posizione del Psi. Dovette prendere quindi atto della conclusione della parabola del centro-sinistra, uscendovi in avanti con l’elaborazione sulla «terza fase» della democrazia italiana. Ancora una volta, egli avrebbe esercitato una leadership effettiva sull’evoluzione del sistema, anche se in un contesto di responsabilità formale modesta all’interno ella Dc, aprendo una difficile strada sperimentale. Non entriamo qui ovviamente nei dettagli di questa vicenda, se non per ricollegarla all’esigenza – ripetutamente espressa nel periodo a cui si riferisce questo volume – di trovare una strada che consolidasse la democrazia, tra le pressioni sociali e le resistenze tradizionali radicate nella politica e nella società italiana. Il rischio della violenza era sempre presente in questo orizzonte, come si sarebbe dimostrato anche nella tragedia finale della vita di Moro.

Note

  1. Oltre alla precisa rassegna degli studi citati da E. Palumbo nella sua Nota storico-critica, in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.note, rinvio qui per queste vicende biografiche e politiche al mio Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 229-243 (con tutti i riferimenti alla bibliografia precedente). Ma cfr. anche la ricostruzione parallela di M. Mastrogregori, Moro. La biografia politica del democristiano più celebre e discusso nella storia della Repubblica, Roma, Salerno Editrice, 2016, pp. 162-177.

  2. Cfr. Archivio storico del Senato della Repubblica, Fondi acquisiti dall'Archivio Storico, Amintore Fanfani, Sezione IV (Diari), Unità 24, 28 gennaio 1967.

  3. Cenni utili a comprendere questo allontanamento ivi, 16 settembre, 21 novembre, 4 dicembre 1968 e 26 giugno 1969.

  4. Cfr. A.[gnese] Moro, Un uomo così. Ricordando mio padre, 2. ed., Milano, Rizzoli, 2011, pp. 53-54.

  5. Cit. in A.C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 191.

  6. A. Moro, [Le nuove dimensioni della libertà umana], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.005

  7. Id., [Tempi nuovi per l’Italia: discorso al Consiglio nazionale della Dc], 21 giugno 1968, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.006

  8. Id., [Scomporre, per ricomporre: discorso al Consiglio nazionale della Dc], 18 gennaio 1969, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.007

  9. Citazione in Id., [Una strategia dell’attenzione: discorso alla Direzione centrale della Dc], 21 febbraio 1969, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.009; per un approfondimento, cfr. G.M. Ceci, Moro e il Pci. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Roma, Carocci, 2013, pp. 91 ss., e G. Baget Bozzo e G. Tassani, Aldo Moro. Il politico nella crisi 1962-1973, Firenze, Sansoni, 1983, pp. 324-337.

  10. A. Moro, [Discorso a Udine in vista del congresso], 13 aprile 1969, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.018

  11. Id., [Discorso a Milano in vista del congresso], 3 giugno 1969, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.034

  12. Cfr. R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 212 ss., e H. Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, tr. it, Milano, SugarCo, 1980, p. 730. All’epoca, era esattamente quanto Rumor o Saragat dissero all'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Graham Anderson Martin (rispettivamente, Martin a William Pierce Rogers in National Archives, Department of State Central Files (RG59), Subject-Numeric Files, 1970-1973, POL IT-US, b.2396, 13 luglio 1970, e Martin a Rogers, ivi, POL 12 IT, b. 2392, 8 gennaio 1971).

  13. Cfr. M. Mastrogregori, Moro, cit., p. 171, sulla linea di alcune riflessioni affidate da Nenni ai suoi diari; ma cfr. ad es., per una linea di lettura coeva, il Memorandum di conversazione tra Egidio Ortona e Graham Anderson Martin in National Archives, Department of State Central Files, Subject-Numeric Files, 1967-1969, POL 1 IT, b. 2232, 18 agosto 1969.

  14. Cfr. P. Torresani, La mia Dc. Intervista a Donat-Cattin, Firenze, Vallecchi, 1980, pp. 25-27; nuove testimonianze anche in M. Aimetti, Carlo Donat-Cattin. La vita e le idee di un democristiano scomodo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021, pp. 141-149.

  15. Cfr. G.M. Ceci, Moro e il Pci, cit., pp. 143 ss.

  16. Tra le ricostruzioni ormai classiche, cfr. soprattutto P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, in Storia dell'Italia contemporanea, Vol. III, Torino, Utet, 1995, pp. 422-430.

  17. Ha riconosciuto la radicalità di questo tentativo (pur evidenziando un certo divario tra leadership intellettuale e isolamento politico) F. De Felice in Nazione e crisi: le linee di frattura, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo et al., Vol. III, Tomo I, L'Italia nella crisi mondiale: l'ultimo ventennio, Torino, Einaudi, 1996, pp. 43-45.

  18. Su questa stagione, cfr. in particolare il volume di F. Imperato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza. La politica estera del centro-sinistra 1963-68, Bari, Progedit, 2011.

  19. Il memoriale di Aldo Moro. 1978. Edizione critica, coordinamento di M. Di Sivo, a cura di F.M. Biscione, Roma, Direzione generale Archivi, De Luca Editori d'Arte, 2019, p. 318.

  20. Qui occorre però ricordare che la tendenza generale di questo periodo sembrava quella di verbalizzazioni più succinte e asciutte, rispetto al passato: non sempre si riportava il dibattito che aveva prodotto le decisioni poi formalizzate.

  21. Cfr. ad. es. L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera italiana (1963-1978), in Fra diplomazia e petrolio. Aldo Moro e la politica italiana in Medio Oriente (1963-1978), a cura di F. Imperato, R. Milano e L. Monzali, Bari, Cacucci, 2018, pp. 18-19; ma si vedano anche le testimonianze di Antonio Armellini e Andrea Negrotto di Cambiaso in Aldo Moro nella dimensione internazionale. Dalla memoria alla storia, a cura di A. Alfonsi, Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 25-39 e 137-161.

  22. Qualche elemento di ulteriore dettaglio in G. Formigoni, Moro ministro degli Esteri, in Aldo Moro nella storia della Repubblica, a cura di N. Antonetti, Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 137 ss.

  23. A. Moro, Intervento alla Commissione Esteri del Senato, 13 ottobre 1970, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.123

  24. Cfr. U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Torino, Einaudi, 2009; V. Bosco, L’amministrazione Nixon e l’Italia. Tra distensione europea e crisi mediterranee (1968-1975), Roma, Eurilink, 2009; L. Cominelli, L’Italia sotto tutela. Stati Uniti, Europa e crisi italiana degli anni Settanta, Firenze, Le Monnier, 2014, e L. Guarna, Richard Nixon e i partiti politici italiani (1969-1972), Milano, Mondadori Università, 2015.

  25. A. Moro, [Replica ai parlamentari nel dibattito alla Camera dei Deputati], 22 ottobre 1969, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.056; cfr. L. Tosi, Aldo Moro e l’Europa. Dimensione umana, integrazione e distensione, in In dialogo. La diplomazia multilaterale italiana negli anni della guerra fredda, a cura di Id., Padova, Cedam, 2013, pp. 356-371.

  26. A. Moro, [Discorso in Senato in risposta alle interpellanze sulla politica estera], 12 marzo 1971, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.157

  27. Cfr. Id., [Discorso alla XXIV sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite], 8 ottobre 1969, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.050; Id., [Discorso alla sessione commemorativa del XXV anniversario delle Nazioni Unite], 22 ottobre 1970, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.125, e Id., [Discorso alla XXVI sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite], 6 ottobre 1971, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.212

  28. Cfr. Id., [Discorso a Bari in vista delle amministrative], 3 giugno 1970, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.100

  29. R. Mosca, La politica estera italiana, in Annuario di politica internazionale (1967-1971), a cura dell’Ispi, Milano, Dedalo, 1972, p. 394.

  30. Basti far riferimento qui ad alcuni profili d’assieme come C.M. Santoro, La politica estera di una media potenza. L’Italia dall’Unità ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 209; S. Romano, Guida alla politica estera italiana. Dal crollo del fascismo al crollo del comunismo, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 126 ss., (dove si intitola un capitolo al «declino di una media potenza»), e A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 171 ss.

  31. Ad es. L. Nuti, La politica estera italiana negli anni della distensione. Una riflessione, in Aldo Moro nella dimensione internazionale, a cura di A. Alfonsi, cit., pp. 60-62.

  32. S. Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel mondo del Novecento, Torino, Einaudi, 2021, p. 215.

  33. La formula indica un insieme trasversale di forze che intendeva la stabilità italiana nell’alleanza occidentale come ancoraggio per esorcizzare ogni mutamento politico e soprattutto ogni evoluzione della distribuzione del potere sociale: cfr. il mio Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 106 ss.

  34. Cfr. ivi, pp. 373 ss.

  35. In quest’ultima direzione A. Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Milano, Mondadori, 2019, pp. 167-190.

  36. A. Moro, Discorso di Corrado Belci per conto di Moro a Trieste, 6 ottobre 1969, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.049

  37. Id., Intervento alla direzione della Dc, febbraio 1970, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.074; cfr. G.M. Ceci, Moro e il Pci, cit., pp. 173-180.

  38. Cfr. F. e G. Bellini, Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fontana, 2. ed., a cura di P. Cucchiarelli, Milano, Selene, 2005, pp. 118-120, e M. Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione, 1965-1974, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 204-206.

  39. Cfr. M. Mastrogregori, Moro, cit., p. 175.

  40. Cfr. G. Panvini, L’immagine di Aldo Moro nell’estrema destra, 1960-1978, in Una vita, un Paese. Aldo Moro e l’Italia del Novecento, a cura di R. Moro e D. Mezzana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, p. 792; cfr. anche P. Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, 2. ed., Milano, Ponte alle Grazie, 2012, p. 450.

  41. A. Moro, Intervento alla direzione della Dc, cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.074

  42. Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 254-256.

  43. In questa raccolta l’unico riferimento sarà nel discorso «segreto» ai suoi compagni di corrente del luglio 1971, che trapelerà poi in pubblico, con riferimenti agli errori di gestione democristiani («Da parte dell’attuale DC si è lasciato che l’intero mondo cattolico italiano corresse a cuor leggero su una strada lungo la quale si può frantumare la stessa forza residua del nostro partito e si può frantumare la democrazia»). A. Moro, [Il "discorso segreto" di Moro], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.204. La vicenda intera è ancora difficile da ricostruire: cfr. per ora G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 61 e i riferimenti importanti in G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977, a cura di P. Scoppola, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 61-73.

  44. F.M. Biscione, Strategia della tensione. Genesi e destino di un’espressione, in «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», a. XVI, n.50 (dicembre 2020), p.167. Nel dibattito su questi temi, è da notare anche la collocazione della locuzione sullo sfondo internazionale («tensione» come contrapposta a «distensione») che propone A. Giannuli in La strategia della tensione. Servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018.

  45. Cfr. Il memoriale di Aldo Moro, cit., p. 257.

  46. A. Moro, [Discorso a Mestre in vista del congresso], 16 marzo 1969, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.011

  47. Id., [Discorsi a Udine e a Bologna in vista delle amministrative], 31 maggio 1970, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.098

  48. Id., [Discorso a Bari in vista delle amministrative], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.100

  49. Cfr. Id., Le nostre responsabilità, 18 luglio 1970, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.113

  50. G. Baget Bozzo e G. Tassani, Aldo Moro, cit., p. 453.

  51. Cfr. Archivio storico del Senato della Repubblica, Fondi acquisiti dall'Archivio Storico, Amintore Fanfani, Sezione IV (Diari), Unità 27, 22 dicembre 1970 (Moro gli avrebbe detto: «c’è solo da agire per rallentare la marcia verso la catastrofe»), poi ivi, Unità 28, 7 e 8 gennaio 1971 (ipotesi di un'intesa che comprendesse anche un ritorno di Moro alla segreteria della Dc) e 6 febbraio 1971 (l’ipotesi svanisce per troppe opposizioni). Cfr. la conferma di P. Meucci in Ettore Bernabei, il primato della politica. La storia segreta della Dc nei dirai di un protagonista, Venezia, Marsilio, 2021, pp. 142-144.

  52. A. Moro, [Discorso a Bari in vista delle elezioni comunali], 6 giugno 1971, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.189

  53. Id., [Discorso a Sassari in vista delle elezioni regionali], 8 giugno 1969, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.036, ma poi ancora Id., Chiarezza politica e assunzione di responsabilità, 5 luglio 1971, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.198

  54. Id., [Un partito popolare, democratico e antifascista: intervento al Consiglio nazionale della Dc], 26 settembre 1971, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.209, ma cfr. anche Id., Esigenze del momento, 31 luglio 1971, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.207

  55. Così soprattutto in Id., [Il “discorso segreto” di Moro], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.204

  56. Id., [Discorso a Foggia], 14 febbraio 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.238

  57. Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 264-266.

  58. Cfr. A. Moro, [Discorso a Foggia], cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.238, e Id., [Dichiarazione sulle elezioni anticipate], 10 febbraio 1972, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.236

  59. Cfr. Id., [Discorsi sulla politica estera in Friuli-Venezia Giulia in vista delle elezioni], 22 aprile, 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.255, ma anche Id., [Discorso a Padova in vista delle elezioni], 7 aprile 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.248, Id., [Discorsi in Calabria in vista delle elezioni], 14 aprile 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.249, e Id., [DIscorso a Lecco in vista delle elezioni], 21 aprile 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.253

  60. Id., [Discorso alla Prefettura di Bari in vista delle elezioni], 4 maggio 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.264

  61. Cfr. Id., [Discorso a Foggia in vista delle elezioni], 3 maggio 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.262, e Id., [Discorso a Bari in vista delle elezioni], 4 maggio 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.263

  62. Id., [Discorsi a Mestre e a Brescia in vista delle elezioni], 23 aprile 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.256

  63. Id., [No al ritorno del centrismo: intervento alla Direzione della Dc], 14 giugno 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.274

  64. Id., [Il rischio di uno scivolamento a destra: intervento al Consiglio nazionale della Dc], 6 agosto 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.277

  65. Id., [Intervento al Congresso provinciale della Dc di Bari], 28 ottobre 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.284.

  66. M. Mastrogregori, Moro, cit., p. 208.

  67. A. Moro, [Intervista a «La Stampa»], 22 ottobre 1972, Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.283. C. Guerzoni in Aldo Moro, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 127-128, racconta di un cesello di correzioni che fece «molto soffrire» il giornalista.

  68. A. Moro, Non chiudere gli occhi al domani, 9 novembre 1972, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Al Ministero degli Esteri e all'opposizione nel partito (giugno 1968 – maggio 1973), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di E. Palumbo, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.286

  69. Id., [Intervento al convegno degli “Amici di Moro” a Roma], 1° dicembre 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.288

  70. Id., I giovani e la politica, 19 dicembre 1972, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.290; ma egli tornò sul tema anche in Id., [Intervista a «Famiglia cristiana»], 7 gennaio 1973, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.292, e con un gruppo giovanile pugliese in Id., [Discorsi a Foggia sulla scuola e sul congresso], 26 marzo 1973, ibid., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.309

  71. Id., [Intervento al convegno dei giovani democristiani a Bari], 11 marzo 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.305

  72. Id., Impazienza giustificata, 8 febbraio 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.299

  73. Cfr. Id., Il vertice di Parigi costituente europea, 15 ottobre 1972, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.281

  74. Cfr. Id., La pace viene avanti, 17 gennaio 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.295

  75. Id, Nuova coscienza, 25 gennaio 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.297

  76. Id., [Discorsi a Napoli e a Salerno in vista del congresso], 20 marzo 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.306

  77. Id., [Cogliere l'anima del Paese: intervento al Consiglio nazionale della Dc], 10 febbraio 1973,ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.300

  78. Id., Per uscire dalla crisi, 25 febbraio 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.301

  79. Id., [Intervista a «L’Espresso»], 15 aprile 1973, ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.1.315

  80. La formula, sempre ascritta a Moro (G. Baget Bozzo e G. Tassani, Aldo Moro cit., p. 539), non trova però riscontro nei suoi discorsi, qui pubblicati.