Il quinquennio che va dal giugno del 1973 al marzo del 1978 fu uno dei periodi più densi della vita politica italiana e della vita personale di Aldo Moro. In questa fase, lo statista pugliese, oltre a rimanere uno dei leader indiscussi della Dc, fu ministro degli Esteri (dal luglio 1973 al novembre 1974), presidente del Consiglio (dal novembre 1974 al luglio 1976), presidente del Consiglio europeo (da luglio a dicembre 1975) e, a partire dall’ottobre 1976, presidente del Consiglio nazionale della Dc. La politica nazionale e gli incarichi istituzionali non esaurirono peraltro tutta la sua attività. A partire dalla seconda metà del 1976, quando vennero meno gli impegni di governo, egli infatti riprese una collaborazione stabile con il quotidiano milanese «Il Giorno». Inoltre, non fece mai mancare la propria vicinanza e il proprio contributo alla vita politica locale nella sua Puglia. Ciò si tradusse in una sua presenza piuttosto assidua agli appuntamenti elettorali, ai momenti di rilievo della vita locale e ad alcune riunioni di partito. Ma il Mezzogiorno fu presente soprattutto nei suoi discorsi e nel tentativo di cercare soluzioni concrete ad alcuni problemi atavici delle regioni del Sud attraverso l’azione politica e di governo.
In generale, com’è noto, questa fase fu contrassegnata dal succedersi di una serie di eventi e processi internazionali di grandissima rilevanza, segnando quella che è stata definita una stagione «piuttosto creativa della politica internazionale»[1]. Si affermarono nuovi orientamenti dovuti anche alla crisi complessiva del ruolo americano nel mondo, in seguito al ritiro dalla guerra del Vietnam e alla decisione, presa nel 1971, di sospendere la convertibilità del dollaro in oro. Questi fatti rappresentarono una svolta «epocale» nella storia internazionale e, per l’Europa, – come ha scritto Agostino Giovagnoli – una «frattura profonda»[2]. Da ciò avrebbe tratto ulteriore sollecitazione la cooperazione monetaria a livello europeo, che, ancorché molto lentamente, sarebbe sfociata, prima nel «serpente monetario europeo», poi nel Sistema monetario europeo (Sme). Dal punto di vista delle dinamiche della guerra fredda, la metà degli anni Settanta vide il raggiungimento dei risultati più significativi del processo di distensione internazionale, sia fra Usa e Urss, sia a livello europeo. Con la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), aperta nel 1973 ad Helsinki, fu avviato un dialogo fra Est e Ovest su alcuni temi cruciali, come la pace, la cooperazione, la giustizia e i diritti umani. In quel frangente, l’Italia – che fu rappresentata proprio da Moro, prima in qualità di ministro degli Esteri e, in seguito, come presidente del Consiglio europeo –, era «prudentemente ma decisamente» per l’apertura dei confini su un terreno di cooperazione e di maggiori contatti e scambi fra le due Europe[3]. Nel contempo, si verificarono alcuni eventi circoscritti e crisi locali, il cui impatto avrebbe però assunto una dimensione internazionale, toccando anche l’Italia: il golpe cileno – che avrebbe sollecitato il segretario comunista Enrico Berlinguer a formulare alla Dc la proposta di «compromesso storico» –, la questione dei dissidenti in Urss, che condizionò il dibattito sui diritti umani anche in ambito Csce, e soprattutto la nuova crisi del Medioriente, scatenata dalla guerra dello Yom Kippur, da cui sarebbe derivata la scelta dei paesi arabi dell’Opec di restringere la produzione del petrolio e far alzare i prezzi delle esportazioni. Questa decisione avrebbe avuto un impatto enorme sulle economie dei paesi occidentali, specialmente su quelli quasi interamente dipendenti dalle forniture dei paesi arabi, come l’Italia.
Il nuovo mandato di Moro, prima come ministro degli Esteri, poi come presidente del Consiglio, fu quindi profondamente segnato da questi eventi e mutamenti internazionali, che del resto avrebbero avuto una grande influenza sulle vicende politiche ed economiche dell’Italia. Dal punto di vista politico, i nuovi equilibri internazionali si intrecciarono con un quadro nazionale profondamente instabile, che avrebbe condotto a nuove “sperimentazioni” nelle formule di governo. Per gestire la crisi politica, proprio Moro propose convintamente, prima, di tornare al centro-sinistra e, in un secondo momento, di tentare la strada del tutto inedita della collaborazione di governo con il Pci. Dal punto di vista economico, la crisi petrolifera precipitò l’Italia in un circolo vizioso caratterizzato dal rincorrersi tra aumenti dei prezzi – mai l’Italia aveva sperimentato in tempo di pace un’inflazione di simili proporzioni[4] – e stagnazione (la compresenza dei due fenomeni venne definita «stagflazione»), che avrebbero poi avuto delle ripercussioni sul piano sociale[5].
Occuparsi degli scritti e dei discorsi di quest’ultimo Moro, del Moro alla vigilia del suo rapimento e della sua uccisione, pone allo studioso problemi del tutto particolari. La sua figura è sempre stata al centro di un vivacissimo dibattito politico, culturale e storiografico, sviluppatosi già a partire dagli anni Sessanta e che è giunto fino ai nostri giorni. Fin dalla sua scomparsa, però, è stato il «caso Moro» ad attrarre l’attenzione prevalente, con una tendenza molto forte sia degli studiosi sia soprattutto della pubblicistica a legare strettamente, anche se in diverse chiavi interpretative, il sequestro con la sua attività politica[6]. Ciò ha finito per mettere per lungo tempo in ombra la ricchezza del complesso dell’esperienza umana, politica, civile e intellettuale vissuta dal politico pugliese prima di questa drammatica vicenda. «È come se – ha scritto Renato Moro nel 2011– l’epilogo della vicenda umana dello statista avesse “fagocitato” la figura e la personalità di Moro, finendo per porre su uno sfondo appannato e indistinto il resto»[7]. Se è certamente «impossibile parlare di Aldo Moro e della storia d’Italia senza ricordare la sua tragica fine», la massa vastissima della pubblicistica sul «caso Moro» ha avuto, come ha osservato di recente Agostino Giovagnoli, effetti deformanti sull’immagine dello statista, «oscurando invece di illuminare la verità umana, politica e storica di questa figura cruciale nella storia dell’Italia repubblicana»[8]. Nel dibattito pubblico e politico e in una parte del confronto storiografico e culturale in effetti per circa un trentennio ha prevalso «la tendenza a leggere la vicenda di Moro non a partire dal suo inizio, ma dalla sua fine, come se quest’ultima fosse la chiave rivelatrice di tutto»[9]. Anche uno dei principali biografi di Moro, Guido Formigoni ha notato che il sequestro e l’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse hanno fatto sì che quei cinquantacinque giorni siano sembrati contare più dei sessantadue anni precedenti[10]. Se questo effetto “fagocitante” esercitato dal “caso Moro” appare evidente nella riflessione e nella produzione memorialistica e storiografica sull’intera esperienza politica e intellettuale di Moro, essa lo è ancora di più se si guarda alle analisi che sono state elaborate in relazione all’ultima fase della sua vita. Ciò è stato possibile, non soltanto per ovvie ragioni di vicinanza temporale con il dramma del sequestro, ma soprattutto perché, come si è accennato, il rapimento è stato, fin dai giorni in cui Moro era nelle mani delle Br, direttamente collegato alla linea politica morotea degli ultimi anni, e in particolare al suo atteggiamento di apertura nei confronti del Pci[11].
L’azione politica di Moro in questa fase e, in particolare, l’atteggiamento da lui tenuto nei confronti del Pci sono stati oggetto privilegiato di attenzione nel dibattito politico e culturale e, in un secondo momento, storiografico, sin dagli anni Settanta. Questo dibattito si è tradotto in numerose letture, valutazioni, ipotesi, immagini che hanno registrato una straordinaria vitalità nel corso degli anni e hanno finito per sedimentarsi presso molti e importanti settori dell’opinione pubblica[12].
Subito dopo la sua morte, la vicenda del sequestro venne messa in relazione proprio alla strategia del confronto con il Pci e alla realizzazione dei governi di solidarietà nazionale di cui egli era ritenuto il principale artefice. E questo dibattito avvenuto “a caldo” ha continuato a esercitare nel corso degli anni una decisiva influenza, giungendo anche a condizionare il lavoro degli storici.
Nel clima di crescente protesta sociale e dell’erompere della «questione democristiana», erano già stati gli intellettuali i primi a formulare alcune delle letture che avrebbero avuto una certa fortuna nel confronto prima pubblico e poi scientifico. Nella sua denuncia del «drammatico vuoto di potere» sul «Corriere della sera», Pier Paolo Pasolini nel 1975 ne attribuiva la responsabilità alla Dc, la quale, a sua detta, per «conservare comunque il potere», aveva coniato un linguaggio nuovo, ma «incomprensibile». L’emblema di questo governo di «maschere» che parlavano un linguaggio «incomprensibile come il latino», gli appariva proprio Aldo Moro, che però gli sembrava nel contempo il meno implicato nelle «cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 ad oggi»[13]. Una visione più articolata venne elaborata tre anni dopo da Leonardo Sciascia, nel suo l’affaire Moro, pubblicato poco dopo l’epilogo del sequestro del presidente del Consiglio nazionale della Dc. Sciascia in effetti strutturò in via definitiva l’immagine – già utilizzata per definire l’azione morotea nel contesto dei governi di centro-sinistra e che avrebbe avuto molta fortuna nella pubblicistica – del Moro «gattopardesco», ossia dell’uomo del potere trasformista, del «politicante: vigile accorto, calcolatore», con la capacità di «disperdere il nuovo nel vecchio, di usare ogni strumento per servire regole antiche»[14]. Moro, secondo lo scrittore siciliano, aveva «una visione delle forze, e cioè delle debolezze che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che un uomo politico abbia avuto». E proprio in ciò stava la sua peculiarità: «nel conoscere le debolezze e nell’avere adottato una strategia che le alimentasse dando al tempo stesso, a chi quelle debolezze portava, l’illusione che si fossero mutate in forza». E in questa sua strategia, secondo lo scrittore siciliano, convergevano due esperienze, «ataviche e personali: il cattolicesimo italiano e quella versione, nella più cruda e feroce quotidianità, del cattolicesimo italiano che è la vita sociale (cioè asociale) del meridione d’Italia»[15]. Un’altra lettura che cominciò a diffondersi in quel periodo e che si sarebbe sedimentata ben presto nel dibattito pubblico, ma nata questa volta nell’ambito del cattolicesimo democratico e in una parte della cultura comunista, era quella che vedeva invece in Moro un lucido tessitore di rinnovamento, specialmente in funzione di un incontro con il Pci. Questa immagine, che sarebbe stata al centro anche di una parte del dibattito storiografico, vide in Franco Rodano uno dei principali promotori[16] e in Eugenio Scalfari uno dei principali propugnatori, specialmente a seguito della pubblicazione della cosiddetta «intervista postuma», nella quale Moro avrebbe prefigurato al direttore di «Repubblica»lo scenario di un possibile ingresso del Pci al governo e quindi, come terza fase, quella dell’alternanza di governo[17].
Già negli anni Settanta e soprattutto nel decennio successivo, sono poi apparse le prime biografie che tratteggiavano brevi profili del leader democristiano, spesso però condizionati dalle passioni politiche dell’epoca. Benché esse abbiano perlopiù proposto letture generali, se ne traggono alcune interpretazioni anche sulla fase 1973-1978, che in parte riprendevano quelle emerse dal dibattito pubblico allora incandescente. Nel 1975, Gino Pallotta, giornalista e notista politico per diversi giornali indipendenti di sinistra, aveva fatto qualche cenno al rinnovato confronto allora in corso con il Pci inaugurato proprio da Moro. Facendosi alcune domande in relazione ai possibili sviluppi della politica italiana e alla luce della crisi politica (e della crisi del «potere dc»), aveva osservato che solo «uomini di frontiera» come Moro potevano essere in grado di gestirla[18]. Aniello Coppola, giornalista comunista di area ingraiana e futuro direttore di «Paese Sera» (incarico che ricoprì dal 1977 al 1980), l’anno successivo aveva dato invece una lettura piuttosto netta della strategia morotea verso il Pci allora in corso. Il dialogo con i comunisti, a suo avviso, era «una scelta obbligata dalla gravità della crisi», cui la Dc – scriveva Coppola – si adattava «come chi è costretto a fare di necessità virtù, ma escludendo ogni ipotesi di ingresso del PCI nella maggioranza»[19]. Mentre riconosceva a Moro un grande realismo e una «grande maestria nel tessere relazioni tra le forze politiche rispettando ogni peculiarità», Coppola lo riteneva al contempo tra i responsabili (forse il maggiore) dei più gravi fenomeni degenerativi della crisi italiana[20]. Il «nuovo moroteismo» degli anni Settanta, secondo il giornalista comunista, aveva infatti perduto «l’originaria ambizione riformistica e ammodernatrice e ormai si propone[va] di offrire una intelaiatura e una metodologia per contenere all’interno di una dinamica evolutiva processi pur dotati di potenzialità laceranti»[21]. Nel 1980, e quindi dopo la morte dello statista democristiano, veniva pubblicato il libro del docente universitario, «fervidamente cattolico», Eugenio Cutolo, per una casa editrice come la Teti[22]. Benché fosse ai limiti del ritratto agiografico, il profilo tracciato da Cutolo metteva in luce per la prima volta alcuni tratti dell’esperienza politica di Moro facendo riferimento anche ai suoi stessi scritti e discorsi e dedicando ampie considerazioni al significato del “caso Moro”. Per quanto riguarda la sua azione politica, mentre gli attribuiva l’«arditissimo» disegno dell’apertura a sinistra, volto a convogliare i socialisti verso l’allargata area democratica e a riscattare così una gran parte del proletariato dall’influenza del Partito comunista[23], l’autore non esprimeva un giudizio chiaro sull’esperienza della solidarietà nazionale, anche se teneva a sottolineare che il ruolo ricoperto da Aldo Moro, particolarmente nei suoi ultimi anni di vita politica, difficilmente sarebbe potuto essere assunto da altre figure. Agli altri uomini politici, secondo Cutolo, mancavano infatti quella «particolare sapienza di indagine e di metodo, quella fantasia, quella immaginazione, quella intuizione, quell’estro, per così dire, che erano e sono stati propri del grande pugliese»[24].
A distanza di qualche anno il giornalista di area socialista ed ex direttore de «Il Giorno»e de «il Messaggero»,Italo Pietra, ripropose invece l’immagine del Moro gattopardesco, attribuendo in primis a lui la «strategia trentennale di mettere il vino nuovo negli otri vecchi» volta a mantenere il potere intatto alla Dc[25]. Una strategia che aveva tenuto «sull’uscio» i comunisti – «li tiene in prova, li tiene – scriveva – in mezzo al guado» –, specialmente con la formula della solidarietà nazionale, che a Pietra appariva niente più che una delle tante «operazioni destinate gattopardescamente a cambiare nella misura strettamente necessaria per lasciare le cose com’erano»[26]. Nel 1985, Antonio Rossano, già capocronista alla «Gazzetta del Mezzogiorno», firmava un altro profilo biografico di Moro che, in modo inedito, illuminava il suo impegno politico in Puglia e l’evoluzione delle sue riflessioni sul problema del Mezzogiorno. Riguardo al suo rapporto con la Puglia, Rossano constatava che, se, da un lato, lo statista democristiano aveva avuto un rapporto controverso con il partito e la politica locale, dall’altro, egli era molto amato dai cittadini pugliesi, anche perché «la gente lo capiva»: certo, scriveva Rossano, nei suoi discorsi «al martello preferiva il cesello», ma il giudizio sulla «presunta astrusità dei discorsi di Moro» non poteva essere assolutamente condiviso[27]. Per quanto concerne l’ultima fase, Rossano per la verità si asteneva dall’esprimere valutazioni sulla linea politica morotea, anche se non mancava di sottolineare che, nonostante Moro avesse compreso che le trasformazioni sociali in atto richiedevano una risposta politica nuova e diversa dal centro-sinistra, di fatto la sua azione di governo e il suo insistere sulla «continuità» della Dc inducevano a collocarlo fra «i moderati, sia pure con frequenti lampi di intelligente intuizione per il “nuovo”»[28].
Accanto a queste letture presenti nella pubblicistica, ne emersero delle altre – positive in questo caso – nell’ambito del cattolicesimo democratico. Tra gli estimatori della politica morotea, uno storico legato all’area cattolico-democratica come Pietro Scoppola faceva risalire direttamente proprio a Moro l’origine della linea della «solidarietà nazionale», intravvedendone sviluppi di ampio respiro per l’evoluzione della democrazia italiana[29]. Anche secondo Roberto Ruffilli, lo statista democristiano doveva essere visto come l’uomo che aveva avuto un ruolo decisivo per il consolidamento della democrazia italiana, con il superamento della “conventio ad excludendum” nei confronti del Pci. L’obiettivo che Moro intravvedeva nella «terza fase», a detta di Ruffilli, era quindi duplice: nel breve termine, si trattava di superare l’emergenza, coinvolgendo il Pci e le forze intermedie nel dare una risposta comune alle sfide della società (e cioè l’accordo parlamentare ed eventualmente governativo); nel lungo periodo, l’obiettivo era quello di stabilizzare una democrazia pluralistica, con l’inserimento delle masse nella vita dello Stato[30]. In quegli anni anche il presidente della Corte costituzionale, Leopoldo Elia, molto vicino a Moro, scrisse diversi contributi che riguardavano in particolare il pensiero politico-istituzionale dello statista pugliese, dedicando alcune riflessioni anche all’ultima fase. Secondo Elia, Moro aveva perseguito la democratizzazione sempre più piena dello stato italiano attraverso l’allargamento della base di governo con la formula del centro-sinistra e, in un secondo momento, avviando un confronto con l’opposizione che tendeva a ridurre la distanza ideologica tra le forze politiche. A suo avviso, proprio «il disegno della grande governabilità come progressiva conquista del consenso di massa alle istituzioni statuali (rese sempre più democratiche nel loro funzionamento)» sottraeva la politica di Moro «alle accuse di neotrasformismo» e gli conferiva la dignità di vero statista[31].
Nella storiografia degli anni Ottanta e Novanta che si è occupata della ricostruzione complessiva dell’Italia repubblicana o dell’intera vicenda nazionale unitaria, il rapporto con i comunisti ha continuato a rappresentare una delle questioni principali attorno alla quale si è consumato il lungo dibattito politico e culturale sul Moro dell’ultima fase. L’analisi condotta da Renato Moro sui numerosi contributi pubblicati soprattutto negli anni Novanta non fa che confermarlo[32]. Il giudizio diffuso e condiviso era che Aldo Moro – e ciò avrebbe spiegato anche la sua tragica fine – fosse non solo l’esponente democristiano più aperto nei confronti delle forze politiche e sociali di sinistra, ma il vero e proprio «tessitore del “compromesso storico”»[33], il vero regista politico e l’architetto della solidarietà nazionale[34]. L’identificazione tra Moro e la politica del «compromesso storico» era infatti implicita sia nelle letture dei detrattori che in quelle dei sostenitori di quest’ultima: i primi individuarono in Moro l’artefice di una nefasta apertura ai comunisti, mentre per i secondi egli rappresentava il simbolo dell’allargamento democratico della democrazia italiana a nuove forze popolari e quindi un martire che aveva pagato con la vita la sua scelta di campo. Influenzata com’era dalle immagini sedimentate nel dibattito politico e culturale, la maggioranza di quelle letture, fossero essere positive o negative, parlassero del riformatore illuminato o del grande conservatore immobile, ha così inevitabilmente avuto conseguenze pesanti per lo sviluppo di una ricerca autonoma[35]: ha continuato a fornire letture contrapposte della figura del Moro degli ultimi anni e ha continuato a proiettarne all’indietro un’immagine presentata come «auto-evidente»[36].
Sulla base della disamina condotta da Renato Moro, le ipotesi suggerite da questi studiosi per spiegare le ragioni della politica del leader della Dc di “apertura al Pci” appaiono diversificate. In questa fase però la lettura più fortunata sembra quella che poneva l’accento sul carattere strumentale e opportunistico della volontà di Moro di perseguire, attraverso il coinvolgimento del Pci, l’obiettivo di mantenere inalterato il potere della Dc; lettura che sostanzialmente tornava sulla presunta vocazione consociativa e trasformistica di Moro e del sistema politico italiano.
L’immagine di una sorta di «Giolitti cattolico», come abbiamo accennato, si era già affermata a partire dagli anni Sessanta in relazione al ruolo svolto da Moro nella costruzione e conduzione del centro-sinistra. La medesima lettura sarebbe stata quindi utilizzata anche per interpretare la «terza fase» e avrebbe prevalso nelle ricostruzioni successive, in opposte varianti (di carattere moderato e di carattere progressista), ma sempre critiche di questa politica, anche se in modo speculare[37]. In chiave moderata, un esempio è offerto dalla storia della politica italiana dal 1956 al 1976 scritta da Elio d’Auria e pubblicata nel 1983, nella quale il trasformismo di Moro era considerato una sorta di cavallo di Troia consociativo. Secondo d’Auria, Moro sarebbe stato «il vero artefice ed il vero ispiratore» di una linea volta a orientare la Dc di volta in volta «sempre più a sinistra da una dichiarata posizione moderata e anticomunista, anzi, ciò che più è significativo, reclamando a gran voce un ruolo moderato e centrista del proprio partito per farsene un punto di forza interno onde subito dopo spostare ancora più a sinistra l’asse politico del partito attuando quella saldatura fra masse popolari di ispirazione cristiana e masse popolari di orientamento marxista»[38]. Moro diveniva così il responsabile di un’inarrestabile apertura a sinistra che aveva spogliato la Dc della tradizionale funzione di centro democratico, dando il via all’involuzione del partito[39]. Una lettura opposta a quella di d’Auria nelle categorie interpretative ma analoga nelle conclusioni fu formulata qualche anno dopo dallo storico inglese Paul Ginsborg. Anche Ginsborg, come d’Auria, leggeva l’azione politica di Moro in termini di continuità. Negando qualsivoglia intento riformatore e innovatore allo statista democristiano, Ginsborg interpretava in effetti la politica morotea verso il Pci in chiave sostanzialmente trasformistica: Moro «sperava di compiere gradualmente col Pci la stessa operazione attuata negli anni ‘60 col Psi». Si sarebbe così favorito l’ingresso del Pci nel governo, «senza traumi e senza minacce al sistema statale democristiano»: «nella rispettata tradizione del trasformismo» il Pci, dopo essere stato il principale partito di opposizione, avrebbe gradualmente «smussato le sue obiezioni alle politiche governative». Un messaggio, quello di Moro, che naturalmente Berlinguer non voleva sentire e «la sordità» del leader comunista, scriveva Ginsborg, era «facilitata dalle quotidiane sottigliezza e ambiguità del linguaggio di Moro»[40].
L’immagine del modello giolittiano avrebbe preso piede nel corso degli anni Novanta anche nella storiografia internazionale e in particolare britannica, veicolata proprio dalla ricostruzione di Ginsborg[41]. Ne è un esempio la Storia d’Italia aggiornata al 1997 del suo “maestro”, Denis Mack Smith, che dipingeva Moro come un «negoziatore paziente», attribuendogli in questo campo «un’abilità giolittiana»[42]. Anche se non negava che Moro fosse convinto che una democrazia realmente efficace richiedeva l’alternanza al potere, nell’immediato, secondo Mack Smith, le sue speranze non andavano oltre «la negoziazione di una compartecipazione o consociativismo, dapprima con i socialisti dopo il 1962, poi con i comunisti dopo il 1972, e sempre a condizione che la Democrazia cristiana conservasse le leve essenziali del potere»[43].
A partire dalla fine della cosiddetta “prima Repubblica”, nel clima di una nuova riflessione storiografica sul complesso dell’Italia repubblicana, al centro delle analisi non è stato il Moro della «terza fase», ma la sua figura complessiva. E benché gli fosse ormai riconosciuta una statura indiscussa, la sua figura ha finito spesso per essere considerata emblematica dei problemi essenziali della “prima Repubblica”[44]. Alcune letture, giovandosi anche della nuova disponibilità di fonti, mettevano in luce però alcuni elementi di fatto della «terza fase», fino ad allora largamente disattesi. Prima di tutto – e al di là delle valutazioni che ne sarebbero state date e che avrebbero continuato ad animare un vivace dibattito anche in sede storiografica –, veniva affermata una non scontata distinzione fra «terza fase» e «compromesso storico», in particolare a partire dalla ricostruzione di Pietro Scoppola ne La repubblica dei partiti. Lo storico di area cattolico-democratica delineava le profonde differenze fra le due proposte e metteva in luce come solamente la «terza fase» – di cui peraltro Scoppola delineava l’evoluzione nel pensiero moroteo – si fosse realizzata per un breve periodo nei governi di solidarietà nazionale. Riprendendo le analisi formulate qualche anno prima da Ruffilli, Scoppola proponeva quindi una sua interpretazione della «terza fase», vedendovi una risposta di Moro all’emergere di nuove dinamiche sociali, che avevano messo in crisi il ruolo di rappresentanza e di guida della Dc rispetto alla società italiana. Tuttavia, attribuiva a Moro un limite importante, e cioè che la sua proposta (la solidarietà fra le forze democratiche e la stabilizzazione di una democrazia dell’alternanza) si inscriveva dentro la logica della «democrazia dei partiti», rimanendo così del tutto interna alla cultura consociativa, senza alcuna apertura all’esigenza di una revisione delle condizioni stesse di funzionamento della democrazia italiana[45].
Nel nuovo contesto degli anni Novanta, anche la cultura ex/postcomunista si confrontò sulla politica di Moro verso il Pci, dividendosi tra chi vedeva in lui uno dei protagonisti del tentativo più lucido di superare i limiti della politica democristiana e chi di nuovo criticava il suo conservatorismo, considerato anche la principale spiegazione dell’insuperabilità da parte della Dc di quegli stessi limiti. Fra i giudizi meno netti vi è quello formulato da Aurelio Lepre nella sua Storia della prima Repubblica. Lepre non solo riprendeva la distinzione (come abbiamo visto, non scontata) di Scoppola e Ruffilli tra «compromesso storico» berlingueriano e «terza fase» morotea («La differenza fondamentale – scriveva – era nel fatto che Moro non pensò mai, come pensava Berlinguer, sull’esempio di Togliatti del 1945, a un incontro tra le due grandi forze popolari»[46]), ma sottolineava pure – come Scoppola – l’assenza, in entrambi i progetti, di qualsivoglia modifiche istituzionali. Secondo Lepre, inoltre, la «terza fase» era sì concepita come un progetto in due tempi, quello della solidarietà fra le forze democratiche per superare l’emergenza e quello per l’alternanza al governo tra tutte le forze politiche, ma ciò «non significava, per Moro, la fine o l’indebolimento del potere della Dc»[47]. Tra gli studiosi legati alla sinistra post-comunista, i più favorevoli alla politica del «compromesso storico» ovviamente tesero ad esprimere un forte apprezzamento dello statista e della sua apertura al Pci, finendo però per appiattire sul «compromesso storico» la lettura della proposta morotea. Ad esempio, il politologo Alfio Mastropaolo affermava che Moro non aveva concepito la solidarietà nazionale solo come «un espediente per trarsi d’impaccio in un frangente difficilissimo, convinto che, passata la buriana, il vecchio gioco delle parti potesse essere ristabilito», ma piuttosto «come l’inizio di una “terza fase” per la democrazia italiana, che avrebbe dovuto portarla al suo compimento, consentendo al partito cattolico di abdicare al ruolo di partito forzato a governare»[48].
Buona parte della storiografia di tradizione comunista comunque continuò ad avere dell’ultimo Moro sostanzialmente l’immagine degli anni Settanta, e cioè quella del conservatore di stampo giolittiano[49]. Un’interpretazione diversa emergeva invece dal lavoro di Franco De Felice. Egli assegnava infatti alla figura politica di Moro, come ha notato Luigi Masella, «la funzione di tragica testimonianza della difficoltà della democrazia italiana di diventare compiuta»[50]. Negli anni Settanta, secondo De Felice, l’orizzonte che Moro aveva continuato a privilegiare – e non si trattava, come si è visto, di un’osservazione comune – era quello di centro-sinistra[51]. Quella assicurata al Pci, dunque, era sì una «legittimazione», ma «dentro un ruolo definito (l’opposizione)»[52]. Lo storico di area comunista sottolineava così il carattere transitorio della strategia del confronto verso il Pci, ritenendola quindi «sostitutiva di un’alternativa improbabile e destabilizzante»[53]; un confronto che comunque per De Felice risultava «necessitato» dagli esiti elettorali e dalla crisi in cui versava il paese[54].
Unito in una visione spiccatamente critica era invece quell’ampio quanto eterogeneo schieramento che accomunava i fautori di una «nuova Repubblica» favorevoli a un radicale mutamento di pagina e coloro che contestavano, sia da destra che dall’estrema sinistra, il fallimento della vecchia basata sul «consociativismo» cattolico-comunista[55]. Anche gli storici di area socialista tesero a veicolare una lettura negativa. Sull’ultimo Moro e il suo atteggiamento verso i comunisti, Luciano Cafagna sottolineava ad esempio come nel contesto di una crisi di governabilità sempre più acuta com’era quella dell’Italia degli anni Settanta, l’azione politica democristiana recava i nomi di Moro e Andreotti, il cui operato appariva per molti aspetti «convergente». Alla loro manovra politica, secondo Cafagna, era sottesa infatti la medesima disinvolta accettazione dello «smembramento» della sovranità dello Stato e della «coabitazione» generale in esso, di forze, «legittimate e non, lecite e illecite, che negoziavano alla pari come in un sistema feudale prestatuale»[56]. Uno dei capisaldi di questa «cultura della mediazione» (che nel corso del sequestro, Moro avrebbe esasperato al punto da divenire – a detta di Cafagna – «totale»[57]), ad avviso dello storico di area socialista, era l’elaborazione del rapporto che verrà definito «consociativo» con i comunisti[58]. Coerentemente con questa lettura, Cafagna qualche anno dopo avrebbe definito Moro come il politico più conservatore dell’Italia repubblicana[59].
Anche lo storico delle relazioni internazionali Ennio Di Nolfo veicolava in quegli anni una interpretazione decisamente negativa dell’azione politica di Moro, ritenendolo nientemeno che il principale protagonista di una linea ininterrotta di compromesso e di «inganno» politico che avrebbe segnato le vicende politiche italiane a partire dalla crisi del centrismo. L’assenza di una regolare alternanza di forze democratiche al potere in Italia, secondo Di Nolfo, si era sostanzialmente tradotta nel «compromesso o trasformismo» o, quando si era cercato «di rendere più chiare le vie della politica», nel «consociativismo e “solidarietà nazionale”, cioè tentativo di dare una veste nobile a una prassi deteriore, che rendeva impossibile discernere fra il giusto e l’ingiusto, l’onesto e il disonesto, l’utile e l’inutile»[60]. Una lettura altrettanto critica della politica di Moro, ritenuta emblematica di un organicismo consociativo che aveva provocato ritardi e conseguenze gravi nel paese, era formulata sul finire degli anni Novanta dal politologo Piero Ignazi. La politica di Moro a suo parere avrebbe rappresentato «la quintessenza della tendenza alla società organica» e il suo «parziale inveramento» nella «stagione più rovinosa della Repubblica», cioè la solidarietà nazionale, aveva responsabilità congelanti. Avendo marginalizzato le minoranze e il dissenso fino al punto di considerarlo illegittimo in quanto contrario agli interessi generali da essa rappresentati, questa esperienza aveva avuto anche esiti di carattere autoritario, tanto da contribuire, addirittura, a provocare l’insorgenza terroristica[61]. Ignazi negava quindi qualsiasi progettualità e intento innovatore a Moro, ritenendo il confronto con i comunisti un’apertura puramente strumentale: il fine di Moro era quello di logorare il Pci tenendolo sulla soglia del potere per depotenziarne l’opposizione in vista della conservazione del sistema di potere democristiano[62].
A partire dalla metà degli anni Novanta, si sono gradualmente affermati alcuni tentativi di storicizzare la figura di Moro, anche nella fase cui è dedicato questo volume. È venuta infatti emergendo una «nuova atmosfera nella quale molti nodi individuati in precedenza (e anche delle critiche via via formulate) potevano essere riproposti in un orizzonte più maturo ed equilibrato»[63]. Un volume risalente a questa fase che costituisce un punto di riferimento essenziale per la storia della Dc e che getta luce sull’intera esperienza di Moro, e quindi anche sulla sua azione nell’ultima fase della sua vita è Il partito italiano di Agostino Giovagnoli. In relazione agli sviluppi del periodo 1976-1978, Giovagnoli ha posto in rilievo in effetti per la prima volta il ruolo delle «emergenze» (politica, economica e dell’ordine pubblico), che avrebbero indotto Moro a riprendere la strada del confronto con il Pci. Una strada che però a Giovagnoli è apparsa come uno stato di necessità e di passaggio verso altre soluzioni più stabili, volta a evitare spaccature verticali del paese, piuttosto che come una soluzione politica[64]. Un passaggio che peraltro avrebbe avuto un senso anche nella prospettiva di «salvaguardare il ruolo della Dc nel sistema politico italiano, in attesa di altri possibili ma ancora imprevedibili sviluppi»[65]. Una lettura simile sembra emergere anche dal sintetico profilo biografico tratteggiato dallo storico americano Richard Drake nello stesso anno. L’autore infatti appare convinto che l’«alleanza» fra Moro e Berlinguer fosse stata determinata soprattutto dalle contingenze più che da progetti di lungo periodo e che quindi, agli occhi di Moro, il Pci non avrebbe potuto governare da solo, e così per un lungo tempo[66]. A questo periodo risale infine il fondamentale profilo dell’Italia repubblicana (dal 1958 al 1992) scritto da Piero Craveri, come ultimo volume della Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso per UTET, fondato su una vastissima base documentaria. Anche per lo storico di area laico-liberale, Moro rappresenta una figura emblematica della democrazia italiana e dei suoi limiti, ma in una prospettiva, appunto, storica. Per ciò che riguarda l’ultimo Moro in particolare, Craveri ritiene che «la terza fase» non avesse «segno positivo»; essa registrava piuttosto, da un punto di vista politico, «la fine di una sicura e certa maggioranza di centro e di centro-sinistra, quindi la necessità di confrontarsi con la sponda di sinistra, cioè con il Pci». L’analisi morotea dei mutamenti sociali e civili dell’ultimo decennio, a detta di Craveri, induceva Moro a temere che dal burrascoso movimento in atto nella società potesse venire un definitivo ribaltamento dell’equilibrio politico, già così gravemente compromesso. La terza fase, dunque, lungi dal prefigurare un accordo organico di governo con il Partito comunista o l’affermazione di una democrazia dell’alternanza, era segnata secondo Craveri dalla necessità di ristabilire la centralità democristiana e il conseguente consolidamento del sistema politico, «pagati tutti i prezzi che si dovevano pagare […], verso un orizzonte che rimaneva nelle sue linee fondamentali quello di partenza»[67].
Complessivamente in questa fase emergono dunque i primi tentativi volti a ricostruire il disegno e il ruolo complessivo di Moro nella storia e nella vita politica italiana. Uno spazio decisamente minore, forse inevitabilmente, è stato dedicato, invece, all’analisi della sua attività nei molteplici ambiti e sfere che lo videro impegnato (dalla politica estera a quella locale, dalla sua dimensione umana alla sfera religiosa e all’attività culturale).
Dagli anni 2000 le cose sembrano però essere progressivamente mutate. All’inizio del nuovo millennio hanno visto la luce alcuni contributi di carattere storiografico che hanno dedicato ampio spazio specificamente alla figura di Moro, anche nell’ultima fase[68]. A questo periodo, inoltre, risale il primo tentativo di affrontare il nodo del sequestro Moro in un’ottica storiografica. Agostino Giovagnoli è stato infatti il primo studioso a indagare e a ricostruire la vicenda sulla base di una vasta messe di fonti primarie e secondo un metodo storico d’indagine, con l’esplicita intenzione di sgombrare il campo dalla predominanza della pubblicistica[69]. Il «trentennale» (i trent’anni dalla scomparsa dello statista pugliese), nel 2008, ha dato poi un ulteriore impulso agli studi, segnando una vera e propria svolta nella ricerca storiografica su Moro. Specialmente grazie alla possibilità di accedere a nuove fonti archivistiche relative allo statista pugliese, è notevolmente cresciuto il numero di contributi sulla sua figura umana o su spezzoni della sua attività culturale e politica, che hanno interessato anche gli ultimi anni della sua vita. Significativamente, per la prima volta da molti anni il numero dei contributi dedicati alla vicenda di Moro precedente al 1978 è risultato superiore a quello dei saggi concentrati sul solo nodo del rapimento e dell’assassinio[70]. A ciò si sono sommate alcune importanti iniziative collettive di ricerca e di dibattito che hanno riguardato anche il periodo 1973-1978[71].
A dare slancio a questa nuova stagione di studi sono stati alcuni convegni organizzati proprio nel 2008. L’Accademia di studi storici Aldo Moro ne ha promosso uno dedicato a una riflessione complessiva sulla storiografia morotea, da cui è stato tratto un numero monografico della rivista «Mondo contemporaneo» pubblicato nel 2010. Un’introduzione di Piero Craveri vi precedeva i contributi di Renato Moro e Francesco Malgeri, rispettivamente dedicati a una ricognizione sulla presenza di Moro nelle storie d’Italia e nelle storie della Dc[72]. Sempre nel 2008 si sono svolti altri due convegni scientifici, organizzati questa volta da un team di università ed istituzioni culturali (Luiss, Luspio, Università di Bari, Università di Salerno, Archivio centrale dello Stato, Miur, Mibact): il primo era dedicato a Moro nel quadro delle relazioni internazionali dell’Italia; il secondo, articolato in due parti, una sulla politica interna e una sulla politica estera, spaziava su temi che andavano dalla formazione dello statista pugliese al suo rapporto con la Dc e con gli altri partiti della “prima Repubblica”, fino al suo ruolo in relazione al terrorismo. Anche il materiale di questi due convegni è poi confluito in volumi collettivi[73]. L’Università di Bari ha poi ospitato altri due incontri scientifici nel 2010 e nel 2011, centrati sulle relazioni internazionali: il primo dedicato ad «Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani» e il secondo ad «Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo»[74]. Nemmeno il lavoro dell’Accademia Aldo Moro si è fermato al convegno del 2008, ma è proseguito con un altro importante momento di confronto collettivo, svoltosi nel 2013, dedicato a «Studiare Aldo Moro per capire l’Italia», che anche in questo caso ha dato luogo alla pubblicazione di un corposissimo volume[75].
Non v’è dubbio, insomma, che, anche per quanto riguarda la fase dell’attività di Moro oggetto di questo volume, la produzione storiografica avviata negli anni 2000 e ulteriormente stimolata dal trentennale ha dimostrato un interesse per lo statista non solo irrobustito, ma soprattutto ormai articolato in molteplici ambiti. All’interno di questi contributi e in altri saggi e volumi che contemporaneamente hanno visto la luce, sono stati analizzati, infatti, moltissimi aspetti legati al ruolo di Moro negli anni Settanta sia nella politica interna sia nella politica internazionale. Basti pensare che si sono affermati filoni di ricerca incentrati sulle sue riflessioni sul mondo femminile e il suo atteggiamento (e la sua azione di governo) verso la condizione delle donne[76] e sul suo pensiero (e la sua conseguente azione politica) in merito al terrorismo e alla violenza politica[77]. Una tipologia di studi che ha avuto molta fortuna negli ultimi anni si è concentrata sull’“immagine” di Moro, sul modo cioè in cui lo statista democristiano è stato presentato, percepito, interpretato dall’opinione pubblica, dai media, dalla cultura e, naturalmente, dai suoi interlocutori politici, nazionali e internazionali. Alcuni di questi studi riguardano gli anni Settanta e hanno indagato come la figura di Moro sia stata veicolata dalla letteratura e dal cinema[78]. Alcune ricerche si sono soffermate sull’immagine di Moro che si è formata all’interno di alcuni partiti e movimenti[79]. Molto ricco appare infine il filone che ha indagato quale fosse la visione di Moro agli occhi di alcuni cruciali attori internazionali, in primis gli Stati Uniti[80].
Negli ultimi vent’anni, dunque, il quadro della storiografia appare notevolmente cambiato e arricchito. Guardando alla produzione complessiva, possiamo affermare che, anche grazie alla possibilità di accedere a un numero sempre maggiore di archivi e quindi di fonti primarie, oggi non solo disponiamo di molteplici monografie e studi, ma anche di prime biografie analitiche fondate sul materiale d’archivio della personalità politica di Moro. Ancora nel 2010 Francesco Malgeri constatava l’«assenza» di una biografia politica dello statista democristiano scritta da uno storico[81]. Anche su questo versante si è avuto dunque «un significativo salto di qualità»[82] con il centenario della nascita di Moro nel 2016, quando sono state pubblicate le biografie scritte da Massimo Mastrogregori[83] e da Guido Formigoni[84]. Entrambi i volumi, delle cui interpretazioni si tratterà più avanti, mettono in luce diversi aspetti dell’attività politica, culturale e istituzionale di Moro, svelandone anche caratteri umani e privati fino ad ora rimasti in ombra. Entrambi i lavori, inoltre, ripercorrono l’intera parabola di Moro rispetto al quadro internazionale e il suo impegno agli Esteri, facendo dialogare – in particolare la pubblicazione di Formigoni – la dimensione internazionale con la sua azione di leader democristiano.
Se da un quadro generale della tendenza degli studi, passiamo ai temi che vi sono stati maggiormente affrontati, va immediatamente sottolineato che, in relazione alla dimensione interna, sono state toccate le relazioni con il mondo cattolico[85], il rapporto con alcune forze politiche minori[86], l’atteggiamento verso le trasformazioni della società italiana con un’attenzione anche agli anni Settanta[87]. Resta comunque un fatto. Benché, come abbiamo visto, la recente storiografia su Moro abbia allargato i propri orizzonti, cimentandosi su nuovi terreni di ricerca e su temi inesplorati, il dibattito storiografico sul suo rapporto con il Pci – e in primo luogo con il segretario comunista, Enrico Berlinguer[88] – nel corso della “solidarietà nazionale”[89] e soprattutto sull’interpretazione del significato della «terza fase» continua ancora oggi ed è ancora molto acceso[90]. A distanza di anni, rimangono due le letture principali, anche se declinate naturalmente con sfumature diverse. La prima – che appare l’interpretazione proposta da Massimo Mastrogregori nella sua biografia del leader democristiano – rifiuta l’immagine di Moro come tessitore di accordi fra Pci e Dc e intende la «terza fase» come una proposta tattica e congiunturale, un espediente per far fronte a una situazione contingente di crisi della Dc e di instabilità governativa, ma in un’ottica di conservazione e di rafforzamento del potere democristiano e della centralità del ruolo svolto dalla Dc nel panorama politico italiano[91]. In questa linea interpretativa, vi è chi, come Paolo Soddu, pur ritenendo «controverso» il disegno di Moro, ha riecheggiato nuovamente, nei suoi riferimenti «all’ipotesi consensuale», l’immagine del Moro «trasformista»[92]. La seconda lettura, invece, intende la «terza fase» come un progetto di lungo periodo che aveva l’intento di consolidare la democrazia italiana attraverso la corresponsabilizzazione di forze politiche fino ad allora estranee alla gestione del potere e all’inclusione di masse popolari fino ad allora non rappresentate dalle forze di governo. Moro avrebbe inteso quindi – e questa sembra la lettura di Guido Formigoni nella sua importante biografia dello statista pugliese – governare una fase circoscritta di convergenza, necessaria per legittimare l’evoluzione riformatrice del Pci e per accompagnarlo nel suo processo di accreditamento come protagonista della dialettica democratica, che in un futuro prossimo avrebbe visto la possibilità dell’alternanza[93]. Su questo nodo sono emerse anche alcune letture più sfumate. Piero Craveri è tornato di recente su questo dibattito, ponendo in evidenza che Moro vedeva la fase in corso come una transizione e che, solo in quest’ottica, la sua posizione convergeva con quella di Berlinguer; ma non nelle finalità ultime, dal momento che Moro non reputava una maggioranza Dc-Pci come un possibile approdo definitivo[94]. Altre letture hanno invece nuovamente posto l’accento sul nodo dell’«emergenza», quale tema di riflessione e “filone di azione” che avrebbe orientato le scelte politiche del Moro degli anni Settanta. Agostino Giovagnoli è tornato su questo punto, osservando che le «emergenze» – quella economica, quella del terrorismo e ovviamente quella politica – influenzarono profondamente la linea politica seguita da Moro, in particolare nel dialogo prima con i socialisti e poi, soprattutto, con i comunisti[95]. Da questa prospettiva, quindi, la solidarietà nazionale, secondo Giovagnoli, non assumerebbe la forma compiuta di una proposta politica, ma apparirebbe piuttosto come un accordo emergenziale, «uno stato di necessità» e di «passaggio verso altre più stabili soluzioni»[96]. Giovagnoli ha inoltre evidenziato che per Moro la crisi italiana degli anni Settanta fu, soprattutto, politica: egli era convinto che spettasse alla politica, «terreno abituale della sua azione», «il compito di operare una sintesi risolutiva delle molteplici dinamiche che attraversavano la società italiana in quegli anni». La crisi della politica apparve perciò ai suoi occhi ancora più grave delle altre crisi che la società italiana attraversava: non si trattava, infatti, «di un problema accanto ad altri problemi, ma dello smarrimento della chiave per affrontare tutti i problemi»[97]. Anche Giovanni Mario Ceci ha sottolineato il carattere emergenziale dei governi di solidarietà nazionale e del dialogo fra Dc e Pci: dialogo che, a suo avviso, sarebbe stato determinato non tanto dall’emergenza del terrorismo, quanto da quella politica ed economica[98]. In effetti, sul nodo dell’ipotesi se sia stata proprio la preoccupazione per i terrorismi a indurre Moro (e la Dc nel suo complesso) ad avviare una fase di collaborazione con i comunisti, si è consumato un intenso dibattito. Dopo una fase in cui era emerso un giudizio non isolato, secondo il quale proprio l’emergenza terroristica avrebbe costituito un fattore decisivo nell’avvicinamento tra Pci e Dc (condotta per mano a quest’incontro necessario soprattutto da Moro)[99], alcune recenti ricerche condotte alla luce del quadro complessivo della politica morotea nei confronti del Pci, lascerebbero invece pensare che la minaccia eversiva e quella della lotta armata non abbiano mai indotto Moro ad auspicare o anche solo ad accettare soluzioni o accordi con il Pci più avanzati di una comune maggioranza parlamentare, come il “compromesso storico” o governi unitari di emergenza[100].
Come abbiamo accennato, anche la riflessione morotea sul terrorismo è stata oggetto di alcune ricerche recenti, che in parte mettono in discussione – o quantomeno articolano in modo più circostanziato – le letture principali che si sono sedimentate negli studi relativi alla reazione dello Stato e dei partiti all’eversione degli anni Settanta; letture che peraltro riguardano in primis tutti i leader delle Democrazia cristiana, incluso Moro. Un primo paradigma aveva sostenuto ad esempio che la Dc (come gli altri partiti) colse con ritardo la pericolosità e la novità del fenomeno terrorista. Questa interpretazione, affermatasi all’epoca nel dibattito pubblico e ripresa da un saggio di Stefano Rodotà (secondo il quale il ritardo dell’analisi da parte delle forze politiche e, in particolare, dei partiti di governo avrebbe determinato il ritardo anche della risposta degli apparati)[101], ha avuto poi un largo seguito nel dibattito scientifico internazionale e nazionale[102]. Un secondo paradigma, anche in questo caso nato nel dibattito pubblico dell’epoca e poi largamente diffusosi nella letteratura di carattere scientifico, aveva visto invece la Dc compattamente schierata, fino almeno al 1974, sulla tesi degli “opposti estremismi”, utilizzata strumentalmente per motivi elettoralistici[103]. L’esame attento delle fonti ha invece messo in luce una realtà diversa. Per ciò che riguarda l’ipotesi del ritardo, è stato osservato che i leader democristiani – o meglio, molti di essi – compresero e segnalarono la minacciosità e il salto di qualità della violenza terroristica addirittura sin dai primi episodi del 1969. Ed è stato dimostrato che proprio Moro, da sempre attento ai movimenti in atto nella società e alle manifestazioni giovanili, fu uno dei leader che, fin dal 1969, colse con maggiore lucidità e immediatezza il carattere nuovo e misteriosamente pericoloso dei recenti fatti di violenza[104]. È stato osservato, inoltre, che Moro non si soffermò tanto sulla denuncia dei singoli atti di violenza perpetrati, nella prima metà degli anni Settanta, soprattutto da gruppi di estrema destra, ma elaborò piuttosto una riflessione più ampia, il cui concetto-chiave – come ha notato di recente Giovanni Mario Ceci – era rappresentato dall’idea di «involuzione»[105]. Un’«involuzione» che, a suo avviso, era già in atto negli equilibri politici del paese: essa si era tradotta infatti nella “svolta a destra” della Dc e nella conseguente sterzata a destra dell’intero quadro politico, con il varo del governo Andreotti-Malagodi nel 1972. Pur non sottostimando la pericolosità dei gruppi di estrema sinistra, che pure avevano cominciato a essere attivi fin dai primi anni Settanta, Moro continuò a ritenere – almeno fino alla metà del decennio – decisamente più insidiosa la minaccia dei gruppi neofascisti proprio perché, secondo lo statista pugliese, le singole azioni si inserivano in una strategia eversiva più ampia e complessiva[106]. Quest’ultima osservazione, supportata da un’attenta lettura proprio degli interventi di Moro, mette quindi in discussione anche il secondo paradigma affermatosi nel dibattito, cioè quello che dipinge la Dc come il partito degli “opposti estremismi”. Come è stato notato, infatti, a riprova della eterogeneità delle posizioni esistenti nel partito di maggioranza, Moro (come anche le sinistre interne) non abbracciò tale tesi. Anche di fronte all’escalation della violenza di destra e sinistra del 1974, si rafforzò in lui la convinzione che fosse necessario operare una distinzione – già elaborata, come abbiamo visto, in precedenza – tra gli attori della violenza politica (sia «rossi» che «neri») e quelli del terrorismo (prevalentemente «neri»). Senza sottostimare la rilevanza e la pericolosità di una significativa violenza di sinistra, egli avrebbe dunque continuato a individuare proprio nei terroristi neri la minaccia più pericolosa per la democrazia italiana[107].
Pochissimi studi si sono occupati invece specificamente della riflessione e dell’azione di Moro in relazione alle cruciali vicende economiche del periodo 1973-1978[108]. Non esistono difatti studi specifici sulla riflessione morotea in merito e, più nello specifico, sulla sua reazione alla crisi economica (nazionale e internazionale) e sulle politiche attuate dai suoi governi alla metà degli anni Settanta. La cosa colpisce soprattutto se la si mette in rapporto con quanto la storiografia ha fatto per le politiche dei governi di centro-sinistra da lui presieduti, che sono state invece molto attentamente analizzate. Su di esse, ad esempio, – come è stato recentemente osservato da Laura Ciglioni – gli storici sono arrivati ad introdurre vuoi una «periodizzazione interna» anche in riferimento ai loro esiti economici vuoi alcuni paradigmi interpretativi. Si pensi in particolare al tema delle riforme e a quello della programmazione, divenuto «banco di prova di tutta l’esperienza di centro-sinistra», al punto da aver dato luogo a valutazioni generalmente negative dell’esperienza complessiva di quei governi, e che invece studi recenti hanno rimodulato, correggendo il giudizio negativo diffuso, in particolare rispetto alla Dc quale principale imputato del fallimento – o quanto meno dei limiti – di quella esperienza[109].
La storiografia, in particolare quella che più si è concentrata sui temi economici, ha generalmente sottolineato come gli esponenti politici dell’epoca (salvo alcune importanti eccezioni, quali ad esempio Antonio Giolitti[110], Ugo La Malfa[111], Beniamino Andreatta[112]) abbiano sostanzialmente eluso il problema di contenere la spesa pubblica e la questione del debito sovrano, che proprio in quegli anni cominciò a crescere a ritmi piuttosto sostenuti[113]. A questo proposito, si è sedimentata un’immagine che ha avuto molta fortuna nel dibattito (non solo storiografico, ma più generalmente pubblico), quella del «partito unico del debito pubblico» – che sarebbe sorto a partire dagli anni Settanta e che vedeva partecipi sostanzialmente tutte le forze politiche della “prima Repubblica” – che, per varie ragioni perlopiù riconducibili soprattutto alla necessità di mantenere o accrescere il proprio consenso, non avrebbe posto mano al risanamento del bilancio dello Stato, scaricandone il peso e i costi sulle future generazioni[114]. Diverse letture hanno così sottolineato come molte delle domande di diritti emerse con il ciclo di protesta del 1968-1969 (e il conseguente potenziamento del welfare) siano state soddisfatte dai partiti senza preoccuparsi di aumentare nella misura necessaria le entrate dello Stato e questo proprio nel momento in cui si esaurivano i fattori oggettivi che avevano alimentato la straordinaria crescita precedente[115]. L’uso disinvolto della spesa in deficit avrebbe dunque provocato il costante aumento del debito pubblico (poi aggravato negli anni Ottanta da ulteriori fattori, come la spesa per interessi sul debito stesso), benché negli anni Settanta esso sia stato a lungo mascherato e compensato dall’inflazione. La classe dirigente è quindi generalmente ritenuta responsabile di non aver messo in atto politiche efficaci per controllare e tagliare la spesa pubblica, di non aver attuato politiche fiscali efficienti, misure di austerità efficaci e nuove strategie di gestione del debito che avrebbero assicurato un maggiore rigore[116].
Su Aldo Moro, a questo riguardo, si è scritto davvero poco. Certamente la politica dei governi di centro-sinistra e della solidarietà nazionale (di cui, come abbiamo visto, era ritenuto principale fautore e protagonista) è stata messa sul “banco degli imputati” come corresponsabile dell’espansione della spesa pubblica, ma su cosa ne abbia detto e scritto Moro, fino ad ora, si sa poco o nulla. Sono state formulate alcune considerazioni in relazione al ruolo dei suoi governi nel quadro del nascente «vincolo esterno» costituito dalle istituzioni economiche europee. Giuliano Garavini a questo proposito ha osservato che l’Italia dal 1975, più che adeguarsi alla necessità di fare estrema attenzione alle politiche economiche (come fecero Francia e Germania), «mirò con Moro, in modo anche assai efficace, a sostenere i livelli di occupazione e di produzione senza incidere sui poteri dei sindacati, e facendosi condizionare solo fino a un certo punto dalle istituzioni economiche internazionali. E fece questo a prezzo di una crescita esponenziale del debito pubblico, e quindi dell’indebitamento delle sue generazioni future, e sostanzialmente rifiutando di considerare l’integrazione europea come “vincolo esterno”, quanto piuttosto come uno strumento a garanzia dell’assetto sociale emerso in Italia dopo il Sessantotto»[117]. Mancando studi specifici, non si può che ribadire che, anche in questo caso, continuiamo a essere di fronte a letture complessive e giudizi generali.
Al contrario, un nodo centrale affrontato dalla storiografia, benché non strettamente focalizzato sull’atteggiamento del presidente del Consiglio in quella fase, è stato quello della politica dei governi Moro verso i sindacati e della cruciale questione salariale. Uno dei problemi al centro del dibattito è stato l’accordo sul «punto unico di contingenza» del gennaio del 1975, volto a tutelare i salari dei lavoratori contro l’erosione causata dall’inflazione; un accordo che, benché siglato direttamente dalla Confindustria e dalla Federazione unitaria, ottenne il placet del governo[118]. Questa intesa è stata oggetto di diverse osservazioni critiche, essendosi rivelata fonte di ulteriori distorsioni nel quadro della crisi economica che colpì l’Italia in quel periodo: gli scatti automatici e generalizzati contribuirono ad aumentare l’inflazione, innescando una crescita costante dei prezzi e un appiattimento della contrattazione e dei redditi[119]. Dal punto di vista delle responsabilità politiche, si è affermato quindi un paradigma che vedrebbe il governo mantenere un atteggiamento «benevolo» verso l’accordo – e con ciò esso si sarebbe reso responsabile, ancorché indirettamente, di una politica dei redditi «a rovescio»: il rovesciamento di logica stava nel fatto che l’intesa, anziché disinnescare l’«inflazione da conflitto distributivo», la lubrificava e la potenziava[120]. Più in generale, è stato rilevato che proprio questo accordo fu un esempio emblematico del fatto che, non solo la politica, ma anche le forze sociali e l’opinione pubblica italiana non si misurarono pienamente con le conseguenze strutturali e permanenti delle novità introdotte dallo shock petrolifero (e con le rinunce che esso avrebbe imposto)[121]. Piero Craveri, in particolare, ha sottolineato che questa intesa, indubbiamente favorita dal contesto di crescente consenso verso il Pci, all’epoca fu effettivamente contestata solamente dal vicepresidente del Consiglio, Ugo La Malfa, e dall’economista Franco Modigliani che ne intravvidero gli effetti distorsivi nel medio e nel lungo periodo. Le polemiche furono però così poco incisive che nei mesi seguenti il governo avrebbe in effetti seguito la medesima strada anche per quanto riguarda il pubblico impiego, approvando un provvedimento concordato con i sindacati che prevedeva un analogo adeguamento dell’indicizzazione e altre misure volte all’alleggerimento fiscale a favore dei redditi più bassi[122].
Anche se il tema salariale è strettamente legato all’ottica più ampia della relazione di Moro con i sindacati, l’argomento è stato finora solo marginalmente toccato dalla storiografia. A questo proposito, da un lato, è stato rilevato che il rapporto con le centrali sindacali ebbe grande importanza nella politica morotea perché era in sintonia con le posizioni dei due grandi partiti di sinistra; d’altro canto, è stato posto in rilievo il nuovo approccio proprio di Moro al rapporto con le parti sociali, che inaugurò una fase nuova di dialogo con i sindacati, guardando ad essi in una prospettiva diversa dal passato[123].
Anche se il tema è stato a lungo trascurato, la storiografia è ormai concorde nel sottolineare l’importanza, per studiare Moro, di concentrarsi sul nesso nazionale-internazionale. Guido Formigoni ha osservato che la riflessione morotea, almeno dagli anni Sessanta in avanti, si è articolata sulla doppia prospettiva nazionale-internazionale, elemento che ha sempre informato il pensiero e l’azione dello statista democristiano. Specialmente a partire dalla fine del decennio, quest’ultima è stata declinata da Moro, secondo Formigoni, seguendo tre binari: la richiesta di maggiore attenzione alle istanze della società per rispondere alla stagione dei movimenti sociali; una dialettica serrata da sviluppare con il Pci; la ricerca di nuove strade di politica internazionale per allargare il significato della distensione[124]. Secondo Piero Craveri, proprio il ministero degli Esteri, del resto, fu per Moro un osservatorio decisivo per constatare «come molte delle fratture che attraversavano il sistema italiano si rifrangevano anche negli altri paesi europei e per altri versi sullo scenario mediterraneo»[125]. Partendo da questa lettura, si è così affermato un paradigma interpretativo che tende a leggere la parabola di Aldo Moro, tanto nei suoi momenti più alti quanto nella sua drammatica conclusione, attraverso questo prisma. E ciò, come ha osservato Umberto Gentiloni Silveri, ha senza dubbio contribuito a superare letture schematiche della più ampia storia repubblicana e ad abbandonare «le false contrapposizioni basate da un lato su una presunta ingerenza o etero-direzione statunitense e dall’altro su una peculiarità del caso italiano non comparabile in quanto segnato dal paradigma dell’eccezionalità»[126]. Al contrario, le articolate vicende legate alla figura di Aldo Moro dimostrerebbero quanto sia necessario valorizzare il ruolo del sistema internazionale e, soprattutto, il peso delle interdipendenze nell’evoluzione del quadro politico interno[127].
Non sorprenderà a questo punto scoprire che, negli studi sull’ultimo Moro prodotti negli ultimi quindici anni, sia stata indubbiamente la politica internazionale l’altro principale campo d’indagine che ha attirato l’attenzione degli storici. Anche se qualche contributo è risalito più indietro nella vita di Moro, la maggioranza degli studiosi si è concentrata infatti soprattutto sul periodo in cui egli ricoprì l’incarico di ministro degli Esteri (dal 1969 al 1974, con l’interruzione di un anno fra il 1972 e il 1973). Alcune ricerche hanno affrontato il nodo della cultura politica dell’approccio di Moro alla politica estera[128], ponendo l’accento sulla sua matrice cattolica[129], sulle sue origini pugliesi e sulla tradizione culturale dell’Italia meridionale (da cui sarebbe derivata la sua attenzione particolare ai popoli del Mediterraneo)[130]. Altre hanno posto l’accento sul pragmatismo e sul realismo – specialmente rispetto agli spazi di manovra che la logica bipolare concedeva all’Italia –, che avrebbero orientato il suo pensiero e la sua azione[131].
È stata soprattutto la questione mediorientale a occupare uno spazio privilegiato. Numerose ricerche sono state in effetti dedicate al rapporto di Moro con il Medioriente, specialmente (ma non esclusivamente) in relazione al conflitto arabo-israeliano che contrassegnò l’intero periodo in cui fu agli Esteri e alla sua attività diplomatica nei paesi del Mediterraneo[132]. In relazione a questo scenario, si sono ormai consolidati – e sono trasversalmente riconosciuti – alcuni dati di fatto fino a qualche anno fa poco noti. Per quanto riguarda il periodo immediatamente successivo alla guerra dello Yom Kippur e allo shock petrolifero, è stato innanzitutto messo in luce l’approccio «europeo» di Moro alle conseguenze della crisi internazionale, pur nel rispetto dei tradizionali legami con Washington[133]. Lo sforzo di trovare una politica di raccordo fra la sponda Sud del Mediterraneo e l’Europa comunitaria è in effetti ritenuto un «motivo ricorrente» della sua politica araba, che si saldava a un altro motivo «fondante» della politica estera morotea, cioè il suo europeismo e il tentativo di recuperare una funzione internazionale dell’Europa unita[134]. Attraverso questa prospettiva andrebbero quindi visti, da un lato, i suoi tentativi di promuovere una risposta comune fra i paesi europei alle difficoltà economiche innescate dalla crisi del ‘73, e dall’altro, il suo impegno nell’avviare qualche passo comune verso i paesi produttori di petrolio (quella che sarebbe stata l’offerta di un «dialogo euro-arabo» imperniato sullo scambio tra sostegno tecnologico-industriale e offerta di petrolio), che culminò nella dichiarazione del 6 novembre 1973 sui principi di pace in Medioriente e la risoluzione 242 dell’Onu, che poneva in modo netto il problema del ritiro israeliano dai territori occupati. In questo sforzo rientrerebbe anche la proposta formulata proprio da Moro di convocare una Conferenza per la sicurezza nel Mediterraneo accanto alla Csce[135]. Su questa iniziativa e, più in generale sull’approccio moroteo alla politica mediterranea, c’è chi ha visto il suo tentativo di sottolineare la diversità di obiettivi di politica estera della Comunità da quelli degli Stati Uniti[136]. La ricerca recente ha inoltre enfatizzato che fu proprio Moro a spingere affinché la Cee svolgesse un ruolo di primo piano nel collegare la cooperazione con le nazioni arabe alla questione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo, anticipando quella che sarebbe diventata una costante nelle relazioni Nord-Sud[137].
In secondo luogo, diversi studi hanno ormai strutturato il paradigma del pragmatico «bilateralismo» con cui Moro, nella veste di ministro degli Esteri e di presidente del Consiglio, affrontò la crisi dal punto di vista degli interessi nazionali; un bilateralismo che si tradusse nella disponibilità alle richieste dei paesi arabi e nella ricerca di rifornimenti petroliferi a condizioni vantaggiose per l’Italia[138]. A questo approccio – ampiamente indagato dalla ricerca sull’azione diplomatica di Moro –, andrebbe quindi ricondotto quello che è stato definito il «tour de force diplomatico» in Medio Oriente, intrapreso da Moro nei primi mesi del 1974, volto ad assicurare la presenza dell’Eni nelle ricerche e ad ottenere contratti per approvvigionamenti petroliferi a prezzi opportuni[139]. L’azione di Moro in quelle vicende è stata indagata anche in relazione a uno dei drammatici fenomeni collegati al conflitto mediorientale, cioè l’attività del terrorismo palestinese. In particolare, secondo alcuni osservatori, sembrerebbe che vi sia stato una sorta di «accordo di non belligeranza», risalente al 1973, sotto la supervisione di Moro in veste di ministro degli Esteri, fra figure dell’intelligence italiana e rappresentanti dell’Olp. L’«accordo» avrebbe riguardato la garanzia di non prosecuzione dell’azione giudiziaria nei confronti di esponenti palestinesi arrestati in Italia in quei mesi, in cambio dell’astensione da atti di violenza nella penisola (nel corso del tempo si è sostenuto che l’intesa prevedesse anche la libertà dei traffici di armi attraverso l’Italia)[140]. Si è parlato a tal proposito di un «lodo Moro», datato da alcune fonti del Sisde al 19 ottobre 1973, ma i cui contenuti, come ha suggerito Guido Formigoni, restano ancora incerti, quindi non possono essere né dati per ovvi, né arbitrariamente ampliati[141].
In relazione all’atteggiamento di Moro verso il Medioriente, si è poi consolidato un paradigma interpretativo che potremmo definire del «filoarabismo» del Moro degli anni Settanta. Lo storico americano Richard Drake nel breve profilo dello statista democristiano scritto nel 1996 aveva già individuato un progressivo spostamento di Moro da posizioni di equilibrio, tenute negli anni Sessanta, a una crescente «simpatia per la causa palestinese» che avrebbe caratterizzato la sua politica nel decennio successivo[142]. In quello stesso anno, Agostino Giovagnoli aveva registrato l’emergere di una «tendenza filoaraba» nel paese, prevalente nella Dc e condivisa da Moro, peraltro evidente già in seguito alla guerra dei Sei giorni del 1967[143]. Più di recente, anche grazie a una maggiore disponibilità di fonti primarie, alcuni storici hanno articolato ulteriormente questa lettura. Luca Riccardi ha ed esempio enfatizzato lo «sbilanciamento progressivo verso i paesi arabi prodotto dall’azione governativa di Moro», che, secondo lo studioso, «lo fece divenire per questi un punto di riferimento in Europa»[144]; d’altro canto, la decisione del governo Moro di opporsi alla risoluzione sul sionismo – che condannava il sionismo come una forma di «razzismo e discriminazione razziale» –, presentata e approvata nel corso dell’Assemblea generale dell’Onu nel 1975, aveva fissato i limiti che il governo imponeva al suo filo-arabismo: la sicurezza e la sopravvivenza dello Stato d’Israele[145]. Guido Formigoni più che di filoarabismo ha invece parlato semplicemente di «apertura verso le richieste politiche dei paesi arabi», mettendo in rilievo l’equilibrio tenuto da Moro nei confronti della questione mediorientale e delle esigenze espresse da entrambi i popoli in conflitto[146].
Nell’attivismo di Moro verso il Medioriente, sempre Formigoni ha indicato il tentativo di riprendere la «tradizione neoatlantica», che si sarebbe tradotto anche nella posizione espressa alla conferenza sull’energia a Washington, nel febbraio del 1974, quando Moro sollecitò gli stati partecipanti (in primis, gli Stati Uniti) a non creare un fronte antagonista verso i paesi produttori di petrolio[147]: in essa, Formigoni ha visto l’espressione di una «linea non subalterna alle posizioni di Washington»[148]. La storiografia ha in effetti messo in luce, in relazione a questo snodo, ma anche ad altri momenti cruciali della vita internazionale, come l’azione di Moro sia stata volta a ricavare degli spazi di manovra autonomi – specialmente nell’area mediterranea – all’Italia pur nei ristretti margini di cui essa poteva disporre[149]. L’azione diplomatica di Moro è stata poi rivalutata anche alla luce dei risultati che essa ottenne nell’immediato per salvare l’Italia dalle secche della crisi energetica. Silvio Labbate, che ha dedicato alcuni contributi proprio a questo tema, ha sottolineato che il leader democristiano si mosse «nella direzione giusta» per fronteggiare la carenza di greggio di un paese così strettamente dipendente dalle importazioni come l’Italia. Il mancato sviluppo di una politica energetica per diversificare l’uso delle fonti di energia non sarebbe quindi attribuibile alla responsabilità di Moro, che peraltro nei mesi seguenti allo shock si impegnò per l’approvazione del Piano energetico nazionale[150].
Ovviamente, però, non è stata solo la questione mediorientale a ricevere l’attenzione degli studiosi. Diversi lavori si sono focalizzati anche sull’approccio di Moro alle relazioni transatlantiche, con particolare riguardo al rapporto dell’Italia (e dell’Europa occidentale) con gli Stati Uniti[151] e sulla sua iniziativa diplomatica nel processo di distensione, soprattutto nello scenario europeo[152]. Al di là dei momenti di tensione e delle «incomprensioni» che sono state evidenziate nel suo rapporto con l’amministrazione americana per ciò che riguarda la conduzione della politica interna[153], sul piano della politica estera, gli studiosi, seppur con sfumature diverse, sostanzialmente concordano nel ritenere che Moro non mise mai in discussione il legame atlantico, ma – come ha efficacemente osservato Piero Craveri – «rese operante lo spazio politico che rimaneva a un paese come l’Italia nell’ambito di un’alleanza come la Nato»[154]. Guido Formigoni a questo proposito ha osservato che pure la concezione di Moro della distensione vedeva questa come un processo che partiva «da un solido incardinamento dell’Italia nell’area atlantica», puntando al superamento «prudente e graduale dei blocchi militari, senza creare squilibri». L’alleanza atlantica era quindi riconfermata come orizzonte della sicurezza, anche se Moro pensava a «un’originale iniziativa politica italiana per sostenere il processo di graduale superamento dei blocchi militari»[155].
Si colloca certamente in questo spazio di iniziativa il ruolo svolto da Moro nell’ambito della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa conclusosi con la firma dell’Atto finale di Helsinki, che è stato recentemente oggetto specifico di alcuni studi. Su questo fronte, è stato evidenziato che la posizione di Moro era prudentemente ma decisamente a favore dell’apertura dei confini, su un terreno di riconoscimento e di cooperazione, di maggiori contatti e scambi, distaccandosi così sia dalla tesi sovietica della mera legittimazione dell’esistenza di un’Europa divisa, sia dalle resistenze degli americani, portati a sottovalutarne il percorso[156]. In relazione agli esiti dell’azione italiana in quella sede, Francesca Zilio, che ha dedicato alcuni recenti studi a questo tema, ha osservato che proprio alcuni episodi del complesso negoziato sui principi dell’inviolabilità delle frontiere e del rispetto dell’integrità territoriale dimostrano l’esistenza di una consequenzialità fra le affermazioni generali di Moro sugli obiettivi dell’Italia nell’ambito della distensione e le azioni concrete che la delegazione italiana compì nel corso del negoziato per realizzare tali obiettivi. Queste acquisizioni metterebbero perciò parzialmente in discussione l’interpretazione tradizionale secondo la quale l’Italia degli anni Settanta avrebbe aderito alla distensione in virtù esclusivamente dei suoi obblighi internazionali e delle pressioni della politica interna[157]. È stato poi evidenziato che proprio in sede di Csce Moro ottenne il principale successo in materia di diritti umani, risultando il suo contributo «determinante» nell’elaborazione del “Terzo cesto”[158].
Nell’ambito degli studi che hanno indagato il ruolo e la concezione di Moro della distensione, si è poi consolidato un paradigma interpretativo ruotante attorno al parallelismo fra l’Ostpolitik perseguita da Willy Brandt e la politica estera morotea nei confronti dei paesi dell’Est europeo. Secondo queste letture, Moro sarebbe stato molto attento alla politica inaugurata da Brandt ed il suo atteggiamento di graduale apertura all’Est sarebbe emerso già negli anni Sessanta. La storica delle relazioni internazionali Sara Tavani a questo proposito ha osservato che la chiara percezione dei mutamenti in corso (la destalinizzazione e l’instabilità nel mondo sovietico, la crisi di fiducia europea nel potenziale difensivo della Nato e la tendenza delle due superpotenze a regolamentare i loro rapporti sulla base di accordi strategici bipolari), aveva indotto Moro a cercare di imprimere una svolta, superando il neoatlantismo degli anni Cinquanta e intensificando la cooperazione con i paesi socialisti, anche «per sostenere un ruolo internazionale più incisivo»[159]. Il nuovo indirizzo, che avrebbe trovato massima espressione negli anni Settanta, divenne quindi quello, da un lato, di investire energie e risorse crescenti nella cooperazione, anche politica, con i paesi dell’Est Europa e, dall’altro, di sostenere la politica che anche Bonn iniziò allora a promuovere verso Est, favorendo un calo della tensione attraverso la cortina di ferro e un rinnovamento della cooperazione tra gli stessi europei occidentali[160]. Di questa «Ostpolitik morotea» – che agli occhi di alcuni studiosi appare come l’attuazione di un vero e proprio disegno autonomo e di una visione particolare di politica estera[161] – vi è poi chi ha enfatizzato il legame con preoccupazioni e finalità politiche di carattere interno. Secondo Luciano Monzali, ad esempio, la distensione verso il blocco comunista poteva costituire una piattaforma di politica internazionale capace di raccogliere il consenso del Pci e degli altri partiti di governo nell’ambito della solidarietà nazionale[162]. Dal punto di vista della sua messa in atto, alcuni studiosi hanno osservato come questa impostazione fu applicata verso i paesi del Mediterraneo[163], ma, soprattutto, verso i Balcani[164]. A quest’ultimo scenario geopolitico, sono stati dedicati degli approfondimenti che in effetti hanno indagato l’atteggiamento e l’attivismo di Moro nella direzione di chiudere definitivamente il problema del confine orientale e la questione di Trieste. Questa azione, letta sempre in chiave di Ostpolitik italiana, sarebbe culminata con la firma nel 1975 del trattato di Osimo, che non a caso è ritenuto un «contributo non secondario» alla distensione»[165].
La ricerca recente ha allargato l’indagine all’azione di Moro su molti altri scenari: si è affermato ad esempio un filone di studi sul suo atteggiamento nei confronti delle dittature del Mediterraneo e della transizione alla democrazia in Grecia, Portogallo e Spagna[166]; un altro ambito di studi è quello che ha indagato sulla sua riflessione e la sua azione politica verso il problema del “Terzo mondo” e nei diversi versanti in cui si concretizzò la sua politica di cooperazione internazionale[167], come il Corno d’Africa[168] e l’America Latina[169]. A questa serie corposa ed eterogenea di contributi specifici sull’azione di Moro nei diversi teatri internazionali, vanno aggiunte le preziose ricostruzioni contenute in alcuni profili generali di storia internazionale e nei volumi dedicati ad alcuni temi specifici, che illuminano anche l’esperienza dello statista pugliese nella direzione degli Affari esteri italiani[170].
Proprio agli studi sul suo approccio al problema del “Terzo mondo” – ma anche alle ricerche più generali sulla sua linea di politica estera – va poi ricondotto un altro paradigma interpetativo ormai consolidato, che riguarda l’attenzione di Moro al rapporto fra Nord-Sud del mondo e il nesso fra di essa e la sua visione delle relazioni internazionali. A proposito di quest’ultima, si è ormai consolidata la lettura che trova nella formula della «interdipendenza strutturata» l’elemento più innovativo della visione morotea; un’interdipendenza, che, nell’ottica di Moro, doveva prendere il posto della mera politica di potenza e che doveva fare perno sull’Onu – ancorchè fosse convinto che questa dovesse essere riformata –, quale garante della pace e della sicurezza[171]. In questo senso, è stato osservato che Moro avrebbe sviluppato «una propria visione giuridica, politica, culturale e finanche religiosa» dei problemi internazionali, «sperimentando – ha osservato Massimo De Giuseppe – un’esperienza e sensibilità multipolare che avrebbe posto le basi per la costruzione di una concreta politica di aiuti allo sviluppo»[172]. La ricerca ha indagato l’attività istituzionale in cui si è concretizzata questa attenzione di Moro al “Terzo mondo”, identificando i maggiori risultati nell’impulso che egli diede alla politica italiana di cooperazione. L’intensificazione degli sforzi in questa direzione sarebbe infatti alla fine culminata nel varo della legge 1.222 del dicembre 1971 sulla cooperazione tecnica con i Paesi in via di sviluppo e nella costituzione dell’Istituto per le relazioni con Africa, America Latina e Medio Oriente (Ipalmo) nello stesso anno[173]. La storica delle relazioni internazionali, Elena Calandri, a questo riguardo ha poi elaborato una chiave di lettura che lega la dimensione nazionale e quella internazionale di questa iniziativa. Sottolineando che la politica nazionale di aiuti allo sviluppo era divenuta un terreno di cooperazione fra le diverse forze politiche (anche proprio tramite l’Ipalmo, gestita collegialmente da rappresentanti indicati da tutti i partiti), Calandri asserisce che essa fu scelta anche come terreno per una «distensione» interna fra la Dc e il Pci, dove l’antagonismo dovuto alla guerra fredda poteva essere smorzato. Il dialogo sugli aiuti, dunque, secondo Calandri, avrebbe anticipato la cooperazione politica fra i due principali avversari, attuando ante litteram il «compromesso storico»[174]. È stato infine evidenziato un altro risvolto della politica morotea verso il tema Nord-Sud, e cioè il suo ancoraggio all’impegno di Moro volto a rafforzare la funzione dell’Europa: proprio l’intervento nelle relazioni fra Nord e Sud del mondo e nell’ambito della cooperazione con l’Oriente – specialmente dopo la crisi energetica – avrebbe infatti potuto creare uno spazio per un possibile ruolo dell’Italia e dell’Europa con funzione di equilibrio[175].
A partire dal tema Nord-Sud, un altro nodo con cui si è misurata la storiografia riguarda la dimensione culturale che informava la riflessione morotea su questo tema e, più in generale, sulla politica estera. A tal proposito, è stata sottolineata l’estraneità di Moro al terzomondismo, inteso come rivendicazionismo conflittuale verso il Nord del mondo[176]. Si è delineata invece una lettura che ha posto l’accento sulla matrice cattolica della sua politica in ambito internazionale, specialmente in riferimento al tema della pace e alla concezione «umana» delle relazioni internazionali[177]. A questo riguardo, è stata rilevata la consonanza della riflessione morotea con gli orientamenti della Santa Sede guidata da Paolo VI[178], ma anche alcune assonanze con il pensiero che Enrico Berlinguer venne sviluppando attorno agli effetti della guerra dello Yom Kippur e della crisi energetica[179]. Un paradigma diverso – affermatosi soprattutto fra gli studiosi delle relazioni internazionali e gli storici che hanno fatto del nesso fra la strategia internazionale e la politica interna una chiave di lettura essenziale della visione morotea – sottolinea invece la componente realista, più che idealista, dell’approccio moroteo, non solo alla tematica Nord-Sud ma anche a molti altri nodi della politica estera (a cominciare dal processo della distensione). Un realismo certo nutrito anche da un’autentica tensione ideale, ma che concedeva poco spazio a visioni ireniche e ingenuità nel suo approccio alle relazioni internazionali[180]. Piero Craveri in questo senso ha efficacemente sintetizzato l’approccio moroteo alla politica estera affermando che esso «conservava il patrimonio di temi proprio della cultura cattolica, anche nelle sue pregiudiziali utopiche», dando tuttavia a esse «sempre meditata forma politica»[181].
Quanto al problema dei cambiamenti innescati dalla crisi economica internazionale e dai suoi effetti, la storiografia ha recentemente messo in evidenza che, allora, in Italia ve ne fu scarsa consapevolezza. Al riguardo, anzi, si è affermato una sorta di paradigma, quello della sostanziale «incomprensione» delle classi dirigenti (peraltro non solo italiane) in riferimento soprattutto alla dimensione economica, finanziaria e monetaria degli effetti dello shock of the global[182]. Oltre alla difficoltà a misurarsi con le trasformazioni mondiali, è stata rilevata anche una certa «resistenza» – peraltro non solo della politica, ma anche dell’opinione pubblica italiana – ad accettarne «le scomode conseguenze»[183]. È stato osservato, tuttavia, di recente che a questo paradigma farebbe parziale eccezione fra i politici italiani proprio Moro, che in effetti avrebbe colto alcune di queste trasformazioni, insistendo molto però sull’Europa, che tuttavia era solamente un aspetto del problema[184].
Quest’ultimo volume della Sezione Scritti e Discorsi dell’Edizione Nazionale delle Opere di Moro relativo al periodo 1973-1978 aggiunge ai testi finora conosciuti – per lo più quelli contenuti nella meritoria ma vecchia raccolta curata da Giuseppe Rossini[185] –, circa il doppio di nuovi, fra discorsi, interviste, interventi organici, estratti e resoconti. Non si tratta peraltro di testi “minori” o di scarsa rilevanza; si tratta piuttosto di contributi di grande interesse che riguardano diverse sfere dell’attività politica e istituzionale di Moro.
Innanzitutto, la ricerca ha permesso di rinvenire numerosi discorsi tenuti da Moro in veste di ministro degli Esteri nelle occasioni di incontro ufficiali, sia in Italia che all’estero. Sempre in relazione all’incarico di ministro degli Esteri, si sono individuate alcune interviste e dichiarazioni che Moro rilasciò a quotidiani stranieri di primo piano (come, ad esempio, Le Monde, il New York Times, Le Republicain Lorrain, alcune tv straniere) fino ad ora del tutto sconosciute. Per quanto riguarda la politica estera, dunque, il quadro dell’azione diplomatica di Moro risulta arricchito dalla ricostruzione sistematica degli scambi avuti con i suoi omologhi dei paesi arabi e dei paesi dell’Est Europa, oltre a quelli avuti con i partner dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Inoltre, la nuova completezza documentaria degli scritti permette di rimodulare sensibilmente quanto finora conosciuto sulle riflessioni di Moro relative a molteplici temi e questioni internazionali di cruciale rilevanza, come la crisi petrolifera e la questione energetica, la sua visione delle relazioni internazionali con particolare riguardo al processo di distensione e al rapporto Nord-Sud del mondo, la questione mediorientale, il ruolo degli organismi internazionali, gli equilibri nel Mediterraneo, la cooperazione internazionale, il processo di integrazione europea con i suoi stop and go, la crisi economica internazionale. In secondo luogo, la consultazione sistematica de Il Popolo e dei documenti conservati nella serie Scritti e discorsi del fondo Moro dell’Archivio Centrale dello Stato, arricchisce notevolmente quanto finora noto delle sue riflessioni su snodi e problemi cruciali della vita nazionale nel quinquennio 1973-1978, come la ricostituzione e la crisi dei governi di centro-sinistra, gli avvicendamenti interni alla Dc e i suoi rapporti con gli altri partiti, l’avvio dei governi della solidarietà nazionale, la crisi di inizio 1978, il terrorismo e la violenza politica, le trasformazioni della società italiana. Grazie soprattutto a nuovi ampi estratti dei suoi interventi, specialmente nel corso di campagne elettorali e incontri di tipo istituzionale, siamo ora in grado di conoscere meglio anche la sua attività nel corso di cruciali momenti di consultazione popolare. Si sono inoltre rintracciati alcuni articoli sui temi politici ed economici scritti da Moro per riviste come La Discussione, Il Nostro tempo, Politica Bancaria e Studi economici e sociali. Attraverso la lettura completa della Gazzetta del Mezzogiorno, si sono individuati infine alcuni discorsi (o degli ampi resoconti) tenuti da Moro in Puglia, che gettano luce sulla sua presenza e attività a livello locale (attraverso la partecipazione a incontri pubblici, a inaugurazioni di vario genere, ad assemblee di partito, alle campagne elettorali), contribuendo a ricostruire una dimensione dell’impegno di Moro finora trascurata, sia in generale che per ciò che riguarda quest’ultima fase[186].
Il volume raccoglie tutti i testi attribuibili sicuramente ad Aldo Moro. Per quanto riguarda la ricerca e la selezione degli interventi, attenendosi ai criteri di pubblicità, autorialità e organicità, si è utilizzata la prima fonte che viene citata nell’abstract di ogni testo. Si tratta della versione più completa dell’intervento, che, generalmente, coincide con la versione pubblicata. L’esistenza delle bozze e dell’originale manoscritto o dattiloscritto conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato e di eventuali versioni pubblicate in altre raccolte dell’epoca e/o postume (ad esempio, i volumi curati da Giuseppe Rossini) è sempre segnalata nell’ambiente di marcatura della piattaforma. In alcuni casi, sono state selezionate e trascritte le varianti di alcune stesure rinvenute presso l’Archivio centrale dello Stato che sono apparse significative. Il nuovo scavo delle fonti ha infatti consentito di raccogliere le versioni di alcuni testi decisamente più ampie rispetto a quelle pubblicate all’epoca, che quindi risultano “tagliate” rispetto agli originali, talvolta per volontà dello stesso Moro. In questi casi, si è provveduto a riportare in nota i paragrafi mancanti e quindi inediti. In questo modo è stato possibile restituire al lettore i testi già noti in una nuova completezza (oltreché verificati nella loro correttezza). Nel caso – molto frequente – di discorsi pubblici riportati da più testate giornalistiche, sempre con la finalità di ricostruire testi quanto più completi possibile, si è effettuato il confronto fra i brani riportati in ciascun giornale integrandoli. Per quanto riguarda la fase di verifica, nel caso dei testi già pubblicati, si è eseguito un confronto con gli originali al fine di individuare i possibili refusi.
Nel lavoro di trascrizione, si è tenuto fermo come criterio univoco l’assoluta fedeltà all’originale. Gli unici interventi redazionali non segnalati, ridotti all’essenziale, sono le correzioni di evidenti refusi nel processo di stampa, delle sviste banali, degli accenti gravi, resi in acuti. L’intervento sulla punteggiatura è ridotto al minimo, solamente quando la sua mancanza rischiava di compromettere la corretta comprensione del testo. Nei casi di articoli, dichiarazioni, interviste ed estratti tratti dalla stampa quotidiana e periodica e dei discorsi raccolti nei bollettini del ministero degli Esteri o negli atti parlamentari – che rappresentano la grande maggioranza dei testi raccolti in questo volume –, per ciascuno si è proceduto a uniformare l’utilizzo delle maiuscole o delle minuscole secondo un criterio di omogeneità. Si sono lasciati inalterati i (pochi, per la verità) vocaboli desueti. Anche per quanto riguarda i testi reperiti presso il fondo Aldo Moro dell’Archivio centrale dello Stato, ci si è attenuti al criterio dell’assoluta fedeltà all’originale. La firma autoriale e il titolo dell’intervento, ove presenti, sono rimasti sempre invariati, così come l’utilizzo dei corsivi o delle sottolineature. I titoli mancanti sono stati inseriti fra parentesi quadre e di taglio descrittivo. Altri tipi di correzioni, quando necessari, sono stati segnalati tra parentesi quadre. L’apparato critico è stato predisposto per supportare la lettura con informazioni essenziali su eventi, documenti e persone.
Il lettore non troverà in questo volume gli scritti di Moro relativi ai cinquantacinque giorni di prigionia nelle mani delle Brigate Rosse. In larga parte, si tratta di testi, come le lettere, che appartengono all’epistolario moroteo e che come parte di esso vanno considerate. Quando l’Edizione Nazionale potrà prevedere anche una Sezione dedicata ai carteggi, anch’esse potranno esservi incluse. Vi è però il caso del cosiddetto Memoriale del 1978. Esso pone rilevanti problemi rispetto ai tre caratteri che, secondo il progetto concordato dal Comitato dell’Edizione Nazionale, debbono definire la categoria di un’opera di Moro come criterio di inclusione/esclusione negli scritti: a) organicità, b) pubblicità e c) autorialità. Da questo punto di vista, il documento pone non pochi problemi: a) si può considerare un’opera di Moro dal punto di vista dell’autorialità viste le condizioni in cui fu scritto? b) ha una tipologia diversa dagli altri scritti e i discorsi di Moro, perché manca ad esso la pubblicità che è una delle condizioni per l’inserimento? Il Comitato scientifico dell’Edizione Nazionale ha inteso, da un lato, sottolineare l’unicità e l’eccezionalità del documento e, dall’altro, evitare letture antitetiche e polemiche di esso: “il vero Moro” contro “assolutamente non Moro”. Ha deciso pertanto di non includere il Memoriale tra gli Scritti e Discorsi, ma di pubblicarlo a parte in una Appendice assieme alle altre tipologie di testi che non rientrano pienamente nella serie. Allo stesso modo, il lettore troverà in questa Appendice anche la famosa ultima intervista concessa da Moro a Eugenio Scalfari nel febbraio 1978, testo che Moro non poté rivedere e validare, e del quale pure occorre dunque segnalare l’atipicità.
La nuova completezza dei testi indubbiamente conferma un primo dato che la storiografia, come abbiamo visto, ha già evidenziato, cioè che al centro del pensiero di Moro tra il 1973 e il 1978, in effetti, vi era la convinzione che il paese stesse vivendo quella che lui stesso definì un’«emergenza» politica, latente da alcuni anni, ma aggravatasi negli ultimi tempi. Anzi, appare confermato quello che, come si è detto, Agostino Giovagnoli ha già messo in rilievo, e cioè che per Moro la crisi italiana degli anni Settanta fu, soprattutto, politica. E che proprio la crisi della politica apparve ai suoi occhi ancora più grave delle altre (quelle economica e quella sociale), proprio perché si trattava dello smarrimento della chiave per affrontare tutti gli altri problemi[187]. Dalla lettura complessiva dei suoi interventi, emerge in effetti chiaramente che, ad avviso di Moro, per uscire dalle secche della crisi economica e per contrastare i disegni eversivi e l’«imbarbarimento» della vita democratica, occorreva prioritariamente intervenire sul terreno politico. E che, in un primo tempo, la formula che Moro promosse in ogni circostanza per affrontare queste sfide era il centro-sinistra.
L’Edizione Nazionale appare inoltre confermare che al centro della sua riflessione sulla crisi politica, Moro abbia privilegiato il rapporto con il Partito comunista. La rilettura complessiva dei suoi interventi attesta ciò che la storiografia più recente che si è occupata del Moro politico ha già osservato, e cioè che l’atteggiamento di Moro verso i comunisti subì un’evoluzione, scandita da alcune tappe importanti e cruciali momenti di consultazione collettiva. Un primo momento di svolta fu indubbiamente determinato, come già rilevato dagli studiosi, dall’esito del referendum sul divorzio del maggio 1974 – «lo spartiacque della storia della Democrazia cristiana», come lo definì lo stesso Moro in uno dei suoi discorsi[188] –, che lo indusse a sviluppare gradualmente una nuova considerazione del ruolo politico del Partito comunista.
Un ulteriore momento di svolta si ebbe con le elezioni regionali del 1975, quando si pose in modo definitivo la «questione democristiana»[189], che indussero Moro a parlare più insistentemente dell’evoluzione del Pci e degli sviluppi del dialogo con esso, facendo riferimento per la prima volta a quella «terza difficile fase della nostra esperienza»[190], che avrebbe acceso tante discussioni nei mesi e negli anni a venire. Su questo punto – che, come abbiamo visto, appare il nodo centrale di un lunghissimo dibattito storiografico sull’ultimo Moro che continua ancora oggi –, rileggendo nel complesso i suoi interventi, inclusi quelli inediti e finora poco conosciuti, non emergono nuove indicazioni circa i potenziali sviluppi della «terza fase», se non che, appunto, il discorso di Moro appare fortemente legato alla percezione dell’esistenza di un’emergenza politica nel paese. Questa stessa “assenza” rappresenta comunque un dato e induce a tenere a mente ciò che Piero Craveri ha efficacemente osservato ancora negli anni Novanta, quando ha rilevato che la formula della «terza fase» ha finito per caricarsi di significati, che «alla lettera Moro non ha mai espresso, presentati a volte quasi in analogia con la formula della “terza via”, sulla quale i comunisti si attardarono a lungo nel loro dibattito di revisione ideologica»[191].
La rilettura complessiva dei testi consolida poi un ulteriore risultato della ricerca recente su questi temi, cui abbiamo già fatto riferimento, e cioè che il terrorismo non sembra abbia indotto Moro a modificare le sue intenzioni verso il Pci, nel senso di prevederne il coinvolgimento diretto nelle responsabilità di governo. Certamente, la rilettura dei suoi interventi conferma che Moro in quegli anni fu un attento osservatore dei fenomeni della violenza politica e del terrorismo, dimostrando la sua sostanziale estraneità al paradigma degli “opposti estremismi” e la sua capacità di distinguere la pericolosità del “disegno” dell’estrema destra e della violenza di sinistra. Emerge inoltre l’evoluzione della riflessione morotea su questi problemi, segnata in particolare dalla crescente preoccupazione nei confronti dell’eversione di sinistra a partire dal 1977. Tuttavia, appare confermato quanto la storiografia ha già evidenziato, e cioè che la minaccia eversiva e quella della lotta armata non l’abbiano mai indotto ad auspicare o anche solo ad accettare soluzioni o accordi con il Pci più avanzati di una comune maggioranza parlamentare, come il “compromesso storico” o governi unitari di emergenza[192]. Nemmeno in coincidenza con l’escalation del terrorismo di sinistra e la crisi del gennaio 1978 sembra che la minaccia eversiva sia stata tra le ragioni decisive della decisione con cui, nel febbraio-marzo del 1978, la Dc – e Moro in primis – stabilì di dar vita, proprio nel nome dell’emergenza (innanzitutto politica ed economica, appunto), a una maggioranza parlamentare allargata fino al Pci[193]. Peraltro, proprio grazie alla nuova completezza dei suoi interventi, il ruolo che Moro svolse in quel frangente, già ampiamente enfatizzato dalla storiografia, appare ancora più nitido. Egli infatti mise in atto un’opera cruciale di mediazione sia nell’interlocuzione ufficiosa che egli aveva ormai consolidato con il segretario del Pci, sia nel confronto con gli altri partiti della maggioranza, sia soprattutto fra le componenti del suo partito. La preoccupazione di mantenere la massima unità della Dc, che egli riuscì – nonostante la vivacissima dialettica interna sulla prospettiva dell’accordo a sei – effettivamente a traghettare compattamente sulla strada della formazione di una maggioranza con i comunisti, appare in effetti centrale nel pensiero moroteo[194].
Guardando gli scritti di Moro tra 1973 e 1978 nel loro complesso, rispetto alla centralità pressoché assoluta che la storiografia ha spesso dato alla questione dei rapporti con i comunisti, l’edizione completa dei testi suggerisce dunque un suo più corretto inquadramento in un contesto di lettura più vasto e comprensivo. La rilettura complessiva dei testi consente in effetti di collocare la “questione comunista” come una delle emergenze – certo la principale, ma non la sola – oggetto della riflessione di Moro, accanto ad altri nodi e problemi che furono al centro del suo pensiero, come appunto la violenza politica e il terrorismo, la crisi economica tanto nella sua dimensione internazionale, quanto nella sua dimensione nazionale, e le relazioni internazionali nel loro complesso.
Per quanto riguarda la riflessione sul quadro internazionale, la nuova completezza degli scritti conferma, e anzi, rafforza, innanzitutto l’idea della centralità del nesso fra prospettiva nazionale e internazionale proposta da alcuni studiosi. La rilettura complessiva dei suoi interventi, noti e meno noti, consente di confermare, infatti, che Moro, sollecitato in questo da una sensibilità non comune per le vicende internazionali, insistette ripetutamente in questi anni sui legami fra politica internazionale e nazionale, fino a renderli un fattore decisivo di orientamento della sua azione politica. Gli scritti di Moro, inclusi quelli meno conosciuti – sia in relazione alla fase immediatamente successiva alla crisi petrolifera, come reazione “a caldo” al suo impatto, sia nella riflessione più meditata maturata nei mesi seguenti anche alla luce degli effetti di medio periodo che essa stava avendo –, dimostrano che egli fu uno tra i pochi leader politici italiani ad osservare con estrema attenzione gli eventi. E che fu forse fra coloro che più si adoperarono per dare delle risposte – sul piano politico, economico, sociale – all’altezza della sfida che questi mutamenti ponevano. Anzi, proprio la crisi internazionale sollecitò in lui una riflessione e una linea d’azione che, ancora più che in passato, intrecciavano molteplici fronti: la politica interna, quella internazionale, quella locale – relativa in particolare al Mezzogiorno –, e la sua percezione dei mutamenti in corso nella società.
Il riferimento al nesso nazionale-internazionale è peraltro presente non solo nelle riflessioni morotee sugli sviluppi della politica e delle relazioni internazionali, ma anche in quelle dedicate ad altri temi, in primis quelli economici. Benché, come si è visto, gli studi abbiano quasi del tutto trascurato questo specifico ambito di ricerca[195], gli scritti, nella loro nuova completezza, mostrano come l’economia – e soprattutto la crisi economica mondiale e quella nazionale dopo lo shock del 1973 – sia stato un tema particolarmente ricorrente nella riflessione di Moro, specialmente negli anni in cui fu ministro degli Esteri e presidente del Consiglio. La cruciale rilevanza del tema, l’assenza di studi su di esso e le nuove risultanze cui gli scritti permettono di giungere inducono pertanto a ritenere che questa dimensione della sua riflessione meriti un primo approfondimento in questa sede alla luce degli scritti qui raccolti.
L’economia appare innanzitutto uno dei temi centrali del pensiero moroteo, sia dal punto di vista “quantitativo”, per l’intensità e la frequenza con cui egli affrontò l’argomento, sia dal punto di vista “qualitativo”, per l’originalità delle analisi che venne sviluppando. In esse, come vedremo, il nesso nazionale-internazionale appare come una costante, quasi imprescindibile, del suo ragionamento. Di certo, nell’analizzare i fatti e, in seguito, nel delineare la strategia e i provvedimenti da assumere per far fronte all’emergenza economica, Moro si avvalse delle competenze e dell’esperienza di consiglieri di sua fiducia, come ad esempio l’economista Beniamino Andreatta. Tuttavia, è certamente possibile individuare nei suoi testi alcuni elementi del tutto personali e un’acuta percezione dei profondi cambiamenti in atto e dei loro effetti, anche sul lungo periodo, elementi senz’altro attribuibili alla sua – ormai trasversalmente riconosciuta – spiccata capacità di osservare e interpretare gli eventi che interessavano la società. La sua riflessione si articolava attorno a due nodi già menzionati: il nesso nazionale-internazionale e la convinzione che l’Italia stesse vivendo emergenze di natura diversa, ma strettamente intrecciate tra loro: non solo quella economica, ma anche quella politica e quella dell’ordine pubblico. Inoltre, il suo pensiero sull’economia si intrecciò profondamente con la sua azione in politica estera, che in quella fase fu orientata a contemperare esigenze diverse, che come abbiamo visto la storiografia ha già messo in evidenza: l’europeismo, la salvaguardia dei tradizionali legami con Washington, l’apertura verso le richieste dei paesi arabi, un bilateralismo volto a ricercare rifornimenti petroliferi a condizioni accettabili.
A Moro fu subito chiara la portata dirompente, non soltanto sotto il profilo economico, ma più generalmente politico, della crisi dell’energia, che – come disse alla commissione Esteri della Camera il 28 febbraio 1974 – «domina questo momento storico e condiziona, in modo sensibile, gli sviluppi della politica internazionale»[196]. L’innata propensione ad analizzare gli eventi in un quadro più complessivo – e complesso –, lo indusse a inquadrare la situazione in una prospettiva di lungo periodo e a formulare obiettivi e possibili risposte alle difficoltà del momento che guardassero oltre le contingenze, in un’ottica ambiziosa, di ripensamento globale delle relazioni internazionali. In questo senso, il suo pensiero sulla situazione economica (nazionale e internazionale) si intrecciò profondamente – si potrebbe dire, inscindibilmente – con la sua visione delle relazioni internazionali.
La lettura complessiva degli interventi e dei testi di quei mesi in effetti mette in luce che la crisi petrolifera e le sue ricadute indussero Moro a tornare su alcune riflessioni maturate nel corso degli anni precedenti, cui seguì il tentativo di dare loro un’articolazione sul piano politico, prima come ministro degli Esteri, poi come presidente del Consiglio. Egli di fatto si pose in continuità con le linee di azione seguite nella passata esperienza agli Esteri e che le circostanze rendevano ancora più attuali e stringenti. In particolare, si fece nuovamente fermo sostenitore, forse con ancora maggiore assertività, di risposte concertate, quanto meno nell’ambito europeo, per far fronte alle difficoltà comuni, della cooperazione e del multilateralismo a livello internazionale, dell’attenzione al destino dei paesi in via di sviluppo nell’ottica di un sistema internazionale più equilibrato, della convinzione dell’esistenza di un forte nesso fra pace e sviluppo e quindi delle opportunità offerte dal processo di distensione cui il tema della pace era strettamente collegato[197].
Al di là del tentativo – che, come abbiamo visto, è stato già ampiamente rilevato dalla storiografia sull’azione di Moro in politica estera – di promuovere risposte comuni a livello internazionale ed europeo, come si è accennato, gli scritti ci mostrano che la crisi energetica e i suoi effetti sulle economie dei paesi industrializzati e quelli emergenti indussero Moro a tornare a riflettere su alcune questioni più generali. La crisi sostanzialmente confermò le sue convinzioni circa la necessità di superare gli squilibri – di carattere economico e non solo – esistenti fra le diverse parti di un mondo ormai sempre più interdipendente, anche come fattore di stabilizzazione del sistema internazionale. Si trattava di una riflessione che si collegava strettamente alla cosiddetta «dottrina della pace», esposta in sede ONU da Moro stesso nel 1969 e secondo la quale la soluzione dei conflitti a livello internazionale dipendeva dalla riduzione per via politica degli squilibri di ordine demografico, economico, sociale, tecnologico, militare, politico tra le diverse regioni di un mondo sempre più integrato e interdipendente[198].
L’analisi complessiva degli scritti di questa fase consente così non solo di confermare l’assoluta centralità nel pensiero e nell’azione istituzionale di Moro della questione Nord-Sud, ma anche di affermare che, pur nella lucida – e a tratti crudamente realistica, appunto – percezione delle difficoltà che la crisi monetaria e quella energetica stavano creando alla realizzazione di un nuovo equilibrio mondiale, egli non smise di muoversi nel tentativo di creare le condizioni per favorirlo. I suoi interventi anzi dimostrano che la crisi del 1973 diede modo a Moro di tornare con ancora maggiore assertività su questi temi. Egli infatti vedeva un nesso strettissimo fra il problema del divario fra Nord e Sud del mondo e la crisi petrolifera. Proprio questo divario, a suo avviso, rappresentava un motivo di crisi ben più importante e più durevole del latente conflitto mediorientale che aveva portato i paesi arabi dell’Opec ad aumentare il prezzo del greggio. Moro avvertiva la volontà dei paesi in via di sviluppo, possessori di un bene divenuto sostanzialmente indispensabile – tanto da essere un fattore condizionante dell’economia – di far pesare di più, per realizzare il proprio progresso, quello che era il loro peculiare apporto alla produzione dei beni dei quali il mondo aveva bisogno crescente. Solo in questa luce, si poteva cogliere la vera dimensione del fenomeno, che a suo avviso rappresentava una svolta significativa nel confronto tra paesi ricchi e paesi poveri. Moro in effetti dimostrò di essere uno dei leader politici italiani che comprese più tempestivamente che il petrolio era divenuta un’arma con la quale i paesi meno avanzati avrebbero riaffermato il proprio ruolo nel sistema internazionale e che ciò avrebbe prodotto un nuovo equilibrio – «instabile» – nell’economia (e quindi anche nella politica) mondiale.
I maggiori responsabili della politica mondiale in quei mesi non sembrarono comunque fare passi in avanti nella direzione della cooperazione indicata da Moro. Le nuove dinamiche economiche stavano anzi mettendo in discussione il compromesso che aveva strutturato il blocco occidentale nei decenni precedenti e il processo di integrazione economica – anche a livello europeo – conobbe una fase di stallo. La rilettura degli interventi di quel periodo mostra però come ciò indusse Moro a tornare più volte, nei mesi seguenti, su questi temi e a reclamare una risposta coordinata fra tutti gli stati colpiti dalla crisi. L’ampiezza stessa della minaccia imponeva «una risposta coordinata dei diversi governi, poiché – scriveva Moro, ora divenuto presidente del Consiglio, in un articolo per «il Sole 24 ore» alla fine del 1974 – nessuno oggi è economicamente abbastanza forte per combattere da solo, all’interno del suo mercato nazionale, i sintomi della recessione, senza doversi dar carico del peggioramento dei conti con l’estero, che ne seguirebbe inevitabilmente, ove non si avesse una simultaneità di mosse espansive della maggioranza almeno delle altre economie»[199]. Lo stesso discorso valeva per i due settori particolarmente critici della situazione economica del mondo: quello energetico e quello monetario/finanziario. Ad avviso di Moro, i problemi dei rifornimenti energetici, degli imponenti investimenti per sviluppare vecchie e nuove fonti di energia e per mobilitare le capacità di ricerca verso nuovi sviluppi tecnologici richiedevano la collaborazione di tutte le nazioni industrialmente avanzate. D’altro canto, il complesso sistema dei mercati finanziari imponeva di creare a livello internazionale una istituzione o un meccanismo che svolgesse la stessa funzione che adempievano le banche centrali nell’ambito delle singole economie nazionali. Secondo Moro, insomma, il mondo aveva bisogno di «leadership», che doveva essere gestita «collettivamente»: gli automatismi economici dovevano essere integrati «nell’ambito di una decisa azione politica internazionale»[200]. Alla base di queste convinzioni vi era una visione del mondo – già elaborata in precedenza, come abbiamo visto – fortemente interdipendente, che la crisi internazionale aveva reso ancora più chiara e ineludibile, specialmente alla luce di quella che Moro in quel periodo definì, molto efficacemente, la spinta «integrazionale» dell’economia mondiale, che accomunava nella prosperità e nella depressione sempre più strettamente tutte le economie. Proprio questa spinta, che per Moro appariva come inarrestabile, avrebbe richiesto una strategia coordinata e comune – perlomeno a livello europeo – per combattere i più gravi pericoli del momento[201].
Nonstante la scarsa attenzione che gli studi su Moro hanno dedicato alla dimensione sconomica nazionale, proprio quest’ultima emerge come uno degli elementi più presenti ne suoi i interventi di metà anni Settanta. La loro lettura sistematica permette quindi di formulare alcune considerazioni e di aprire scorci inediti sulle sue riflessioni in materia economica che, per quanto riguarda il versante interno, appaiono incentrate sul concetto di emergenza. Fin da quando cominciarono a vedersi i primi segni delle conseguenze della crisi petrolifera sull’economia italiana, Moro intuì che la situazione nazionale era tanto più grave proprio perché si inquadrava in una crisi economica mondiale. Tuttavia, tale crisi mondiale, a suo avviso, stava colpendo più profondamente l’Italia per la sua fragilità, perché arrivata per ultima allo sviluppo rispetto agli altri paesi occidentali. Una delle principali preoccupazioni che in quella fase Moro espresse in più occasioni fu quella di ricostruire la fiducia dei partner internazionali nel futuro e nella stabilità del paese. Occorreva salvaguardare questa fiducia e quindi i rapporti internazionali, non solo per il prestigio dell’Italia, ma anche perché «essenziali» per la sua stessa sopravvivenza. L’Italia avrebbe fatto ogni sforzo per uscire dalla sua crisi, ma nel quadro – disse ai dirigenti padovani della Dc riuniti a Borca di Cadore il 15 settembre 1974 – di «una operante solidarietà internazionale, fatta di fiducia verso di noi, fondata sulla fiducia che l’Italia ce la possa fare, che l’Italia possa uscire da questo momento di crisi e tornare ad essere un paese sul quale si possa contare»[202].
La fiducia dei governi stranieri nei confronti dell’Italia doveva quindi necessariamente passare per la stabilità politica ed economica del paese. Con questo Moro non esprimeva solamente un mero auspicio – cioè che l’Italia riconquistasse credibilità agli occhi degli osservatori esteri –, ma dimostrava soprattutto di essere consapevole che, per ottenere supporto – anche finanziario –, occorreva che i partner europei e gli investitori avessero fiducia nella capacità di ripresa del paese. Già nel corso del governo precedente, l’Italia aveva ottenuto dalla Bundesbank un prestito (dietro la richiesta di un «pegno in oro») e una facilitazione di accesso al credito per finanziare il disavanzo dal Fondo monetario internazionale. L’Italia aveva inoltre sostenuto la proposta della Commissione europea circa il collocamento diretto di prestiti da parte della Comunità[203]. Quello di Moro era dunque un discorso di realismo, formulato nella consapevolezza che il paese doveva onorare dei precisi impegni (finanziari) internazionali già presi e che molto probabilmente la crisi l’avrebbe indotto ad assumerne di nuovi (come poi sarebbe effettivamente avvenuto).
Dal novembre del 1974, Moro si trovò quindi in veste di presidente del Consiglio a fronteggiare uno dei periodi di più acuta crisi economica e sociale. Nel 1975 si sarebbe registrata anche la prima recessione produttiva dal dopoguerra. Il nesso – che lo statista pugliese non aveva mai perso di vista – fra la dimensione nazionale e quella internazionale ora appariva quanto mai stretto e, per certi versi, stringente. Come disse nelle sue dichiarazioni programmatiche, l’Italia era il più esposto alla crisi tra i paesi industriali, anche per i vincoli posti al ricorso al credito delle istituzioni internazionali. Ciò rafforzava in Moro la convinzione che occorresse proseguire sulla strada del coordinamento con gli altri stati colpiti dalla crisi. Anche durante la presentazione del suo governo, il 2 dicembre alla Camera, egli ripropose la sua visione della crisi energetica come occasione per ripensare il modello di sviluppo degli scambi internazionali e un sistema economico che fosse «più equilibrato e al tempo stesso meno ingiusto»[204], ma collegò strettamente questo discorso alla situazione dell’Italia. Nell’ottica di Moro, infatti, la situazione nazionale non era poi tanto diversa da quella dei paesi emergenti che della crisi energetica e di quella monetaria (come di una eventuale recessione) rischiavano di subire le conseguenze più gravi. Con questi paesi l’Italia – affermò Moro – «si sente solidale, anche perché, pur trovandosi ad un diverso livello di sviluppo, essa è altrettanto priva di risorse naturali, tanto che la crisi mondiale in atto la pone di fronte a problemi fuori di misura per le risorse finanziarie di cui essa può autonomamente disporre». Dunque, disse ancora Moro, l’avvenire era condizionato «da una autentica cooperazione e solidarietà internazionali nell’affrontare i problemi strutturali della economia mondiale – che sono quelli dell’energia, della popolazione, dell’alimentazione, del finanziamento dello sviluppo, del progresso e della diffusione della tecnologia – al fine di stabilire una migliore e più giusta ripartizione delle ricchezze del mondo»[205]. Una più equa ripartizione di cui, appunto, avrebbero beneficiato non soltanto i paesi emergenti, ma anche quelli ad uno stadio più avanzato nello sviluppo, ma pur sempre poveri di risorse, come l’Italia. Ancora una volta, dunque, Moro non si limitava a espressioni di puro idealismo; il suo discorso si basava invece su una visione piuttosto realistica dello stato delle cose nel mondo e in Italia e di come esse, a suo avviso, dovessero essere affrontate. Ogni appello alla cooperazione internazionale in materia economica presupponeva ovviamente il mantenimento della pace nelle varie regioni del globo[206]. E qui il suo discorso sulla crisi economica si saldava nuovamente alla sua visione delle relazioni internazionali, fondata sul nesso stretto fra pace e sviluppo.
La situazione richiedeva uno sforzo complessivo del paese e ciò indusse il presidente del Consiglio a rivolgere più volte un appello al senso di responsabilità – e anche al «sacrificio», che fu una parola piuttosto ricorrente nei suoi interventi e che denotava, ancora una volta, una visione, a tratti crudamente, realistica della situazione – di tutti gli attori che potevano svolgere un ruolo nel mitigare o contenere gli effetti della crisi: le forze politiche che sostenevano il governo; le forze dell’opposizione, con particolare riguardo al Pci il cui segretario Enrico Berlinguer, non a caso, venne convocato formalmente per la prima volta nel marzo del 1975 a Palazzo Chigi proprio per discutere delle scelte di politica economica[207]; gli imprenditori e le parti sociali. Il governo non avrebbe potuto portare a termine i suoi propositi per una politica di risanamento e di rilancio dell’economia «senza la profonda convinzione – disse Moro alla Camera il 2 dicembre del 1974 – da parte dei governi locali, dei sindacati e degli imprenditori, che la eccezionalità dei pericoli che incombono sulla comunità nazionale richiede una rinnovata unità di intenti, un più meditato sforzo di integrazione dei comportamenti di ciascuno nel quadro di una strategia globale, una puntigliosa volontà di sopravvivenza nazionale»[208].
Rispetto a quanto abbiamo visto emergere in molti degli studi esistenti, la lettura attenta degli scritti e dei discorsi dello statista democristiano mette in luce un peculiare atteggiamento di Moro anche nei confronti del sindacato. Già dal suo discorso di insediamento, egli aveva in effetti manifestato l’inclinazione verso un nuovo rapporto di mediazione con le centrali sindacali, quale controparte che avrebbe dovuto svolgere il proprio ruolo di responsabilità, sia verso le masse lavoratrici, sia verso il paese intero, in una fase così delicata. Ciò era emerso quando si era riferito ad esse definendole «grandi forze sociali, espressione di esigenze autentiche che – aveva detto – è nostra responsabilità conoscere e valutare. Grandi forze sociali non limitate ad un’episodica azione rivendicativa, ma dotate di senso di responsabilità, di misura e di consapevolezza civica, sono esse canali importanti per il raccordo tra Governo e paese[209]. La lettura degli interventi di Moro in quei mesi consente inoltre di affermare che, anche in questo ambito, le sue riflessioni furono caratterizzate da un grande realismo. La crisi e le condizioni specifiche in cui versava l’Italia richiedevano un grosso sforzo di collaborazione fra governo e parti sociali ed è proprio questo che lo indusse a rivolgersi con insistenza al sindacato con inviti costanti alla «moderazione». Alla base dei suoi appelli, vi era anche una certa consapevolezza dell’evoluzione della questione salariale degli ultimi anni, in Italia e nel resto d’Europa. Se in effetti una delle componenti del «miracolo economico» italiano era stato il basso costo del lavoro, derivante anche dai bassi salari contrattati dai lavoratori[210], nel corso degli anni Sessanta e Settanta i costi del lavoro avevano largamente recuperato, nonostante la svalutazione della lira, la differenza con i livelli salariali del resto dell’Europa. Alla luce di questi sviluppi, il sindacato, secondo Moro, non poteva proporsi, di fronte alla crisi in corso, obiettivi ambiziosi come negli anni passati e tanto meno lo poteva dopo l’accordo sulla scala mobile – accolto «positivamente», ma, contrariamente a quanto sembra emergere dalla storiografia, con molta cautela dal governo[211] – che riduceva ampiamente il margine per la contrattazione collettiva. L’appello di Moro alla «moderazione» sarebbe quindi stato ricorrente, anche perché le rivendicazioni nel corso del 1975 si tradussero in un’ulteriore impennata delle ore di sciopero[212]. D’altro canto, come è già stato osservato, l’invito alla «moderazione» veniva controbilanciato dalla promessa di un riequilibrio fiscale, nel «tentativo di tenere assieme le esigenze di una maggioranza che si era divisa proprio su questi punti»[213].
Uno degli effetti cruciali indotti dalla crisi internazionale che iniziò a colpire duramente anche l’Italia, fino a esplodere soprattutto nella seconda metà del decennio, fu poi quello della disoccupazione, in particolare giovanile. Era un effetto del cosiddetto «ciclo infernale», innescato dai provvedimenti messi in atto per affrontare la crisi[214]. La rilettura complessiva dei suoi interventi rivela che Moro mostrò di rendersi conto, già allora, del prezzo che la crisi e le politiche per farvi fronte stavano imponendo ai giovani, in termini di disoccupazione, e alle future generazioni, in termini di debito. E quest’ultimo aspetto non è un dato di poco conto, anzi. Se la letteratura esistente tende ad accreditare l’assenza o quanto meno l’indifferenza del dibattito politico in questa specifica fase verso il problema della stabilità, ebbene una rilettura attenta degli interventi di Moro ci offre almeno un quadro più articolato, che mostra come invece questo tema e l’attenzione per le generazioni future non fossero del tutto assenti. La preoccupazione che egli espresse con costanza per le prospettive dei giovani, specialmente per ciò che riguardava il lavoro, e per le generazioni future, che avrebbero pagato i costi delle politiche per uscire dalla crisi in corso, ne rende testimonianza. Non fu un caso, fra l’altro, se molti dei suoi cenni al problema della disoccupazione giovanile vennero fatti in città del Sud Italia. Le regioni meridionali furono fra le più colpite da questo fenomeno e lo statista pugliese non solo ne era consapevole, ma ebbe la lucidità di inquadrare il problema in un discorso di lungo periodo, che andava oltre la crisi contingente.
Moro anche in questa fase in effetti prestò particolare attenzione alla questione meridionale, anche perché era convinto che il destino del Sud fosse strettamente legato a quello dell’intero paese. Già mentre svolgeva l’incarico di ministro degli Esteri, egli cercò di individuare e di sfruttare le opportunità di sviluppo che il quadro internazionale, specialmente nell’ambito della Comunità europea, poteva offrire all’Italia, con particolare riguardo alle regioni meridionali. Si tratta di aspetti – il nesso fra unificazione economica e unificazione politica del Sud e dell’Italia e la convinzione che la Comunità europea potesse offrire delle opportunità di sviluppo al Mezzogiorno – scarsamente rilevati dall’analisi storiografica sul Moro degli anni Settanta[215]. La lettura dei suoi discorsi non solo permette oggi di mettere in luce la presenza di riflessioni approfondite di Moro su questi temi, ma mostra come in questa fase esse divennero ancora più costanti, anche perché proprio in quel periodo era in corso la definizione di una politica regionale europea che aveva la finalità di coordinare e offrire sostegno finanziario alle politiche di sviluppo regionale degli stati membri. La politica di sviluppo delle regioni meno favorite era da tempo una richiesta italiana, anche per bilanciare il peso della politica agricola sul bilancio europeo, che andava prevalentemente a favore dell’asse franco-tedesco. Questo percorso, avviato nel 1972 al vertice di Parigi e confermato al vertice di Copenaghen l’anno seguente, pur non lineare, avrebbe portato nel 1975 all’istituzione del Fondo europeo di sviluppo regionale, finalizzato a concedere sovvenzioni agli investimenti in infrastrutture e nei settori produttivi localizzati nelle aree svantaggiate e depresse della Comunità, in accompagnamento delle politiche regionali sviluppate all’interno degli stati membri. Moro fu subito uno dei principali sostenitori di questo processo e, in più occasioni, denunciò – anche con durezza – i ritardi nell’implementazione del programma di cui avrebbero beneficiato soprattutto le aree depresse del Sud Italia. Il nesso fra la realtà meridionale e la Comunità europea fu quindi subito fortemente affermato da Moro, in una duplice chiave: la Comunità poteva offrire le risorse per lo sviluppo delle zone più arretrate del paese e d’altro canto il Mezzogiorno, «con le sue riserve potenziali», poteva diventare – come dichiarò alla «Gazzetta del Mezzogiorno» in occasione della Fiera del Levante del 1973 – «una delle grandi aree ove si affermi il dinamismo innovatore della Comunità europea»[216]. Per Moro, inoltre, la politica regionale della Cee avrebbe rappresentato una «manifestazione di un tipo nuovo di solidarietà destinato a modificare gradualmente la natura dei rapporti intracomunitari»[217]. Dare soluzioni a problemi locali e superare gli squilibri presenti in ambito comunitario avrebbe in sostanza contribuito a garantire la stabilità a livello europeo. Come ebbe modo di dire al vertice di Bruxelles nel novembre del 1974, la politica regionale era «l’elemento attraverso il quale passa l’azione di riequilibrio economico» nell’ambito comunitario. Da parte italiana, si insisteva peraltro affinché la Comunità non limitasse il suo intervento «a curare i mali congiunturali», ma lo estendesse anche «agli squilibri strutturali»[218]. Moro insomma riproponeva anche qui il medesimo ragionamento sotteso alla «dottrina della pace» esposta all’ONU nel 1969. In sede europea, ciò si traduceva nella convinzione che avviare una politica regionale e sociale della Cee avrebbe contribuito ad «eliminare focolai di debolezze strutturali e di crisi che – come affermò al vertice di Lussemburgo nell’aprile del 1976 – non mancherebbero altrimenti di pesare sull’avvenire anche di regioni e famiglie sociali più prospere»[219].
L’attenzione al Mezzogiorno naturalmente si riflesse anche nell’azione di governo volta a garantire piani di investimento e agevolazioni per le imprese industriali del Sud, del resto in linea con le politiche già adottate negli anni Sessanta. Moro, come abbiamo visto, era profondamente convinto che il problema del Sud fosse il problema stesso dello sviluppo economico del paese intero e che tale rimanesse anche – e forse soprattutto – nella difficile fase congiunturale, che si era abbattuta con un’intensità direttamente proporzionale al grado di arretratezza sulle aree più povere dell’Italia. Proprio la crisi economica enfatizzava quindi l’urgenza di intervenire per far fronte alla situazione di difficoltà locale, ma in un’ottica di ripresa nazionale. Le due prospettive, nel suo ragionamento, erano strettamente intrecciate. Il programma del suo governo, a questo riguardo, prevedeva quindi «il recupero dell’Italia delle province, portando verso di esse, e soprattutto verso quelle meridionali, la maggiore quota possibile dell’attività ragionevolmente decentrabile», specialmente in relazione alla politica di ristrutturazione industriale. I tre piani d’azione predisposti dal governo per l’emergenza (quello sull’energia, quello sull’edilizia e quello sull’agricoltura) interessavano quindi profondamente le regioni meridionali, sia perché in esse erano più acuti i problemi del decadimento delle strutture urbane e della carenza di abitazioni, sia perché i problemi energetici, più gravi nel Mezzogiorno che al nord, avrebbero potuto interferire pesantemente sulla sua industrializzazione, sia infine perché era soprattutto nel Mezzogiorno che l’agricoltura doveva fare un salto di qualità per assicurare i rifornimenti alimentari del paese[220]. Nel contempo, il governo Moro si impegnò ad accelerare gli altri programmi dell’intervento ordinario e straordinario, ad adeguare il sistema degli incentivi industriali con la rapida presentazione al parlamento di nuove proposte di legge ed infine a rifinanziare la Cassa per il Mezzogiorno[221].
Nonostante l’insistenza degli studi sul ruolo dello Stato nella soluzione della questione meridionale, la lettura sistematica degli interventi di Moro induce a non sottovalutare come egli ritenesse altrettanto necessario che si creasse un sistema «autopropulsivo» nel Mezzogiorno. La previsione da parte del suo governo di ingenti risorse e di un certo interventismo statale – peraltro in linea con il tradizionale approccio dei precedenti governi – non significa infatti che lo statista pugliese fosse incline a una mera azione assistenzialistica verso il Sud. Gli interventi in questa direzione sono piuttosto espliciti. In più di un’occasione egli infatti affermò che si doveva rompere il circolo della depressione superando «la tentazione dell’area economica protetta». Gli aiuti e gli incentivi pubblici erano giustificabili per una fase, «per la disparità di convenienza per le industrie nascenti nel Sud e le industrie già assestate del Nord», ma tali aiuti dovevano rimanere «temporanei», perché – come disse alla Fiera del Levante del 1975 – «soltanto creando un sistema industriale vitale ed autopropulsivo», il Mezzogiorno avrebbe potuto raggiungere il resto dell’Europa. Il Sud aveva tutto da perdere «dall’estensione a macchia d’olio di un’azione pubblica diretta ad ossificare la struttura preesistente del paese e a distruggerne la mobilità industriale»[222]. Negli interventi di Moro, anche a distanza di mesi, emerge quindi in modo ricorrente la convinzione che occorresse affrontare il problema meridionale «come nodo centrale della vita politica italiana, come grande problema nazionale»[223]. L’Italia tutta intera doveva farsi carico del problema dell’arretratezza delle regioni meridionali, in modo da dare maggiore forza e stabilità al paese, anche nel contesto europeo. Il tema che fa da sfondo a questi suoi ragionamenti è dunque l’unità dell’Italia, cui egli fece ripetutamente appello, non solo facendo riferimento al problema del superamento della crisi e dello sviluppo economico, ma anche sotto il profilo storico e politico. Ne è dimostrazione l’intervento che fece alla celebrazione del trentennale della Resistenza, promossa dal Consiglio regionale pugliese, il 21 dicembre 1975, dove egli affrontò il nodo del Sud da un’altra angolatura. Moro in quell’occasione esaltò la Resistenza come momento di rivelazione dell’identità nazionale e come fatto sociale che aveva coinvolto le popolazioni contadine, incluse quelle meridionali. Ma, soprattutto, egli si soffermò sul «complesso» rapporto tra Mezzogiorno e Resistenza, mettendo in rilievo anche il dibattito allora in corso in sede storiografica che stava portando a una graduale rivalutazione del ruolo del Sud nella guerra di liberazione nazionale. In particolare, in alcuni passaggi poi tagliati nella versione pubblicata dell’intervento e quindi inediti, Moro disse:
Gli storici tendono ora a correggere questa visione dualistica, di un Nord, proiettato verso una peraltro indefinita rivoluzione, e un Sud, ancora una volta “palla al piede” dello sviluppo italiano. Il rapporto tra Mezzogiorno e Resistenza è complesso. Non va dimenticato, nello sfondo, ciò che pagarono le campagne del Mezzogiorno al fascismo. È vero, fu avviata una politica di bonifiche che consentì in un secondo tempo la formazione di ceti agrari più progrediti, meno attaccati alla esclusiva conservazione della rendita. Ma quel poco che si fece sotto il fascismo per il Sud, ebbe come corrispettivo il blocco dell’emigrazione interna, una politica dei bassi salari, sperequazioni tributarie e pesanti vincoli contrattuali nelle campagne. Il programma fascista di un’Italia rurale ed eroica portò in realtà ad un eccesso di popolazione contadina, costretta a vivere entro strutture economiche rimaste arcaiche e statiche e perciò prive di impulsi creativi. Crollato il fascismo e liberato il Mezzogiorno dalle truppe alleate, non per caso ancora una volta furono le campagne a muoversi. Si trattava della lotta al latifondo e della riforma agraria, cioè di una delle esperienze più significative di questo dopoguerra, che ha consentito lo svilupparsi di un grande movimento contadino nel Sud ed ha impegnato i governi in un notevole sforzo, nel suo insieme positivo. Ma, tornando agli anni cruciali che vanno dalla fine del ‘43 a tutto il ‘45, non ci sembra si possa dire che il Mezzogiorno fu una remora alla realizzazione degli ideali della Resistenza. Non vanno dimenticati gl’intellettuali meridionali schierati sul fronte della libertà. Eppoi parlano le cose[224].
Moro non si limitò peraltro a formulare frasi celebrative di circostanza – sottolineando che il Sud aveva dato «con profonda convinzione il suo apporto alla guerra di liberazione ed ai primi atti dei governi della coalizione antifascista» –, ma affrontò di petto alcuni nodi spinosi di quella fase storica, quando affermò:
[…] Non possiamo certo nasconderci anche le manifestazioni di rifiuto o di contrarietà contro taluni atti della politica dei governi democratici. Ma una spiegazione di ciò è nella mentalità di popolazioni che troppo a lungo avevano sentito lo Stato dimentico, se non addirittura ostile alle aspirazioni sociali più vive ed immediate. Nelle interpretazioni critiche della Resistenza maggiore attenzione avrebbero meritato dunque la particolarità della storia e delle strutture economiche e sociali nel Mezzogiorno. Si è invece preferito parlare quasi di due civiltà, di due Italie, di due mercati, quando, semmai, l’accento andava posto su un Mezzogiorno sottomesso a una dinamica dello sviluppo e a una legislazione unificatrice dettata dagli interessi del mercato più forte, che era quello del Nord. Consapevoli di questa verità, siamo, ancora oggi, alla ricerca di modelli di sviluppo e di politiche programmatiche che facciano tesoro della lezione umana e civile che viene dalle lotte sociali del Mezzogiorno e rispondano alle esigenze di un’economia che, come già aveva intuito Luigi Sturzo, sia capace di far progredire il Paese attraverso una partecipazione a larga base comunitaria, ben più rispettosa della storia e delle vocazioni locali che non sia stata la prospettiva consumistica[225].
Era un richiamo piuttosto fermo a tenere in considerazione, oltreché a studiare, la complessità delle condizioni di partenza, delle radici storiche e del tessuto socioculturale che caratterizzavano precipuamente le regioni meridionali al momento dell’affermazione della dittatura e, in seguito, al momento della nascita della repubblica. Condizioni che in parte spiegavano gli atteggiamenti di ostilità che talvolta si erano manifestati nei confronti dei governi democratici del dopoguerra. D’altro canto, Moro espresse qui la piena consapevolezza che, anche negli anni della repubblica, la dinamica dello sviluppo cui il Sud si era dovuto adeguare era quella dettata dal Nord, secondo un modello poco rispettoso delle inclinazioni locali. Tuttavia, il suo ragionamento, che pure non nascondeva le criticità ancora esistenti, si concludeva ancora una volta con un fermo richiamo all’unità del paese. Un’unità corroborata dall’esperienza collettiva della Resistenza, «patrimonio della Nazione», che aveva creato un’originale mentalità antifascista, nella quale si poteva riconoscere tutto il popolo italiano.
I testi dell’Edizione nazionale, ricomposti filologicamente insieme e accostati l’uno all’altro seguendo l’ordine cronologico, illuminano dunque nuovi segmenti – o aiutano a comprendere quelli già noti – della vita di Moro come intellettuale, come dirigente della Dc, come politico italiano, come statista e come credente. E la loro raccolta sistematica rafforza alcune delle possibili chiavi di lettura che sono già state proposte dagli studiosi e ne suggerisce di nuove. Il quadro della riflessione di Moro (e della sua conseguente azione politica) in un quinquennio assolutamente cruciale nella storia dell’Italia repubblicana e nella vita internazionale ne risulta così, se non radicalmente cambiato, quanto meno arricchito di sfumature e anche di scorci inediti. In conclusione, non crediamo vi siano dubbi, a questo punto, che quest’ultimo volume della Sezione Scritti e Discorsi dell’Edizione Nazionale delle Opere di Moro offra uno strumento prezioso per gli sviluppi della ricerca sull’ultima fase dell’esperienza dello statista democristiano e, attraverso di lui, sull’Italia degli anni Settanta.
G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna 2016, p. 276. Per la descrizione delle vicende nazionali e internazionali di questa fase, nelle pagine che seguono si è fatto largamente riferimento alle ricostruzioni puntuali di: G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda, il Mulino, Bologna 2016; A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016, Laterza, Bari-Roma 2016. ↑
A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, cit., p. 78. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 276. ↑
V. Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, Bologna, 2019, il Mulino p. 148. ↑
Cfr. P. Battilani, F. Fauri, L’economia italiana dal 1945 a oggi, il Mulino, Bologna 2014, p. 127. ↑
Per i riferimenti bibliografici sul «caso Moro», si rinvia a A. Giovagnoli, Introduzione alla seconda edizione, in Id., Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna 2018; G. M. Ceci, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Carocci, Roma 2013. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di «Mondo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 2011, p. 68. ↑
Cfr. A. Giovagnoli, Introduzione alla seconda edizione, cit., p. IX. ↑
R. Moro, Un bilancio tra storiografia e politica, in A. D’Angelo, M. Toscano(a cura di), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), Studium, Roma 2018, p. 24. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 8. ↑
Molte di queste letture riconducono il rapimento di Moro allo scopo di far fallire l’incontro fra cattolici e comunisti secondo un disegno antidemocratico e in un’ottica sostanzialmente complottistica. Sulla genesi e l’evoluzione delle letture riconducibili a questo filone interpretativo, si rinvia alla ricostruzione di A. Giovagnoli, Introduzione alla seconda edizione, cit., pp. XIII-XVIII. ↑
Cfr. G. M. Ceci, Moro e il PCI. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Carocci, Roma 2013, p. 8. ↑
P. P. Pasolini, Il vuoto di potere in Italia, in «Corriere della Sera», 1° febbraio 1975. ↑
L. Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio 1978, p. 35. ↑
Ibid., pp. 33-34. ↑
Cfr. ***, La crisi del luglio ‘69: Gli errori socialisti e il tentativo dell’integralismo, in «La Rivista trimestrale», VII-VIII, 28-30, novembre 1969, pp. 319 e 329; ***, L’ultima crisi di governo: Una sconfitta dell’integralismo cattolico, in «La Rivista trimestrale», VIII, 31-32, giugno 1970, pp. 731-732. ↑
Si tratta dell’ultima intervista rilasciata da Moro al direttore di «la Repubblica», Eugenio Scalfari, pubblicata sul quotidiano da lui diretto il 14 ottobre 1978. Nell’incipit dell’articolo, Scalfari affermava di avere incontrato per l’ultima volta Moro il 18 febbraio 1978, nel suo ufficio privato in via Savoia a Roma. Scalfari ricordava che erano i giorni in cui più intenso si faceva il dibattito all’interno della Dc sull’allargamento della maggioranza fino a comprendere il Partito comunista. Il giornalista affermava che non vedeva Moro dalla primavera del 1968, quando si era svolto alla Camera dei Deputati un dibattito sullo scandalo del Sifar, sul “piano Solo” architettato dal generale Giovanni De Lorenzo e sugli omissis con i quali Moro aveva mutilato i documenti che i giornalisti de «L’Espresso» avevano addotto in loro difesa. In quel dibattito, tra lui presidente del Consiglio e Scalfari deputato socialista indipendente, c’era stato uno scontro assai vivace. Dopo di allora, scriveva Scalfari, c’erano stati «dieci anni di rottura». Il direttore di «la Repubblica» asseriva di aver chiesto a Corrado Guerzoni di incontrare Moro, ma che questi gli aveva negato la possibilità di fare un’intervista ufficiale, concedendogli invece un colloquio informale. Scalfari raccontava di aver parlato due ore con il presidente democristiano e di avergli chiesto di poter prendere appunti su quanto diceva. Moro acconsentì, chiedendo il suo impegno a non utilizzarli, «almeno per ora». Scalfari spiegava di aver mantenuto quell’impegno fino a quel momento, ma ad ottobre, in procinto di un dibattito parlamentare importante sul caso Moro e nel contesto di tanti dibattiti su Moro stesso, egli affermava di sentire il dovere di offrire all’attenzione del pubblico quell’intervista, ricavata testualmente dagli appunti presi quel 18 febbraio. L’articolo è pubblicato in L’ultima intervista di Moro, in «la Repubblica», 14 ottobre 1978. ↑
G. Pallotta, Moro: ritratto di un leader, Pisani, Isola del Liri (Frosinone) 1975,pp. 172-173. ↑
A. Coppola, Moro, Feltrinelli, Milano 1976, p. 149. ↑
Ibid., p. 152. ↑
Ibidem. ↑
E. Cutolo, Aldo Moro. La vita, l’opera, l’eredità, Teti, Milano 1980. ↑
Ibid., p. 28. ↑
Ibid., p. 91. ↑
I. Pietra, Moro fu vera gloria?, Garzanti, Milano 1983, p. 210. ↑
Ibid., p. 211. ↑
A. Rossano, L’Altro Moro, Sugarco, Milano 1985, p. 203. ↑
Ibid., p. 11. ↑
P. Scoppola, Gli anni della Costituente fra politica e storia, il Mulino, Bologna 1980, pp. 9-10. ↑
Cfr. in particolare, R. Ruffilli, Il sistema politico italiano: la terza fase nel pensiero di Moro, in Appunti di cultura e di politica, marzo-aprile 1982, ora in Id., Istituzioni, società, Stato, a cura di M. S. Piretti, vol. III, Le trasformazioni della democrazia. Dalla Costituente alla progettazione delle riforme istituzionali, il Mulino, Bologna 1991, pp. 537-544. ↑
L. Elia, Moro oggi, in P. Scaramozzino (a cura di), Cultura e politica nell'esperienza di Aldo Moro, Giuffré, Milano 1982, p. XX. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit. ↑
Ibid., p. 33. ↑
Così sintetizza questo diffuso giudizio G.M. Ceci, Moro e il PCI, cit., p. 8. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 8. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., p. 33. ↑
Cfr. Ibid., pp. 36-37. ↑
E. d’Auria, Gli anni della «difficile alternativa». Storia della politica italiana, 1956-1976, in R. De Felice (a cura di), Storia dell’Italia contemporanea, vol. VI, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1983, p. 75. ↑
Ibid., pp. 92-93. ↑
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, vol. II, Dal “miracolo economico” agli anni ‘80, Einaudi, Torino 1989, p. 510. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., pp. 38-39. ↑
D. Mack Smith, Storia d’Italia: dal 1861 al 1997, Laterza, Bari 1997, p. 598 ↑
Ibid., p. 614. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., pp. 41-42. ↑
P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., pp. 391 e 394-399. ↑
A. Lepre, Storia della prima repubblica, il Mulino, Bologna 1993, p. 275. ↑
Ibidem. ↑
A. Mastropaolo, La repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 77. ↑
Si vedano, ad esempio, le interpretazioni di G. Carocci, Il trasformismo dall’Unità ad oggi, Unicopli, Milano 1992; N. Tranfaglia, Un capitolo del «doppio Stato». La stagione delle stragi e dei terrorismi,in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Istituzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino 1996, p. 47; M. L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, il Mulino, Bologna 1994, p. 84. ↑
L. Masella, Introduzione, in F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo, nazione e crisi, a cura di L. Masella, Torino, Einaudi, 2003, p. XXVI. Il volume ripubblica i contributi di De Felice alla Storia einaudiana (F. Barbagallo(a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, t. 1, Politica, economia, società, Einaudi, Torino 1995). ↑
F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, in F. Barbagallo(a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 1, Economia e società, Einaudi, Torino 1996, pp. 39-40. ↑
F. De Felice, L’Italia repubblicana, cit., p. 188. Si veda anche F. De Felice, Aldo Moro e la «democrazia difficile», in Id., La questione della nazione repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1999, in particolare pp. 219-221. ↑
F. De Felice, L’Italia repubblicana, cit., p. 188. ↑
Ibid., p. 218. ↑
Si veda ad esempio la descrizione di Indro Montanelli in riferimento all’ultimo Moro, ritenuto «arrendevole» verso Berlinguer, ma allo stesso tempo convinto che la solidarietà nazionale fosse l’unico espediente per conservare il potere. Cfr. I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo (1965-1978), Rizzoli, Milano 1991, p. 214. ↑
L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993, seconda ed. 2012, p. 132. ↑
Ibid., p. 133. ↑
Ibid., p. 132. ↑
L. Cafagna, Una strana disfatta. La parabola dell’autonomismo socialista, Marsilio, Venezia 1996, p. 122. ↑
E. Di Nolfo, La Repubblica delle speranze e degli inganni. L’Italia dalla caduta del fascismo al crollo della Democrazia cristiana, Ponte alle grazie, Firenze 1996, p. 396. ↑
P. Ignazi, I partiti e la politica dal 1963 al 1992, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, 6, Dal 1963 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 146. ↑
Ibid., pp. 174-175. ↑
R. Moro, Aldo Moro nelle storie d’Italia, cit., p. 62. ↑
A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 180. ↑
Ibid., p. 186. Risalente a questo periodo, di Giovagnoli si veda anche una prima analisi dell’orientamento antifascista nelle riflessioni e nelle dichiarazioni di Moro in A. Giovagnoli, Aldo Moro: interpretazioni della Resistenza e azione politica, in A. Ambrogetti e M. L. Coen Cagli (a cura di), “La nostra lunga marcia verso la democrazia” (Aldo Moro 1975). Attualità della resistenza e futuro della democrazia in Italia, Esi, Napoli 1997, pp. 123-150 (in particolare, per gli anni ’70, si vedano pp. 139-150). ↑
R. Drake, Introduzione, in Id., Il caso Moro, Marco Tropea Editore, Milano 1996, pp. 42-45. A questo periodo risale anche il primo ritratto biografico dello statista pugliese firmato da Guido Formigoni, in cui l’interpretazione della «terza fase» rimane una questione aperta, cfr. G. Formigoni, Aldo Moro. L'intelligenza applicata alla meditazione politica, Centro Ambrosiano, Milano 1997. ↑
P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, UTET, Torino 1995, pp. 697-698. ↑
Cfr. A. Giovagnoli, Religione e politica in Aldo Moro, in A. Giovagnoli, A. Riccardi, C. Brezzi C.F. Casula(a cura di), Democrazia e cultura religiosa, Bologna, il Mulino 2002, pp. 479- 502; P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, in G. De Rosa, G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli Anni Settanta, Sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino 2003, pp. 17-40. Anche se di poco successivo, di Giovagnoli si veda anche Moro e la lunga crisi del sistema politico italiano, in «Contemporanea», XI, 2008, pp. 95-100. ↑
A. Giovagnoli, Aldo Moro e la democrazia italiana, in G. De Rosa, G. Monina, (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli Anni Settanta, cit., pp. 53- 77; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna 2005. Quest’ultimo rimane ancora oggi l’unico volume a essersi occupato complessivamente della vicenda – ricostruendo il sequestro, la reazione delle forze politiche e il dibattito pubblico fino al suo epilogo –, con approccio storiografico. Sulla predominanza della pubblicistica su questo campo d’indagine, si vedano le considerazioni proprio di Giovagnoli, in Id., Introduzione alla seconda edizione, cit., pp. XVIII-XXII. ↑
R. Moro, Introduzione, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese. Aldo Moro e l’Italia del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, p. 19. ↑
Per una rassegna, si rinvia alla esaustiva ricognizione condotta da G. Formigoni, in Il rinnovamento della storiografia su Aldo Moro dopo il 2008, in A. D’Angelo, M. Toscano(a cura di), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), cit., pp. 27-38. ↑
Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, n. monografico di «Mondo contemporaneo», 6, 2010, ripubblicato poi dalla casa editrice come volume nel già citato Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di «Mondo contemporaneo», cit. Completano il quadro storiografico quattro studi monografici: quello di Paolo Acanfora sul dossettismo di Moro, quello di Michele Marchi sugli anni della segreteria del partito, quello di Riccardo Brizzi sul rapporto con la televisione nel corso dell’apertura a sinistra e quello di Giovanni Mario Ceci sull’approccio di Moro al terrorismo e alle trame eversive. ↑
F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, Le Lettere, Firenze 2011. ↑
È stato tratto un volume collettivo per ciascuno dei due convegni: I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli (a cura di), Aldo Moro, l’Italia Repubblicana e i Balcani, Besa, Nardò 2012 e I. Garzia, L. Monzali, F. Imperato(a cura di), Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, Besa, Nardò 2013. ↑
R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit. ↑
Si vedano i saggi B. Pisa, Aldo Moro e la “terza fase” delle donne (pp. 293-311) e L. Gazzetta, Moro, il Movimento delle donne Dc e la “questione femminile” (1959-1977) (pp. 337-362), entrambi in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit.; C. Novelli, Moro, le politiche familiari e dei diritti, in N. Antonetti(a cura di), Aldo Moro nella storia della Repubblica, il Mulino, Bologna 2018, pp. 81-94. ↑
G. M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi e alle trame eversive (1969-1978), in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di «Mondo contemporaneo», cit., pp. 167-206. Anche se non focalizzati esclusivamente su Moro, riferimenti preziosi si trovano anche in Id., La Democrazia cristiana di fronte ai terrorismi, in R. Brizzi, G. M. Ceci, M. Marchi, G. Panvini, E. Taviani (a cura di), L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, Carocci, Roma 2021, pp. 19-33; G. M. Ceci., La Democrazia cristiana, i terrorismi e la magistratura, in C. Fumian, A. Ventrone(a cura di), Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa. Storici e magistrati a confronto, Padova University Press, Padova 2018, pp. 311-329; V. Alberti(a cura di), La DC e il terrorismo nell'Italia degli anni di piombo. Vittime, storia, documenti, testimonianze, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. ↑
M. Zinni, “Cattivo, peggiore, pessimo: democristiano!”. Aldo Moro e la DC in Todo modo di Elio Petri, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 801-827; L. Perrone, L’immagine di Moro nella letteratura italiana e nelle arti dello spettacolo, ibid., pp. 867-885. In questa sfera rientrano anche gli studi che hanno approfondito l’immagine di Moro nel corso del sequestro delle Br, per una rassegna si rinvia a G. M. Ceci, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Carocci, Roma 2013, pp. 312-317. ↑
G. Panvini, L’immagine di Aldo Moro nell’estrema destra (1960-1978), in R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 779-800; G. Nicolosi, Aldo Moro, uomo politico e statista democristiano, nella percezione dei radicali italiani (1955-1978), in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 209-227. ↑
Cfr. U. Gentiloni Silveri, «Destinato a una lunga e brillante carriera». Aldo Moro nei giudizi delle amministrazioni Usa, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 409-422. Spunti preziosi sull’atteggiamento dell’amministrazione americana, della Cia e dell’Ambasciata americana in Italia si trovano anche in G. M. Ceci, La CIA e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci, Roma 2019 e in G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda, cit. Ulteriori studi che hanno valorizzato il nesso fra politica nazionale e internazionale da cui emerge l’immagine di Moro nell’amministrazione americana sono L. Cominelli, L’Italia sotto tutela. Stati Uniti, Europa e crisi italiana degli anni Settanta, Le Monnier, Firenze 2014;U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Einaudi, Torino 2009. Sul rapporto di Moro con il mondo americano, si veda A. Ambrogetti, Aldo Moro e gli americani, Studium, Roma 2016. Si veda anche Uno sguardo americano su Aldo Moro: gli anni settanta nell’Archivio Robert Katz, Polistampa, Firenze 2008. ↑
F. Malgeri, Aldo Moro nelle storie della Democrazia cristiana, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di «Mondo contemporaneo», cit., p.71. ↑
A. Giovagnoli, Introduzione alla seconda edizione, cit., pp. XXII-XXIII. Nel 2012 era uscita anche l’importante voce Aldo Moro del Dizionario biografico degli italiani redatta da Piero Craveri. ↑
M. Mastrogregori, Moro, Salerno editrice, Roma 2016. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit. ↑
A. D’Angelo, Moro e il mondo cattolico, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca (a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 81-103. ↑
Si veda A. Ungari, Aldo Moro e il Movimento sociale italiano, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 229-256. ↑
L. D’Andrea, Politica e società in Aldo Moro, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 129-154. Benché non sia un volume di storia, ma si tratti piuttosto di una fonte, è possibile trarre informazioni preziose circa l’atteggiamento di Moro verso la questione del divorzio in G. F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977, a cura di P. Scoppola, il Mulino, Bologna 1994. ↑
A. Giovagnoli, Berlinguer, la DC e il mondo cattolico, in F. Barbagallo, A. Vittoria (a cura di), Enrico Berlinguer, la politica italiana e la crisi mondiale: atti del convegno organizzato a Sassari, 18-19 giugno 2004, dal Centro studi Enrico Berlinguer e dal Dipartimento di Storia dell'Università di Sassari, Carocci, Roma 2007, pp. 77-104; A. Guiso, Moro e Berlinguer. Crisi dei partiti e crisi del comunismo nell’Italia degli anni Settanta, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 139-178; C. Brezzi, Berlinguer e Moro tra compromesso storico e solidarietà nazionale, in «Storia e problemi contemporanei», 2008, 21, pp. 145-172; E. Bernardi, Aldo Moro and Enrico Berlinguer, in E. Jones, G. Pasquino(eds.),The Oxford Handbook of Italian politics, Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 368-377. ↑
Fra questi vanno segnalati alcuni contributi recenti di Agostino Giovagnoli: Moro e la crisi degli anni Settanta, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 97-104 e Moro democristiano: Dalla Domus Mariae alla solidarietà nazionale, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp.69-80. Si vedano anche i seguenti saggi: L. Cardinali, Giulio Andreotti e il governo della “non sfiducia”, Studium, ed. digitale 2020;A. D’Angelo, Dal centrosinistra alla terza fase, in A. D’Angelo, M. Toscano(a cura di), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), cit., pp.39-53; R. Fornasier, The Dc and the Pci in the Seventies: A Complex Relationship Supervised by the United States, in «Bulletin of Italian Politics», 2012, 4, pp. 209-229; P. Panzarino, L’eredità politica di Aldo Moro. Pensiero e azione di un uomo libero (1976-1978), Marsilio, Venezia 2011; F. M. Biscione, Aldo Moro, la solidarietà, la democrazia compiuta, in «Storiografia», 2009, pp. 71-101. A questa bibliografia scientifica si affianca il notevole numero di testimonianze, edizioni di diari e memorie su questi anni, per i quali si rinvia alla ricognizione di G. Formigoni, in Il rinnovamento della storiografia su Aldo Moro, cit., pp. 33-34. ↑
Cfr. P. Acanfora, Il dialogo tra democristiani e comunisti, in Il cattolicesimo politico nella storia dell’Italia repubblicana: le interpretazioni degli storici, n. monografico di «Mondo contemporaneo», 2018, 2-3, pp. 188-192. ↑
Cfr. M. M. Mastrogregori, Moro, cit., in particolare, pp. 248-264. ↑
Cfr. P. Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 165, 175. Anche Fabio Vander aveva sottolineato una presunta «teoria del consociativismo» come strutturale alla volontà di Moro, cfr. F. Vander, Aldo Moro. La cultura cattolica e la crisi della democrazia, Marietti, Genova 1999, pp. 199 ss. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 315. La stessa lettura, seppur articolata con sfumature diverse, appare emergere in F. M. Biscione, Aldo Moro, la solidarietà nazionale, cit., pp. 71-101. ↑
P. Craveri, Aldo Moro, cit. Craveri ha articolato nuovamente questa riflessione in P. Craveri, L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, ed digitale 2016, pp. 266-273. ↑
Cfr. A. Giovagnoli: Moro e la crisi degli anni Settanta, cit., pp. 97-101. ↑
Ibid., p. 101. ↑
Ibid., p. 97. ↑
G. M. Ceci, La Democrazia cristiana, i terrorismi, cit., p. 327-329. ↑
Così sintetizza questo giudizio largamente condiviso G. M. Ceci, ibid., p. 328. ↑
G. M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi, cit., p. 206. ↑
S. Rodotà, La risposta dello Stato al terrorismo: gli apparati, in G. Pasquino (a cura di), La prova delle armi, il Mulino, Bologna 1984, pp. 77-91. ↑
Per una ricostruzione del dibattito dell’epoca e di quello più recente in ambito scientifico, mi permetto di rinviare a C. Zampieri, Alla prova del terrorismo: la legislazione dell’emergenza e il dibattito politico italiano (1978-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2016-2017. ↑
Cfr. G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, Einaudi, Torino 2009, pp. 193-194. ↑
G. M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi, cit., p. 169. ↑
È stato notato che in tale riflessione confluivano temi ed elementi tradizionali del pensiero politico di Moro come l’antifascismo, il timore nei confronti del pericolo rappresentato dalla destra e la convinzione del carattere decisamente debole e fragile della democrazia italiana. Cfr. Ibid., p. 176. Per l’analisi dell’orientamento antifascista nelle riflessioni e nelle dichiarazioni di Moro cfr. A. Giovagnoli, Aldo Moro: interpretazioni della Resistenza, cit. Sull’«ispirazione cristiana» del rifiuto moroteo «della violenza di matrice fascista», cfr. A. Giovagnoli, Religione e politica, cit., p. 496. ↑
G. M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi, cit., pp. 177-178. ↑
G. M. Ceci, La Democrazia cristiana, i terrorismi, cit., pp. 317-318. ↑
Spunti preziosi che riguardano però la fase immediatamente precedente e la crisi monetaria internazionale si trovano in D. Caviglia, Aldo Moro e la crisi del sistema monetario internazionale, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 735-754; M. E. Guasconi, Aldo Moro e la risposta europea alla crisi del sistema monetario internazionale, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca (a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 755-769. ↑
L. Ciglioni, La Democrazia cristiana e il centro-sinistra, in Il cattolicesimo politico nella storia dell’Italia repubblicana: le interpretazioni degli storici, n. monografico di «Mondo contemporaneo», 2018, 2-3, pp. 143-154. Sulle valutazioni circa le politiche e la cultura economica della Dc, cfr. la puntuale rassegna di studi (che conferma però l’assenza di approfondimenti specifici sugli anni Settanta e su Moro) condotta da E. Bernardi, Le politiche economiche, ibid., pp. 229-241. ↑
Cfr. su questo G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 293. ↑
Cfr. P. Craveri, La Repubblica, cit., pp. 528-530, 619-620. ↑
Su Beniamino Andreatta la letteratura è ormai ricca, su questo nodo specifico si rinvia alle considerazioni efficaci di A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, cit., pp. 133-135. ↑
Fra le tante pubblicazioni, si vedano L. Tedoldi, Il conto degli errori: Stato e debito pubblico in Italia dagli anni Settanta al Duemila, Laterza, Roma-Bari 2015; G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, Bologna 2013; M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra a oggi, Garzanti, Milano 1984. ↑
La letteratura su questo argomento è vasta ed eterogenea. Il tema è stato declinato in vari modi e naturalmente le interpretazioni degli studiosi sono molto articolate e diversificate fra loro. L’espressione citata risale però a V. Castronovo, Lo sviluppo economico in Italia nel cinquantennio repubblicano. Problemi aperti, in «Studi Storici», 1995, 1, p. 229. ↑
Cfr. L. Di Nucci, La democrazia distributiva, il Mulino, Bologna 2016, pp. 75-77, 90-104. ↑
P. Craveri, La Repubblica,cit., pp. 746-774, 951-958; Id., L’arte del non governo, cit., pp. 248-260 e ss. ↑
G. Garavini, Moro, la Comunità europea, la distensione nel Mediterraneo, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 600-601. ↑
Cfr. Cfr. P. Battilani, F. Fauri, L’economia italiana, cit., pp. 129-130. ↑
Cfr. S. Rossi, La politica economica italiana dal 1968 a oggi,Laterza, ed. digitale 2020, pp. 10-14. ↑
Ibid., p. 13. ↑
Cfr. A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, cit., p. 81. ↑
Cfr. P. Craveri, La Repubblica, cit., pp. 619-620. ↑
S. Boscato, Il IV Governo Moro. Le riforme dell’ultimo centro-sinistra (23 novembre 1974-7 gennaio 1976), inR. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., p. 396. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 243. Il nesso nazionale-internazione appare implicito anche nelle considerazioni di Giuliano Garavini che, riferendosi all’idea di Moro della distensione nel Mediterraneo, afferma che essa si fondava su tre fattori: due attinenti la politica interna (da un lato, la salvaguadia delle conquiste sociali del ‘68 in termini di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e, dall’altro, la necessità di coinvolgere i socialisti nell’azione di governo e di aprire un dialogo con il Pci) e uno la politica estera (la volontà di promuovere la Comunità europea come attore unitario nello scenario globale), cfr. G. Garavini, Moro, la Comunità europea, cit., pp. 585-588. ↑
P. Craveri, Aldo Moro, in Dizionario biografico degli italiani. ↑
U. Gentiloni Silveri, «Destinato a una lunga e brillante carriera», cit.,p. 422. ↑
Ibidem. ↑
L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera italiana (1963-1978), in F. Imperato, R. Milano, L. Monzali(a cura di), Fra diplomazia e petrolio: Aldo Moro e la politica italiana in Medio Oriente (1963-1978), Cacucci, Bari 2018, pp. 9-45; J. Cellini, La cultura della politica estera morotea (1968-1978), inR. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 201-219. ↑
A. Armellini, La politica estera di Aldo Moro: spunti per una riflessione, in A. Alfonsi (a cura di), Aldo Moro nella dimensione internazionale, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 25-39. ↑
I. Garzia, L. Monzali, F. Imperato(a cura di), Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, cit. ↑
L. Nuti, La politica estera italiana negli anni della distensione. Una riflessione, in A. Alfonsi(a cura di), Aldo Moro nella dimensione internazionale, cit., pp. 40-62. ↑
Oltre a quelli che verranno citati in modo puntuale, alcuni spunti sull’azione diplomatica di Moro verso i paesi del Medioriente in questo periodo si trovano nei seguenti volumi e contributi: M. Cricco, Aldo Moro, l’Italia e la Libia di Gheddafi (1970-1976), in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 713-732; R. Milano, Aldo Moro e l’Iran (1969-1974), in F. Imperato, R. Milano, L. Monzali(a cura di), Fra diplomazia e petrolio, cit., pp. 99-117; F. Imperato, Un aspetto della politica mediterranea dell’Italia: le relazioni con la Turchia (1946-1974), in F. Imperato, R. Milano, L. Monzali(a cura di), Fra diplomazia e petrolio, cit., pp. 119-153; A. R. La Fortezza, Un’amicizia italo-araba. Italia e Libano negli anni Sessanta e Settanta, in F. Imperato, R. Milano, L. Monzali(a cura di), Fra diplomazia e petrolio, cit., pp. 199-238; L. Tosi, Africa e Mediterraneo nella diplomazia multilaterale di Aldo Moro, in A. Alfonsi(a cura di), Aldo Moro nella dimensione internazionale, cit., pp. 63-95; I. Garzia, L. Monzali, F. Imperato(a cura di), Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, cit.; G. Salzano, Un costruttore di pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro, Guida, Napoli 2016;D. Caviglia, Tempi nuovi. Moro, Israele e la svolta filo-araba della diplomazia italiana (1967-1976), in I. Garzia, L. Monzali, F. Imperato(a cura di), Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, cit., pp. 215-232; M. Cricco, Aldo Moro e la cooperazione economica con i Paesi Arabi, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 623-640. Per la ricostruzione dell’intera parabola dell’azione di Moro verso la questione mediorientale e del suo rapporto con i paesi arabi cfr. G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda, cit. ↑
Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 279-280. ↑
Questo aspetto è stato enfatizzato da molti studiosi, cfr. in particolare F. Imperato, Tra equidistanza e filoarabismo. Aldo Moro e il conflitto arabo-israeliano, in F. Imperato, R. Milano, L. Monzali(a cura di), Fra diplomazia e petrolio, cit., pp. 82, 84; G. Garavini, Moro, la Comunità europea, cit., pp. 597 ss. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 279-280. ↑
F. Imperato, Tra equidistanza e filoarabismo, cit., p. 84. ↑
S. Labbate, L’Italia e lo shock petrolifero del ´73 tra interesse nazionale e vincoli euro-atlantici, in «Nuova rivista storica», 2011, 2, p. 382. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 283-284. Cfr. anche G. Garavini, Moro, la Comunità europea, cit., pp. 585-605; S. Labbate, Aldo Moro e la politica energetica dell’Italia, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 705-734. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 284. ↑
Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Kaos, Milano 2003, pp. 197-198. Di recente, altri studiosi si sono occupati approfonditamente di questo nodo, cfr. M. Gotor, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Einaudi, ed. digitale 2019, pp. 266-275; G. Pacini, Il lodo Moro. L’Italia e la politica mediterranea. Appunti per una storia, in M. Caligiuri(a cura di), Aldo Moro e l’Intelligence. Il senso dello Stato e le responsabilità del potere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp. 143–251. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 280. ↑
R. Drake, Introduzione, cit., p. 41 ↑
A. Giovagnoli, Il partito italiano, cit., p. 125. ↑
L. Riccardi, Aldo Moro e il Medio Oriente (1963-1978), in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., p. 583. Luciano Monzali ha scritto che, dopo la crisi del 1973, Moro «decise di accentuare le posizioni filoarabe dell’Italia», cfr. L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera italiana,cit., p. 32. ↑
L. Riccardi, Aldo Moro e il Medio Oriente,cit., p. 581. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 283-284. Cfr. anche M. Rossi, Aldo Moro, l’Italia e la questione palestinese, in I. Garzia, L. Monzali, F. Imperato(a cura di), Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del Mediterraneo, cit., pp. 233-274. ↑
G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, cit., pp. 449-450. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 284. ↑
L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera italiana,cit., pp. 39, 45. ↑
S. Labbate, Aldo Moro e la politica energetica,cit., p. 734. ↑
M. E. Guasconi, Aldo Moro e l’Anno dell’Europa di Kissinger, in R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 615-628. ↑
Un punto di riferimento imprescindibile per approfondire la politica estera di Moro nel quadro degli sviluppi della guerra fredda e del contesto nazionale è di nuovo il volume G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda, cit. ↑
Per questa fase, cfr. Ibid., pp. 458-510. ↑
P. Craveri, Aldo Moro, cit. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 246. ↑
Ibid., p. 276. ↑
Cfr. F. Zilio, Moro e la Csce: dalle parole ai fatti della politica distensiva italiana, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 643-660. In relazione soprattutto al tema delle libertà di informazione e di movimento, anche Carla Meneguzzi Rostagni ha evidenziato una comune ispirazione di Moro e della delegazione italiana ad Helsinki che diede una «fisionomia unitaria all’azione italiana», cfr. C. Meneguzzi Rostagni, Aldo Moro, l’Italia e il processo di Helsinki, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 387-409. ↑
M. Rossi, La tutela dei diritti umani nella politica societaria di Aldo Moro, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 384-385. Sul tema dei diritti umani e dell’atteggiamento di Moro verso tale questione, utili riferimenti si trovano anche in M. Rossi, L’Italia nella Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (1957-1977), in L. Tosi(a cura di), In dialogo. La diplomazia italiana negli anni della guerra fredda, Cedam, Padova 2013, pp. 103-142; M. Rossi, L’avvio della politica italiana di tutela dei diritti umani tra ambito europeo e societario, in F. Basile, M. Pilato(a cura di), Per costruire l’unità. Studi sull’Italia e l’integrazione europea di fronte alla nuova governance mondiale in occasione del 150°anniversario dell’unità di Italia, Cacucci, Bari 2012, pp. 345-359; M. Rossi, Amintore Fanfani e la tutela internazionale dei diritti umani, in A. Giovagnoli, L. Tosi(a cura di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana. Atti del convegno di studi tenuto a Roma il 3 e 4 febbraio 2009, Marsilio, Venezia 2010, pp. 441-475; M. Rossi, L. Tosi, Sicurezza collettiva e tutela dei diritti umani nella politica estera di Aldo Moro, in L. Proietti(a cura di), Il mestiere dello storico tra ricerca e impegno civile. Studi in memoria di Maria Cristina Giuntella, Aracne, Roma 2009, pp. 143-161. ↑
S. Tavani, Alle origini dell’Ostpolitik italiana: l’evoluzione della politica orientale dell’Italia negli anni del “centrosinistra organico” di Aldo Moro, in R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un Paese, cit., p. 468. ↑
Ibidem. ↑
Oltre a Sara Tavani sugli anni Sessanta, per gli anni Settanta si veda L. Riccardi, Appunti sull’Ostpolitik di Moro (1963-1975), in I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli(a cura di), Aldo Moro, l’Italia Repubblicana e i Balcani, cit., pp. 58-88. ↑
L. Monzali, “I nostri vicini devono essere nostri amici”. Aldo Moro, l’Ostpolitik italiana e gli accordi di Osimo, in I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli(a cura di), Aldo Moro, l’Italia Repubblicana e i Balcani, cit., p. 96. ↑
P. Craveri, Aldo Moro, cit. ↑
L. Riccardi, Appunti sull’Ostpolitik, cit., pp. 58-88. ↑
D. D’Amelio, La normalizzazione adriatica. Il moroteismo, la questione di Trieste e i nuovi rapporti italo-jugoslavi, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 507-508. Sulla politica estera italiana nei confronti dei Balcani con alcuni accenni all’azione di Moro, si vedano i contributi di M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella Westpolitik jugoslava degli anni Sessanta (pp. 115-160), A. Basciani, Tra aperture e neostalinismo. Italia e Romania negli anni sessanta e settanta (pp. 188-216), F. Imperato, I rapporti italo-bulgari nell’epoca della distensione 1963-1976 (pp. 217-246), tutti contenuti in I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli(a cura di), Aldo Moro, l’Italia Repubblicana e i Balcani, cit.; M. Bucarelli, Il problema del confine orientale nella politica estera di Aldo Moro, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 485-509. Per un profilo generale del tema, che inquadra anche l’azione di Moro, si veda B. Zaccaria, La strada per Osimo: Italia e Jugoslavia allo specchio (1965-1975), Franco Angeli, Milano 2018. ↑
M.-L. Sergio, «Abbiamo la responsabilità del dire certi sì e certi no». Aldo Moro e le transizioni democratiche nell’Europa mediterranea (Grecia, Spagna, Portogallo), in R. Moro, D. Mezzana (a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 559-582; G. La Nave, Aldo Moro e la parabola greca. Dalla vittoria di Georgios Papandreou alla fine del regime dei Colonnelli (1963-1974), ibid., pp. 583-614; P. Soave, L’Italia e la Grecia dalla dittatura militare al processo di democratizzazione, inI. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli (a cura di), Aldo Moro, l’Italia Repubblicana e i Balcani, cit., pp. 247-265. ↑
M. De Giuseppe, Moro e il “Terzo mondo”. Tra politica estera e dimensione culturale (1969-1973), in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 663-689. ↑
Si vedano G. Malgeri, Aldo Moro, la politica estera italiana e il Corno d’Africa (1969-1976), in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 665-704 (per il periodo immediatamente precedente, cfr. L. Monzali, Aldo Moro, la politica estera italiana e il Corno d’Africa (1963-1968), ibid., pp. 641-663). ↑
G. La Bella, Aldo Moro e l’America Latina, in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 691-712. ↑
Per citare solamente alcuni fra i lavori più recenti, cfr. G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda, cit.; F. Zilio, Roma e Bonn tra Ostpolitik e Csce (1969-1975), Aracne, Roma 2014; A. Varsori, La cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 ad oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010; U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa, cit.; G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Le Monnier, Firenze 2009. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 245; U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa, cit., p. 152. Sulla visione morotea dell’Onu, cfr. L. Tosi, Le Nazioni unite nella politica estera di Aldo Moro, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca(a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 359-368. ↑
M. De Giuseppe, Moro e il “Terzo mondo”, cit., pp. 663-689. Luciano Tosi ha sottolineato la preferenza per il canale multilaterale (l’Onu in particolare) espressa anche da Moro, attraverso cui erogare gli aiuti ai paesi in via di sviluppo, cfr. L. Tosi, Le Nazioni unite,cit., pp. 359-368. ↑
Su questo, cfr. M. De Giuseppe, Moro e il “Terzo mondo”, cit., p. 675 ss. ↑
E. Calandri, Development Cooperation, 1958-1992: Party Politics and a Foreign Policy Debacle, in A. Varsori, B. Zaccaria(a cura di), Italy in the International System from Détente to the End of the Cold War. The Underrated Ally, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2018, pp. 288-293. Si veda anche E. Calandri, Italy, the Developing World and Aid Policy, 1969-1979: the “Historic Compromise” and Italian foreign policy”, in «Cold War History», 2019, 2, pp. 363-381. ↑
U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa, cit., pp. 114-115. Aspetto enfatizzato anche da Giovagnoli in Il partito italiano, cit., p. 160. ↑
L. Tosi, Le Nazioni Unite, cit., p. 361 ↑
Cfr. A. Armellini, La politica estera di Aldo Moro, cit., pp. 25-26; D’Amelio, La normalizzazione adriatica, cit., p. 492. ↑
Cfr A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, cit., pp. 79-80. L. Tosi, Le Nazioni Unite, cit., pp. 347-348. ↑
Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano, cit., p. 159. ↑
Questa è la lettura che appare emergere nei saggi di L. Nuti, La politica estera italiana, cit., pp. 40-62; L. Monzali, Aldo Moro e la politica estera italiana,cit., pp. 44-45; G. Garavini, Moro, la Comunità europea, cit., pp. 585-605 e da contributi complessivi come G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, cit.; U. Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa, cit. In un sintetico profilo della politica estera di Moro, Luca Riccardi, invece, ha parlato di «gradualismo», cfr. L. Riccardi, Aldo Moro ministro degli Esteri, in A. D’Angelo, M. Toscano(a cura di), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza»,cit., p. 72. ↑
P. Craveri, Aldo Moro, cit. ↑
G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni, cit., pp. 157-158. ↑
A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, cit., p. 81. ↑
Cfr. G. M. Ceci, Alle origini del crollo: l’Italia, lo Shock of the Global e la crisi degli anni Settanta, in «Mondo contemporaneo», 2019, 2, pp. 164-165. ↑
A. Moro, Scritti e discorsi 1969-1973, vol. V, a cura di Giuseppe Rossini, Edizione Cinque Lune, Roma 1988; A. Moro, Scritti e discorsi 1974-1978, vol. VI, a cura di Giuseppe Rossini, Edizione Cinque Lune, Roma 1990. ↑
Oltre alla già citata biografia di Moro firmata da Antonio Rossano, le uniche pubblicazioni che hanno fatto luce su questa dimensione appaiono la raccolta di interventi G. Di Capua(a cura di), Aldo Moro e il Mezzogiorno, Roma, Ed. del moretto, Brescia 1986 e il volume A. Daloiso (a cura di), La Fiera del Levante, il Mezzogiorno, l’Europa e il mondo nei discorsi inaugurali di Aldo Moro, Modugno, Arti Grafiche Favia, 2016. Alcuni spunti si trovano in F. Cassano, Il teorema democristiano. La mediazione della DC nella società e nel sistema politico italiani, De Donato, Bari 1979. ↑
A. Giovagnoli: Moro e la crisi degli anni Settanta, cit., p. 97. ↑
Discorso ai gruppi dirigenti della Dc di Padova tenuto a Borca di Cadore il 15 settembre 1974, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), fondo Aldo Moro, serie Scritti e discorsi, UA 630, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.063. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 299. ↑
Intervento al Consiglio nazionale della Dc del 20 luglio 1975, in «Il Popolo», 21 luglio 1975, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.110. ↑
P. Craveri, La Repubblica, cit., p. 695 ↑
Cfr. in particolare G. M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi, cit., p. 206. ↑
G. M. Ceci, La Democrazia cristiana, i terrorismi, cit., pp. 328-329. ↑
Sulla crisi di inizio 1978, cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 326-336; A. Guiso, Moro e Berlinguer, cit., pp. 139-178. ↑
Specificamente sul Moro di quella fase, si è soffermato parzialmente il già citato saggio di S. Boscato, Il IV Governo Moro, cit., pp. 385-405. ↑
Discorso alla Commissione Esteri della Camera del 28 febbraio 1974, in ACS, fondo Aldo Moro, serie Scritti e discorsi, UA 621, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.034. ↑
Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 245-248; Id., Storia d’Italia nella guerra fredda, cit., pp. 387-392. ↑
Cfr. G. Formigoni, Aldo Moro, cit., pp. 244-245. ↑
Bilanci e previsioni sulla situazione economica, dattiloscritto datato 4 dicembre 1974 per «Panorama economico» inserto de «il Sole 24 ore», in ACS, fondo Aldo Moro, serie Scritti e discorsi, UA 636, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.077. ↑
Ibidem. ↑
Discorso alla Fiera del Levante del 1975, in Testi e documenti sulla politica estera dell’Italia, Ministero degli Affari Esteri, 1975, pp. 273-283, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.112. ↑
Discorso ai gruppi dirigenti della Dc di Padova tenuto a Borca di Cadore il 15 settembre 1974, in ACS, fondo Aldo Moro, serie Scritti e discorsi, UA 630, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.063. ↑
G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, cit., pp. 448-449. ↑
Intervento alla Camera dei Deputati, in Atti Parlamentari, Discussioni, 2 dicembre 1974, p. 18120, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.071. ↑
Ibid., p. 18130. ↑
Ibidem. ↑
G. Formigoni, Storia dell’Italia nella guerra fredda, cit., p. 465. ↑
Intervento alla Camera dei Deputati, in Atti Parlamentari, Discussioni, 2 dicembre 1974, p. 18129, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.071. ↑
Intervento alla Camera dei Deputati, in Atti Parlamentari, Discussioni, 2 dicembre 1974, p. 18117, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.071. ↑
Cfr. P. Battilani, F. Fauri, L’economia italiana, cit., pp. 109-112. ↑
Si veda il Discorso al Consiglio nazionale della Dc del 3 febbraio 1975, in«Il Popolo»,4 febbraio 1975, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.082. ↑
Cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2005, p. 452. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 293. Cfr anche G. Garavini, Moro, la Comunità europea, cit., pp. 586-587. ↑
Cfr. P. Battilani, F. Fauri, L’economia italiana, cit., pp. 130-131. ↑
Su Moro solamente un’efficace riflessione pubblicata di recente ha valorizzato questo aspetto, cfr. G. Piepoli, Bari, «finestra spalancata sul vicino Oriente»: la lezione di Aldo Moro, in «Euro-Balkan Law and Economics Review», 2020, 1, pp. 18-37. Paolo Acanfora ha rilevato la presenza di questo nodo in Moro fin dagli anni Cinquanta, cfr. P. Acanfora, Le due patrie. Coscienza nazionale e unificazione europea in Aldo Moro (1944-1961), in R. Moro, D. Mezzana(a cura di), Una vita, un Paese, cit., pp. 177-199. ↑
Moro: occasione e impegno di ripresa, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22 settembre 1973, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.009. ↑
Intervento alla Commissione Esteri del Senato della Repubblica del 23 gennaio 1974, in Aldo Moro. Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. VI, cit., p. 3131, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.026. ↑
Moro: inammissibili rinvii per gli aiuti della CEE al Sud, in«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 novembre 1974, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.067. ↑
Discorso al vertice di Lussemburgo del 2 aprile 1976, in Testi e documenti sulla politica estera dell’Italia, Ministero degli Affari Esteri, 1976, pp. 420-423, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.151. ↑
Cfr. Intervento alla Camera dei Deputati, in Atti Parlamentari, Discussioni, 2 dicembre 1974, p. 18128, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.071. ↑
Cfr. P. Battilani, F. Fauro, L’economia italiana, cit., pp. 135-136. ↑
Discorso alla Fiera del Levante del 1975, in Testi e documenti sulla politica estera dell’Italia, Ministero degli Affari Esteri, 1975, pp. 273-283, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.112. ↑
Moro: Anche nei campi una battaglia per il Sud,in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 ottobre 1975, Testi e documenti sulla politica estera dell’Italia, Ministero degli Affari Esteri, 1975, pp. 273-283, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.120. ↑
Versione integrale del discorso per la celebrazione del trentennale della Resistenza promossa dal Consiglio regionale pugliese, il 21 dicembre 1975 in ACS, fondo Aldo Moro, serie Scritti e discorsi, UA 683, ora in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 - maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di Chiara Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: https://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.142. ↑
Ibidem. ↑