Gli anni fra il 1973 e il 1978, gli ultimi della vita di Moro, sono stati quelli della sua maggiore maturità umana, culturale e politica, in cui ha anche esercitato maggiore influenza sulla vita politica italiana. I suoi scritti e discorsi di questo periodo sono perciò illuminanti per comprendere chi è stato Aldo Moro, che ruolo ha occupato nella storia d’Italia e che influenza ha avuto a livello internazionale.
Molte di queste pagine parlano del suo rapporto con la Democrazia cristiana. Per tanti – dopo la svolta politico-istituzionale dei primi anni Novanta in Italia – la sua appartenenza a questo partito ha costituito un problema: è sembrata incompatibile con un profilo di sincero democratico e di autentico statista. Ma è un atteggiamento che proietta all’indietro la sensibilità di una stagione successiva e non tiene conto del contesto storico in cui è vissuto e ha operato: il contesto della “democrazia dei partiti” e cioè della democrazia di massa che ha avuto nei grandi partiti la sua articolazione principale.
All’origine dell’impegno nella Dc c’è stata una indicazione dell’arcivescovo di Bari, monsignor Marcello Mimmi, e la militanza in questo partito si è inserita per Moro in una più ampia tensione umana e religiosa che ha attraversato tutta la sua vita[1]. L’inizio del suo percorso politico si è collocato, inoltre, nella transizione dal fascismo al post-fascismo, di cui il passaggio dal partito unico al pluripartitismo e l’azione dei partiti antifascisti nella fondazione della democrazia italiana hanno svolto un ruolo cruciale[2]. A confermarlo su questa strada c’è stata la crescita di importanza dei partiti – non solo sotto il profilo politico – nei decenni successivi, in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale. Anche negli anni Settanta, come mostrano molte pagine di questo volume, la Dc e le altre formazioni politiche di massa costituivano realtà vitali, fortemente partecipate, attraversate da un intenso dibattito. Lo attestano indirettamente gli interventi di Moro ad appuntamenti elettorali, i suoi discorsi a iniziative di partito, le sue appassionate difese contro gli attacchi alla Dc. In questo rapporto diretto con la base democristiana – in particolare con i giovani – trovava conferma la sua visione della democrazia non statica ma dinamica, più che incentrata su principi e procedure fondata su un’intensa circolarità di spinte dalla società civile alle istituzioni e viceversa, in cui i partiti erano chiamati a svolgere un incessante ruolo di mediazione. Per Moro, insomma, la militanza nella Dc non ha significato affatto vivere chiuso nel Palazzo. Il suo essere uomo di partito, inoltre, ha fatto tutt’uno con il suo impegno per la crescita società italiana, lo sviluppo del Paese, la promozione degli interessi italiani nel mondo, la pace e la collaborazione internazionale. Ricordo solo alcune delle grandi finalità da lui perseguite e che emergono abbondantemente da queste pagine: l’affermazione della democrazia e la costruzione dello Stato in Italia, lo sviluppo del processo di integrazione europea e la distensione nella politica dei blocchi, la promozione della pace e dei diritti umani – è in questo senso eloquente il suo discorso per la firma dell’Atto finale di Helsinki –, l’attenzione verso i paesi in via di sviluppo ecc. Moro è stato insomma un leader e uno statista di livello internazionale anche perché è stato uomo di partito.
Di lui si è parlato come di un democristiano atipico, ma non è facile individuare un modello di democristiano tipico rispetto a cui misurare la sua atipicità. Caratteristica precipua della Dc – secondo alcuni punto di forza, secondo altri motivo di opacità – è stata infatti quella di raccogliere esponenti politici diversi per provenienza geografica, estrazione economico-sociale, formazione culturale e, persino, tendenza politica. Non a caso anche altri democratici cristiani sono stati definiti “atipici”, come Oscar Luigi Scalfaro; pure il modo in cui Andreotti è stato democristiano è diverso da tutti gli altri e così via. In ogni caso, l’atipicità di Moro non può essere intesa come distanza dal partito, disinteresse per le sue dinamiche, estraneità ai fini perseguiti dalla Dc, indifferenza per le sue sorti. In queste pagine sono riportate alcune delle sue frasi più note, come «il futuro non è più nelle nostre mani», oppure «il futuro è ancora in parte nelle nostre mani», in cui il “nostro” esprime chiaramente l’identificazione con il “noi” collettivo del partito. Molti suoi interventi sono stati pronunciati in campagne elettorali a favore della Dc e molti sono anche i discorsi da lui tenuti davanti a platee democristiane, mentre alcune delle sue prese di posizione più accorate riguardano la difesa della politica seguita per oltre un trentennio dal suo partito. Non mancano, ovviamente, dure critiche alla Dc e giudizi severi verso i suoi dirigenti e le loro scelte, ma anche queste si collocano in una prospettiva “interna”. L’unità del partito, non a caso, è segnalata da lui come un valore di grande importanza anche nel suo ultimo discorso pubblico[3].
Tuttavia Moro ha seguito un percorso singolare all’interno del suo partito. Lo si è definito dossettiano, ma lo è stato piuttosto “da lontano” e con una indubbia originalità, evidente in sede di Assemblea Costituente. È stato dentro Iniziativa democratica, ma nel 1957 non ha condiviso la scelta più importante della leadership fanfaniana: l’apertura ai socialisti a Vallombrosa. I dorotei lo scelsero come segretario della Democrazia cristiana nel 1959, proprio in funzione anti-fanfaniana, ma in seguito si sono ricreduti e lo hanno contrastato. È stato spesso accostato a Fanfani – «i due cavalli di razza», secondo una nota definizione giornalistica – ed è vero che entrambi hanno condiviso l’obiettivo di un’alleanza di centro-sinistra sia nel 1960 sia nel 1973 ma tra i due leader ci sono state distanze politiche notevoli ed è eloquente la diversa sensibilità con cui hanno affrontato il referendum sul divorzio (sono illuminanti in questo senso gli interventi di grande spessore ai Consigli Nazionali del 1974 e 1975). Dopo il 1968 Moro si è collocato all’opposizione della maggioranza del partito, ma non ha formato una corrente analoga alle altre per conquistarne la guida e ha subìto più che voluto l’elezione a Presidente del Consiglio nazionale nel 1976.
Il suo rapporto con la Dc, insomma, è stato indubbiamente complesso. Più che un democristiano atipico, però, mi pare sia stato un interprete della democrazia dei partiti che ha ispirato il suo rapporto con il suo non tanto ad interessi e obiettivi immediati quanto ad una visione politica di fondo. Nessuno è stato così convinto come lui del ruolo centrale che spettava alla Democrazia cristiana nella politica italiana, ma tale convinzione discendeva dalla sua visione della democrazia. Quest’ultima, tuttavia, non è una realtà statica bensì una costruzione storica che cambia nel tempo e perciò cambia anche il ruolo dei partiti. In Italia – e in altri paesi occidentali – è accaduto, in particolare, a partire dagli anni Settanta. Anche il rapporto di Moro con la democrazia è perciò cambiato nel tempo, come mostrano in particolare i testi pubblicati in questo volume, che recano numerose tracce delle sue reazioni a ciò che più tardi è stata chiamata crisi della democrazia. La più evidente fu la difficoltà dei partiti a trovare convergenze ed accordi per realizzare la politica nazionale: mentre ancora i partiti apparivano soggetti sociali forti e radicati, Moro ha colto gli inizi di una crisi della democrazia che è cominciata “dall’alto” prima di manifestarsi “dal basso”. Ma ha anche intuito che occorreva percorrere nuove vie “dal basso” per difendere e rilanciare la democrazia.
Tra i principali nemici della democrazia in Italia, Moro ha individuato il fascismo, che non solo aveva sconfitto la democrazia nel primo dopoguerra ma che continuava anche a costituire il suo avversario più pericoloso in età repubblicana. È una visione non condivisa da una parte della storiografia, che ha insistito sul carattere particolare e irripetibile del fascismo inteso come fenomeno politico italiano sviluppato tra le due guerre[4]. A Moro sembrò però che diversi motivi mostrassero la persistenza di un pericolo fascista anche dopo il 1945: molti italiani non avevano mai preso le distanze dal fascismo, anche tra gli elettori della Dc; un importante partito politico, il Movimento sociale italiano, aveva radici nella Repubblica sociale italiana; nel corso degli anni sono sorti numerosi gruppi che si richiamavano al fascismo; c’è stato chi ha progettato colpi di stato o radicali cambiamenti politici in nome del fascismo; aggressioni, azioni violente, attentati terroristici – come la strage di piazza Fontana, quella di Brescia, l’attentato all’Italicus ecc. – sono stati attuati da soggetti che si richiamavano esplicitamente al neofascismo. Fuori dall’Italia, inoltre, nei suoi anni si sono affermati movimenti politici ispirati al fascismo, dalla Grecia al Sudamerica. Su tutto ciò Moro ha fondato la convinzione che il fascismo continuasse ad essere presente, in forme più o meno sotterranee, e che costituisse ancora il principale pericolo per la democrazia italiana. Ciò non contraddice le ferme convinzione anticomuniste, che si trovano largamente espresse anche in questo volume. Tuttavia, l’ampio schieramento internazionale ed interno contro il comunismo allestito durante la guerra fredda, rendeva quest’ultimo per l’Italia una minaccia meno immediata.
Nella visione di Moro, l’antifascismo ha occupato un posto rilevante. Com’è noto, egli non è stato un antifascista durante il regime e non ha partecipato alla Resistenza dopo il 1943. Tuttavia, pur partendo da un contesto afascista[5], fin dai primi giorni dopo l’8 settembre ha espresso posizioni antifasciste[6] e si deve proprio a lui un importante chiarimento sul carattere antifascista della Costituzione repubblicana[7]. Appaiono pretestuose e infondate le interpretazioni che lo negano, facendo leva sulle sue perplessità in tema di epurazione. Divenuto segretario della Democrazia cristiana nel 1959, impresse alla politica del suo partito una forte impronta antifascista[8]. La vicenda del governo Tambroni fu da lui affrontata con prudenza e abilità ma anche con grande determinazione e a distanza di tempo continuò a considerarla il maggiore pericolo – che egli aveva contribuito a scongiurare – corso dalla democrazia italiana dopo il 1945[9]. Proprio sul terreno dell’antifascismo, Moro ha realizzato non il suo successo più vistoso ma quello di maggiore spessore storico, portando gran parte dell’istituzione ecclesiastica e del mondo cattolico ad abbandonare nostalgie e legami ancora molto forti con l’eredità fascista. Interagendo con Giovanni XXIII – che simpatizzava con l’iniziativa sua e di Fanfani –, con Paolo VI – interlocutore attento, ma spesso preoccupato e prudente – e con molti vescovi italiani, il leader democristiano ha così promosso l’approdo definitivo dei cattolici alla democrazia e favorito l’isolamento del fascismo[10].
Negli anni Settanta, Moro è tornato più volte sul pericolo fascista. All’inizio del decennio, si era manifestata in Italia una forte spinta a destra e nel 1972 il Movimento sociale aveva raddoppiato i suoi voti rispetto alle elezioni del 1968, mentre si moltiplicavano gli atti di violenza neofascista. Nell’intervista del giugno 1973 che apre questo volume, il leader democristiano parlò di una «pericolosa componente fascista della destra italiana» che si era fatta «più evidente e più aggressiva». Moro la interpretava come un «fenomeno [non] occasionale, ma profondo»: «il fascismo è l’altra faccia, quella negativa, del grande moto rinnovatore del mondo»[11]. Era dunque un fascismo pericolosamente vitale quello che vedeva davanti a sé, radicato nel suo passato storico ma capace anche di adattarsi a un contesto diverso, alimentandosi della reazione a fenomeni nuovi come quelli emersi a partire dal 1968 e che tanto preoccupavano gli ambienti conservatori. «Nella sensibilità del leader democristiano, – osserva Guido Formigoni – era molto forte il rischio di contraccolpi reazionari della stagione della mobilitazione sociale»[12].
Ne scaturiva il dovere di scelte chiare per la Dc[13] e una rinnovata chiusura dell’area di governo alla destra fascista[14]. Si trattava, come ha notato George Mosse, di «svolgere un’azione di contenimento esterno nei confronti della destra non cercando di inglobarla e di addomesticarla, ma respingendola in un certo modo in un ghetto»[15]. Ma per Moro non bastava: «una accorta azione di governo, un atteggiamento responsabile dei partiti, che non offra, per la sua serietà, pretesti al montare della protesta di destra sono, insieme con le nostre convinzioni morali, il migliore (ed urgente) antidoto al fascismo risorgente in Italia e forse incoraggiato altrove»[16]. In particolare, opporsi al fascismo significava «evitare anche il rischio della radicalizzazione della lotta politica, che renderebbe l’influenza reazionaria e fascista determinante»; «significa[va] evitare un potente coagulo di forze a sinistra intorno al Partito comunista»; «significa[va] dare articolazione alla vita democratica in raccordo con il Partito Socialista ed in piena intesa con quello socialdemocratico e repubblicano, i quali rappresenta[va]no tradizioni ed ispirazioni importanti e costitui[va]no una solida garanzia per il Paese»[17]. Era il centro-sinistra, inteso come espressione dell’incontro fra tradizioni politico-ideologiche diverse e settori della società differenti, la principale risposta politica alla minaccia fascista[18].
L’antifascismo costituiva per Moro una piattaforma ideale, morale e politica condivisa da partiti diversi, che li avvicinava sulle scelte di fondo malgrado divergenze e contrasti, vincolandoli a posizioni comuni in difesa della democrazia. Seppure collegato all’eredità storica dell’opposizione al fascismo durante il regime e alla stagione resistenziale, il suo antifascismo aveva soprattutto una concreta valenza politica, che emerse incisivamente ad esempio nei suoi interventi in occasione del golpe in Cile del 1973, cui la Democrazia cristiana cilena e quelle di altri Paesi risposero in modo ambiguo, evitando una netta condanna che invece Moro pronunciò con chiarezza (si deve anche alle sue posizioni, se Berlinguer orientò la politica del Pci verso il “compromesso storico”[19]). L’antifascismo di Moro era però diverso da varie forme di antifascismo presenti nella cultura politica di sinistra. A differenza di altri cattolici, il suo non si perdeva, per così dire, in un generico anti-totalitarismo, ma le sue radici cattoliche gli ispiravano un antifascismo anzitutto morale, prima che propriamente politico, con una particolare accentuazione del rifiuto della violenza. La sua opposizione al fascismo, inoltre, si basava su un solido fondamento pluralista, che ne rifletteva il carattere democratico, incompatibile con politiche basate sul partito unico, come nel caso comunista. Moro negava anche che si potesse includere la Democrazia cristiana italiana o suoi esponenti in un’interpretazione arbitrariamente estesa del fascismo, come avvenne con la campagna contro il «fanfascismo» o altre simili. Non lo faceva solo per difendere il suo partito, ma anche perché profondamente convinto che tra il centro e l’estrema destra dovesse intercorrere una netta separazione, che non era emersa con chiarezza nel caso cileno ma che invece in Italia era stata decisiva per rendere possibile nel secondo dopoguerra una storia politica tanto differente da quella del primo dopoguerra. Tale separazione era, invece, misconosciuta o sottovalutata da parte di molti che militavano a sinistra, dove emergevano anche tendenze settarie cui era certamente estraneo l’antifascismo di Moro, caratterizzato da una forte carica unitiva volta a collegare tutti quelli che non si riconoscevano nel fascismo, non ne condividevano i valori e non ne adottavano le pratiche. Differenze con l’antifascismo di sinistra emergevano anche sul terreno del metodo: la contrapposizione tra il “noi” e “loro, che nel fascismo ispirava intolleranza, discriminazioni, violenza, doveva essere rifiutata tout court e non riprodotta da quanti si opponevano ideologicamente o politicamente al fascismo. In questo campo per Moro il metodo coincideva con il merito, la forma con la sostanza.
Un forte legame, come si è detto, ha unito in Moro antifascismo e centro-sinistra. Proprio perché convinto assertore della democrazia dei partiti e oppositore del fascismo, egli si è tenacemente adoperato per introdurre e mantenere l’alleanza politica di centro sinistra, che non rappresentava ai suoi occhi una formula politica occasionale ma una risposta con valenza sistemica ai problemi della democrazia italiana. Nella già ricordata intervista che apre questo volume Moro dichiarò: «io auspico e ritengo possibile la ripresa della politica di centro-sinistra». A questo scopo, nei mesi precedenti si era riavvicinato a Fanfani e aveva promosso il ''patto di palazzo Giustiniani''. Ne rivendicò la paternità durante il XIII Congresso della Dc che elesse segretario il politico toscano, in sostituzione di Forlani sostenitore dei governi centristi guidati da Andreotti. Il riavvicinamento a Fanfani richiamava la collaborazione fra i due leader democristiani che, all’inizio degli anni Sessanta, aveva aperto la strada ai governi di centro-sinistra. Moro riprese così nel 1973 un progetto avviato più di dieci anni prima e in cui continuava a credere profondamente: al centro-sinistra, dichiarò nel 1974, «continuo ad attribuire, e malgrado le difficoltà innegabili, un significato storico»[20].
Per lo statista pugliese, infatti, il centro-sinistra costituiva l’unica prospettiva adeguata all’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Negli scritti e discorsi qui riportati, lo definisce insostituibile e senza alternative, non perché imposto dai numeri in Parlamento ma perché essenziale per la democrazia italiana. Sono convinzioni che Moro non ha abbandonato neanche quando ormai era già iniziato il distacco del Partito socialista da tale politica. Nel luglio 1975 affermò: «Si è detto che è finita la politica di centro-sinistra. Ed è vero con riguardo ad alcune forme nelle quali essa si è di volta in volta incarnata ed agli impacci che possono averla appesantita. Ma non può essere vero, se si abbia riguardo, in presenza di una situazione che rende ancor più stringente la necessità dell’incontro, [della] collaborazione tra cattolici e socialisti»[21]. Moro ha mantenuto tali idee anche dopo la rottura definitiva da parte socialista, nel dicembre 1975. Persino durante i governi di solidarietà nazionale e la collaborazione con il Pci ha continuato a sperare in una ripresa del dialogo con i socialisti, continuando a ritenere che il centro-sinistra costituisse l’unica vera coalizione politica realizzabile e che, in sua assenza, si potesse dar vita solo a maggioranze parlamentari prive di vera coesione politica.
Al centro-sinistra attribuiva un «respiro strategico», espresso ad esempio dalla «concentrazione sulla riorganizzazione amministrativa per l’intervento pubblico in settori importanti del programma storico del centro-sinistra – casa, agricoltura, infrastrutture produttive pubbliche – ed in quello decisivo di una politica tributaria»[22]. Era un indirizzo di governo riconducibile all’idea della “programmazione”, cui Moro si dichiarò fedele anche negli anni Settanta. Ancor di più, però, a rendere “storica” l’esperienza di centro-sinistra contribuiva per lui la convergenza tra soggetti politici diversi che l’aveva fatta nascere e che continuava a sostenerla: era l’incontro fra diversi il sale della democrazia, la sua sostanza profonda, proprio ciò cui più il fascismo si opponeva con la sua logica divisiva e antagonista. Nella democrazia consensuale da lui auspicata e praticata spettava ai partiti promuovere la convergenza, la collaborazione, l’unità, ovviamente senza dimettere le proprie diversità e quelle dei settori sociali che rappresentavano. Nell’incontro fra cattolici e socialisti finalmente riuscito a partire dagli anni Sessanta, restavano profonde le differenze ideologiche e politiche tra Dc e Psi e proprio tali differenze conferivano al centro-sinistra grande valore. Quest’alleanza di governo esprimeva per Moro l’unico fatto storico intervenuto nella politica italiana dopo il 1948: il distacco dei socialisti italiani dai comunisti sulla questione essenziale dell’internazionalismo comunista e del rapporto con Mosca. «Abbiamo chiamato il partito socialista italiano – dichiarava Moro al Consiglio nazionale della Dc –, ed è stato il fatto politico più importante dal ‘60 in poi, per la nobile tradizione che esso incarna, per l’intelligenza delle sue analisi e prospettive, per il suo legame con i lavoratori, per essere esso un autentico partito di sinistra, in linea di principio collocabile nel contesto occidentale ed europeo. Il che non accade per l’altro grande partito della sinistra, quello comunista, il quale deve risolvere importanti problemi»[23].
Era un grande successo della politica, opera di élite dirigenti che avevano avuto la capacità e la forza di portare le rispettive basi su posizioni da queste in parte non volute o accettate a fatica. La democrazia dei partiti con cui si rapportava Moro aveva infatti aspetti di una democrazia “dall’alto” pur costituendo anche un grande fatto popolare, come sottolineava spesso lo statista democristiano: spettava ai partiti, infatti, guidare la società, comporne le contraddizioni, anticipare o, quantomeno, assecondarne gli sviluppi. Non a caso, uno dei meriti principali che attribuiva al centro-sinistra era quello di aver impedito una lacerazione profonda del Paese verso cui avrebbe portato la contrapposizione fra comunismo e anticomunismo se non adeguatamente contrastata e guidata. Si deve in buona parte proprio a lui se il bipolarismo elettorale, scaturito dalle urne nel 1948 e confermato dalle consultazioni successive, non è mai diventato un bipolarismo politico in grado da strutturare in modo permanente la vita politica italiana[24].
L’evoluzione della democrazia italiana sembrò incepparsi negli anni Settanta[25]. Com’è ovvio, negli scritti e discorsi di Moro dal 1973 al 1978 non si trova tematizzata la crisi della democrazia così come è stata intesa in seguito[26]. Numerosi sono però in queste pagine i riferimenti alle difficoltà, ai problemi e agli ostacoli incontrati dalla democrazia dei partiti, soprattutto dopo il 1974. Il segno più evidente della crisi politica degli anni Settanta fu per Moro la fine del centro-sinistra che privò la Dc della possibilità di formare un governo di coalizione e l’intera politica italiana di un governo “normale”. Non è il segno che sembra più evidente a chi guarda oggi alla crisi della democrazia tra la fine XX secolo e l’inizio del XXI, che più facilmente lo individua invece nell’indebolimento, nel declino e nella scomparsa dei grandi partiti di massa novecenteschi. In seguito, infatti, la crisi della democrazia è stata analizzata partendo prevalentemente “dal basso”, studiando i comportamenti degli elettori o interrogando i cambiamenti della società. Ma negli anni Settanta la crisi del radicamento sociale dei partiti era ancora poco visibile. La preoccupazione per la fine del centro-sinistra mostra piuttosto in Moro una percezione della crisi della democrazia a partire “dall’alto” e cioè dalla sua crescente difficoltà a garantire un governo politico della società. Sebbene parziale, era una percezione fondata, come hanno confermato gli sviluppi successivi: dopo il 1975 non si sono più formate in Italia vere coalizioni politiche come quelle del centrismo e del centro-sinistra. Non lo sono state infatti né la solidarietà nazionale né il pentapartito, e, dopo la svolta dei primi anni Novanta, si sono formate grandi alleanze elettorali non omogenee politicamente - come il Polo delle Libertà e la convergenza Ulivo-Rifondazione, La Casa delle Libertà e L’Unione – o maggioranze parlamentari a sostegno del governo senza un’autentica unità politica – come nei casi degli esecutivi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, Draghi. Moro dunque ha visto lontano preoccupandosi fortemente per la fine dei governi di centro-sinistra: ha intuito che stava indebolendosi la capacità della politica di svolgere un’opera di sintesi delle diverse posizioni ideologiche e quella dei partiti di unificare le diverse spinte sociali.
La crisi della democrazia dei partiti percepita da Moro negli anni Settanta è diversa da quella della democrazia parlamentare a cui George Mosse ha collegato l’opera svolta dallo statista italiano. La crisi richiamata da Mosse è infatti quella della democrazia parlamentare iniziata con il tramonto dello Stato liberale a seguito dello sviluppo dell’industrializzazione e proseguita con l’affermazione del fascismo, cui per Moro – come per altri leader dei grandi partiti novecenteschi – occorreva rispondere con l’inserimento delle masse nello Stato democratico. Lo storico tedesco-americano ha giustamente interpretato in questo senso l’azione di Moro per far nascere il centro-sinistra all’inizio degli anni Sessanta, sanando definitivamente la divaricazione fra Stato e masse emersa in Italia nel primo dopoguerra[27]. Ma la crisi della democrazia parlamentare evocata da Mosse – e nota da tempo agli storici[28] – è altra cosa dai malesseri e dalle inquietudini della democrazia di massa che sono cominciati ad emergere – non solo in Italia – tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Non a caso per Mosse, la contestazione del Sessantotto non ha avuto particolari caratteri di novità, mentre è nota la grande attenzione che le ha dedicato Moro, che si interrogò profondamente sul movimento degli studenti, le nuove aspirazioni alla pace, il femminismo ecc. Fu proprio la percezione di tali novità a spingere Moro verso l’abbandono delle sue precedenti posizioni centriste – in qualche modo dorotee – all’interno del partito, per collocarsi alla sinistra della Dc, sia pure in modo sui generis. Nello stesso contesto si collocano anche la «strategia dell’attenzione» e la «politica del confronto» con il Pci, attraverso cui cercò di aprire la politica alle nuove spinte provenienti dalla società, fermo restando il ruolo cruciale dei partiti nell’interpretazione politica di tali spinte[29].
Anche molte riflessioni riportate in queste pagine riguardano – direttamente o, più spesso, indirettamente – la “nuova” crisi della democrazia diversa da quella descritta da Mosse e cioè non provocata dall’avvento della società di massa, ma dall’inizio di una radicale trasformazione di quest’ultima. Tendenze significative della storiografia internazionale collocano tra gli anni Sessanta e Settanta una svolta così ampia da segnare la storia “globale”[30]. A questo proposito, vengono spesso ricordati la sconfitta americana in Vietnam, la fine della parità dollaro-oro, lo shock petrolifero del 1973, la formazione di un mondo multipolare, le spinte per un nuovo ruolo dell’Europa, tutti presenti nella riflessione di Moro. Chiara Zampieri nota giustamente una «scarsa attenzione che gli studi su Moro hanno dedicato alla dimensione economica nazionale», mentre «fin da quando cominciarono a vedersi i primi segni delle conseguenze della crisi petrolifera sull’economia italiana, Moro intuì che la situazione nazionale era tanto più grave proprio perché si inquadrava in una crisi economica mondiale [che] a suo avviso, stava colpendo più profondamente l’Italia per la sua fragilità, perché arrivata per ultima allo sviluppo rispetto agli altri paesi occidentali»[31]. Guido Formigoni ha scritto che «nasceva un nuovo vorticoso circuito globale di flussi e di scambi (aperto come prima per le merci, meno aperto per le persone, al massimo aperto per i capitali)», in cui le nuove tendenze dell’economia e della tecnologia erano in realtà guidate da precisi interessi[32]. Erano eventi che segnalavano trasformazioni internazionali, economico-sociali, culturali e – in ultimo – anche politiche “globali”, divenute sempre più evidenti negli anni tra il 1973 e il 1978, che hanno visto molti cambiamenti inattesi nella società italiana collegati a quanto avveniva nel resto del mondo.
È in tale contesto che si colloca un uso diffuso del termine “globalizzazione”. Immanuel Wallerstein ha visto emergere tra il 1967 e il 1973 una grave crisi – forse l’inizio della fine – di ciò che ha definito sistema-mondo moderno, o sistema-mondo capitalistico, largamente coincidente con ciò che chiamiamo abitualmente Occidente[33]. Tutto ciò ha avuto un impatto importante anche sull’Italia, anche se qui una percezione di quanto stava avvenendo si è fatta strada solo lentamente e – più che altrove – la rappresentazione dominante è rimasta legata allo scontro fra Est ed Ovest, prima in termini di distensione e poi di ritorno alla guerra fredda. Sono trasformazioni che hanno influito anche sulla sensibilità comune, sui comportamenti individuali e collettivi, persino sui valori dominanti. I cambiamenti dell’economia internazionale hanno generato nuovi rapporti fra capitale e lavoro – si pensi solo ai processi di delocalizzazione –, hanno indebolito le appartenenze e le identità di classe e incentivato una nuova cultura dei consumi, con effetti rilevanti anche sul piano politico e sulla democrazia di massa. Molti segni di questi grandi cambiamenti non sono sfuggiti ad Aldo Moro, che ha cercato costantemente di collegare la politica italiana a quanto stava avvenendo in un quadro storico assai più ampio e profondo.
Sono illuminanti in questo senso le pagine dedicate al referendum sul divorzio. L’inusuale tematica “privata” oggetto, della consultazione fece irrompere nella politica italiana gli effetti di un inatteso mutamento antropologico[34], preannunciando uno slittamento del dibattito politico dai temi economico-sociali verso questioni culturali e valoriali, che sono stati poi al centro di molti successivi dibattiti “biopolitici” (dall’aborto alle questioni di genere, dalla procreazione assistita al fine-vita ecc.). Nel suo risultato, Moro vide l’espressione di una società sempre più complessa[35]. Lo statista non ne diede un giudizio complessivamente negativo: pur trattandosi anche di una sconfitta della Dc, vide nella “vittoria del No” i segni di una ricerca di maggior libertà e di maggior responsabilità[36]. Non gli sfuggì però che il referendum poneva molti problemi nuovi e difficili. Anzitutto sotto il profilo politico-istituzionale: per la prima volta dal 1946 era stato attivato uno strumento di democrazia diretta potenzialmente conflittuale con la logica della democrazia rappresentativa. Alla sua celebrazione, inoltre, aveva contribuito in modo decisivo la Chiesa[37], che si era discostata da una linea, seguita per decenni, di “collateralismo” alla Democrazia cristiana e alla sua politica di “ispirazione cristiana”, non-confessionale e aperta alla laicità, un tema molto caro ad Aldo Moro[38]. Spingendo per il referendum – voluto da un gruppo di intellettuali cattolici –, una parte dell’istituzione ecclesiastica e del mondo cattolico si erano posti in contrasto con il sostanziale appoggio dato fino a quel momento dalla Chiesa – attraverso la Dc – alla democrazia dei partiti, aprendo la strada ad una presenza diversa dei cattolici, di tipo più identitario, sulla scena politica. L’intervento ecclesiastico aveva tra l’altro condizionato pesantemente la Democrazia cristiana, spingendola a schierarsi con il Movimento sociale e contro le posizioni assunte dai suoi alleati di centro-sinistra. Il referendum, insomma, inserì una serie di contraddizioni nella democrazia dei partiti: in un certo senso, se si vogliono cercare le premesse remote della seconda fase della storia repubblicana avviata negli anni Novanta, è a questa consultazione che si deve risalire, piuttosto che al rapimento e all’assassinio di Moro[39].
Dopo il referendum, ammonì lo statista democristiano, «nessuno può farsi illusioni di poter tornare ad una democrazia semplice e rigorosamente lineare»[40]. Moro comprese subito che se, da una parte, il risultato del referendum sembrava pretendere dalla politica cambiamenti forti e immediati, dall’altra non indicava – nel quadro della democrazia dei partiti – in quale direzione e in che modo potessero avvenire tali cambiamenti. Apparentemente il risultato era molto chiaro: il paese si era diviso in due fronti contrapposti e uno dei due era prevalso nettamente sull’altro. Ma la lettura politica di tale risultato evidenziava vistose contraddizioni: «senza imbarazzo si erano ritrovati dalla stessa parte comunisti e anticomunisti e si era trattato della vittoria di un’autentica battaglia laica, sia pure conseguita anche con l’apporto dei cattolici del no e, su di un altro versante, di una quota piuttosto cospicua di borghesia conservatrice»[41]. Non era inoltre possibile attribuire a questo risultato un significato politico generale. «Sarebbe impossibile immaginare lo schieramento dei “no”, od anche qualche sua parte, come una piattaforma politica, da poter essere utilizzata in quanto tale», e «parimenti arbitrario, redistribuire il successo tra le forze partecipanti e stabilire quale tra esse possa dirsi, in modo particolare, determinante»[42]. Non si trattava solo di un problema specifico legato al referendum: era cominciata la crisi del rapporto fra società e Stato mediato dai partiti.
A differenza di Moro, altri credettero che fosse possibile “tradurre” quel risultato in termini immediatamente politici, seguendo le regole della democrazia dei partiti. L’esito del referendum, in particolare, mise in moto un profondo travaglio dell’“area laica”, per usare le parole di Moro, che si ritenne la vera vincitrice di quel referendum e che identificò nella Dc l’espressione di un paese arretrato e obsoleto, ormai superato da un’Italia ben più moderna. Di tali spinte il Partito socialista cercò di farsi interprete sul piano politico – in un rapporto complesso con i radicali –, concentrandosi progressivamente sull’ipotesi degli «equilibri più avanzati» con il coinvolgimento del Pci nel governo. Benché minoritaria sul piano elettorale, tale area intendeva in qualche modo spezzare l’egemonia delle due “Chiese”, come venivano chiamati i due maggiori partiti di massa. Moro si oppose a tale tendenza – che portò, dopo il “terremoto” elettorale del 1975, all’interruzione dell’esperienza di centro-sinistra dichiarata da De Martino alla fine dello stesso anno – convinto che non si potesse abbandonare la democrazia dei partiti o cambiarla radicalmente all’improvviso. Gli eventi successivi gli dettero ragione, sebbene non del tutto. Il successo di molti temi sostenuti dall’area laica presso l’opinione pubblica, infatti, non garantì a quest’area la possibilità di orientare gran parte dell’elettorato, che continuò a votare per i due maggiori partiti di massa. Lo mostrarono le elezioni del 1976, che proposero anch’esse un risultato fortemente bipolare – tre italiani su quattro votarono per la Dc o per il Pci – disegnando però un bipolarismo profondamente diverso da quello del 1974 e mostrando che la via intrapresa dal Psi lo aveva portato in un vicolo cieco.
Le elezioni del 20 giugno 1976 confermarono, come aveva intuito Moro, la vitalità della democrazia dei partiti, ancora sorretta dalla forza di grandi tradizioni popolari (pure la Chiesa cattolica era tornata su posizioni di maggior vicinanza alla Dc). Il risultato del 1976, però, sorprese anche lui: come egli colse acutamente, ne uscirono infatti non uno ma due vincitori tra loro incompatibili. Come in occasione del referendum, seppure in modo diverso, l’elettorato non aveva rispettato la logica della democrazia dei partiti. Molti elettori cattolici, ad esempio, votarono nel 1976 – come già nelle amministrative del 1975 - per il Pci, facendo venir meno la funzione da loro svolta in precedenza di sbarrare al Pci la strada verso il governo – nell’ottica della conventio ad excludendum –, senza però che fossero intervenute modifiche nel quadro internazionale tali da rendere accessibile per i comunisti tale strada.
Nell’immediato, non si poté né riprendere l’alleanza di centro-sinistra – cui i socialisti continuarono ad opporsi – né formare un’altra coalizione di governo. Fu necessario – Moro svolse un ruolo importante in questo senso – dar vita ad un governo di tregua[43]: un monocolore democristiano, con l’astensione di tutti gli altri partiti, reso possibile dalla non ostilità comunista. Si aprì così la stagione della solidarietà nazionale, fondata sulla necessità di fronteggiare l’emergenza, soprattutto economica[44]. Gli sconvolgimenti prodotti dai grandi eventi economico-finanziari degli anni Settanta stavano producendo un’inflazione a due cifre e il fenomeno nuovo della stagflazione, che svuotavano molti strumenti abituali di intervento pubblico e rendevano inefficaci molte forme di politica keynesiana. Sono aspetti importanti, ma spesso poco considerati da un dibattito anche storiografico che ha piuttosto cercato di inquadrare la solidarietà nazionale in termini di rapporti Est-Ovest[45].
Anche per quanto riguarda la politica interna, il dibattito storiografico sulla solidarietà nazionale si è concentrato molto sulla “questione comunista”. Si è scritto tanto in questo senso sulla politica di solidarietà nazionale e sull’atteggiamento di Moro nei confronti del Pci fra il 1976 e il 1978, spesso attribuendo ad entrambi significati che non hanno avuto. Guido Formigoni e Massimo Mastrogregori, invece, hanno proposto analisi di grande valore sul pensiero dello statista in quegli anni[46]. Secondo Formigoni, per Moro si trattava «di governare una circoscritta fase di convergenza, necessaria per legittimare l’evoluzione riformatrice del Pci e per accompagnare il continuativo cambiamento del partito fin a renderlo protagonista accreditato di una più normale dialettica democratica, che in un futuro prossimo avrebbe visto la possibilità dell’alternanza con la contrapposizione di diversi schieramenti non più divisi da ragioni ideologiche radicali»[47]. Specularmente opposta è invece l’interpretazione di Mastrogregori: «Fuori discussione erano due obiettivi: conservare l’egemonia democristiana e stabilizzare il sistema politico italiano»[48]. A suo avviso, fino al 16 marzo 1978 Moro «lavorò contemporaneamente […] per favorire una ripresa del centro-sinistra con il Psi di Craxi, per ottenere consensi dal Pci a un costo ragionevole, per rafforzare il suo partito in vista di elezioni sempre incombenti»[49].
Dai lavori di entrambi gli studiosi – quanto scrivo non pretende di sintetizzare la profondità e la ricchezza delle loro argomentazioni – ho ricavato l’impressione che Moro contemplasse sia la possibilità di una ripresa futura del centro-sinistra sia quella di un’evoluzione del Partito comunista tale renderlo pienamente compatibile con la democrazia. Gli scritti qui pubblicati mi sembrano confermare tale impressione. La necessità di considerare entrambe le ipotesi, del resto, da un lato rispondeva alla sua visione politica e, dall’altro, alle contingenze storiche. Tra i tanti documenti che esprimono l’atteggiamento di Moro verso questi due possibili sviluppi politici, è particolarmente significativo il discorso da lui tenuto a Benevento il 18 novembre 1977, e noto come un testo che – come viene in questa edizione giustamente presentato - «delinea un quadro della situazione politica, mostrando una certa apertura verso i futuri sviluppi del dialogo con il Pci»[50].
Ciononostante, vi si trova anzitutto un accorato appello al partito socialista. Moro protestava contro il ripudio socialista dell’esperienza di centro-sinistra, rivendicandola come «un fatto storico […] la realtà di alcuni anni della vita del Paese; tutta una trasformazione di rapporti, di mentalità, una compenetrazione di obiettivi, una dislocazione nuova della vita politica». Invitava perciò i socialisti a moderare i toni, a rimandare una rottura definitiva di cui non capiva l’urgenza. Con il tono ferito di chi si vede respinto – senza una valida ragione – dai compagni di un lungo cammino, constatava che l’obiettivo socialista era porre «rigide preclusioni nei confronti della Democrazia Cristiana». Ma ciò – commentava – voleva dire farsi del male da soli: «come colui che ha vissuto con estrema passione questa esperienza, vorrei dire al partito socialista che, senza attenzione verso la Democrazia Cristiana, il partito socialista in Italia non può avere una adeguata posizione di rilievo». Moro continuava a sperare nel confronto non solo con i nuovi venuti, i comunisti, ma soprattutto con i compagni di un tempo, alleati naturali della Dc, che cercava di rassicurare, smentendo presunte mire egemoniche del suo partito e garantendo il massimo di rispetto, di attenzione, di sensibilità nei confronti della diversità socialista. Anche alla fine del 1977, insomma, Moro tentava con passione di mantenere o di riprendere il rapporto con i socialisti.
Nel discorso di Benevento era però presente, come si è detto, anche un’apertura verso il Pci, diversa da quella manifestata verso questo partito alla fine degli anni Sessanta. Dopo aver richiamato il precedente dialogo tra i due partiti in parlamento, Moro sottolineò che, per l’impossibilità cui i socialisti avevano costretto la Dc «di fare alleanze vere» con qualunque partito, per la prima volta il Partito comunista si era trovato «nella stessa posizione delle altre forze». Da qui erano scaturiti la «non opposizione sul piano istituzionale» e l’accordo di governo: in quella situazione ciascun partito era «in un certo senso, solo» e tale solitudine delimitava in modo qualificante l’impegno comune «a gestire i gravi problemi del Paese». L’accordo programmatico del luglio 1977, precisò, «non rappresenta[va] una alleanza politica», mentre permaneva «la differenziazione […] tra Dc e Partito comunista, che si confermavano anche in questo contesto, come partiti idealmente alternativi». La solidarietà nazionale rappresentava dunque un passaggio necessario, utile per favorire una sorta di decantazione dei problemi irrisolti, ma comunque politicamente anomalo. Precisato tutto questo, Moro si pose la questione cruciale: «si può fare di più» nel rapporto con il Pci? Indubbiamente, riconobbe, «una evoluzione del partito comunista [era] innegabile […] dettata da un intimo travaglio, ma […] spinta […] soprattutto da […] un Paese come il nostro, così vario, così ricco di fermenti di libertà, così legato al valore della persona, [che] in qualche modo condiziona una forza politica, anche se essa si presenta secondo alcune sue rigide tradizioni, condiziona una forza politica e la sospinge». L’Italia, la società italiana, insomma, avevano cambiato, stavano cambiando il Pci, da cui erano venute dichiarazioni importanti «sui grandi temi della coscienza religiosa, della libertà, del pluralismo sociale e politico» e «alcune cose […] chiare, coraggiose, anche in considerazione delle circostanze», disse Moro alludendo probabilmente ai rapporti con l’Urss. Ma c’era un ma. «Ecco, ci viene proposto lo schema di una società socialista […] che si asserisce democratica» ma «i lineamenti di questa democrazia socialista, questa “autentica” democrazia, restano ancora indistinti, poiché essi non si esprimono in nessun modello riconosciuto». Si trattava insomma di intuizioni, stati d’animo, aspirazioni, presumibilmente sinceri, ma che dovevano «diventare realtà, […] inserirsi entro il contesto della democrazia quale noi la concepiamo» e tener conto dei «dati reali della struttura mondiale», perché non si poteva dimenticare che accanto a modelli nuovi dalla forma indefinita c’erano modelli molto reali e molto pesanti. «Siamo interessati a conoscere […] il punto di approdo di questa sperimentazione nuova, il frutto della mediazione fra l’internazionalismo proletario e la via autonoma al socialismo», ma per Moro era ancor più necessario conoscere la strada verso il futuro, le garanzie democratiche offerte dai comunisti nel cammino verso tale trasformazione. Insomma, quelli di un nuovo modello di società socialista e democratica erano «problemi seri, importanti, dei quali dobbiamo occuparci: ma sono il domani ancora lontano. Per il presente dobbiamo avere, e non diminuire in nessun modo, l’attenzione per il presente».
Moro si era posto da tempo e continuava a porsi il problema dell’alternanza di governo fra partiti diversi[51]. Ma non c’erano ancora le condizioni perché tale alternanza potesse realizzarsi con il Pci. Come ha sottolineato Pietro Scoppola, occorre distinguere tra ciò che Moro riteneva possibile in quegli anni e quello che invece non escludeva in una stagione futura, dopo importanti cambiamenti. Lui stesso lo sottolineò anche nel suo ultimo discorso pubblico: non si poteva saltare il momento presente e occorreva attendere i risultati di un possibile movimento delle cose, delle opinioni, delle posizioni politiche[52]. In assenza di tali novità, Moro aveva reagito con preoccupazione alle pressioni del Pci all’inizio del 1978 per introdurre novità politiche nella collaborazione in corso e non aveva accolto le aperture di Zaccagnini e di Andreotti per l’inserimento di ministri comunisti o di “tecnici d’area” nel governo che sarebbe poi nato il 16 marzo di quell’anno[53].
Che durante i mesi della solidarietà nazionale Moro abbia preso in considerazione sia il ritorno al centro-sinistra sia l’ingresso del Pci al governo non significa ovviamente né che le ritenesse ipotesi ugualmente plausibili né che per lui fossero equivalenti. Ma la discussione politica e giornalistica di quegli anni e degli anni successivi ha insistito eccessivamente sull’alternativa fra queste due ipotesi come se si ponessero sullo stesso piano e per Moro e la Dc si trattasse semplicemente di compiere una scelta politica tra due opzioni ugualmente praticabili. Si trattava invece di ipotesi strutturalmente diverse e mentre la prima sarebbe stata attuabile anche subito, se i socialisti lo avessero voluto, la seconda appariva possibile solo dopo un “approdo” del Pci lontano dal “socialismo reale” che appariva indubbiamente più complesso. Moro era inoltre ben consapevole di non poter né prevedere né, tantomeno, determinare gli avvenimenti che avrebbero potuto far affermare l’una o l’altra: il futuro, per usare le sue parole, non era più interamente nelle mani sue o del suo partito. Che il leader democristiano fosse obbligato dalle circostanze a prenderle entrambe in considerazione benché profondamente diverse è perciò soprattutto un altro segno delle gravi difficoltà insorte in un sistema politico per decenni stabilmente incardinato nella centralità democristiana. La “normalità” della politica era in qualche modo sospesa e se si doveva continuare la preziosa tregua del governo di solidarietà nazionale – come Moro auspicava – era per favorire l’uscita dalla crisi in cui si era incagliata la democrazia dei partiti.
Pur considerando anomala la situazione politica creatasi dopo le elezioni del 20 giugno 1976, Moro non pensava allo strumento principe, secondo molti, per uscire in modo democratico da situazioni politicamente problematiche: le elezioni. Come si è già ricordato, infatti, più che sulle regole procedurali la sua concezione della democrazia era imperniata sulle dinamiche reali ed egli riteneva che nuove elezioni anticipate avrebbero ostacolato ulteriormente tali dinamiche. Era infatti convinto che una nuova consultazione avrebbe fatto emergere un risultato sulla stessa linea di quello precedente, con una nuova concentrazione di voti sulla Dc e sul Pci. Si sarebbe così confermata la polarizzazione dei consensi, con il risultato di una ulteriore radicalizzazione del quadro politico e la rottura della collaborazione avrebbe imposto il passaggio del Pci o della Dc all’opposizione, con l’altro partito al governo; ma il primo caso era insostenibile per la gravità dei problemi del Paese e il secondo impraticabile per la tenuta della democrazia. Le elezioni, insomma, avrebbero determinato un collasso della democrazia[54]. La contrarietà di Moro a una nuova consultazione scaturiva dal suo giudizio su quella particolare situazione politica, ma esprimeva anche indirettamente la percezione di nuove tendenze nella formazione del consenso elettorale. La polarizzazione intorno alla Dc e al Pci di fine anni Settanta, infatti, non rifletteva solo tradizioni popolari ancora radicate – la realtà fotografata da Giorgio Galli ne Il bipartitismo imperfetto[55] – ma anche una inedita mobilità elettorale, destina a palesarsi più chiaramente in seguito. Era iniziata una sorta di smottamento dei grandi blocchi elettorali, immobili per decenni, espressivo di un più profondo declino di forme consolidate di appartenenza sociale, religiosa e culturale e della ricerca di altri tipi di legami sociali basati su nuovi sensi di identità.
Sono tendenze che Moro cercò di contrastare anche all’interno del suo partito, dove dal 1974 erano cominciate a crescere le spinte che volevano affermare più chiaramente l’identità cattolica del partito, anche accentuando l’opposizione al comunismo. Tali spinte premevano per una nuova consultazione elettorale, in cui vedevano la possibilità di “testimoniare” i valori cattolici come era avvenuto con il referendum, con minor preoccupazione del ruolo svolto dalla Dc nel sistema politico, dei rapporti con i suoi alleati e delle conseguenze sul quadro politico generale. L’opposizione di Moro a tali orientamenti non conferma solo che il leader democristiano guardava al di là degli interessi del suo partito, ma mostra anche che ne temeva una trasformazione in senso identitario. Nelle forze politiche, infatti, il primato dell’identità produce tendenze autoreferenziali, isolazioniste, antagoniste che ostacolano la politica come sintesi delle diverse spinte sociali e incrinano la stessa unità dello Stato. Moro era convinto che l’affermazione dei propri valori, dei propri principi, della propria diversità trovasse nei partiti un limite nella responsabilità di svolgere la funzione primaria loro assegnata dall’art. 49 della Costituzione: «contribuire a determinare la politica nazionale». Per quanto riguarda la Dc, in particolare, si oppose ad un’evoluzione in senso neo-confessionale o semplicemente anti-comunista, volendo proseguire su una linea di “ispirazione cristiana” compatibile con la democrazia dei partiti[56].
Una conferma dei suoi timori riguardo ai problemi che sarebbero potuti sorgere da nuove elezioni venne anche da quanto stava accadendo in Gran Bretagna, dove la crisi economica appariva per certi aspetti ancora più preoccupante di quella italiana. Anche qui emerse una grave crisi politica, cui Moro rivolse la sua attenzione notando che «in quel Paese un classico sistema maggioritario, che di regola almeno assicura stabilità politica, da qualche tempo sembra incapace di ottenere questo risultato sino al punto che si deve fare ricorso ora ad una coalizione, sia pure “sui generis”, cioè ad un dato che suole contrassegnare, non senza critiche e polemiche, l’opposto sistema proporzionale»[57]. La Gran Bretagna, però, abbandonò presto questa strada, per imboccare quella di ripetute elezioni anticipate. Il risultato fu di allontanare le possibilità di convergenze tra partiti diversi, di creare una forte polarizzazione politica e di innestare crescenti lacerazioni sociali. In tali passaggi si sono affermate sia la leadership di Margaret Thatcher sia una nuova linea politica del partito conservatore, diversa da quella tradizionalmente praticata dai Tories: il neoliberismo. Pur afflitti da una crisi dovuta in buona parte agli stessi stravolgimenti dell’economia internazionale, Gran Bretagna e Italia scelsero dunque strade politiche diverse per affrontarla: la prima accettando la sfida della polarizzazione e dello scontro sociale, politico e, persino culturale, la seconda invece respingendola e cercando di tenere in vita una democrazia consensuale fondata sulle convergenze fra i grandi partiti di massa.
Moro tuttavia non cercò solo di difendere la democrazia “dall’alto”, salvaguardando tenacemente e pazientemente la collaborazione fra i partiti: ne auspicò anche una difesa “dal basso”. Lo mostra il caso del neofascismo, un pericolo che conobbe un salto di qualità nello stesso anno, il 1974, in cui il referendum sul divorzio rivelò una società italiana molto diversa da come la si rappresentava abitualmente. Moro guardò con grandissima preoccupazione a questo pericolo, emerso clamorosamente con la strage di Piazza della Loggia, a Brescia, che Moro denunciò come uno dei «più efferati crimini [della] storia dell’Italia moderna»[58]. Ai suoi occhi il fascismo minacciava seriamente le istituzioni democratiche[59], a fronte di un’inquietante debolezza delle difese contro di esso malgrado trent’anni di democrazia e la presenza di «un fortissimo schieramento popolare […] solidamente unito nell’opporre […] la più forte e vittoriosa resistenza ad ogni tentativo di […] riportare l’Italia sotto il giogo fascista»[60] e mentre lo Stato mostrava di non essere in grado di perseguire efficacemente gli autori delle stragi. Il salto di qualità della violenza neofascista interrompeva per Moro un «lineare processo di sviluppo democratico […] dalla coalizione centrista alla esperienza di centro-sinistra, sempre salvaguardando, contro qualsiasi minaccia, la libertà e il patrimonio civile del popolo italiano»[61]. Anche la nuova virulenza neofascista segnalava la difficoltà della democrazia dei partiti ed esigeva nuove risposte.
Non si trattava più, infatti, di «nostalgie modeste e, in fondo innocue» e «la resistenza a questo minaccioso attacco non [era] fatto di partito, ma espressione dell’opinione pubblica in generale», cui erano chiamate ad associarsi chiaramente anche «frange di destra, che non vogliono essere coinvolte in questo turpe gioco»[62]. È «giusto che vi siano dei NO, i nostri NO al fascismo, come atteggiamento personale e di gruppo, dei singoli e del partito, atteggiamento morale e politico»[63]. Non era per mera retorica che Moro invitava ad una sorta di rifondazione dal basso delle istituzioni, attraverso una netta scelta antifascista da parte di tutti. Da «un atteggiamento di rigoroso rifiuto del fascismo [che] è individuale e popolare insieme» sarebbero infatti discesi «comportamenti conformi delle forze politiche e degli organi dello Stato»[64]. Si trattava in qualche modo di rinnovare la scelta compiuta da tanti italiani fra il 1943 e il 1945 e confermata da tutta la storia politica successiva, tanto più che la violenza neofascista finiva per apparire fonte di legittimazione per atti di violenza di segno contrario. In questo rinnovato impegno antifascista, Moro riprendeva indubbiamente una costante della sua politica ma nel suo invito alla mobilitazione rivolto a tutti, singoli e gruppi, individui e popolo, emergeva anche il riflesso di un’inedita debolezza della democrazia dei partiti.
Sulla formazione di Aldo Moro, cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna, Il Mulino, 1979, Id., La formazione giovanile di Aldo Moro, in «Storia contemporanea. Rivista trimestrale di studi storici», a. XIV, n. 4-5 (ottobre 1983), pp. 803-968, e Id., Aldo Moro negli anni della Fuci, Roma, Studium, 2008. ↑
Cfr. A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 27-32. ↑
Cfr. A. Moro, [Discorso ai gruppi parlamentari della Dc], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.247 ↑
Lo affermava R. De Felice già in Le interpretazioni del fascismo, 5. ed., Roma-Bari, Laterza, 1974, e lo ha ribadito più volte E. Gentile, ad esempio in Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002. ↑
Cfr. R. Moro, Afascismo e antifascismo nei movimenti intellettuali di azione cattolica dopo il ’31, in «Storia contemporanea», a. VI, n. 4 (dicembre 1975), pp. 797 ss. ↑
Cfr. A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 1, Gli anni giovanili (1932-1946), a cura di G. Crociata e P. Trionfini, edizione e nota storico-critica di T. Torresi, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.1.0 ↑
Cfr. A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, Vol. I, 1940-1947, Roma, Cinque Lune, 1982, p. 454. Cfr. anche A. Moro, [Intervista per «La Rocca»], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.001: «Certo è che il problema è posto e che la nostra Costituzione, pervasa com’è dallo spirito di libertà e contraria a qualsiasi forma di violenza, reca una condanna esplicita del fascismo. Essa è, infatti, ideologicamente e storicamente, l’antitesi del fascismo». ↑
Cfr. A. Giovagnoli, Aldo Moro: interpretazioni della Resistenza e azione politica, in “La nostra lunga marcia verso la democrazia” (Aldo Moro 1975). Attualità della Resistenza e futuro della democrazia in Italia, a cura di A. Ambrogetti e M.L. Coen Cagli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, pp. 123-150. Come nota C. Zampieri nella sua Nota storico-critica, in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.note, sull’atteggiamento di Moro di fronte al fascismo negli anni Settanta ha richiamato l’attenzione G.M. Ceci in Aldo Moro di fronte ai terrorismi e alle trame eversive (1969-1978), in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, a cura di «Mondo contemporaneo», Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 177-178. ↑
Cfr. Il memoriale di Aldo Moro. 1978. Edizione critica, coordinamento di M. Di Sivo, a cura di F.M. Biscione, Roma, Direzione Generale Archivi, De Luca Editori d’Arte, 2019, p. 333. ↑
Cfr. A. D’Angelo, Moro, i vescovi e l'apertura a sinistra, Roma, Studium, 2005. ↑
A. Moro, [Discorso al XII Congresso nazionale della Dc], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.003 ↑
G. Formigoni, La globalizzazione dall’ideologia alla storia: l’impatto italiano della crisi sistemica degli anni ’70, in (S)confinamenti. Esperienze e rappresentazioni della globalizzazione, a cura di M. Ceruti e G. Formigoni, Bologna, Il Mulino, 2020, p. 84. ↑
«Abbiamo rivendicato tante volte la vocazione antifascista della Democrazia Cristiana e non mancheremo di farlo anche in questo momento di emergenza”». A. Moro, [Discorso al XII Congresso nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.003 ↑
«Dicevo, non vediamo alternative, non vi sono alternative a destra, impensabili, rovinose: sarebbe, l’alternativa a destra, l’inimmaginabile fallimento della nostra ambizione di avere colpito a morte il fascismo in Italia, di avere creato un sistema solido di democrazia politica». A. Moro, [Ai quadri dirigenti della Dc di Padova], ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.063 ↑
G.L. Mosse, Intervista su Aldo Moro, a cura di A. Alfonsi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, p. 31. ↑
A. Moro, [Intervista per «La Rocca»], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.001 ↑
A. Moro, [Discorso al XII Congresso nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.003 ↑
Proprio il pericolo fascista fu uno dei motivi che spinse Moro ad abbandonare la “strategia dell’attenzione” verso il Pci e ad impegnarsi per il ritorno del centro-sinistra. Cfr. G.M. Ceci, Moro e il Pci. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Roma, Carocci, 2013, pp. 181-183. ↑
Cfr. L. Giorgi, La Dc e la politica italiana nei giorni del golpe cileno. L'espressione di semplice rincrescimento non ci sembra adeguata, Marzabotto, Zikkaron, 2018. ↑
A. Moro, [La replica al Senato], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.072 ↑
A. Moro, [Al Consiglio nazionale della Dc del luglio 1975], ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.110 ↑
A. Moro, [La replica al Senato], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.072 ↑
A. Moro, [Intervento al Consiglio nazionale della Dc], ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.056 ↑
Cfr. A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, cit., pp. 35-40. ↑
G. Formigoni ha parlato di contrasto fra il «partito dell’evoluzione», di cui Moro è stato espressione, e il «partito dell’immobilismo» in Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 106-107, 140-141 e passim. ↑
A titolo di esempio, cfr. F. Zakaria, Democrazia senza libertà in America e nel resto del mondo, Milano, Rizzoli, 2003; C. Crouch, Postdemocrazia, tr. it. di C. Paternò, Roma-Bari, Laterza, 2003; P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, tr. it. di A. Bresolin, Roma, Castelvecchi, 2012; B. Manin, Principi del governo rappresentativo, 2. ed., tr. it., Bologna, Il Mulino, 2017, e Y. Mounk, Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, tr. it. di F. Pe', Milano, Feltrinelli, 2018. ↑
Cfr. G.L. Mosse, Intervista su Aldo Moro, cit., pp. 19 ss. ↑
Ricordo solo il classico saggio pubblicato nel 1935 da L. Febvre, Dallo Stato storico allo Stato vivente, ora anche in Crisi dello stato e storiografia contemporanea, a cura di R. Ruffilli, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 82-84. ↑
Cfr. G.M. Ceci, Moro e il Pci, cit., passim. ↑
Cfr. ad esempio The shock of the global. The 1970s in perspective, a cura di N. Ferguson et al., Cambridge (Ma)–London, Belknap Press of Harvard University Press, 2011. ↑
C. Zampieri, Nota storico-critica, cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.note ↑
Cfr. G. Formigoni, La globalizzazione dall’ideologia alla storia, cit., pp. 75-77. ↑
Sul sistema-mondo moderno, cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, tr. it., Bologna, Il Mulino, 1978-1995. Sulla crisi di questo sistema-mondo, cfr. Id., L’era della transizione. La traiettoria del sistema-mondo, tr. it., Trieste, Asterios Editore, 1997, e Id., Geopolitica e geocultura. Saggi sull’evoluzione del sistema-mondo, Trieste, Asterios Editore, 1999. ↑
Sull’Italia di quegli anni, cfr. S. Colarizi, Un paese in movimento. L'Italia negli anni Sessanta e Settanta, Roma-Bari, Laterza, 2019. ↑
«Siamo passati, con la grande svolta degli anni ’70, da una società per così dire, verticale ad una orizzontale, con potere diffuso e disperso. Sono venuti meno le grandi certezze e gli indirizzi rigorosamente definiti e rigorosamente fatti valere. La società, capace prima di sviluppi preordinati e sicuri, si sofferma ora in un’analisi critica ed in una molteplice riflessione, assai più che in passato; i poteri si condizionano e qualche volta si paralizzano reciprocamente; si affermano infine poteri che, di fatto, si sono stabiliti in una società multiforme ed autonoma». A. Moro, [Intervento al Consiglio nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.056 ↑
«Così è la nostra epoca, con una vita enormemente più ricca, con grandi occasioni ed insieme con gravi problemi e rischi mortali. Del resto, se si vuole andare al di là della superficie, se si vuole cogliere il senso vero delle cose (si tratta infatti di un fenomeno storico, emergente non solo dalla cultura laica, ma da quella cristiana che contempla l’uomo, il suo valore, i suoi diritti, la sua legge di coscienza), ebbene, con tutte le sue lacerazioni, il referendum è stato un confuso venire alla luce di un mondo più libero e di uomini più autonomi e responsabili, responsabili di per se stessi, e non in ragione di una costrizione legale». Ibid. ↑
«Voluto da ambienti cattolici e subìto dalla Dc – notò Moro – il referendum aveva coinvolto pericolosamente la Chiesa, mettendo a rischio la “pace religiosa”». Ibid., p. 181. ↑
«L’ispirazione cristiana, fin qui tenuta ferma come una caratterizzazione altamente qualificante e certo non estranea alle fortune elettorali del nostro Partito, per quel senso insieme di sicurezza e di promozione creativa che essa evocava in modo immediato, sembra essere messa in discussione dalla diversità di interpretazione che ne viene data e dalla limitata risonanza che, nella sua accezione più rigorosa, essa mostra di avere nel corpo elettorale». A. Moro, [Intervento al Consiglio nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.056 ↑
Cfr. W. Veltroni, Il caso Moro e la Prima Repubblica, Milano, Solferino, 2021. ↑
A. Moro, [Intervento al Consiglio nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.056 ↑
Ibid. ↑
Ibid. ↑
Tra i molti interventi di Moro che parlano del governo di solidarietà nazionale cfr. ad esempio l’articolo Riflessione in A. Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021, DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.189. Sull’atteggiamento dei leader democristiani su questo governo, cfr. L. Cardinali, Giulio Andreotti e il “governo della non sfiducia”, Milano, Vita e Pensiero, 2020. ↑
Come sottolinea C. Zampieri nella sua Nota storico-critica, cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.note, la storiografia ha messo in luce che le difficoltà economiche furono più decisive dei problemi del terrorismo nello spingere i partiti verso la solidarietà nazionale. Cfr. anche G.M. Ceci, La Democrazia cristiana, i terrorismi e la magistratura, in Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa. Storici e magistrati a confronto, a cura di C. Fumian e A. Ventrone, Padova, Padova University Press, 2018, p. 327-329. ↑
Per un giudizio critico sul nesso fra solidarietà nazionale e distensione, cfr. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006. ↑
Della complessiva azione politica di Moro, Formigoni sottolinea l’opera di «paziente mediazione» e di «lenta tessitura di equilibri che potessero far accettare le scelte di mutamento» in Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 201. In questo giudizio Formigoni appare più persuasivo di Mastrogregori, che definisce Moro un «abile tattico manovratore», denunciando «una tensione tra le due figure - l’uomo di Stato e il politico» e la spinta esercitata in lui dalla questione comunista verso «una quasi immobilità, anche se piena di finte e di affidamenti per il futuro» in Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, Roma, Salerno Editrice, 2016, pp. 142, 115 e 81. Su questi due libri, cfr. A. Giovagnoli, Aldo Moro. La parabola politica di uno statista, in «Il mestiere di storico», a. IX, 2017, n. 2, pp. 71-74. Oltre alle analisi di Formigoni e Mastrogregori si veda anche P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, in Storia dell'Italia contemporanea, Vol. III, Torino, Utet, 1995, pp. 697-698. ↑
G. Formigoni, Aldo Moro, cit., p. 315. ↑
M. Mastrogregori, Moro, cit., p. 304. ↑
Ivi, p. 249. ↑
A. Moro, [Discorso a Benevento], in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.232 ↑
«E io sono in linea di principio pienamente d’accordo col nostro sistema che è il più perfetto, anche se limitato ad un esiguo numero di stati privilegiati, e questa idea di una maggioranza e di una opposizione egualmente sacre ed intercambiabili mi pare una cosa di grandissimo significato» A. Moro, [Discorso ai gruppi parlamentari della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.247 ↑
«Se mi si dicesse: “la situazione di oggi si riprodurrà domani”, se mi chiedete se si riprodurrà domani in elezioni più o meno ravvicinante, la mia risposta (che può essere sbagliata ma è sincera) è sì. Se voi mi dite fra qualche anno cosa potrà accadere, fra qualche tempo cosa potrà accadere (e io non parlo di logoramenti dei partiti, linguaggio che penso che non sia opportuno, ma parlo del muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione delle forze politiche), se mi dite fra qualche tempo che cosa accadrà, io dico: “può esservi qualche cosa di nuovo”. Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità; si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato, con tutte le sue difficoltà». Ibid. ↑
Come scrive C. Zampieri nella sua Nota storico-critica, cit., DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.note, anche «alcune recenti ricerche condotte alla luce del quadro complessivo della politica morotea nei confronti del Pci, lascerebbero […] pensare che la minaccia eversiva e quella della lotta armata non abbiano mai indotto Moro ad auspicare o anche solo ad accettare soluzioni o accordi con il Pci più avanzati di una comune maggioranza parlamentare, come il “compromesso storico” o governi unitari di emergenza». Cfr. G.M. Ceci, Aldo Moro di fronte ai terrorismi e alle trame eversive (1969-1978), cit., p. 206. ↑
«Ma immaginate voi, cari amici, che cosa sarebbe in Italia, in questo momento, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità continua e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo?». A. Moro, [Discorso ai gruppi parlamentari della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.247 ↑
G. Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia, 2. ed., Bologna, Il Mulino, 1967. Cfr. anche Istituto di L'organizzazione partitica del Pci e della Dc, a cura di G. Poggi, Bologna, Il Mulino, 1968. ↑
«Ma vorrà dire questo abbandono di quelle idealità ed ispirazioni, per le quali abbiamo osato dirci cristiani nella nostra milizia politica? Io non credo. Ma certo dobbiamo avere quella discrezione e prudenza, che ci rammarichiamo sia mancata, sia pure per generosa passione, in quei cattolici che, come cittadini, hanno portato ad una grande prova senza avere sufficiente consapevolezza della fragilità di valori ideali calati nella realtà di una società in rapida e travolgente evoluzione. Se la prudenza s’impone dunque, soprattutto in questo momento storico, ai cristiani presenti nella vita politica, non per questo è richiesta ad essi una rinuncia a quell’alta ispirazione, a quella posizione propria e qualificante che collochi il nostro Partito, senza evasioni pragmatiche, accanto ad altri Partiti tutti forniti di ideologie oltre che di formule idonee per la soluzione dei problemi di convivenza, di ordine, di sviluppo e di partecipazione che si pongono nella vita nazionale. Dobbiamo imporci la discrezione dunque, ma non la rinuncia. Discrezione rispettosa verso i cattolici che hanno fatto altra scelta e soprattutto verso coloro che s’interrogano circa il modo migliore di tradurre o almeno di non tradire nella vita democratica di oggi la concezione cristiana dell’uomo e del mondo. Discrezione rispettosa verso coloro che chiedono una legge di convivenza basata su un più largo, e non forzato, consenso di opinione pubblica. Ma non ci si può chiedere di essere, contro la nostra natura, intimamente neutrali e di non rispondere in armonia con la nostra radice, con il nostro essere profondo, almeno tutte le volte che ciò non incida sui diritti di libertà e sul modo di essere proprio degli altri cittadini. Ma non dobbiamo trascurare di sentire e far sentire il nostro originale modulo d’interpretazione». A. Moro, [Intervento al Consiglio nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.056 ↑
A. Moro, Un’Europa a due velocità, in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione I, Scritti e Discorsi, Vol. 4, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli, edizione e nota storico-critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.237 ↑
A. Moro, [Dichiarazioni programmatiche per il varo del IV governo Moro], ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.071 ↑
Cfr. A. Moro, [Intervento al Consiglio nazionale della Dc], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.056 ↑
A. Moro, [Dichiarazioni programmatiche per il varo del IV governo Moro], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.071 ↑
A. Moro, [Al Consiglio nazionale della Dc], ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.082 ↑
Ibid. ↑
A. Moro, [Ai quadri dirigenti della Dc di Padova], cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.063 ↑
A. Moro, [All’inaugurazione della Fiera dell’Agricoltura di Foggia], ibid. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro1.4.2.095 ↑