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Nota storico-critica

Le prime monografie (1939-1942)

di Caterina Iagnemma

Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Opere Giuridiche, Le prime monografie (1939-1942), 2022
Quest'opera è rilasciata con licenza CC BY-NC 4.0
DOI: 10.48678/unibo/aldomoro2.1.0.note


Sommario: 1. La riflessione penalistica di Aldo Moro – 2. La capacità giuridica penale – 3. La tesi di laurea di Aldo Moro – 4. La subiettivazione della norma penale – 5. La nozione di capacità giuridica e quella di subiettivazione nelle altre opere di Aldo Moro – 6. Conclusioni: possibili percorsi di lettura per il giurista contemporaneo.

1. La riflessione penalistica di Aldo Moro

Nel 1938 Aldo Moro consegue la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari, discutendo una tesi dal titolo La capacità giuridica penale[1]: lavoro che, a distanza di appena un anno, viene pubblicato come monografia[2].

Negli anni immediatamente successivi, Moro si dedica alla stesura di un nuovo volume, La subiettivazione della norma penale (1942)[3], con il quale ottiene la libera docenza di diritto penale. Ma non basta. Nel 1947, egli darà alle stampe un’ulteriore monografia – L’antigiuridicità penale[4] – e, più tardi, il volume intitolato Unità e pluralità di reati (1951)[5]. Queste ultime opere, unitamente alle precedenti, consentiranno a Moro di ottenere, dapprima, la nomina a professore straordinario di diritto penale e, successivamente, la promozione a professore ordinario.

Per quanto riguarda, invece, la produzione scientifica minore, è opportuno ricordare due saggi circa la c.d exceptio veritatis (Osservazioni sulla natura giuridica della «exceptio veritatis» [1954]; Ancora sulla natura giuridica della «exceptio veritatis» [1955]) [6] e un contributo circa il «valore dell’uomo, come principio e fine della vita del diritto»[7], intitolato La persona umana e l’esperienza giuridica (1954)[8].

2. La capacità giuridica penale

«Introducendo accanto agli elementi tradizionali, norma, reato, pena, quest’altro [scil. la capacità giuridica]», «la scienza del diritto penale, troppo a lungo ferma nella considerazione esclusiva del reato», osserva Moro, «slarga la sua visione»: poiché il soggetto agente, in tal modo, non è più descritto come soltanto una realtà empirica, ma anche quale entità giuridica formale, la cui soggettività deve essere adeguatamente presa in considerazione al momento dell’accertamento della responsabilità penale e della definizione delle conseguenze sanzionatorie[9]. Si comprende, allora, l’interesse mostrato dalla più attenta dottrina dell’epoca per la suddetta nozione[10].

Secondo l’impostazione adottata nel volume di Moro, il soggetto capace sarebbe, più in particolare, «un’entità giuridica a carattere formale risultante dall’incontro immancabile della norma astratta, che disciplina giuridicamente una determinata situazione, con un soggetto empirico»[11]. Il che, a ben vedere, comporta «la possibilità personale di entrare in situazioni giuridiche che costituiscono il presupposto [di un illecito] e la sua conseguenza (responsabilità)»[12]. Ove tale possibilità venga meno, la «norma non opera per difetto proveniente a parte subiecti»[13]: così che non vi sarebbero in capo all’autore dell’illecito né un obbligo né, tantomeno, una pena.

La capacità giuridica di diritto penale assume, allora, carattere unitario, avendo efficacia sia con riguardo a una situazione giuridica di obbligo, per tale dovendosi intendere «il rapporto tra lo Stato, come titolare del diritto all’omissione del reato, e il singolo obbligato all’osservanza»[14], sia in riferimento a una situazione giuridica di responsabilità, ovvero al «diritto di punire e correlativamente [all’] obbligo di subire la pena»[15]. Non avrebbe alcun senso, pertanto, parlare di soggetto punibile, come se si trattasse di un concetto del tutto autonomo: poiché «il soggetto punibile non è l’uomo come entità biologica, in quanto sia in contatto con il reato che egli abbia posto in essere, ma il soggetto immanente la norma che stabilisce in astratto la responsabilità»[16].

Altresì, la nozione di soggetto capace non va confusa con quella di soggetto imputabile. Mentre, infatti, la nozione di imputabilità indica i requisiti concreti che «integrano il contenuto sostanziale della qualificazione giuridica della capacità»[17], quest’ultima, invece, opera su un piano puramente formale e astratto.

Per tale ragione, d’altra parte, la categoria in oggetto non può essere intesa nemmeno come un elemento della colpevolezza. Ragionando in questi termini, infatti, si cadrebbe in un «difetto comune»: quello di «voler porre in relazione la capacità con un elemento della fattispecie giuridica reato, mentre essa, per sua intrinseca natura, attinge immediatamente la conseguenza del diritto, così come la norma, non potendosi considerare la condizionalità di questa come un carattere che ne ponga in questione l’autonoma efficienza»[18].

Rebus sic stantibus, la capacità non andrebbe qualificata come un presupposto del reato, né come un requisito dello stesso[19]: «il soggetto capace, spiega Moro, è nella sua essenza espressione dell’efficienza della norma e, in questa sua qualità, presupposto del sorgere di una situazione giuridica in testa a un determinato soggetto». La capacità giuridica penale, dunque, si presenta come «una realtà nuova, autonoma, non riconducibile ad alcuna delle categorie sinora elaborate dalla dottrina in immediato collegamento ad elementi di fatto»[20].

3. La tesi di laurea di Aldo Moro

Il tema della capacità giuridica penale era stato ampiamente sviluppato da Moro, come s’è detto, nella sua tesi di laurea, intitolata La capacità giuridica di diritto penale. Il dattiloscritto di tale lavoro è stato rinvenuto presso l’Archivio della famiglia Moro ed è attualmente a disposizione dell’Edizione Nazionale[21].

Diversamente dal volume pubblicato nel 1939, nel suddetto elaborato non v’è alcun riferimento al diritto civile e a quello romano: l’indagine circa il concetto di capacità giuridica è, infatti, condotta solo sul piano del diritto penale[22].

Al fine di delineare la nozione de qua, viene impiegato, anzitutto, il binomio posizione/funzione. Con tali termini sono descritti i «due momenti, le due note caratteristiche»[23] della capacità. In particolare, con il lemma posizione si indica «lo status che caratterizza i membri dell’ordinamento» e con l’espressione funzione «la capacità come una possibilità di effetti giuridici, come un momento del processo di causalità»[24]. A ben vedere, la spiegazione del significato di tali concetti è più ampia rispetto a quella contenuta nella monografia. In quest’ultima sede, del resto, Moro si concentrerà maggiormente su un altro profilo[25]: quello relativo, cioè, alla subiettivazione della norma penale[26].

Nella tesi non si trascura, invece, di analizzare il pensiero di alcuni autorevoli giuristi, sia italiani sia tedeschi[27]. Riferimenti bibliografici, questi, che sono presenti, negli stessi termini, anche nell’opera data alle stampe[28]. Tra tutte le teorie, viene descritta con particolare enfasi quella di Alfredo De Marsico: tanto che all’«eccellente punto di vista»[29] di quest’ultimo autore è dedicato il primo paragrafo della tesi. Tale impostazione assume, a ben vedere, minor rilievo nella monografia, essendo maggiormente approfondita, in quella sede, la tesi di Vincenzo Manzini. All’illustre studioso appena ricordato è riconosciuto, infatti, il merito di «[aver] dato il via, in Italia, a un movimento scientifico relativo alla capacità di diritto penale»[30].

A questo punto della trattazione, Moro si interroga sull’ambito di operatività della capacità giuridica, affrontando, in particolare, il tema delle immunità politiche[31]. Si accenna, perciò, alla possibilità di intendere in senso unitario siffatto concetto, facendo riferimento allo stesso anche per la fase esecutiva del rapporto punitivo[32]. Sebbene la riflessione sul punto sia solo abbozzata, ciò segnala, ad ogni modo, come Moro, sin dall’età giovanile, abbia mostrato interesse per le vicende che caratterizzano il momento punitivo.

Quanto, invece, alla «funzione giuridica della capacità»[33], in rapporto con la colpevolezza, la trattazione è conforme a quella di cui ai capitoli V e VI del primo volume contenuto nella presente raccolta. E lo stesso vale, peraltro, con riguardo alla parte conclusiva del dattiloscritto. Seppur con argomentazioni meno ampie, specie sotto il profilo della teoria della subiettivazione, si giunge, infatti, alla medesima conclusione prospettata nella monografia: quella per cui «l’essenza dell’istituto [scil. della capacità] consiste nella possibilità di riconoscere o disconoscere, in un determinato caso, l’efficienza propria della norma in un determinato settore della vita sociale»[34].

4. La subiettivazione della norma penale

La subiettivazione della norma penale viene descritta da Moro come un «fenomeno di fondamentale importanza, da indagare preliminarmente per poter costruire, su queste basi, tutta la scienza del diritto penale, e non solo sostantivo, ma pure processuale»[35].

Per comprendere a pieno la centralità del tema de quo, pare utile, anzitutto, definire il concetto di subiettivazione: trattandosi, come s’è già detto, peraltro, con riguardo alla capacità giuridica di diritto penale, di una categoria, oggi, poco praticata.

Con il termine subiettivazione si indica «il processo per il quale la norma passa da un modo di essere astratto a un modo di essere concreto, diviene cioè, in presenza di talune situazioni di fatto tipiche, che essa stessa prevede, comando attuale»[36]. Dall’attualizzarsi di tale comando derivano situazioni giuridiche attive o passive, di contenuto diverso: a seconda che esse riguardino la fase antecedente o successiva al concretizzarsi del fatto criminoso.

Prima della commissione del reato, sussistono, in particolare, due situazioni giuridiche soggettive attive, cioè di titolarità pubblica. Esse fanno capo allo Stato amministrazione, ovvero all’entità statale intesa come «soggetto in concreto interessato alla integrità di talune situazioni di fatto», e allo Stato sovrano, vale a dire all’ente statale descritto in una «tipica posizione di estraneità di fronte agli interessi dei singoli e della collettività, alla tutela dei quali esso, per suo compito naturale, provvede»[37]. Nel primo caso, si configura un diritto soggettivo all’omissione del reato[38]; nella seconda ipotesi, invece, un «potere giuridico di sovranità penale»[39] [corsivo nostro].

Alle predette figure giuridiche, corrispondono altrettante situazioni di carattere passivo o privatistico. Il potere giuridico di sovranità penale dello Stato Sovrano collima, infatti, con la condizione passiva di «assoluta e incondizionata soggezione» del destinatario della norma penale, mentre il diritto soggettivo all’omissione del reato, spettante – come s’è visto – allo Stato amministrazione, è in rapporto alla situazione giuridica di «obbligo»[40] [corsivo nostro].

Dopo il verificarsi del fatto criminoso, invece, si avrebbe un’unica situazione soggettiva attiva, di cui è titolare lo Stato giurisdizione[41]: si tratta del «potere di punire»[42]. Secondo Moro, quest’ultima figura giuridica ‘si rifletterebbe’, a livello processuale, nella «posizione di diritto pubblico» rivestita dal Pubblico Ministero: «proprio per essere in questa sfera, si giustificano i particolari poteri che [gli] spettano nello svolgimento del processo, come pure la posizione di imparzialità, che caratterizza l’operato di questo organo»[43]. Sul lato passivo del rapporto giuridico, invece, si delinea una condizione di «soggezione alle conseguenze giuridiche della commissione dell’illecito»[44].

Per i limiti imposti dall’essenzialità, in questa sede non è possibile indugiare sull’ampio e approfondito dibattito in materia di potestà punitiva statale. Basti qui rilevare, tuttavia, come Moro rifiuti, diversamente dalla dottrina dell’epoca, l’idea che lo Stato possa vantare nei confronti del reo il diritto di punirlo. Alla base di tale impostazione, a ben vedere, v’è l’esigenza di vincolare legislativamente la prerogativa punitiva statale. Se, infatti, si descrivesse la figura soggettiva propria dello Stato giurisdizione come un diritto di punire, il diritto penale non potrebbe essere inteso in senso garantistico: ovvero, «nel senso che il potere sovrano dello Stato possa esplicarsi solo nell’osservanza delle forme e dei limiti da questo ordinamento stabiliti»[45]. Idea, questa, ampiamente espressa, peraltro, ne La capacità giuridica penale, riconoscendo nel diritto un «sistema a garanzia della persona e della sua capacità di realizzare se stessa nella vita reale»[46].

Questo «sistemare i rapporti fra diritto e Stato»[47] che occupa Moro nell’opera La subiettivazione della norma penale non pare essere, dunque, una mera speculazione priva di risvolti pratici: trattandosi, piuttosto, di un’analisi delle ragioni ‘scientifiche’ per cui l’idea fascista dello Stato etico estraneo alla persona[48] risulta inaccettabile. A ben vedere, infatti, attraverso la teoria della subiettivazione si vuole ricondurre l’ente statale nell’ambito dei soggetti giuridici, così da poter validamente affermare che le prerogative dello Stato hanno il loro unico fondamento e limite nella legge: «identificato, cioè, il potere sovrano dello Stato con il potere della norma, abbiamo posto – segnala Moro – l’essenza sovrana dello Stato nella sovranità dell’ordinamento giuridico»[49].

5. La nozione di capacità e quella di subiettivazione nelle altre opere di Aldo Moro

Dopo la pubblicazione delle monografie sopracitate, Aldo Moro si dedica all’approfondimento di tematiche del tutto diverse da quelle affrontate in precedenza. A ben vedere, tuttavia, anche nella sua più recente produzione scientifica vi sono taluni riferimenti alla teoria della capacità giuridica e a quella della subiettivazione.

Nel volume L’antigiuridicità penale (1947), Moro si sofferma sulle predette nozioni, richiamando, a riguardo, l’impostazione già adottata in età giovanile[50]. Viene ribadita, perciò, la centralità della persona umana nell’esperienza giuridica, descrivendo il diritto come un «sistema di relazioni che hanno centro nella personalità […], un’armonia di soggetti in perpetuo svolgimento nel senso della solidarietà»[51]. In quest’ottica, dunque, «il diritto è costretto a subire il limite invalicabile della capacità del soggetto, di quella piena umanità, mancando la quale ha da rinunziare razionalmente alla normale e diretta tutela degli interessi»[52].

Siffatte argomentazioni risultano meno sviluppate, invece, nell’opera Unità e pluralità di reati (1951). Analizzando il concetto di norma penale, Moro propone, in tal caso, solo alcune brevi riflessioni in tema di subiettivazione[53]. Né, del resto, le cose stanno diversamente con riguardo alla produzione scientifica minore.

Necessita considerare, infine, il materiale didattico relativo ai corsi affidati ad Aldo Moro.

Nella dispensa delle lezioni di Filosofia del diritto (a.a. 1940/1941), risulta ampiamente illustrata, ad esempio, la nozione di capacità giuridica. Quest’ultima figura giuridica, che «sta ad indicare la possibilità di entrare in rapporto con la norma realizzando la situazione di fatto preliminare e indispensabile della sua validità»[54], è descritta in termini analoghi a quelli utilizzati nella prima monografia. E, del resto, anche nell’ambito delle lezioni tenute durante l’anno accademico 1944/1945, la capacità viene definita come «idoneità a diventare titolare di situazioni giuridiche subiettive, cioè essenzialmente di diritti e di obblighi»[55].

Quanto alla teoria della subiettivazione, anche in questo caso, la tesi non è difforme da quella sviluppata in precedenza, dal momento che viene confermata «l’inammissibilità del configurare il rapporto tra collettività sovrana e singolo, come giuridicamente regolato, alla stregua delle comuni situazioni giuridiche soggettive di cui parla la scienza, del diritto soggettivo cioè e dell’obbligo, quasi che lo Stato sovrano e il singolo si pongano nei loro reciproci rapporti, quali titolari rispettivamente appunto di diritti soggettivi e di obblighi»[56].

A questo stesso tema sono dedicate, peraltro, ben cinque lezioni del corso di Istituzioni di diritto e procedura penale degli anni Settanta[57]. Ivi si attribuisce rilievo alla distinzione tra la figura dello Stato-sovrano e quella dello Stato-amministrazione, ampliando, sul punto, la riflessione abbozzata nella seconda opera monografica.

Più contenuta, invece, è la disamina della capacità giuridica. Non si trascura di chiarire, tuttavia, come questo concetto indichi «una qualificazione, una qualità giuridica fondata su di un modo di essere concreto della persona umana e questa qualità giuridica, fondata su dati della personalità, richiesti in maniera più o meno rigorosa, è un fenomeno costante di tutto il mondo giuridico»: «come esistono dei fatti giuridici di varia natura, di varie conseguenze, atti, negozi, contratti, delitti, così esistono dei soggetti giuridici anch’essi differenziati sulla base del modo di essere proprio della loro personalità»[58].

6. Conclusioni: possibili percorsi di lettura per il giurista contemporaneo.

In contrasto «con la moda del tempo, che prediligeva nel candidato il cimento con uno o più temi di parte generale e con uno o più temi di parte speciale»[59], sia nel volume La capacità giuridica in diritto penale sia ne La subiettivazione della norma penale sono approfondite questioni attinenti alla teoria generale del diritto: astraendo la riflessione, in larga misura, dal piano della realtà normativa positiva. Ciò, secondo la dottrina penalistica dell’epoca, avrebbe rappresentato il principale «difetto di metodo»[60] delle suddette opere: la ragione, cioè, per cui sarebbe stato preferibile «un contributo alla scienza del nostro diritto più aderente alla realtà, meno nebuloso, più efficiente alla precisazione dei rapporti tra diritto e vita»[61].

Il fatto che Aldo Moro, specie nelle due opere testé ricordate, non si preoccupi di analizzare puntualmente il dato normativo si spiega, a ben vedere, alla luce dell’esigenza da lui avvertita di costruire un diritto penale nuovo, attento alle necessità sociali e individuali reali[62]. Del pari, non può trascurarsi che il motivo per il quale la produzione de qua risulta interessante anche per il lettore contemporaneo va ricercato proprio nell’attenzione riservata alle tematiche più generali, prima facie astratte, del diritto penale[63]: poiché su di esse, diversamente da molte di quelle di parte speciale, l’opera di riforma del legislatore incide meno di frequente.

Così, se l’analisi, proposta nel volume La subiettivazione della norma penale, circa le figure giuridiche di titolarità statale – diritto, dovere o potestà di punire – può essere di non prioritaria utilità per il giurista della nostra epoca, al contrario, invece, l’idea che alimenta tale teorizzazione – quella inerente, cioè, al diritto penale inteso «come una funzione, un’estrinsecazione della persona, come una manifestazione della sua dignità»[64] – risulta, ove letta nel contesto complessivo del volume, di indubbia modernità. Tale modo d’intendere il diritto penale, infatti, esprime ancora oggi carattere per certi versi rivoluzionario: ponendo l’accento su quanto di umano v’è in ciascuna vicenda criminosa.

Consapevolezza, questa, che emerge, senza dubbio, anche dalla monografia in materia di capacità giuridica. In tale opera, infatti, Moro non manca di sottolineare la limitatezza della ben più nota categoria dell’imputabilità, rilevando come avvalendosi di essa si trascuri di considerare adeguatamente la componente soggettiva del fatto illecito: ovvero, le condizioni personali (non solo, quindi, la capacità di intendere e di volere) che fanno dell’individuo un valido destinatario della norma penale.

E in effetti, la categoria della capacità giuridica, pur non essendosi ampiamente diffusa, ha prodotto, comunque, frutti fecondi. La concezione secondo cui non si può rispondere penalmente di un fatto illecito senza che prima sia stata accertata la sussistenza del dolo o, almeno, della colpa, proposta per la prima volta nel volume La capacità giuridica penale, è stata, infatti, recepita dalla giurisprudenza, per il tramite di un allievo di Aldo Moro, il giudice Renato Dell’Andro, in una delle più importanti sentenze emanate dalla Corte costituzionale[65].

La strada che conduce alla personalizzazione del rimprovero criminoso, nel senso auspicato da Moro, pare, tuttavia, ancora lunga. Basti pensare alle ipotesi in cui si finisce per rispondere a titolo di dolo sulla base dell’elemento soggettivo della colpa (o comunque, è il caso dell’omicidio preterintenzionale, con una pena ben più elevata di quella prevista per l’omicidio colposo): come accade per l’aberratio ictus ex art. 82 c.p.; per l’ipotesi di concorso di persone nel reato proprio ex art. 117 c.p. e, ai sensi dell’art. 116 c.p., per la commissione di un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti.

Ma v’è di più. In vista della effettiva e completa individualizzazione del giudizio di rimprovero, occorrerebbe, altresì, verificare la possibilità da parte dell’agente concreto di porre in essere quanto in suo potere per evitare l’evento avverso. Si tratterebbe, cioè, di compiere un’indagine accurata sulla componente individualizzante della colpevolezza. Il che consentirebbe di ottenere, inoltre, «vantaggi funzionali» dal punto di vista preventivo[66], essendo formulato un giudizio di responsabilità sulla concreta possibilità di agire dell’individuo. In tal modo, infatti, la risposta sanzionatoria sarebbe percepita dal colpevole come «necessaria in rapporto a lui e soltanto a lui»[67] e, di conseguenza, quest’ultimo potrebbe essere maggiormente disposto «a raccogliere l’offerta rieducatrice»[68].

Oltre che l’illecito, tuttavia, Moro descrive altresì la pena in termini individualizzanti: «non solo, cioè, nel senso che nessun altro soggetto (diverso dall’autore dell’illecito) possa esserne destinatario, ma nel senso che essa deve essere esperienza propria del condannato»[69] [corsivo nostro]. Ove si ragionasse diversamente, del resto, la pena non potrebbe in alcun modo tendere alla risocializzazione del reo, poiché questi, sentendosi sottoposto a una pena ingiusta, finirebbe per non aderire al progetto rieducativo. Inoltre, in tal modo, si contravverrebbe all’art. 27, comma 3, della Costituzione che specifica che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»: norma alla cui formulazione Moro ha largamente contribuito[70]. In occasione della seduta del 19 settembre 1946 della c.d. Commissione dei Settantacinque, infatti, Moro stesso propose l’introduzione, all’art. 5 del Progetto di Costituzione, del seguente comma: «Non possono istituirsi pene crudeli e le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato». Né la scelta di votare a favore dell’emendamento proposto, in Assemblea costituente, da Leone e Bettiol contro questo testo vale a segnalare una improvvisa svolta di Moro in senso retributivo: celandosi dietro simile scelta preoccupazioni, recepite da Moro – così Vassalli – con «notevole realismo»[71], derivanti dal timore di lasciar intendere un’adesione da parte dell’Assemblea ai postulati della Scuola positiva.

E in effetti, nel corso della attività politica posteriore, Moro si adoperò molto affinché, sul piano normativo, fossero introdotti strumenti volti ad attualizzare, seppure soltanto nella fase esecutiva, la finalità rieducativa della pena dichiarata dalla Costituzione. Basti pensare, in tal senso, che l’approvazione della legge n. 345 del 1975, il cui art. 1, comma 4, com’è noto, dispone che il trattamento penitenziario deve tendere alla risocializzazione e deve essere attuato secondo un criterio di individualizzazione, avvenne proprio durante il IV governo da lui presieduto.

Di certo, non può negarsi che l’idea secondo cui la pena potrebbe «assumere un significato per chi la subisce [soltanto] nell’ambito esecutivo»[72] sollevi perplessità: «renden[do], da un lato, poco credibili gli intenti risocializzativi normativamente dichiarati e fa[cendo] sì, dall’altro, che gli strumenti (sospensivi, sostitutivi e alternativi) i quali dovrebbero consentire tale risultato siano percepiti come concessioni sempre revocabili a istanze umanitarie, di per sé in contrasto con l’interesse preventivo della collettività»[73].

Al fine di superare tali incongruenze, occorrerebbe, perciò, che la ‘dimensione umana’ del reo rilevasse, come precisa, peraltro, lo stesso Moro, già al momento di definizione del contenuto delle conseguenze sanzionatorie.

Nel volume sulla capacità giuridica si afferma, infatti, la necessaria sussistenza di quest’ultima anche dopo il verificarsi del fatto illecito: ciò imporrebbe al giudice di comprendere se e come le peculiarità soggettive del reo possano rilevare nella determinazione della pena e, solo successivamente, durante la fase di esecuzione della stessa[74]. Collocando gli «elementi squisitamente soggettivi», «inerenti alla personalità del soggetto», nell’ambito della capacità giuridica penale, si intende, cioè, richiamare l’attenzione sul fatto che «esiste una personalità del soggetto, una caratteristica personale del soggetto»[75], di cui il giudice deve tener conto, anzitutto, nella definizione della pena. Pur nell’ambito, dunque, di una valutazione che attiene, anzitutto, all’oggettività del fatto delittuoso, le peculiarità individuali del soggetto agente dovrebbero comunque essere prese in esame: in modo tale da «commisurare la pena» – precisa Moro – «non solo in termini quantitativi, ma anche in termini qualitativi»[76].

La sanzione risulterebbe, quindi, personalizzata, essendo articolata – sin dal momento della sua irrogazione – secondo contenuti modulati in base alle condizioni personali del destinatario. Così da essere non un male analogo a quello del reato, ma un progetto che consenta al reo di «scavare nel fondo della coscienza»[77]. Affermazioni, queste ultime, che, seppure in una forma solo abbozzata, si ritrovano nella seconda monografia di Moro: in tale sede, infatti, egli rileva come la pena «non [costituisca] sanzione corrispettiva che si limiti a togliere via, anche quando questo sia ancora possibile, il danno subito del privato immediatamente offeso, ma [abbia] un carattere di riparazione generale e quindi indiretta, che ci manifesta a sufficienza come interessato non sia soltanto il singolo, ma tutta la collettività»[78].

Le categorie della capacità giuridica e della subiettivazione riescono, dunque, a stimolare la riflessione del giurista contemporaneo circa l’attuale modello punitivo, suggerendo di rimuovere tutti quegli ‘ostacoli normativi’ che limitano la possibilità di progettare una risposta sanzionatoria davvero orientata alle esigenze rieducative emergenti nel caso concreto.

Sul piano processuale, si tratterebbe, ad esempio, di superare — in prospettiva de iure condendo — la restrizione di cui all’art. 220, comma 2, c.p.p., consentendo al giudice, prima che determini la pena, di studiare la personalità dell’imputato, ove questi acconsenta. Affinché, tuttavia, l’esame della personalità non si trasformi in «un pericoloso strumento utilizzabile addirittura contro l’imputato»[79] risulterebbe necessario disciplinare attentamente la materia, definendo in via legislativa entro quale fase processuale e con quali modalità svolgere l’eventuale perizia[80].

Se, infatti, si consentisse il ricorso alla perizia prima dell’accertamento del fatto, i dati acquisiti sulla personalità dell’imputato potrebbero condizionare il giudice (anche involontariamente) nella valutazione della responsabilità. Per di più, poiché tale indagine riguarderebbe un soggetto da presumersi tuttora non colpevole, si determinerebbe un vulnus rispetto al principio costituzionale previsto dall’art. 27, co. 2, della Costituzione.

Del pari, occorrerebbe, sul piano sostanziale, diversificare le risposte punitive (prevendo, ad esempio, pene di natura prescrittiva): in modo tale da consentire al giudice di modulare la pena — sia nel quomodo, sia nel quantum — in base alla personalità del reo e alle sue esigenze rieducative.

Problematiche, queste, che il giovane Moro, trattando di due categorie peculiari, come – per l’appunto – la capacità giuridica e la subiettivazione della norma penale, aveva già intuito, ponendole all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza del suo tempo: incapaci, forse, di coglierne pienamente il senso. Il diritto penale moderno dovrebbe evitare di ripetere lo stesso errore, trascurando di considerare l’umanità che caratterizza ciascun fatto criminoso.

Per la verità, un primo passo, seppur ‘timido’, nel senso dell’umanizzazione del diritto penale è stato compiuto, di recente, con l’introduzione dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova[81], ex artt. 168-bis ss. c.p. e artt. 464-bis ss. c.p.p.[82]: rendendosi possibile, in tal modo, concepire la risposta al reato – anche se commesso da un adulto e non tra quelli di competenza del Giudice di Pace, sempreché non sia caratterizzato da particolare tenuità ex art. 131-bis c.p. – non più in termini strettamente aritmetici, secondo la logica ‘binaria’ del più/meno male commesso - più/meno carcere, quanto, piuttosto, come un programma da espletarsi tramite affidamento al servizio sociale. Con la possibilità, peraltro, di ricomprendere, nell’ambito di tale programma, condotte volte alla «mediazione con la persona offesa» (cfr. artt. 464-bis, comma 4, lett. c, c.p.p. e art.141-ter, comma 3, att. c.p.p.): cioè, di fare «ricorso», come evidenziato in letteratura, «alla procedura – la mediazione penale – che costituisce l’approdo più avanzato della giustizia riparativa»[83].

A ben vedere, proprio quest’ultimo «paradigma di giustizia», «che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettiva»[84], risponde in modo pieno all’idea di Moro per la quale l’esperienza giuridica dev’essere intesa «come manifestazione della dignità dell’uomo»[85].

Soltanto, infatti, abbandonando una costruzione in senso retributivo della pena inflitta (e, dunque, recependo fin dalla definizione legislativa delle sue modalità il dettato di cui all’art. 27, comma 3, della Costituzione), si può autenticamente riconoscere l’umanità del reo: posto che, altrimenti, si corre il rischio, inaccettabile, di «assimilarlo a un corpo, sul quale in forza della pena inflitta dovrebbe progressivamente dispiegarsi nel tempo la sofferenza espressiva del male compiuto»[86].

E lo stesso, del resto, vale anche per la vittima del reato, dal momento che il sistema sanzionatorio tradizionale non offre a quest’ultima alcuna risposta al suo bisogno più autentico: quello, cioè, di vedere riconosciuta, perfino dal colpevole, l’ingiustizia dell’accaduto e con ciò di essere riconosciuta, perfino dal colpevole, come persona, che ha patito una sofferenza. Quel sistema, anzi, finisce per vittimizzarla ulteriormente, in quanto la orienta a ritenersi appagata (rendendosi in un certo modo «una persona inaridita o, se si vuole, peggiore rispetto al passato»[87]) del male inflitto a un’altra persona, piuttosto che di un percorso della medesima, pur impegnativo, di affrancamento dal male.

Si tratta, allora, di essere coraggiosi, come è stato, senza dubbio, Moro, e immaginare una giustizia penale nuova, che consenta di ri-stabilire tra tutte le persone coinvolte nella vicenda criminosa una relazione umana.

Note

  1. A riguardo v. infra, § 2.

  2. A. Moro, La capacità giuridica penale, Padova, Cedam, 1939, ora in Ead., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione II, Opere Giuridiche, vol. 1, Le prime monografie (1939-1942), a cura di L. Eusebi, edizione e nota storico-critica di C. Iagnemma, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro2.1.0.1. Il testo, per entrambe le monografie contenute nel presente volume dell’Edizione Nazionale, è stato riprodotto nella maniera più fedele possibile all’originale, conservandone la punteggiatura anche in qualche caso dubbio e limitandosi a correggere palesi refusi.

  3. A. Moro, La subiettivazione della norma penale, Città di Castello, Casa Editrice Dott. Luigi Macrì, 1942, ora in Ead., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione II, Opere Giuridiche, vol. 1, Le prime monografie (1939-1942), cit. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro2.1.0.2.

  4. A. Moro, L’antigiuridicità penale, Vicenza, G. Priulla Editore, 1947, ora in Ead., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione II, Opere Giuridiche, vol. 3, Le monografie del dopoguerra (1947-1951), a cura di M. Pelissero, edizione e nota storico-critica di S. Confalonieri, Bologna. Università di Bologna, 2021. DOI: 10.48678/unibo/aldomoro2.3.0.001.

  5. A. Moro, Unità e pluralità di reati, Padova, Cedam, 1951, ora in Ead., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, sezione II, Opere Giuridiche, vol. 3, Le monografie del dopoguerra (1947-1951), cit. DOI: DOI: 10.48678/unibo/aldomoro2.3.0.002.

  6. A. Moro, Osservazioni sulla natura giuridica della «exceptio veritatis», in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1, 1954, pp. 3 ss., nonché in Scritti in onore di Vincenzo Manzini, Padova, Cedam, 1954, pp. 291 ss.; Ead., Ancora sulla natura giuridica della «exceptio veritatis», in «Archivio penale», 1955, pp. 23 ss.

  7. A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, in Aa.Vv., Umanesimo e mondo contemporaneo, Roma, Editrice Studium Christi, 1954, p. 48. Come osserva G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, in «Il Politico», 1, 1980, p. 27, tutti i contributi appena ricordati sono «retti da un filo conduttore unitario e rispecchianti, pur nel tributo reso agli indirizzi metodologici dell’epoca e alle esigenze dell’affermazione nel mondo universitario, la personalità scientifica e morale del loro autore e la sua propensione alle questioni di carattere generale».

  8. V. supra, nota n° 7.

  9. A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 54.

  10. Come, infatti, evidenzia l’Autore (ibidem, pp. 9 ss.), la nozione di capacità giuridica di diritto penale è stata formulata, per la prima volta, da Vincenzo Manzini (Trattato di diritto penale, Torino, Unione tipografico-Editrice torinese, 1933, vol. I, pp. 453 ss.), secondo il quale la capacità giuridica penale «costituisce la idoneità concreta di volere e di agire con effetti giuridici» (ibidem, p. 455). Perciò, essa presuppone «la potenzialità di determinazione normale mediante la rappresentazione della pena comminata, rispetto al fatto vietato o imposto dalla legge (capacità a delinquere); la potenzialità di contrappore le proprie facoltà giuridicamente riconosciute a quelle dello Stato, valendosi a proprio vantaggio dell’ordinamento giuridico, nel rapporto processuale (capacità di difesa); la potenzialità di entrare nel rapporto punitivo secondo i presupposti giuridico-psicologici della pena (capacità di punizione)». In questo senso, tale categoria sarebbe del tutto diversa da quella dell’imputabilità di cui all’art. 85 c.p., dal momento che quest’ultima può riguardare soltanto «un determinato reato concreto». Il che, secondo A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 12, rappresenterebbe il «merito del Manzini»: «l’aver posto, cioè, il problema di una adeguazione della sola categoria soggettiva conosciuta dalla dottrina penalistica, l’imputabilità, alla capacità giuridica in genere». Subito dopo Manzini, si sono occupati del tema, oltre Moro, anche G. Musotto, Colpevolezza. Dolo e colpa. Parte prima: la dottrina della colpevolezza, Palermo, F. Ciuni, 1939, pp. 16 ss.; D. Pisapia, Contributo alla determinazione del concetto di capacità nel diritto penale, in «Rivista italiana di diritto penale», 1942, pp. 149 ss.; P. Nuvolone, La capacità a delinquere nel sistema del diritto penale, Piacenza, Del Maino, 1943, pp. 53 ss.; B. Petrocelli, La colpevolezza: lezioni introduttive, Padova, Cedam, 1948, pp. 19 ss.; L. Pettoello Mantovani, Il concetto ontologico del reato, Milano, Giuffrè, 1954, pp. 11 ss. L’interesse della dottrina penalistica per la categoria de qua si è riacceso, successivamente, negli anni Sessanta: v., p. es., F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, 1963, pp. 241 ss.; G. Bettiol, Diritto penale. Parte generale, Palermo, G. Priulla Editore, 1962, pp. 325 ss.; F. Bricola, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 86 ss.; M. Gallo, Capacità penale (voce), in «Novissimo digesto italiano», Torino, Utet, 1958, vol. II, pp. 880 ss.; R. Dell’Andro, Capacità giuridica penale (voce), in «Enciclopedia del Diritto», Milano, Giuffrè, 1960, vol. II, pp. 104 ss.; G. Marini, La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2, 1961, pp. 733 ss.

  11. A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 20. Il tema dell’«incontro» tra norma astratta e soggetto empirico è affrontato più ampiamente, come si dirà infra, § 4, nel volume La subiettivazione della norma penale, cit., pp. 3 ss.

  12. A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 21.

  13. Ibidem.

  14. Circa il concetto di obbligo, Moro osserva come si tratti di «una forma meno appariscente, dal punto di vista pratico, della capacità di diritto penale»: «l’obbligo viene fatto oggetto di una concreta considerazione quando sia stato violato e l’atto di violazione (reato) venga posto appunto nel necessario rapporto con la situazione giuridica che esso presuppone, ai fini dell’affermazione di una responsabilità penale» (ibidem, p. 37).

  15. Ibidem, p. 35.

  16. Ibidem, p. 40.

  17. Ibidem, p. 20.

  18. Ibidem, p. 48.

  19. Secondo una parte della dottrina (cfr., p. es., F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Padova, Cedam, 1933, pp. 100 ss.), la capacità di diritto penale costituirebbe uno dei requisiti soggettivi del reato: per tali dovendosi intendere «il complesso di quel modo di essere dell’agente, dai quali dipende l’esistenza del reato» (ibidem, p. 106). Stando a un’altra impostazione del problema, invece, la capacità sarebbe un presupposto della responsabilità e della pena o, in alternativa, un presupposto della colpevolezza: per gli opportuni riferimenti bibliografici v. A. Moro, La capacità giuridica, cit., pp. 9 ss.

  20. A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 53.

  21. Si tratta di un elaborato alquanto esteso (209 pagine), suddiviso in sette capitoli così intitolati: «Capitolo I, Il concetto unitario di capacità di diritto penale; Capitolo II, La capacità giuridica nella teoria generale del diritto; Capitolo III, Movimento dottrinale sulla capacità di diritto penale; Capitolo IV, I casi di immunità politica; rilevanza della nazionalità dell’agente; Capitolo V, La capacità di obbligo e di responsabilità giuridico-penale; funzione giuridica della capacità; Capitolo VI, Capacità e colpevolezza; Capitolo VII, La capacità di fronte ai requisiti e ai presupposti del reato». La Commissione per la prova finale di laurea giudicò tale lavoro meritevole di pubblicazione.

  22. A riguardo v. A. Moro, La capacità giuridica, cit., pp. 1 ss.

  23. A. Moro, La capacità giuridica di diritto penale, Tesi di laurea in Giurisprudenza, R. Università Adriatica “Benito Mussolini” - Bari, a.a. 1937/1938, p. 47.

  24. Ibidem.

  25. Nella tesi di laurea, Aldo Moro approccia, per la prima volta, il tema della soggettivazione, intesa quale «processo di concretizzazione», rilevando come «mediante la discriminazione di soggetti capaci di contro a quelli incapaci, l’ordinamento risolve un fondamentale imprescindibile problema di organizzazione» (ibidem, p. 34). «Esso determina» – prosegue Moro – «con siffatte qualificazioni soggettive taluni dei presupposti essenziali perché la norma, esplicando in presenza delle fattispecie giuridicamente rilevanti la sua specifica efficienza, possa creare le situazioni giuridiche concrete, che costituiscono il punto di arrivo della dinamica giuridica e giustificano la norma, in quanto forza specifica che tende a realizzare un ordinamento di vita sociale» (ibidem).

  26. A. Moro, La capacità giuridica, cit., nota n° 10.

  27. Circa la letteratura tedesca, Aldo Moro afferma quanto segue: «la dottrina tedesca, chiusa, come ha rilevato il Carnelutti, nell’equivoco di una considerazione dell’imputabilità involuta nel requisito della colpevolezza, tagliata fuori dalle correnti dottrinali italiane, ci ha dato solo talune osservazioni critiche al Carnelutti del Goldschmidt e le posizioni di pensiero del Binding, del Gerland, del Von Hippel, se vogliamo limitarci a coloro che sono più decisamente orientati verso una considerazione della imputabilità come capacità giuridica, senza offrire l’effettivo contributo delle sue indagini, di solito così acute, alla soluzione del problema, impostato soprattutto in Italia» (A. Moro, La capacità giuridica di diritto penale, Tesi di laurea, cit., p. 50).

  28. V. Capitolo III della tesi di laurea di Aldo Moro. Tale capitolo è composto da un solo paragrafo, così intitolato: “Opinioni del Manzini, Carnelutti, Sabatini, Leone, Rocco, Falchi, Binding, Gerland, Von Hippel, Maggiore, Alimena (Francesco) ed altri: Critica”.

  29. A. Moro, La capacità giuridica di diritto penale, Tesi di laurea, cit., p. 1.

  30. A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 9 s.

  31. A. Moro, La capacità giuridica di diritto penale, Tesi di laurea, cit., pp. 88 ss.

  32. Ibidem, pp. 95 ss.

  33. Ibidem, p. 121.

  34. Ibidem, p. 205.

  35. A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 1. Che la subiettivazione della norma giuridica fosse considerata una tematica fondamentale lo si comprende, altresì, dal numero di opere che, in quello stesso momento storico, analizzavano la categoria de qua. Basti pensare, infatti, che nel solo 1942, anno – come s’è detto – di pubblicazione della monografia testé citata, altri tre volumi sull’argomento venivano dati alle stampe: G. Vassalli, La potestà punitiva, Torino, Utet, 1942; L. Scarano, I rapporti di diritto penale, Milano, Giuffrè, 1942; A. Regina, La tutela penale degli interessi privati, Bari, Casa Editrice Dott. Luigi Macrì, 1942. Le ragioni di tale diffuso interesse andrebbero ricercate, secondo G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, cit., p. 32, nel fatto che «quella era l’epoca del rapporto giuridico, e cioè, della subiettivazione della norma in ogni ramo del diritto». «In secondo luogo» – prosegue l’Autore – «per i penalisti esisteva un impegno particolare, nascente dall’incertezza sulla posizione del P.M. (organo del potere esecutivo o del potere giudiziario?) e della necessità di enucleare, dalla vecchia concezione dell’azione penale, un aspetto sostanziale della situazione soggettiva dello Stato nel rapporto punitivo» (ibidem, p. 33).

  36. A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 3.

  37. Ibidem, p. 28.

  38. Ibidem, p. 29.

  39. Ibidem, p. 27.

  40. Ibidem, p. 33.

  41. Quando si parla di Stato giurisdizione, «si tratta – precisa Moro – pur sempre della fondamentale posizione di sovranità dello Stato nella riaffermazione del dover essere giuridico» (ibidem, nota n° 119).

  42. Ibidem, p. 38.

  43. Ibidem, p. 51. Con riguardo al diritto penale sostanziale, invece, la teoria della subiettivazione proposta da Moro produrrebbe effetti assai meno rilevanti: incidendo sulla categoria delle condizioni obiettive di punibilità, sulle cause di estinzione del reato e su quelle di estinzione della pena. Le prime sono descritte come «elementi influenti sul processo di subiettivazione della norma penale in sede di sanzione»: così che, dunque, se esse non si realizzano «la norma non è concreta in forma subiettiva, non c’è potere di punire, né responsabilità, né diritto soggettivo che confluiscano nel processo, il quale ad essi dà tipicamente attuazione» (ibidem, p. 56). Quanto alle cause di estinzione del reato, esse impedirebbero, secondo la descritta teoria della subiettivazione, «l’attualizzarsi in forma subiettiva del valore normativo», mentre le cause di estinzione della pena determinerebbero una sorta di ‘risoluzione’ del rapporto subiettivo, con la conseguenza che, al loro verificarsi, la norma torna ad essere «astratta e obiettiva, e quindi inefficace» (ibidem, p. 57).

  44. Ibidem, p. 39.

  45. Ibidem, p. 35.

  46. L. Perfetti, Sul valore normativo della persona. Appunti su Aldo Moro giurista nel quarantennale dell’omicidio, in «Persona e Amministrazione», 1, 2018, p. 229.

  47. A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 24.

  48. «Bisogna riaffermare che, se lo Stato è, com’è certamente, etico, lo è in quanto in sé accoglie e compone in armonia i valori sviluppati dai singoli e dagli aggregati sociali minori dei quali si compone e senza dei quali non sarebbe»: «va, quindi, fugato il possibile equivoco che induca a vedere lo Stato non già come tutta la vita nel suo significato, ma come un’aggiunta ad essa, quasi che la sintesi caratteristica che esso compie, non già limitandosi a presentare forma di unità, compiuta e ordinata, la totalità dei valori della vita di relazione, partendo invece da essi, in certo modo li superi, ponendosi come una realtà autonoma, nella quale soltanto possa dirsi realizzato il valore dell’uomo» (A. Moro, Lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’Università di Bari. Il Diritto, Bari, Cacucci Editore Bari, 1978, p. 218, ora in Id., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, sezione II, Opere Giuridiche, vol. 2, Le dispense di filosofia del diritto (1941-1947), a cura di N. Antonetti, edizione e nota storico-critica di M. Cau, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI: http://doi.org/10.48678/unibo/aldomoro2.2.0.). Sulla concezione di Stato, elaborata da Aldo Moro nelle sue opere politiche e filosofiche cfr., p. es., F.S. Fortuna, Il contributo di Aldo Moro alla Costituente. In particolare sulla funzione della pena, in F.S. Fortuna e F. Tritto (a cura di), Crisi o collasso del sistema penale? Atti del Convegno Cassino 29 maggio 1998, Cassino, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2002, pp. 105 ss.; D. Asterri, Persona, società e Stato nel pensiero politico giovanile di Aldo Moro, ibidem, pp. 139 ss.; L. Elia, intervento al convegno Aldo Moro. Commemorazione per i venticinque anni dalla scomparsa, Roma 9 maggio 2003, pp. 31 ss.; S. Suppa, Lo stato della persona e della democrazia in Aldo Moro, in A. Filipponio e A. Regina (a cura di), In ricordo di Aldo Moro, cit., pp. 77 ss.; A. Bixio, L’idealismo realista di Aldo Moro, in A. D’Angelo e M. Toscano (a cura di), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), Roma, Studium Edizioni, 2018, pp. 73 ss.; G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma, Studium Edizioni, 1992, pp. 117 ss.; U. De Siervo, Il contributo di Aldo Moro alla formazione della Costituzione repubblicana, in «Il Politico», 2, 1979, pp. 199 ss.; A.M. Garofalo, Aldo Moro: il diritto e lo Stato, in «Studium», 75, 1979, pp. 677 ss.

  49. A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 25.

  50. La subiettivazione, precisa Aldo Moro (L’antigiuridicità penale, cit., p. 3), «rappresenta il modo concreto di operare del diritto secondo la sua natura». Le situazioni giuridiche che derivano da tale concretizzazione della norma penale, prima del realizzarsi della fattispecie criminosa, sarebbero, sul lato passivo del rapporto giuridico, l’obbligo, mentre, con riguardo alla parte attiva, quella di diritto soggettivo (ibidem). Tale descrizione della subiettivazione e delle figure giuridiche ad essa conseguenti corrisponde a quella prospettata ne La subiettivazione della norma penale, cit., pp. 12 ss. Nel volume sull’antigiuridicità, non sono analizzate, invece, le situazioni giuridiche soggettive (potere/soggezione) che si concretizzano al verificarsi del fatto illecito.

  51. A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 17. Il diritto, precisa l’Autore, «non può essere individualistico, per la contraddizione che non consente, ha da essere tuttavia sempre umano e personale» (ibidem).

  52. Ibidem, p. 49.

  53. «La norma nel suo cammino investe e qualifica il fatto. Quel che risulta da questo incontro non è solo il fatto, ma la norma in esso implicita. Correlativamente non è pensabile altro modo di essere concreta della norma, che non sia inserimento in un fatto»: A. Moro, Unità e pluralità di reati, cit., p. 7.

  54. Precisa Moro: «La capacità [deve essere] intesa come possibilità astratta – se pur reale, in quanto investe ciascun soggetto – di un soggetto di entrare in un determinato rapporto»: «per chiarezza, intenderemo per fattispecie della capacità le condizioni che consentono l’incontro della norma col soggetto, e per contro capacità avremo sol quando le condizioni si siano verificate»: cfr. Lezioni di Filosofia del diritto, anno accademico 1940-1941, p. 55. s., ora in Ead., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, sezione II, Opere Giuridiche, vol. 2, Le dispense di filosofia del diritto (1941-1947), cit.

  55. Cfr. A. Moro, Lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’Università di Bari. Il Diritto, cit., p. 75.

  56. Ibidem, p. 169.

  57. Prima del verificarsi del fatto illecito, vi sarebbe un obbligo in capo al soggetto passivo, mentre, dopo la commissione del reato, l’autore dello stesso vivrebbe una condizione di soggezione rispetto all’ordinamento statale. A riguardo, si sottolinea la necessità di distinguere la figura dello Stato-sovrano da quella dello Stato-amministrazione: al primo spetta il potere di far rispettare le leggi penali; al secondo, invece, il diritto soggettivo all’obbedienza. Successivamente al realizzarsi della fattispecie criminosa, tale diritto andrebbe inteso come un «diritto a chiedere la tutela» (A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, raccolte e curate da F. Tritto, Bari, Cacucci Editore, 2005, p. 237, ora in Ead., Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, sezione II, Opere Giuridiche, vol. 4, Le lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale, a cura di F. Palazzo, edizione e nota storico-critica di S. Confalonieri, Bologna, Università di Bologna, 2021. DOI:) e, nel caso dello Stato-sovrano, come potestà punitiva. Di tal che, sul piano processuale, il Pubblico ministero è da intendersi quale «organo del potere esecutivo», seppure con la precisazione che tale figura, «nell’attuale momento storico, tende ad essere attratta nella sfera del potere giurisdizionale e apparire come una parte del processo» (ibidem, p. 247).

  58. A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, cit., p. 359.

  59. G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, cit., p. 27. Nello stesso senso v., p. es., S. Fortuna, Il pensiero giuridico di Aldo Moro, in «Civitas», IX, 1978, p. 42.

  60. F. Carnelutti, recensione a La capacità giuridica penale, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1940, p. 62. Secondo G. Bettiol, recensione a La subiettivazione della norma penale, in «Rivista italiana di diritto penale», 1942, p. 401, il lettore avvertirebbe «una situazione di disagio»: «nel senso che la mentalità normativistica di Moro porta questi a compiacersi troppo spesso di schemi astratti e lo trascina in un mondo che potrà anche essere il sacro vestibolo del diritto penale [...], ma che in effetti poco rilievo ha per la costruzione di un sistema penale che si vuole realistico». Ciò nonostante – proseguiva Bettiol – «qualora ci si ponga nell’ambito della metodologia a sfondo kelseniano del Moro, bisogna convenire che il lavoro è pienamente riuscito e che offre uno dei più veri contributi portati alla trattazione del difficile tema, perché la tesi della subiettivazione della norma penale è organicamente importata e logicamente svolta sino alle sue ultime conseguenze». Con riguardo, invece, alla monografia intitolata L’antigiuridicità penale, R. Pannain, recensione a L’antigiuridicità penale, in «Archivio penale», 1948, p. 327, così affermava: «l’Autore ha da decidersi: o fare il filosofo, e allora può ancora affinare la sua eccessiva tendenza all’astrazione, o fare il giurista, e allora deve farlo all’italiana, con maggiore considerazione per il diritto positivo».

  61. C. Guglielmetti, recensione a La subiettivazione della norma penale, in «Scuola Positiva», 1, 1943, p. 78. La critica si è mostrata, invece, meno severa con riguardo al lavoro monografico Unità e pluralità dei reati (1951), in cui Aldo Moro si sofferma, più puntualmente rispetto alle precedenti opere, sull’analisi della norma positiva: in ragione, dunque, di «una maggiore concretezza e [di] una più stretta aderenza al diritto positivo», questa opera segnerebbe, come si legge nella letteratura italiana del tempo, un «netto progresso sulle precedenti» (così R. Pannain, recensione a Unità e pluralità di reati, in «Rivista italiana di diritto penale», 1953, p. 437).

  62. S. Fortuna, Il pensiero giuridico di Aldo Moro, cit., p. 41. Secondo quest’ultimo Autore, nelle critiche mosse a Moro risuonerebbe «l’eco della questione sul ruolo del giurista nelle società moderne […]. Si sostiene, da un lato (è questo il c.d. indirizzo tecnico-giuridico, tuttora prevalente in Italia nella scienza penalistica), che al giurista spetti l’analisi della norma positiva nel significato assegnatole dal legislatore. [Tuttavia] non ci si avvede che, in questo modo, la funzione del giurista rimane circoscritta e subordinata, rinunziandosi a priori a esercitare, verso il legislatore una attività di stimolo, non occasionale, ma costante, prendendo le mosse (verso la collettività) dalla ricognizione di necessità reali, e pure non ancora fornite di garanzie giuridiche».

  63. Come osserva M. Gallo, Relazione di sintesi, in F.S. Fortuna e F. Tritto (a cura di), Crisi o collasso del sistema penale?, cit., p. 171, «il cosiddetto ‘formalismo’ di Aldo Moro […] produce, e suppone, una maggiore libertà dello spirito umano: segnatamente nella valutazione di quei prodotti della cultura che sono poi i singoli contenuti che, a queste nozioni di teoria generale, i vari ordinamenti o i vari settori di un ordinamento, in qualche misura recano». «Quando si aprono certe categorie» – prosegue l’Autore – «che appaiono prive di riferimenti contenutistici a questo o quello ordinamento, e quando si pone l’accento sulle costanti che queste categorie presentano nelle varie fasi della nostra conoscenza giuridica, ci si rende praticamente liberi nella valutazione alla stregua di un criterio che non è più, solamente, quello di giuridicità, ma che è sovrastante a quello della giuridicità: è il criterio etico».

  64. A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, cit., p. 51.

  65. V. Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364, in «Foro italiano», 1988, I, cc. 1385 ss., con nota di G. Fiandaca, Principio di colpevolezza e ignoranza scusabile della legge penale: ‘prima lettura’ della sentenza 364/1988, con nota di D. Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, e con nota di L. Stortoni, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: significati e prospettive; in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 4, 1988, pp. 1313 ss., con nota di T. Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p.; in «Legislazione penale», 1, 1989, pp. 73 ss., con nota di A. Cadoppi, Error iuris: coscienza dell’antigiuridicità extra-penale e ritardo nel versamento delle ritenute; in «Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia», 1, 1989, pp. 145 ss., con nota di M. Donini, Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario; in «Indice penale», 3, 1990, pp. 697 ss., e con nota di M. Petrone, Il ‘nuovo’ art. 5: l’efficacia scusante dell’ignorantia legis inevitabile e i suoi riflessi sulla teoria generale del reato.

  66. G. Fiandaca, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2, 1987, p. 873. A riguardo, cfr. anche G. V. De Francesco, Il ‘modello analitico’ fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento soggettivo del reato, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1, 1991, pp. 135 ss.; Ead., Sulla misura soggettiva della colpa, in «Studi Urbinati», 1977-1978, pp. 340 ss.

  67. T. Padovani, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1, 1987, p. 831.

  68. G. Fiandaca, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, cit., p. 873.

  69. Così ne sintetizza la posizione G. Contento, Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 3, 1998, p. 1156.

  70. A riguardo v., p. es., U. De Siervo, Il contributo di Aldo Moro alla formazione della Costituzione repubblicana, cit., pp. 199 ss.; A. Loiodice, Moro e la Costituente, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiana, 1984, pp. 21 ss.; N. Antonetti, Aldo Moro: politica e diritto. Premesse alla Costituente, in «Dialoghi», 2, 2016, pp. 104 ss.; P. Pisicchio, Pluralismo e personalismo nella Costituzione italiana. Il contributo di Aldo Moro, Bari; Cacucci Editore, 2012, pp. 15 ss.

  71. G. Vassalli, Le funzioni della pena nel pensiero di Aldo Moro, in G. Bettiol, M. Martinazzoli, F. Tritto e G. Vassalli (a cura di), Aldo Moro e il problema della pena, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 58. Occorre segnalare, d’altra parte, come il diritto penale dell’epoca fosse profondamente pervaso dalla concezione retributiva della pena: è ovvio, dunque, che Moro sia stato ‘influenzato’, seppure solo in misura limitata, da tale diffuso clima culturale. Così che la pena è da lui intesa, come precisa F. Tritto, La pena nell’insegnamento di Aldo Moro, in G. Bettiol, M. Martinazzoli, F. Tritto e G. Vassalli (a cura di), Aldo Moro e il problema della pena, cit., p. 34, in senso «etico-retributivo»: «essa, perciò, non si identifica solamente in un intervento afflittivo, [ma è] anche una risposta in termini di bene riaffermato».

  72. Così L. Eusebi, Dirsi qualcosa di vero dopo il reato: un obiettivo rilevante per l’ordinamento giuridico?, in «Criminalia», 2010, pp. 637 ss.

  73. L. Eusebi, Dinanzi alla fragilità rappresentata dall’errore. Giustizia e prevenzione in rapporto alle condotte criminose, in «Il regno», 17, 2006, p. 565.

  74. Come osserva F. Tritto, La pena nell’insegnamento di Aldo Moro, cit., pp. 51 ss., «il rifiuto di Moro dei postulati della scuola positiva non implica il non riconoscimento di alcuni dati significativi e importanti introdotti dai positivisti del diritto penale». «E infatti Moro» – prosegue Tritto – «ascrive loro il merito di aver posto in particolare risalto la persona […]. L’attenzione dunque è rivolta al momento soggettivo, di fronte all’attenzione prestata dalla precedente dommatica giuridica al momento oggettivo, al momento dell’azione».

  75. A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, cit., p. 112.

  76. Ibidem.

  77. Ibidem, p. 123.

  78. A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 13 s.

  79. G.D. Pisapia, La perizia criminologica e le sue prospettive di realizzazione, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 4, 1980, p. 1026.

  80. Secondo G.D. Pisapia, ibidem, p. 1032, sarebbe necessaria in ogni caso una precisazione terminologica, dal momento che «all’esame della personalità, sia sotto il profilo psicologico che psichiatrico, come sotto quello criminologico, mal si addice la denominazione di ‘perizia’»: non consistendo quest’ultima «né in un mezzo di prova, né in un mezzo di valutazione della prova».

  81. Ex art. 1, comma 22, lett. a), della l. 27 settembre 2021, n. 134, il Governo è stato delegato a «estendere l’ambito di applicabilità dell’art. 168 bis c.p. a specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto».

  82. A riguardo, ex multis, cfr. P. Troncone, La sospensione del procedimento con messa alla prova: nuove esperienze di scenari sanzionatori senza pena, Roma, Dike Editrice, 2017, pp. 113 ss.; R. Bartoli, La “novità” della sospensione del procedimento con messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 9 dicembre 2015; Ead., La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in «Diritto penale e processo», 6, 2014, pp. 668 ss.; L. Bartoli, Il trattamento nella sospensione del procedimento con messa alla prova, in «Cassazione penale», 5, 2015, p. 1755 ss; E. Lanza, La messa alla prova processuale: da strumento di recupero per i minorenni a rimedio generale deflattivo, Torino Giuffrè, 2017, passim; A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in «Diritto penale e processo», 6, 2014, pp. 678 ss.; G. Ubertis, Sospensione del procedimento con messa alla prova e Costituzione, in «Archivio penale», 2015, pp. 725 ss. Con riguardo all’istituto de quo L. Eusebi, La sospensione del procedimento con messa alla prova tra rieducazione e principi processuali, in «Diritto penale e processo», 12, 2019, pp. 1969 s., evidenzia «l’aspetto problematico, inerente al rapporto tra gli strumenti di probation e il ruolo del processo in materia penale»: «quello per cui l’opzione in favore della messa alla prova implica la rinuncia all’accertamento processuale ordinario (anche con riguardo alla possibilità di impugnazione) dei fatti e delle responsabilità, al quale si perverrà solo allorquando il cattivo esito della prova stessa non avrà permesso l’estinzione del reato». Tuttavia, «si tratta di evitare» – prosegue l’Autore – «l’inversione metodologica in forza della quale l’intangibilità, senza alcun profilo flessibile, delle garanzie processuali finisca per fare da supporto, paradossalmente, all’inflizione ineludibile della pena detentiva, cioè all’estensione, piuttosto che alla delimitazione, dell’ambito applicativo di quest’ultima» (ibidem, p. 1698).

  83. L. Eusebi, La svolta riparativa del paradigma sanzionatorio. Vademecum per un’evoluzione necessaria, in G. Mannozzi e G. Lodigiani (a cura di), Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 102. Com’è noto, oltre alle norme menzionate supra, sia l’art. 29, comma 4, d.lgs. n. 74 del 2000, sia gli artt. 9 e 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 fanno riferimento alla mediazione penale.

  84. A. Ceretti, F. Di Ciò e G. Mannozzi, Giustizia riparativa e mediazione penale: esperienze giuridiche a confronto, in F. Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzione alternative delle controversie, Milano, Hoepli, 2001, p. 309. Sul concetto di giustizia riparativa, peraltro, restano imprescindibili i numerosi lavori di Claudia Mazzucato (v., p. es., Ead., Appunti per una teoria “dignitosa” del diritto penale a partire dalla restorative justice, in A. Barletta, L. Eusebi, S. Gentile et al., Dignità e diritto: prospettive interdisciplinari, Piacenza, Vita e Pensiero, 2010, pp. 99 ss.; Ead., Mediazione e giustizia riparativa in ambito penale. Spunti di riflessione tratti dall’esperienza e dalle linee guida internazionali, in L. Picotti e G. Spangher [a cura di], Verso una giustizia penale “conciliativa”. Il volto delineato dalla legge sulla competenza penale del giudice di pace, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 85 ss.; Ead., Ostacoli e “pietre di inciampo” nel cammino attuale della giustizia riparativa in Italia, in G. Mannozzi e G. Lodigiani [a cura di], Giustizia riparativa, cit., pp. 119 ss.; Ead., La giustizia penale in cerca di umanità. Su alcuni intrecci teorico-pratici fra sistema del giudice di pace e programmi di giustizia riparativa, in L. Picotti e G. Spangher [a cura di], Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 140 ss.).

  85. A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, cit., p. 151.

  86. L. Eusebi, Dinanzi alla fragilità rappresentata dall’errore, cit., p. 565.

  87. L. Eusebi, La pena tra necessità di strategie preventive e nuovi modelli di risposta al reato, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 3, 2021, p. 841.