Indice

Introduzione

Le prime monografie (1939-1942)

di Luciano Eusebi

Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Opere Giuridiche, Le prime monografie (1939-1942), 2022
Quest'opera è rilasciata con licenza CC BY-NC 4.0
DOI: 10.48678/unibo/aldomoro2.1.0.intro


Persona, diritto, Stato nelle prime due monografie penalistiche di Aldo Moro.

Nascoste dalla coltre di un livello dell’astrazione argomentativa che a taluni commentatori, nel dopoguerra, apparve eccessiva e lontana dalla pratica quotidiana del diritto penale – forse l’unico modo, tuttavia, per tratteggiare e affidare al futuro profili sistematici, in materia, autonomi dalle visioni dello Stato totalitario –, non poche suggestioni di fondo derivanti dalle monografie penalistiche pubblicate da Aldo Moro, rispettivamente, nel 1939 e nel 1942 risultano, invero, tutt’altro che marginali o inattuali. Anticipano, piuttosto, sensibilità fatte proprie dalla Costituzione (Moro, come si sa, sarà membro dell’Assemblea costituente), il cui recepimento in ambito penale, per determinati aspetti, appare tuttora incompiuto.

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1. Con la prima delle due monografie (La capacità giuridica penale) Moro delinea, come emerge ove l’impianto del suo contributo non venga letto in modo riduttivo, un’operazione culturale di notevole respiro, e in tal modo coraggiosa, rispetto ai criteri classici di approccio al sistema penale: espressiva di un sentire che sorreggerà tutte le sue riflessioni penalistiche future. Operazione poco compresa, forse, anche perché costruita secondo un approccio prettamente dogmatico, molto curato sul piano linguistico eppure di lettura non agevole e in certa misura appesantito quanto alla linearità espositiva dal continuo confronto con gli aspetti armonici e disarmonici rispetto all’incedere del suo pensiero ravvisati da Moro nella dottrina penalistica di lingua italiana e tedesca della sua epoca: segno, peraltro, di una cultura giuridica eccezionale per l’età dell’Autore (che non ancora ventitreenne rielabora, attraverso tale volume, la sua tesi di laurea) e indipendente, soprattutto, dai pregiudizi discriminatòri propri del regime di allora (se solo si pensa, per esempio, al rilievo che assume, in entrambe le monografie, il confronto con gli studi di Hans Kelsen).

Proponendosi di attribuire rilievo dogmatico centrale alla figura del «soggetto capace», mediante la rivisitazione e l’inquadramento sistematico della categoria costituita dalla «capacità giuridica penale» (fino ad allora oggetto di ricostruzioni solo parziali, e non generalmente accolta in epoca successiva)[1], egli denuncia infatti «la lacuna determinata nella scienza penalistica dalla mancanza di una teoria del soggetto» (n. 62)[2], quale «persona in possesso dei requisiti soggettivi, che costituiscono condizione preliminare per il sorgere della responsabilità penale» (n. 48).

«Esiste nell’ordinamento penale – afferma Moro in tal senso – una categoria, fino ai tempi più recenti non pienamente individuata, la quale opera con autonomia nettamente definita di funzioni e costituisce, pertanto, un elemento senza del quale il meccanismo di questo diritto non agisce»: essa dovrebbe affiancarsi agli «elementi tradizionali» costituiti da «norma, reato, pena», rendendo necessaria «la determinazione dei suoi rapporti con la norma e la conseguenza giuridica» del reato (n. 62).

Al di là del percorso prescelto per affermare il suddetto intento, Moro, dunque, appare prendere le distanze dalla visione classica della «realtà giuridico-penale» (n. 52) che fa leva essenzialmente sulla mera descrizione materiale del fatto illecito, cui in sostanza viene riferita, circa l’autore imputabile, l’entità della conseguenza sanzionatoria, fatta salva soltanto l’incidenza, nel quantum, del dolo o della colpa: secondo quelle impostazioni prima facie di prevenzione generale (negativa) le quali finiscono per rispondere all’impatto emotivo nel contesto sociale degli accadimenti che corrispondono, diremmo oggi, al fatto tipico oggettivo.

Moro, invece, muove dall’idea di una «dinamica del diritto penale», ai cui fini il profilo soggettivo non può che risultare ineludibile, poiché se «non c’è un soggetto idoneo all’imputazione giuridica», non c’è «una norma in efficienza» (n. 47). Per Moro, quindi, «soggetto capace è il soggetto cui è riconosciuta la possibilità personale di entrare nel rapporto fondamentale di diritto penale e di essere, in conseguenza, titolare dell’obbligo primario [connesso al precetto normativo] e di quello da responsabilità, per violazione del primo»: essendo da considerarsi tali due momenti «indissolubili ed integranti del concetto unitario di capacità» (n. 41). Di conseguenza, «è per noi naturale – afferma Moro – ritenere che se la legge parla di punizione della persona, questa debba essere assunta come capace, in possesso, quindi, dei requisiti soggettivi, che costituiscono condizione preliminare per il sorgere della responsabilità penale» (n. 48).

Emerge, in questo senso, una visione tipicamente personalistica del rapporto penale, tale da esigere determinate caratteristiche di ciascun soggetto – Moro parla di «soggetto normativo d’imputazione» (n. 55) – rilevante ai suoi fini: caratteristiche in forza delle quali simile soggetto è chiamato a recepire l’obbligo espresso dalla norma penale, in quanto nella condizione di farlo proprio e d’essere tenuto a rispettarlo, come pure vede concretizzarsi la sua responsabilità, attraverso la pena, nel caso d’inadempimento. Venendo meno, in mancanza di simili caratteristiche, «il meccanismo di produzione delle conseguenze di diritto che fa capo appunto alla norma» penale: «il soggetto capace – precisa Moro – non è, nella sua essenza, un requisito o presupposto del reato, ma espressione dell’efficienza della norma e, in questa sua qualità, presupposto del sorgere di una situazione giuridica in testa ad un determinato soggetto» (n. 61).

Argomenti, questi, in base ai quali Moro esclude recisamente la possibilità di riconoscere la capacità giuridica penale nel soggetto che possa essere sottoposto soltanto a misure di sicurezza o, comunque, sulla base del solo fatto che taluno possa risultare destinatario di provvedimenti nell’ambito del processo penale: «noi possiamo escludere che si possa parlare di una capacità unitaria di diritto penale, con riferimento non solo alla pena, ma anche alle misure di sicurezza e al processo» (n. 13), posto che « di una categoria unitaria di capacità giuridica si [può] parlare solo quando vi sia un unico effetto di diritto, la cui produzione sia da essa condizionata» (n. 34).

Si tratta di un indirizzo che, dunque, valorizza l’attitudine motivazionale delle disposizioni penali, concependole come rivolte a un soggetto capace. Aspetto, questo, il quale finisce implicitamente per escludere l’accettabilità del far leva, per fini di prevenzione generale, su profili di coazione intimidativa o di esemplarità sanzionatoria. Ma anche per opporsi a una visione della pena che, riducendola a neutralizzazione, neghi nel condannato quelle caratteristiche di interlocutore capace costituenti condizione, per Moro, di un intervento propriamente penale. E altresì, potremmo dire, per esigere la non svalutazione dell’inalienabile qualità di persona quale si manifesta nello stesso soggetto non imputabile, onde conformare a una finalità di premura curativa quelle medesime misure di sicurezza che Moro, in continuità col suo maestro Biagio Petrocelli, fatica inquadrare fra i provvedimenti di natura penale.

Può comprendersi, peraltro, perché Moro abbia immaginato di poter coltivare il suo intento valorizzando una categoria dogmatica non comunemente accolta, piuttosto che entro l’ambito delle categorie più consolidate, com’è avvenuto, in epoca successiva, specie (ma non solo) con riguardo alla colpevolezza: si pensi, per esempio, al riconoscimento nelle sue varie manifestazioni del principio di colpevolezza, agli approfondimenti sui profili soggettivi della responsabilità colposa, all’attenzione, che pare ridestarsi, circa la complessità psicologica (che non può essere ignorata pur quando si riconosca l’imputabilità) del contesto di produzione delle condotte.

Va considerato, infatti, che la colpevolezza secondo l’impianto originario del codice Rocco finiva per ridursi a non molto più del dolo o della colpa, nemmeno richiesti circa tutti i reati, e per dipendere strettamente, quindi, dai requisiti previsti in ciascuna fattispecie incriminatrice. Il che appare in grado di spiegare come Moro, per l’appunto, abbia preferito tracciare, per i suoi fini, una strada del tutto alternativa, la quale poteva apparire idonea a sviluppi meno condizionati dal diritto positivo allora vigente. Ne è riscontro, del resto, il rigore con cui Moro intende tenere distinta la capacita giuridica penale dalla colpevolezza, sia intesa in senso psicologico, sia intesa in senso normativo: sebbene imputi alla dottrina tedesca che pure ha dato «sistemazione […] sotto il profilo della colpa normativa» alla categoria dell’imputabilità, costituente «la base essenziale della tentata elaborazione di una capacità di diritto penale», di non aver «manifestato grande sensibilità» circa il problema che egli sollevava (n. 51). Per Moro, in effetti, il «requisito della colpevolezza» attiene «ai processi psichici», che hanno «idonea collocazione» nella «fattispecie di reato»: da cui la conclusione che «la volontà è un elemento del Tatbestand e che con essa il soggetto normativo d’imputazione non ha nulla a che fare» (n. 55).

Nella medesima prospettiva si muove la distinzione netta che il nostro Autore propone – oggi meno facilmente comprensibile e probabilmente influenzata dai canoni dell’idealismo – tra il «soggetto capace», inteso «come categoria formale» e il «soggetto empirico». Quest’ultimo essendo «il soggetto del reato, colui che pone in essere l’azione illecita necessaria per rendere concretamente efficiente la volontà della norma, che stabilisce la responsabilità». Mentre il primo, emergente «dalla oggettività del reato», costituirebbe «un momento nel processo di subbiettivazione del diritto penale, in quanto particolare espressione dell’efficienza della norma» (n. 58). Ad avviso di Moro, infatti, simile efficienza «non si limita a creare una entità giuridica, il reato, il quale poi causi di per se stesso la conseguenza di diritto, ma si manifesta concretamente determinante della situazione di responsabilità»: così che – egli prosegue – «si finisce per svisarne la vera natura, quando la si voglia esaurire in un riferimento esclusivo al reato, invece di prospettarla su di un piano più ampio, di fronte alla integralità del fenomeno giuridico penale, di cui il reato costituisce soltanto un elemento, quello di fatto» (n. 61).

Ovvero, conclude Moro: «Se si tiene presente il dualismo, che noi abbiamo mantenuto nelle sue forme più rigide, tra valore e fatto, il primo come elemento efficiente e risultato finale della dinamica giuridica, il secondo come elemento condizionante il compiersi di questa, appare chiaro che il soggetto [capace] non deve essere riferito al mondo dei fatti, ma a quello dei valori. Esso va infatti collegato alle situazioni di obbligo e responsabilità penale, le quali, non essendo realtà empiriche, ma valori, non possono essere riferite ad un uomo, ma ad un soggetto normativo d’imputazione» (n. 62).

Una costruzione, dunque, in grado di corroborare a sua volta l’autonomia della capacità giuridica penale sul piano dogmatico.

Resta in ogni caso palese che simile costruzione appare eminentemente rivolta alla fondazione teorica della suddetta (pressoché) nuova categoria dogmatica, la quale in certo modo viene offerta da Moro come impalcatura da riempire attraverso elaborazioni future della dottrina. L’analisi inerente agli elementi costitutivi della capacità in oggetto risulta infatti circoscritta, nel volume, ad alcuni aspetti, pur significativi: la considerazione, basilare, secondo cui occorre rifarsi, «per integrare le condizioni di capacità, alle norme, che, nella parte generale del codice, fissano la nozione di imputabilità» (n. 48); la conclusione ai sensi della quale «le condizioni subbiettive di punibilità vengono sistemate nell’ampia categoria generale della capacità, come elementi influenti su questa, rispettivamente, per fondarla od escluderla» (n. 46); la disamina delle situazioni (benché aventi natura assai differente dalle succitate) di immunità politica, con particolare riguardo alla figura del Re e soggetti equiparati, che sfocia nell’affermazione, invero discutibile, dell’impossibilità di considerare la posizione giuridico-penale di tali soggetti «come una semplice esclusione di responsabilità» e di ammettere invece la loro «capacità di assumere l’obbligo», stante l’asserita unitarietà, secondo Moro, della «situazione di obbligo giuridico», nei suoi aspetti del «dover prestare e del dover rispondere» (n. 32); il richiamo, con eguale soluzione, dei casi di rilevanza della nazionalità del soggetto agente (n. 33); «la configurabilità di una capacità di diritto penale riferita [anche] al rapporto esecutivo» (n. 37): assunto, quest’ultimo, assai importante dal punto di vista sistematico non solo perché riconduce «il rapporto giuridico che si attua in sede di esecuzione […] al diritto di punire dello Stato, cui corrisponde l’obbligo di responsabilità» (n. 34), ma anche perché consente di inquadrare pur sempre il condannato (come avverrà decenni dopo attraverso, soprattutto, l’ordinamento penitenziario) entro l’ambito di un rapporto giudiziario-penale, e non soltanto di natura amministrativa.

Sebbene tuttavia, come si accennava, la categoria della capacità giuridica penale sia rimasta priva, in seguito, di utilizzazioni estese, ciò non significa che le motivazioni ai cui fini Moro l’aveva teorizzata non abbiano avuto incidenza nel diritto penale italiano.

Ne è riscontro di particolare significativo l’essersi addivenuti a riconoscere come vigente, in quest’ultimo, il principio di colpevolezza, nonostante l’impianto difforme del codice Rocco, desumendolo dal carattere personale della responsabilità penale così come previsto all’art. 27, comma primo, della Costituzione: il che si è pur tardivamente realizzato, come ben si sa, nel 1978 attraverso le sentenze nn. 364 e 1085 della Corte costituzionale, delle quali fu giudice redattore il professor Renato Dell’Andro, primo allievo, e poi assistente, di Aldo Moro.

Ma ben prima la visione personalistica del diritto penale in Moro era risultata fondamentale quanto all’apporto di notevolissimo rilievo che egli diede in sede costituente alla stesura di quello che divenne l’art. 27, comma terzo, della Costituzione, secondo il quale «le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

La vicenda ha aspetti singolari e culturalmente significativi, per cui appare opportuno riprenderla nei dettagli.

Il testo originario della norma fu quello di cui all’art. 5 della proposta formulata in sede di prima Sottocommissione dai relatori Giorgio La Pira e Lelio Basso («le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del reo»). Nella seduta della Sottocommissione del 19 settembre 1946 la parola reo fu sostituita dalla parola colpevole, e il testo fu approvato anche con il voto di Aldo Moro, il quale nel prosieguo della discussione propose di integrare quel medesimo testo attraverso la formulazione «non possono istituirsi pene crudeli e le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato». Del pari Aldo Moro ribadì l’avviso, nella seduta antimeridiana, il 25 gennaio 1947, della Commissione per la Costituzione (o dei Settantacinque) in seduta plenaria, che si dovesse adottare il testo predisposto dal Comitato di redazione che recitava «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», aderendo altresì all’emendamento di Giuseppe Bettiol, approvato, rivolto a sostituire il proseguo del medesimo testo con le parole «e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», in luogo delle parole «e non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani».

È ben noto, peraltro, che durante la seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 l’Assemblea Costituente discusse un emendamento proposto dallo stesso Giuseppe Bettiol e da Giovanni Leone, entrambi penalisti di estrazione cattolica aderenti alla c.d. Scuola classica di matrice retributiva, rivolto a sostituire l’intero testo di quello che era divenuto il terzo comma dell’art. 21 del progetto di Costituzione con le parole «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino il processo di rieducazione morale del condannato» (poi modificato in «…o che ostacolino la rieducazione morale del condannato»): espressioni chiaramente intese a depotenziare l’orientamento rieducativo come fine della pena e a concepire la rieducazione stessa come un processo meramente interiore.

Emendamento al quale – nonostante le posizioni precedentemente assunte – aderì anche Aldo Moro, che anzi esplicitò, durante quella seduta, i motivi dell’emendamento stesso: «Sono certo che, in questa sede costituzionale, si vuole anche con la formulazione proposta [dal progetto] lasciare libera la strada, perché domani sia il legislatore, sotto la pressione della coscienza sociale, a decidere in merito agli orientamenti in materia di pene. Tuttavia non posso nascondermi il pericolo che deriva dalla formulazione così come è presentata. Il parlare di pene che devono tendere alla rieducazione del condannato può essere considerato, da parte dei futuri legislatori e da parte degli scienziati di un determinato orientamento, come fondamento di una pretesa ad orientare la legislazione penale italiana in modo conforme ai postulati della scuola positiva».

In sostanza, Moro venne persuaso – per una ragione prettamente ideologica oggi ormai inattuale (la temuta riconduzione della finalità rieducativa agli assunti deterministici della scuola positiva), ma, allora, di natura anche politica (la presa di distanze dal materialismo di matrice marxista) – ad arretrare circa l’affermazione della finalità motivazionale rieducativa come caratteristica irrinunciabile delle pena, pur risultando conforme tale affermazione ai suoi convincimenti sulla centralità del soggetto (in effetti da lui concepito in termini ben diversi rispetto al positivismo) nell’interezza del rapporto penale.

L’emendamento suddetto fu respinto a stretta maggioranza e, dunque, fu fatto proprio dall’Assemblea il testo del progetto di Costituzione: senza che Moro, a quanto consta, se ne sia rammaricato successivamente (si noti, peraltro, che in sede di coordinamento finale il Comitato di redazione invertì l’ordine delle due proposizioni approvate, posponendo, com’è nell’art. art. 27, terzo comma, già richiamato, quanto si afferma in merito all’orientamento rieducativo delle pene).

Non è quindi azzardato ritenere che Aldo Moro, attraverso il suo volume del 1939 (se pure la categoria della capacità giuridica penale abbia manifestato scarsa vitalità), sia da annoverarsi tra i penalisti i quali, nel concreto, hanno più significativamente contribuito all’evolversi, in termini di civiltà, del sistema penale italiano. A riprova, chioseremmo, di come i contenuti sostanziali debbano essere intesi preminenti rispetto alle (transeunti) costruzioni dogmatiche, in quanto mezzo per il loro realizzarsi.

2. Nel solco del precedente, il secondo volume monografico in esame di Aldo Moro (La subiettivizzazione della norma penale) rivela, ove letto a sua volta in profondità, un’impostazione ispirata a principi liberali di notevole interesse, quanto al modo di concepire la potestà punitiva dello Stato, in rapporto al frangente storico nel cui contesto fu redatto: principi ineludibili affinché la persona non naufraghi dinnanzi all’esercizio di tale potestà.

Per Moro «quando sorgano talune situazioni di fatto tipiche, il comando espresso dalla norma appare attuale e concreto in relazione a queste», così che «tale nuovo modo di essere della norma costituisce una situazione giuridica soggettiva» (n. 2)[3]. In altre parole, «la norma giuridica è il mezzo, il come (wie, direbbe Kelsen) di una realizzazione di fatto conforme al diritto; un Seinsollen che esaurisce la sua funzione nel porre l’esigenza di un modo di essere ordinato della vita sociale» (n. 7). E «la soggettivazione della norma si presenta come il meccanismo della attuazione dei fini di tutela propri dell’ordinamento giuridico» (n. 10), in modo da «sistemare gl’interessi umani coesistenti in una società storica» (n. 9). Pertanto «il diritto soggettivo – precisa Moro – è fondamentalmente un mezzo di tutela, e non un mezzo essenzialmente diverso dal diritto oggettivo, ma questo stesso nel suo concreto funzionamento nel mondo dei fatti, in quanto sia riferito ad un soggetto» (n. 12): legittimando «un complesso di attività o di omissioni, normalmente del soggetto stesso titolare dell’interesse», ma riflettendosi «poi in una nuova situazione giuridica soggettiva, quella di obbligo» e per tale via esprimendo «la necessità del porsi di attività o di omissioni di un altro soggetto obbligato».

Ciò premesso, Moro fa valere «la sussistenza, anche in diritto penale, di un autonomo momento precettivo, contro l’opinione diffusa circa il carattere sanzionatorio» del medesimo (n. 21): già in tal modo rimarcando, a ben vedere, la ragion d’essere dialogico-motivazionale, piuttosto che di mero esercizio del potere coercitivo, proprio delle norme penali: «non è tanto il riflettersi caratteristico della sanzione sul precetto, ad attribuire a questo carattere penale, quanto piuttosto il suo operare nell’ambito dell’ordinamento giuridico penale e per i fini propri di questo» (n. 27).

Ne deriva il riconoscimento di un «momento normativo primario» anche nel diritto penale (n. 23), essendo da riconoscersi in esso una volontà normativa primaria e una «secondaria o di sanzione» (n. 29): «Non ci si può allontanare dall’idea – precisa Moro – che fondamentalmente sia unico il volere normativo che si afferma nel diritto in genere ed in quello penale in ispecie; soltanto che esso si presenta in momenti diversi, aventi ciascuno una sua rilevanza autonoma, ma pur sempre come momenti riferibili ad un’unica volontà normativa. Questi corrispondono rispettivamente al momento della norma pura, come si dice, o dell’esigenza primaria; e al momento della sanzione o della legge penale» (n. 30).

Moro a questo punto si chiede, peraltro, «quale sia l’interesse tutelato in modo diretto dalla norma penale» (n. 31), e la risposta conclusiva, sul punto, potrebbe addirittura sorprendere: «l’interesse tutelato dal diritto penale è senz’altro la posizione dello Stato di fronte all’interesse privato» (n. 40). Se ne potrebbe dedurre, infatti, l’adesione all’idea di un’entità Stato prevalente sulla realtà personale di ogni singolo individuo e portatrice di esigenze rispetto ad essa autonome, secondo un orientamento non lontano dall’impostazione originaria del codice Rocco.

A uno sguardo più analitico, tuttavia, le cose si pongono in modo ben diverso. Quando Moro parla di «interessi dello Stato», aventi dunque «evidente carattere pubblicistico», egli si riferisce a interessi della «collettività considerata in modo unitario » (n. 32): per cui nella sfera del diritto penale «vien perseguita l’integrità di beni, che son come termine oggettivo di una relazione d’interesse, di cui soggetto è lo Stato; il quale poi, proprio nella sfera speciale del suo estrinsecarsi, che prende il nome di Amministrazione, assume la caratteristica qualità di portatore d’interessi, la cui soddisfazione persegue con i mezzi posti a disposizione dall’ordinamento giuridico» (n. 32). Posto che il diritto, e dunque anche il diritto penale, «garantendo interessi umani, anche nella sfera più nettamente privata, tutela condizioni di vita associata» (n. 34).

Ciò di cui si tratta nel diritto penale è dunque, per Moro, «l’interesse sociale». E il «termine soggettivo della relazione che ne integra la natura è la collettività, unitariamente considerata, la società medesima che si pone ed opera inter partes, e non nella tipica posizione di sovranità super partes». Infatti, spiega Moro, «Stato sovrano [è] quello da cui emana la norma, che il conflitto degli interessi risolve conforme a intuizioni di giustizia; [lo] Stato sovrano, perciò, [è] al di sopra delle parti in conflitto e dell’urto dei loro interessi, mentre una di queste parti, ammessa a far valere le sue pretese nelle condizioni e nei limiti stabiliti dal potere sovrano, [è] lo Stato Amministrazione, portatore dell’interesse sociale alla integrità di determinate situazioni di vita protette dal diritto penale» (n. 38).

Ulteriormente precisandosi: «Alla integrità dell’interesse, che viene qui in considerazione, è da intendersi interessata in modo specifico tutta la società; nel senso che la possibilità ideale di un’attuazione concreta della posizione del soggetto [singolo] di fronte al bene è tale, da dare soddisfazione ad una esigenza avvertita da un soggetto nuovo, la società. La quale è dunque termine soggettivo di una diversa relazione d’interesse, della quale il termine oggettivo, da considerare in unità complessa, è l’interesse del soggetto singolo» (n. 39).

Rispetto alle previsioni stabilite dalle norme penali, conseguentemente, non c’è, secondo Moro, «un interesse del singolo che abbia rilievo come tale, come situazione autonoma», dovendosi escludere «la possibilità che la norma nel suo processo di concretizzazione incontri il soggetto singolo e si subiettivi nei suoi confronti» (n. 44): dovendosi riconoscere, cioè, «al diritto penale carattere di tutela giuridica di interessi sociali e attribuire a quelli del singolo solo rilevanza materiale» (n. 48).

«È da escludere – conclude Moro su questo punto – che si possa parlare, in diritto penale, di interessi dei singoli, tutelati intenzionalmente dalla legge e perciò di diritti soggettivi di questi. A nostro parere in questo ordinamento sono intenzionalmente tutelati interessi sociali, dei quali è portatore lo Stato nella sua attività amministrativa» (n. 50) [4].

Al centro, pertanto, della riflessione morotea sul modus operandi del diritto penale (sia con riguardo alla «volontà normativa primaria», connessa alla sovranità dello Stato, sia con riguardo al profilo sanzionatorio: v. supra) vi è l’interesse della collettività o, come forse oggi preferiremmo dire, della comunità sociale. E se oggi, del pari, vorremmo considerare lo Stato più che come soggetto di sovranità e titolare di interessi sociali, come apparato al servizio, comunque, dei cittadini e dei beni che per essi abbiano rilievo (non a caso, secondo la Costituzione, «la sovranità appartiene al popolo»), resta la sostanza di una visione del diritto penale, in Moro, strettamente legata al rapporto sociale: profilo, quest’ultimo, nient’affatto secondario, perché è solo in un tale contesto, e non in quello di un mero soggiacere dell’individuo ai poteri pubblici, che diviene possibile argomentare vuoi di una corresponsabilità sociale alla genesi dei reati, vuoi di una finalizzazione risocializzativa delle pene.

Una visione, pertanto, lontanissima dal concepire il diritto penale come espressione tipica del c.d. Stato etico, secondo la prospettiva dei regimi totalitari.

Ed è proprio con riguardo al ruolo dello Stato, sia in quanto potere sovrano, sia in quanto amministrazione, che emerge, ancor più, l’ancoramento nitidamente liberale dell’elaborazione penalistica di Moro.

Simile ancoramento è scandito, con riguardo al primo aspetto, già nell’intitolazione di uno tra i paragrafi del capitolo ad esso dedicato: «la sovranità dello Stato come sovranità che si pone nei limiti segnati dal diritto» (n. 57). Tale sovranità, insiste preliminarmente Moro riprendendo Kelsen, non va confusa con «l’atto fisio-psichico della generazione d’idee di norme giuridiche», con «gli atti degli organi che compiono l’attività legislativa», con la «volontà di coloro che fanno la legge», esprimendo, piuttosto, «la validità (la Geltung) delle norme stesse»: «quando parliamo di sovranità siamo proprio di fronte alla norma che vale, alla Geltung dell’ordinamento giuridico» (n. 56). Ma, una volta «identificato il potere sovrano dello Stato con il potere della norma», Moro aggiunge un’osservazione della più grande importanza: «se poniamo il potere sovrano dello Stato da un lato e la norma dall’altro ed anzi facciamo il primo del tutto indipendente dalla seconda, dobbiamo finire per concludere che, in quanto si abbia riguardo allo Stato nella sua sfera sovrana, non si tratta già di rapporti giuridici che esso stabilisce, ma di rapporti di forza, pura espressione di potenza sussistente in linea di fatto». E, di fronte a questo rischio, la sua risposta è nitidissima: «negare l’esistenza di diritti soggettivi dello Stato, o di fronte allo Stato nella sfera sovrana, non vuol dire disconoscere che vi sia un limite giuridico al potere di questo».

Moro afferma, in particolare, che anche per le norme giuridiche rilevanti onde tracciare quel limite sussista pur sempre una «subiettivizzazione», tale da condurre «a un risultato diverso dai diritti soggettivi veri e propri» e, nondimento, tale da consentire «di parlare, anche in questo caso, di una soggettività giuridica dello Stato» (n. 57): una «soggettivizzazione della norma giuridica nella sfera stessa della sovranità» (n. 58).

L’esito, in questo senso, è di una «limitazione immanente al potere in quanto volontà della norma con riferimento subbiettivo»: per cui «il potere con ideale esattezza coincide con il contenuto della volontà normativa» (n. 59). Anche lo Stato nella sua dimensione di sovranità, dunque, soggiace per Moro alla legge, il che funge da premessa logica per il ruolo esclusivo di un parlamento democratico nella definizione dei poteri dello Stato, con riguardo alla stessa materia penale.

Come già emerso, invece, «la figura giuridica dello Stato Amministrazione è – secondo Moro – del tutto diversa da quella dello Stato Sovrano» (n. 64), che si fa portatore delle norme giuridiche nella forma soggettiva del potere» (n. 63): posto che il primo quale «soggetto di autonomia» è chiamato in ambito penale «a qualificare come giuridiche, nel senso dell’obbligo o dell’autorizzazione, situazioni d’interesse che sono propriamente fuori della sfera della sovranità» (n. 52), così che la «sovranità si mette, per così dire, a loro servizio» (n. 64).

Dal potere proprio dello Stato sovrano, che è cosa diversa da «un diritto di obbedienza» (n. 62), si passa dunque nell’elaborazione di Moro «al diritto soggettivo [proprio] dello Stato Amministrazione (n. 66), il quale «è esso stesso soggetto interessato di fronte a beni e di questi interessi persegue la soddisfazione con volontà, che potremmo dire particolare» (n. 64). Secondo una «posizione che vede nel diritto penale una tutela di interessi di particolare rilievo sociale e configura, in conseguenza, un diritto all’omissione del reato come atto che quegli interessi compromette»: in termini tali che «l’ordinamento penale non tutela quello extrapenale, ma entrambi proteggono gli stessi interessi, se così si vuole, con autonomia di mezzi». Così che «il diritto garantisce il prodursi di un certo ordinamento della società che viene chiamato Stato», e quest’ultimo è «inteso come il complesso degli interessi ordinati dal diritto» (n. 69).

Affermazioni, queste, a loro volta molto importanti perché contengono, in nuce, un riconoscimento del carattere sussidiario caratterizzante il ricorso al diritto penale, in termini di extrema ratio, come pure un riconoscimento del principio di frammentarietà, in base al quale non s’impone la copertura penalistica di qualsiasi modalità d’offesa di un certo bene. Affermazioni peraltro importanti, altresì, perché configurando il compito dello Stato Amministrazione in materia penale come organizzazione della tutela (oggi diremmo) di determinati beni giuridici nell’interesse della società, piuttosto che nel punire secondo criteriologie classiche ipotesi di reato predefinite, superano l’idea del punire stesso come cardine del sistema penale: il che subordina le scelte sanzionatorie al «fine generale di tutela degli interessi umani» (nota XXX) entro quel medesimo contesto sociale di cui è parte lo stesso trasgressore, e le rende differenziabili nelle loro modalità. Del resto, può essere significativo notare che in entrambi i volumi dei quali ci occupiamo mai Moro fa riferimento a una pena di natura retributiva: sebbene il concetto affiori in altri suoi scritti, più però nel senso di una riconferma del diritto rispetto al fatto illecito che non come indicativo di contenuti della pena costruiti in analogia alla negatività di quest’ultimo.

Nella seconda parte del volume in esame, avente per oggetto la fase successiva alla commissione del reato, Moro riprende l’impostazione fino a quel momento seguita, ravvisando pur sempre, nel profilo attivo della vicenda penale, sia l’espressione di un momento di sovranità dello Stato, il potere di punire, sia «l’esistenza del diritto soggettivo dello Stato Amministratore alla punizione, sulla base dell’altro all’omissione del reato» (n. 105, conf. n. 113), espressione non di sovranità ma di autonomia e tale che l’esigenza espressa dalla norma è affidata «a un meccanismo complesso, quello processuale» (n. 104). Per cui, in particolare, «l’attività del pubblico ministero non importa immediatamente il far valere il potere di punire dello Stato, ma rappresenta invece la posizione di autonomia, la quale, nell’atto di affermare le sue ragioni, condiziona appunto lo svolgimento della sovranità penale nella giurisdizione» (n. 113).

Ma mentre, secondo Moro, nella fase anteriore al reato il soggetto singolo si trova in una posizione di soggezione nei confronti del potere sovrano e di obbligo (all’omissione del reato) nei confronti dello Stato Amministrazione («come dunque nel lato attivo del fenomeno di subiettivazione della norma penale si distinguono le due situazioni di potere e di diritto, così pure nel lato passivo si riscontrano due diverse, benché connesse, situazioni giuridiche soggettive: la soggezione e l’obbligo»: n. 75), nella fase successiva permane, invece, un sola posizione del colpevole, rispetto a entrambi i momenti, che è quella di soggezione: con ciò intendendo Moro contestare l’orientamento diffuso all’epoca in cui scriveva di un «obbligo [ancorché meramente negativo] del reo di subire la pena» (n. 84).

Dal punto di vista dello Stato Amministrazione, poi, Moro insiste nell’affermare la natura di parte del pubblico ministero, con ciò offrendo un’indicazione implicita e anticipatoria nel senso della struttura triadica caratterizzante il processo accusatorio: «se c’è un interesse pubblico dello Stato Amministrazione, che costituisce oggetto della tutela giuridica penale, è opportuno ritenere che l’organo del pubblico ministero sia parte in senso proprio [cioè non solo formale] e non operi invece nell’ambito dell’attività sovrana giurisdizionale» (n. 108). Senza che ciò debba ritenersi incompatibile col fatto che l’attività di quell’organo «s’ispiri a criteri di giustizia e di obbiettività», né con la «posizione di imparzialità» del medesimo, la quale implica, precisa Moro, il perseguire «un concreto interesse punitivo, sorgente dalla commissione dei reati, nei limiti voluti dalla legge» (n. 110).

Al che si aggiungono, in conclusione del volume, alcune considerazioni sull’inquadramento nel quadro dogmatico che precede delle condizioni obiettive di punibilità e delle c.d. cause di estinzione del reato e della pena: le prime, secondo Moro, «si aggiungono al reato, per perfezionare la fattispecie e concorrono quindi, come ultimi elementi essenziali, a produrre il modo di essere concreto ed efficace della norma», le seconde « disfanno quello che il reato ha fatto, determinando il venir meno della efficacia giuridica propria della fattispecie e conseguentemente la subbiettivazione, in quella situazione storica, della norma penale» (n. 119).

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Parlava Aldo Moro, in uno scritto del 1945 immediatamente successivo alla fine del secondo conflitto mondiale[5], di una «rinascita» che comincia da una «comprensione attenta e spregiudicata» circa «gli aspetti lacunosi ed ingiusti della nostra esperienza sociale»: compito che attribuisce, in particolare, agli uomini di cultura, che, innanzitutto, devono cercare di «capire».

In certo modo, possiamo leggere gli stessi volumi giuridici di Moro anteriori alla liberazione nel solco di questi propositi: muovendo pur in età molto giovane da un ponderoso confronto ad armi pari con i cultori della teoria giuridica e del reato che lo hanno preceduto (come emerge anche attraverso il carattere rispettoso ma molto diretto delle critiche che rivolge loro), Moro delinea una sua personale lettura, in aspetti importanti, della dogmatica penale nello snodo delicatissimo costituito dal passaggio, ormai avvertito ineludibile, dal totalitarismo verso una struttura democratica rinnovata dello Stato: lettura la quale propone spunti di evoluzione significativi dell’intera materia che non sarebbero rimasti privi di fecondità, né, per certi aspetti, l’hanno tuttora esaurita.

Note

  1. Su di essa e sulle sue possibili accezioni v. R. Dell’Andro, voce Capacità giuridica penale, in «Enciclopedia del diritto», Milano, Giuffrè, 1960, vol. II, pp. 104 ss.; G. Bettiol, Diritto penale, Padova, Cedam, 198211, pp. 407 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Milanofiori Assago, Wolters Kluwer - Cedam, 201710, p. 107; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 20209, Giuffrè Francis Lefebvre, pp. 199 ss.; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 20043, Giuffrè, sub art. 3, p. 83.

  2. Entrambe le monografie sono suddivise in paragrafi numerati.

  3. Osserva G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, in «Il politico», 1980, I, p. 32: «Era l’epoca del rapporto giuridico, e cioè della subiettivazione della norma, in ogni ramo del diritto. Santi Romano aveva elaborato la sua dottrina sulle potestà in contrapposizione ai diritti soggettivi ed aspirava a vederne l’applicazione in ogni ramo del diritto pubblico. Carnelutti esaltava la coppia diritto soggettivo-obbligo in contrapposizione a quella potestà-soggezione e puntualizzava in modo sempre più raffinato le varie figure di situazioni soggettive. In ogni settore le opere sul diritto soggettivo e sul potere giuridico in generale si susseguivano senza posa. Anche i penalisti dovevano dunque riesaminare il vecchio bagaglio tradizionale».

  4. «Moro affronta il tema della tutela penale approdando alla conclusione che questa non avviene mai creando nei singoli dei diritti soggettivi: anzi, la legge penale protegge l'interesse sempre oggettivamente, prescindendo dal fatto che esso sia elemento di un diritto soggettivo extrapenale. Peraltro la tutela degli interessi protetti non è mai oggettiva [cfr., nel testo di Moro, il n. 48] perché ogni interesse si personalizza o subiettivizza in un diritto soggettivo dello Stato-amministrazione», diritto che «va tenuto distinto dal potere di sovranità giuridica penale (quella che altri chiama potestà punitiva)»: così G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, cit., p. 33.

  5. Non possiamo disperare perché possiamo capire, in «Studium», 10, 1945, p. 290.