«L’antigiuridicità penale», edita nel 1947, è la terza delle quattro monografie penalistiche di Aldo Moro.
L’opera - che valse al suo Autore, nello stesso anno di pubblicazione, la cattedra universitaria di Istituzioni di diritto e procedura penale presso l’Università di Bari[1] - segna la fase più matura della produzione penalistica di Aldo Moro, assieme al successivo lavoro «Unità e pluralità di reati. Principi», edito del 1951.
Negli anni precedenti «L’antigiuridicità penale», Moro si era occupato di categorie giuridiche ben specifiche - quali la «capacità giuridica penale» e la «subiettivazione della norma penale», con le omonime monografie, edite rispettivamente del 1939 e del 1942 - entro quel movimento scientifico che aveva condotto alla c.d. «civilizzazione» (Zivilisierung) del diritto penale[2], spesso criticata per l’eccessiva formalizzazione e astrazione dei concetti e dei problemi giuridici[3].
Con le opere del dopoguerra, Moro si allontana da questo metodo di ricerca e affronta temi più vasti e complessi: con «L’antigiuridicità penale» si misura con il concetto stesso («l’essenza»[4]) del reato; mentre con «Unità e pluralità di reati. Principi», studia il problema del concorso apparente di norme e di reati.
Più nello specifico, con «L’antigiuridicità penale», Moro si confronta con i grandi temi della teoria generale del reato, dando definitiva prova di grande acume e ingegno.
Così Giuliano Vassalli ricorda l’opera:
«Certo quel suo volume era problematico, difficile di lettura, qualche volta eccessivamente sfumato nel costante riconoscimento degli elementi di validità contenuti in contrastanti dottrine; ma quanta ricerca e quanto ingegno! e quanta sensibilità ai valori umani sotto il linguaggio tormentato e la complessità dei concetti giuridici!»[5].
Come si è anticipato, nel volume «L’antigiuridicità penale», Aldo Moro affronta tutta la teoria generale del reato: dal concetto di bene giuridico a quello di colpevolezza, dalla struttura del reato alla sistematizzazione delle cause che escludono l’antigiuridicità.[6]
Nel dibattito giuridico dell’epoca, infatti, l’«antigiuridicità, cui Moro dedica i propri studi, stava a indicare genericamente ciò che contraddistingue il reato in mezzo ai fatti giuridici, e, più nello specifico, il contrasto tra fatto e diritto (ciò che, quindi, rende il reato, ‘reato’).[7]
All’epoca, pertanto, il concetto di «antigiuridicità» non rinviava - come comunemente s’intende oggi[8] - alla mera assenza di cause di giustificazione, ma, più ingenerale, riguardava il giudizio di disvalore operato dal legislatore (e dal giudice)[9] sul fatto di reato.
Così, in «Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale», Moro spiega l’antigiuridicità:
«ad un certo momento si è cominciato a pensare, dovendosi trovare questa caratterizzazione ulteriore del fatto come reato, […] a qual è il suo rapporto, il rapporto di questo fatto con l’ordinamento giuridico»[10].
«E allora, ecco che la dottrina ha introdotto un altro elemento del reato, un’altra nota caratteristica. Qui si tratta di un fatto umano, si tratta di un’opera dell’uomo che sia però contraria al diritto, cioè che abbia […] un confronto che si concluda con una valutazione negativa» [11].
E ancora:
«si è introdotta nella concezione del reato il riferimento alla cosiddetta antigiuridicità. Cioè si è intuito che il reato non è, non può essere, un fatto come qualsiasi altro, ma è un fatto caratterizzato in ragione di un rapporto, di un riferimento al diritto; è caratterizzato in termini di contraddizione tra fatto e diritto. Mentre per una serie di attività umane, che sono rilevanti per il diritto, il riferimento al diritto è in termini positivi, è in termini di conformità al diritto, è in termini di armonia tra finalità umane e finalità sociali, invece per il reato, il rapporto con il diritto è un rapporto di contraddizione: da qui l’espressione antigiuridicità».[12]
Il termine antigiuridicità, nel suo significato univoco - unitariamente riconosciuto, a prescindere dalle differenti correnti di pensiero - indicava quindi generalmente la contrarietà tra fatto e diritto.
Su questa base di significato comune, si innestavano poi molteplici teorie, che in vario modo intendevano il contrasto tra fatto e diritto.
Negli anni in cui scriveva Moro, l’antigiuridicità era al centro di un dibattito dottrinale intenso, tanto in Italia, quanto in Germania (come noto, referente per eccellenza per la penalistica italiana).
Icasticamente, in un saggio fondamentale per l’epoca, Giacomo Delitala riconosceva come la definizione di antigiuridicità, per cui «agisce antigiuridicamente chi agisce contra ius»[13], «è concordemente ammessa da quasi tutta la dottrina»[14], «ma chi, movendo da questo porta tranquillo, sperasse di poter procedere facilmente più innanzi, si accorgerebbe subito di essersi ingannato: nessun’altro territorio della nostra disciplina è, al pari di questo, irto di tante asperità»[15].
Non è questa certamente la sede per ripercorrere l’intenso e complesso dibattito sviluppatosi attorno al concetto di antigiuridicità[16], ribadendosi che, rinviando questo concetto a nient’altro se non alla negazione stessa del diritto, le controversie sull’antigiuridicità riguardavano sostanzialmente tutta la teoria generale del reato[17].
Per meglio orientarsi all’interno dell’opera morotea, tuttavia, è utile fornire alcune coordinate fondamentali sul tema e, in particolare, sulla contrapposizione tra antigiuridicità oggettiva e i fautori dell’antigiuridicità soggettiva; per cui, in estrema sintesi: «chi si riporta a un criterio obiettivo di valutazione del fatto, obbietivizza l’antigiuridicità come torto, staccandola dagli altri elementi del reato, mentre chi considera l’antigiuridicità anche nel suo aspetto psicologico, vi coinvolge cioè un momento subiettivo, allora non vede antigiuridicità dove non c’è colpevolezza»[18].
Più nello specifico, secondo i sostenitori dell’antigiuridicità obiettiva [19], questa doveva essere intesa in senso oggettivo, come lesione degli interessi tutelati, a prescindere dalla colpevolezza del soggetto agente.
Il fatto antigiuridico era cioè la situazione obiettivamente offensiva del bene giuridico, rinviandosi a un secondo momento il giudizio sulla colpevolezza del soggetto agente, giudizio che in nessun modo poteva influenzare quello sulla antigiuridicità.
In questa prospettiva, è bene sottolineare che l’antigiuridicità veniva pur sempre intesa come contrasto tra fatto e diritto, ma il diritto era concepito in senso obiettivo, come norma di valutazione (Bewertungsnorm)[20] , ossia «come base di valutazione oggettiva di ciò che è favorevole o sfavorevole all’interesse tutelato»[21].
In particolare, la norma di valutazione, a differenza della norma di comando che si rivolge ai destinatari motivandoli, avrebbe considerato un determinato comportamento per come esso incide - su un piano astratto e obiettivo - sui beni tutelati, a prescindere dalla riprovevolezza del soggetto agente[22].
Per questo motivo, il diritto, nella sua funzione valutatva, si sarebbe indirizzato a tutti e finanche ai soggetti incapaci[23], descrivendo situazione di fatto disvolute.
Rispetto alla norma di valutazione, pertanto, il fatto contra ius (anti-giuridico) era la situazione obiettivamente contraria a quella voluta dal legislatore; tra l’azione e l’evento, secondo gli oggettivisti, rilevante per il diritto doveva dunque considerarsi senz’altro quest’ultimo, quale modificazione della realtà che il diritto mirava a scongiurare.
A questa concezione di fatto e di diritto, si accompagnava inoltre uno specifico modo di intendere il reato, concependosi l’antigiuridicità oggettiva come un elemento dell’illecito penale; illecito che, a sua volta, era considerato in un’ottica tripartita come una somma di elementi tra loro distinti (fatto, antigiuridicità e colpevolezza) [24].
Nello specifico, la considerazione ‘disgiunta’ dei singoli elementi del reato, con riguardo alla categoria dell’antigiuridicità, permetteva (tra le altre funzioni)[25] di riconoscere l’esistenza del c.d. «torto obiettivo», ossia del fatto antigiuridico ma non colpevole.
Il torto obiettivo, che come tale apparteneva a pieno titolo al mondo giuridico, serviva, secondo gli oggettivisti, a spiegare diversi fenomeni del diritto: l’applicazione di misure di sicurezza ai soggetti incapaci, la sussistenza della legittima difesa di fronte all’offesa dell’incapace, i casi di responsabilità oggettiva, l’esistenza del concorso di persone con soggetti incapaci, così come la configurabilità della ricettazione nel caso in cui la cosa derivi dal fatto del non imputabile.[26]
In tutti questi casi, il legislatore avrebbe dato rilievo al fatto obiettivamente antigiuridico, cioè tale a prescindere dalla partecipazione soggettiva del soggetto agente (così l’applicazione delle misure di sicurezza anche ai soggetti incapaci presupponeva l’esistenza di un fatto ingiusto ma incolpevole; allo stesso modo, la possibilità di difendersi legittimamente dall’offesa dell’incapace implicava l’esistenza di un’offesa ingiusta per quanto non rimproverabile, e via dicendo).
Come secondo elemento del reato, inoltre, l’antigiuridicità comportava l’ulteriore ‘vantaggio’ di poter valutare disgiuntamente dall’illiceità del comportamento (dall’antigiuridicità), l’esistenza del fatto di reato; fatto che, secondo la sistematica tripartita, ‘esisteva’ prima e a prescindere dall’antigiuridicità e dalla colpevolezza.
In questo senso, l’antigiuridicità oggettiva corrispondeva all’elemento della Rechtswidrigkeit, derivata dalla concenzione di Beling per cui il fatto di reato era intesto come Tatbestand, ossia come dato puramente materiale - naturale. In particolare, in questa concezione, il fatto era «dato dal puro fatto naturale e da null’altro, cioè dalla sola descrizione del fatto nella sua essenza materiale. Si osserva che quando, nella specie concreta, si è accertato che sussiste la corrispondenza al tipo legale, ancora non si sa se il fatto abbia o no rilevanza per il diritto. Di modo che si dovrebbero nettamente distinguere due questioni: l’una relativa al puro fatto, alla sua materialità; l’altra attinente alla valutazione giuridica del fatto materiale, cioè al suo modo di essere in rapporto al diritto».[27]
In questo modo, ‘staccando’ l’antigiuridicità oggettiva dal fatto, la categoria rispondeva all’esigenza di indagare, dopo l’esistenza del fatto naturalistico, il suo contenuto offensivo rispetto agli interessi tutelati dalla norma (valutazione quest’ultima che, appunto, apparteneva al momento dell’antigiuridicità).
In questa prospettiva, la corrispondenza del fatto al Tipo veniva considerata mera ratio cognoscendi (e non ratio essendi) dell’antigiuridicità, la quale richiedeva, oltre alla tipicità, intesa come formale corrispondenza tra fatto e fattispecie, altresì la concreta lesione degli interessi tutelati, ossia l’antigiuridicità in senso obiettivo.[28]
Propugnando una considerazione autonoma del fatto, che precedeva la valutazione sull’antigiuridicità e la colpevolezza, gli oggettivisti intendevano contrastare le istanze ideologiche della scuola Kiel[29], che, proprio ‘sbarazzandosi’ dell’elemento ‘artificiale’ del fatto, aveva sostenuto una visione unitaria del reato, in forza della quale «lo studente e il giudice […] debbono […] subito distinguere l’assassinio dall’uccisione doverosa, come quella del nemico in combattimento»[30]. Secondo questa visione unitaria del reato, in sostanza, l’illecito penale non avrebbe avuto nulla in comune con l’episodio lecito, neppure il fatto stesso: «il carnefice non commette un fatto di omicidio, o il medico che interrompe per necessità la gravidanza non commette alcun fatto di aborto»[31].
Di contro, per evidenziare la medesimezza del fatto tra i casi giustificati e non (e soprattutto per mettere in rilievo il dramma che il fatto porta sempre con sé, anche quando l’uccisione risulti scriminata), i sostenitori della sistematica tripartita avevano distinto nettamente il fatto dall’antigiuridicità, perché «il medico, che per fondate ragioni sanitarie interrompe la gravidanza, deve aver ben chiaro che egli uccide un feto; il soldato deve sapere che egli uccide; ed entrambi debbono rendersi conto che si tratta di accadimenti gravi e carichi di dolore, che abbisognano di una speciale giustificazione»[32].
Circa la netta distinzione tra fatto, antigiuridicità e colpevolezza, occorre, peraltro, segnalare che in alcuni Autori tale differenziazione era netta e marcata; in altri, di contro, si ammettevano momenti di contatto tra le varie categorie, l’esistenza di vere e proprie ‘zone grigie’. Così, a volte, si riconosceva nel fatto l’esistenza di elementi normativi (che rinviano a un giudizio di valore sul fatto e, pertanto, sarebbero propri dell’antigiuridicità)[33]; ovvero, si intravedeva nell’antigiuridicità l’esistenza di elementi soggettivi (per cui il giudizio di disvalore risulterebbe eccezionalmente condizionato dall’intenzione dell’agente)[34].
Dal punto di vista del metodo, infine, pare opportuno evidenziare come questa considerazione ‘disgiunta’ degli elementi del reato fosse il portato del metodo analitico a carattere logico formale (detto anche metodo della considerazione parziale del reato), che si contrapponeva a quello della considerazione unitaria dell’illecito penale, «per il quale» invece «il reato si presenta come un’entità che non si lascia scindere in elementi diversi»[35] (su cui v. infra par. 3.3).
In particolare, ferma restando in ambedue i casi la possibilità di individuare analiticamente i diversi ‘aspetti’ del reato, ossia di scomporre l’illecito penale nelle sue diverse parti (giacché «[a]l procedimento d’analisi si deve riconoscere il carattere di una naturale esigenza del conoscere»[36]), ciò che distingueva il metodo analitico da quello unitario, era la possibilità - riconosciuta dalla primo e negata dal secondo - di considerare ciascuna categoria come una ‘realtà’ a sé, come un elemento autonomo e a sé stante.
Come anticipato, la concezione oggettiva dell’antigiuridicità era contrastata dai teorici dell’antigiuridicità soggettiva[37], che sostenevano non solo un diverso modo di intendere l’antigiuridicità (il contrasto tra fatto e diritto), ma altresì una differente concezione di diritto e una differente sistematica del reato.
Anzitutto, l’antigiuridicità era intesa da tali Autori come contrasto essenzialmente subiettivo al diritto, che più che riguardare una situazione oggettivamente contraria al diritto, era invece relativa al reo e alla violazione (subiettiva) del comando legislativo.
I sostenitori dell’antigiuridicità subiettiva, infatti, ritenevano che la funzione del diritto fosse primariamente quella di comando; funzione che, in ogni caso, non era ‘staccabile’ da quella di valutazione (pure presente alla base del comando legislativo)[38].
In particolare, poiché «è dalla volontà umana, e soltanto dalla volontà umana, che dipende l’attuazione del diritto»[39], i sostenitori dell’antigiuridicità soggettiva sostenevano che è «influenzando tale volontà che deve svolgersi l’azione regolatrice del diritto. Il quale pertanto si riduce essenzialmente a un sistema di forze che crea vincoli, cioè obblighi, alle volontà degli uomini associati; quindi un sistema di imperativi, e di mezzi per assicurarne l'osservanza»[40].
Il diritto era essenzialmente norma di disposizione o di comando (Bestimmungsnorm), «rivolt[a] ai destinatari dell’obbligo, e costituent[e] base per la valutazione della colpevolezza»[41].
Perché il fatto possa dirsi in contrasto col diritto (inteso nella sua essenziale funzione di comando) e quindi antigiuridico, era dunque necessario, per i soggettivisti, accertare sempre un coefficiente soggettivo, almeno la capacità di recepire l’imperativo e la volontà di trasgredirlo (meglio, di non rispettare l’obbligo di legge)[42]. In altri termini, «perché possa verificarsi qualche cosa che è contro il diritto e quindi antigiuridico, non basta che una forza qualunque giunga ad una realizzazione diversa e magari opposta a quella cui tende il diritto; ma è necessario che il diritto sia contrastato sulla sua stessa via, nel movimento e nell’azione che gli sono proprii, nella manifestazione che gli è essenziale»[43].
In questa prospettiva, le azioni degli incapaci non sarebbero state antigiuridiche (contrarie al diritto), poiché i non imputabili non sono, per definizione, in grado di recepire l’imperativo di legge e di orientarsi di conseguenza. Le loro azioni, tutt’al più, sarebbero state contrarie all’interesse tutelato dalla norma, ma non alla norma stessa (al comando in essa contenuto) perché «l’antigiuridicità è sempre e soltanto soggettiva»[44].
Tra l’azione e l’evento, inoltre, secondo la corrente soggettivistica, rilevante per il diritto sarebbe stata primariamente l’azione, quale espressione della volontà riprovevole[45].
L’evento - inteso in senso giuridico e pur riconosciuto come necessario, giacchè la disobbedienza è punibile solo dove si accompagni a un turbamento dei valori sociali - veniva invece sostanzialmente volatizzato o nella forma di pericolo presunto dal legislatore[46] o nella forma di mera condizione di punibilità[47].
Ancora, dal punto di vista della sistematica del reato, poiché l’azione antigiuridica era intesa come espressione della colpevolezza del soggetto agente, dalla concezione dell’antigiuridicità in senso subiettivo derivava una visione unitaria del reato, che recuperava nel fatto - nell’azione - quella componente soggettiva che gli oggettivisti avevano ‘relegato’ alla sola categoria della colpevolezza.[48]
Alla visione unitaria del reato conseguiva poi la concezione dell’antigiuridicità, non come un elemento dell’illecito penale, come tale ‘staccabile’ dalle altre parti, ma come carattere stesso del reato[49], «l’essenza stessa, la natura intrinseca, l’in sé del reato»[50], che lo investe tutto.
Proprio di tale concezione, quindi, era il metodo della considerazione unitaria (o sintetica) dell’illecito penale, per cui, sebbene sarebbe possibile considerare i diversi aspetti del reato disgiuntamente a fini d’analisi, cionondimeno nessuno di essi potrebbe esistere come realtà a sé stante (e per questo motivo non potrebbe riconoscersi l’esistenza del c.d. torto obiettivo)[51].
L’analisi propugnata dal metodo unitario si presentava quindi come «una operazione non di separazione, ma di distinzione delle varie parti. L’analisi non dissolve, ma costruisce e rafforza l’unità; e gli elementi che ne derivano, lungi dal diventare entità staccate o frammenti che non si ricompongono, altro non sono che momenti della nostra visione del reato, prospettive distinte del nostro pensiero, partizioni del discorso intorno all’oggetto»[52].
Ripercorse le posizioni degli oggettivisti e dei soggettivisti, è ora possibile esaminare da vicino la teoria unitaria dell’antigiuridicità, che Moro illustrata nell’opera «L’antigiuridicità penale»[53].
Una precisazione preliminare, anzitutto, appare doverosa con riguardo al titolo dell’opera e, più precisamente, all’attributo “penale” che qualifica il termine “antigiuridicità”. L’aggettivo, infatti, vale a segnalare il convincimento di Moro - che tuttavia non trova ulteriore esplicazione all’interno dell’opera - circa l’efficacia esclusivamente penale delle cause di esclusione dell’antigiuridicità.
All’epoca, infatti, il dibattito sull’antigiuridicità riguardava altresì l’efficacia penale o universale delle cause di liceità, corrispondendo ai due diversi modi di intendere l’antigiuridicità, rispettivamente le espressioni “antigiuridicità penale” e “antigiuridicità” tout court o “antigiuridicità generale”[54].
La differente visione sull’efficacia universale o solo penale delle cause di liceità, rifletteva, peraltro, un diverso modo di intendere il diritto penale, poiché l’antigiuridicità generale (e cioè l’efficacia universale delle cause di giustificazione) veniva tendenzialmente ricollegata al riconoscimento del carattere sanzionatorio del diritto penale, sostenendosi che, se questo si limita a sanzionare precetti appartenenti ad altri rami dell’ordinamento, giocoforza le cause di giustificazione devono rendere lecito il comportamento pure con riferimento a questi ulteriori ambiti del diritto.[55]
Per questo motivo, è stato sostenuto come la posizione negatrice dell’efficacia universale delle cause di liceità fosse «già insita nel generale rifiuto della Normentheorie del Binding. Se non è possibile riconoscere autonomi comandi o divieti dell’ordinamento giuridico generale, dei quali le leggi penali altro non rappresentino che la sanzione, se viceversa deve ritenersi che ogni norma penale è fatta di un suo proprio precetto oltre che di una sanzione, altro non esiste che una “illiceità giuridica unicamente penale”»[56].
Il termine «antigiuridicità penale», che dà titolo all’opera monografica di Moro, segnala, nel dibattito dell’epoca, l’adesione dell’Autore a questa posizione, della «illiceità giuridica unicamente penale».
Venendo ora all’esame della teoria unitaria dell’antigiuridicità penale, che Moro illustra nell’opera omonima, occorre anzitutto partire dalla nozione di diritto, da cui poi consegue la definizione di antigiuridicità, quale contrasto, appunto, tra fatto e diritto.
Come si è visto retro (par. 3 ss.), infatti, le contrapposte teorie dell’antigiuridicità derivavano a monte da una diversa concezione del diritto: se per gli oggettivisti il diritto era norma di valutazione e, di conseguenza, il fatto contra ius era rappresentato dalla situazione obiettivamente contraria a quella voluta dal legislatore (l’evento del reato); per i soggettivisti, il diritto era essenzialmente comando e il fatto contrario al diritto poteva essere costituito solo dall’azione, quale espressione della violazione dell’obbligo di legge.
Come si è anticipato, rispetto alla nozione di diritto, Moro adotta invece una concezione unitaria, considerando la norma «comando e valutazione insieme»[57], giacché il diritto comanda sempre a uno scopo.
Nello specifico, secondo l’Autore, il diritto presenta entrambe quelle funzioni che, in maniera disgiunta, soggettivisti e oggettivisti avevano posto alla base delle proprie teorie.
Secondo Moro, infatti, nella norma esistono e non sono separabili:
(a) il momento della valutazione, che opera su un piano oggettivo e astratto e indica il «concreto contenuto di scopo» del reato, il «suo perché»[58] (in termini moderni, l’offensività del reato); nonché
(b) il momento del comando, che opera su un piano soggettivo e concreto (poiché, per divenire concretamente operativa, la norma deve subiettivarsi, raccogliersi in capo a un soggetto cui comanda di tenere o meno un determinato comportamento) e che indica il «come»[59] del reato, cioè il come della lesione degli interessi tutelati (anticipandosi temi che si vedranno più avanti, è questo il piano della colpevolezza).
Da questa concezione di diritto, come imperativo che comanda sempre a uno scopo, Moro deriva poi in maniera coerente il contenuto dell’antigiuridicità (il contrasto tra fatto e diritto), che viene costruito in maniera speculare alla concezione della norma, come fatto che contrasta tanto col momento oggettivo della valutazione, quanto col momento soggettivo del comando.
In particolare, nella concezione unitaria dell’antigiuridicità, il fatto di reato deve contrastare con la ‘doppia anima’ del diritto e deve, pertanto, presentarsi come:
(a) subiettiva violazione dell’obbligo che la norma pone in capo all’agente, poiché il diritto è (anche) imperativo che si indirizza al soggetto agente; per cui: «presupposto della qualificazione di un comportamento come antigiuridico è l’imputabilità; condizione che dev’essere in concreto realizzata, la colpevolezza dell’agente»[60]; nonché
(b) compromissione degli interessi tutelati, perché non basta il contrasto del fatto rispetto «all’astratto schema normativo, ma anche al contenuto concreto degli interessi, la cui tutela costituisce scopo della norma»[61].
Il fatto antigiuridico è costituito quindi da un aspetto oggettivo - «un contenuto di scopo diverso da quello che doveva essere perseguito»[62] (in termini moderni, l’offensività) - e un aspetto soggettivo - un’«energia spirituale diversa da quella che doveva svolgersi»[63] (in termini moderni, la colpevolezza) -, che corrispondono ai due momenti (contraddetti dal reato) del diritto (quello oggettivo di valutazione e quello soggettivo di comando).
Nel secondo e nel terzo capitolo della sua opera, Moro illustra approfonditamente questi aspetti della contrarietà al diritto, affrontando e risolvendo le questioni che allora riguardavano tanto l’aspetto oggettivo del reato, quanto quello soggettivo - rispettivamente: il modo di intendere il fatto e la lesione degli interessi tutelati, e la nozione di colpevolezza.
Quanto al primo aspetto, quello oggettivo, Moro precisa nel secondo capitolo dell’opera quale ‘parte’ del fatto deve risultare antigiuridica (se solo l’azione o solo l’evento, o se l’uno e l’altro insieme) e come deve essere inteso il contrasto agli interessi tutelati; contrasto che rappresenta il ‘cuore’ del momento obiettivo dell’antigiuridicità.
Per quanto riguarda azione ed evento, anzitutto, Moro adotta ancora una volta una posizione unitaria e rifiuta una concezione solo oggettivistica - che riduce il disvalore oggettivo del fatto all’evento - ovvero solo soggettivistica - che viceversa polarizza il disvalore esclusivamente sull’azione -, ritenendo che il momento oggettivo dell’antigiuridicità debba risultare dalla considerazione sintetica di questi due momenti, evento e azione assieme.
Nello specifico, la posizione degli oggettivisti è rifiutata nella misura in cui riduce il diritto a «mero fatto, modo di essere della realtà»[64], oscurandone invece «il processo di formazione»[65] (ossia la proposizione di esigenze ai singoli, in modo tale da orientarne i comportamenti); «il fatto», viceversa, «è significante solo se rechi in sé implicito un valore normativo che lo determini e in esso s’incarni»[66] (il momento del comando ‘inascoltato’ dal soggetto agente, che ad esso si oppone).
La seconda posizione, d’altro canto, neppure può essere accolta perché, riducendo il diritto a mero comando, ne trascura il contenuto, la sua ragion d’essere: «il diritto, ridotto a pura forma senza contenuto, non ha più natura di diritto»[67].
I due momenti del fatto devono invece essere valutati unitariamente per dare contenuto al momento oggettivo dell’antigiuridicità[68]: se sicuramente rilevante deve considerarsi l’evento, perché la norma deve essere contrastata nel suo essenziale contenuto di scopo, altrettanto deve dirsi per l’azione, la posizione soggettiva del soggetto agente, perché «il diritto non può mai essere contrastato che da un comportamento umano e mai da uno stato»[69].
Pertanto: «anche nella teoria dell’azione, come già in quella della norma, si conferma che il problema è di distinzione e di integrazione di due diversi momenti nella complessa e unitaria realtà del reato. Né l’azione né l’evento possono essere considerati indifferenti al diritto, chè propriamente l’azione non è illecita a prescindere dall’evento in cui sbocca né l’evento astrazione fatta dall’azione da cui nasce»[70].
Precisato che per evento si intende l’evento giuridico, azione ed evento in una prospettiva unitaria sono «due aspetti di una stessa realtà»[71], ossia della lesione degli interessi altrui; «azione ed evento sono così rispettivamente il momento dinamico e quello statico della lesione degli interessi»[72].
La “lesione degli interessi” dà quindi corpo al momento oggettivo dell’antigiuridicità, concretandosi - in potenza - nell’azione e - in atto - nell’evento.
Sul punto, per comprendere la concezione unitaria dell’antigiuridicità, occorre precisare che il termine interesse viene preferito da Moro a quello di bene giuridico per evidenziare «l’immanente significato soggettivo» dell’evento giuridico, ossia la posizione dinamica del soggetto che tende alla lesione degli interessi[73].
Come illustrato nelle Lezioni di Diritto e Procedura Penale, infatti, nell’espressione “interesse” vi è implicito un «significato di relazione», giacché per interesse «intendiamo la posizione, l’atteggiamento, il modo di essere di un soggetto di fronte ad un bene della vita»: «“interesse” è la tensione, è la posizione, ma è una posizione dinamica, è la posizione del soggetto che muove, potenzialmente - magari in una forma di energia frenata - ma muove potenzialmente verso l’impossessamento del bene di qualsiasi natura: cioè quella spinta della volontà che tende a prendere in sé, a consumare in sé»; e quindi «“interesse” è, per così dire, la volontà del soggetto in istato di fermo, è, per così dire, la tensione che anima il soggetto nel confronto di un bene che non è ancora però fatto proprio, consumato, appropriato dal soggetto»[74].
Si noti in ogni caso che nel momento oggettivo dell’antigiuridicità non viene in considerazione il movente vero e proprio del soggetto, ma «lo scopo oggettivo dell’azione, la causalità potenziale tipica di questa»[75].
Il concetto di interesse, inoltre, rimanda al soggetto (meglio, alla persona) anche in un altro senso, giacché Moro dà corpo all’interesse, al bene giuridico protetto dalla norma, rifiutando una concezione metodologica del bene e polarizzandone il contenuto sulla persona; ossia, sul «valore autonomo della persona», che non può mai essere oscurato a favore di una comunità spersonalizzata, astratta e trascendente il valore personale.
In particolare, considerando il concetto metodologico di bene giuridico, Moro evidenzia come tale teorica «non import[i] alcun progresso, in quanto si risolve nel contrassegnare con una diversa parola lo scopo della legge, del quale in tal modo non si è detto nulla di più di quanto sapevamo»[76].
In realtà il motivo centrale di questa concezione è che «si rifiuta di ammettere che siano tutelati beni giuridici come situazioni di interesse di soggetti determinati che assumano posizione ben definita e autonoma di fronte alla comunità ordinata a Stato, e che, d’altra parte, facendo titolare degli interessi […] lo Stato, questo venga protetto quasi per concessione sovrana del diritto e nei suoi limiti»[77].
Si finisce così per accordare tutela a una comunità concepita «in modo tutto obbiettivo e senza rilievo di autonomia per i particolari che entrano a comporre il tutto»; per il diritto diviene «comando rivolto ai sudditi, ma non mai tutela»[78].
Contro una concezione siffatta di bene giuridico (che rimanda a una ben precisa idea di Stato e diritto)[79], Moro riafferma invece il valore della persona umana[80]:
«[n]oi pensiamo che la vita sociale, se è, com’è certamente, fatto umano e spirituale invece che brutale meccanismo di forza fisica in opera, non può essere costruita, se non partendo dal valore autonomo della persona. […] La società è, in quanto il soggetto trovi se medesimo come verità negli altri, sicchè essa resta, pur nel suo valore obbiettivo, un sistema di relazioni che hanno centro nella personalità; non è meccanismo di forze manovrate dall’alto, […] ma armonia di soggetti in perpetuo svolgimento nel senso della solidarietà»[81].
Come specificato anche nelle Lezioni di Diritto e Procedura Penale, «quando diciamo che la norma penale tutela interessi, disciplina interessi, intendiamo dire che essa ha riguardo a valori della vita di sociale, ma sempre riferiti ad un soggetto […], sempre beni propri di un soggetto; e la difesa del diritto è, quindi, difesa del bene di quel soggetto»[82].
Il valore umano della persona, evidenziato con riguardo al momento oggettivo della tutela degli interessi, viene ancor più valorizzato nell’analisi del momento soggettivo dell’antigiuridicità, «indicato tradizionalmente come colpevolezza»[83], cui Moro dedica il terzo capitolo dell’opera.
Rispetto alla colpevolezza, anzitutto, Moro rigetta la posizione kelseniana che riduce l’aspetto soggettivo dell’antigiuridicità a obiettiva imputazione (Zurechnung), nesso esteriore e obiettivo che lega il fatto al soggetto e che limita ma non fonda la punibilità[84].
Nella concezione kelseniana, infatti, l’imputazione (Zurechnung) designa la connessione che la norma instaura tra illecito e sanzione per mezzo della copula «dover essere». Nell’ambito delle scienze normative (cioè di quelle scienze che «si occupano del comportamento umano, non come effettivamente si manifesta secondo il principio di causa ed effetto nella sfera della realtà, ma come dovrebbe manifestarsi in base a una determinazione normativa, cioè nella sfera dei valori»)[85], il principio dell’imputazione risulta poi, secondo Kelsen, «diverso ma analogo a quello della causalità: l’uno compie nelle scienze sociali ciò che l’altro compie nelle scienze naturali»[86] (appunto, la connessione, il collegamento tra due elementi tramite la medesima forma grammaticale: «il giudizio ipotetico (proposizione) che collega un fatto considerato come conseguenza»)[87].
Questa concezione, tuttavia, viene rifiutata da Moro perché riduce la colpevolezza a «mera forma esteriore»: «l’essere il soggetto tale che il fatto possa comunque essergli riportato come contrario all’ancora oggettiva esigenza che il diritto propone»[88]. Sicché, «questo rispondere pel fatto appare, per così dire, mera creazione giuridica ed in tal senso non tanto si è responsabili, quanto piuttosto si è fatti tali […]. Questo essere fatti socialmente e perciò giuridicamente responsabili, come cosa che viene dall’alto, […] risponde a sua volta alla intuizione dominante nella scienza (si ricordi il diritto obbiettivo con i suoi equivoci) di una sovranità trascendente ed esteriore»[89].
Contro questa «forma base […] di imputazione giuridica»[90], Moro intende invece la colpa come «intima soggettiva contrarietà all’obbligo»[91], come «il rigetto e personale e libero del vincolo»[92]; mentre l’imputazione à la Kelsen rappresenta la «obiettiva realizzazione di scopi illeciti [..] senza considerare il modo, se veramente personale o invece solo obbiettivo, secondo il quale lo scopo illecito venne realizzato»[93].
Quando si considera la colpa, invece, si deve passare «dall’oggettivo e astratto dover essere […] al dovere personale che impegna la coscienza del soggetto e dall’esteriore formale contraddizione del fatto avente un minimo di riferimento soggettivi alla intima opposizione di esso, come veramente soggettivo, al diritto»[94].
Il fatto, dunque, può dirsi “proprio” solo quando vi sia «una appartenenza del soggetto come personale realizzatore dell’illecito contenuto dell’azione in un attivo e consapevole contrasto con l’esigenza proposta dalla norma»[95].
Secondo Moro questo carattere personale deriva dal riconoscimento della colpa giuridica alla stregua di quella etica, essendo il diritto stesso forza etica.
Al fondo della colpevolezza vi è dunque un processo di motivazione irregolare, tale che non doveva essere: è il giudizio di valore del soggetto che contrasta con quello dell’ordinamento e che implica una presa di posizione di fronte ai valori.[96]
La colpevolezza è dunque «soggettiva contrarietà all’obbligo come motivazione irregolare, decisione (Entschluss) presa nella coscienza dell’illiceità»[97].
Ne deriva che il significato della colpevolezza è esaurito per intero nel disvalore etico-sociale del processo di motivazione, che s’incarna nel dolo e nella colpa.
L’imputabilità e l’esigibilità sono invece, secondo Moro, condizioni di tale qualifica negativa «immanente nel processo di volontà come personale contrarietà all’obbligo»[98]: esse «danno significato al processo di motivazione, al concreto atto di volontà che si esprime nel dolo e nella colpa in senso stretto, di cui rendono possibile la qualifica di disvalore»[99].
L’imputabilità e l’esigibilità, pertanto, «in fondo soltanto condizionano il disvalore etico giuridico del processo di motivazione»[100] e, in questo senso, si pongono quali presupposti della colpevolezza (ossia «il processo di motivazione, che, incarnandosi, per così dire, nel dolo e nella colpa in senso stretto, esaurisce intero il significato della colpevolezza»)[101].
Da questa prospettiva, parrebbe che Moro ponga l’imputabilità all’interno del reato, come elemento inerente all’aspetto della colpevolezza, laddove invece, in altre opere, l’imputabilità viene riguardata come un prius necessario dello stesso dell’illecito, in quanto «substrato naturalistico della stessa qualifica di capacità penale»[102].
In un’ottica unitaria, peraltro, il collocamento dell’imputabilità tra i presupposti del reato ovvero tra quelli della colpevolezza non sembra produrre conseguenze di rilievo, venendo meno in ogni caso, al mancare dell’imputabilità, l’illecito penale unitariamente considerato; solo in un’ottica tripartita o quadripartita, infatti, il collocamento dell’imputabilità nella categoria della colpevolezza, e non tra i presupposti dell’illecito, permette di riconoscere anche per i non imputabili la sussistenza di un fatto tipico e antigiuridico, con tutte le conseguenze già sopra viste (supra par.3.1).
In ogni caso, ne «L’antigiuridicità penale», il riconoscimento dell’imputabilità come presupposto della colpevolezza sembra meglio accordarsi a una concezione della categoria - recitus, dell’aspetto del reato - di tipo materiale. La concezione materiale della colpevolezza, invero, «si differenzia da quella formale nella scelta dei criteri di qualificazione normativa, nel senso che, mentre le concezioni formali individuano le linee della fattispecie di colpevolezza in rapporto alle norme punitive di ciascun ordinamento, quelle materiali, rifacendosi ai postulati etici o a istanze critiche, cercano di trascendere il dato formale senza per questo ignorarlo»[103]. La posizione di Aldo Moro, in effetti, sembra, riflettere la concezione “materiale”, specialmente con riguardo alle scusanti e alla nozione di inesigibilità che impongono all’interprete di concentrarsi sul dato concreto, capace di svelare la reale colpevolezza - meglio, non colpevolezza - del soggetto agente (infra par. 4.5.3).
Il nucleo di disvalore della colpevolezza, condizionato dall’imputabilità e dalla esigibilità, è in ogni caso rappresentato - come anticipato - dal processo di motivazione del soggetto, cioè dalla decisione (Entschluss) presa nella coscienza dell’illiceità.
Entschluss che, nella prospettiva di Moro, porta con sé la necessità che il soggetto sia (o potesse essere) consapevole del carattere illecito della sua condotta: «[q]uesto», infatti, «è il solo modo di attribuire il fatto all’agente come suo, perché ciò soltanto allora si può affermare, quando egli l’ha voluto nella sua pienezza del suo significato di valore»[104]; «l’essenza di disvalore della colpa» sta infatti nella «posizione del soggetto di apprezzamento limpido e sicuro del carattere illecito del fatto».[105]
Moro, pertanto, rifiuta la posizione di coloro che affermano che «in linea generale, per disobbedire, non è necessario voler disobbedire»[106], poiché «a questa stregua, può solo fondarsi una imputazione ai fini della responsabilità obbiettiva nel senso del Kelsen, la quale ci lascia ancora alle soglie della vera colpevolezza».[107]
Ribadendo la necessità della «coscienza dell’essenza illecita del fatto»[108], Moro chiarisce, invece, che «non una concreta puntuale conoscenza è richiesta, bensì l’attitudine a porre in essere un normale processo di motivazione»[109]; al contempo, sottolineando la necessità di evitare a questo fine «criteri eccessivamente astratti e generici»[110] e «aprendo la via ad una più larga ed umana considerazione del giudice»[111] (per evitare che la «coscienza dell’antigiuridicità si dissolva nelle mani stesse che l’hanno posta in una mera finzione legale»[112]).
Confrontandosi, inoltre, con l’allora disposto dell’art. 5 c.p., in maniera assolutamente coerentemente e al contempo fortemente innovatrice, Aldo Moro interpreta la disposizione alla stregua di «una presunzione»[113] , che - si potrebbe aggiungere - ammette prova contraria.
Come risulta evidente, l’intera concezione morotea, è tesa a riaffermare il valore veramente umano e personale del fatto, rifiutandosi costruzioni giuridiche che oscurano la persona e che obliterano il momento veramente soggettivo (e consapevole) della violazione dell’obbligo giuridico.
In quest’ottica, Moro rifiuta con decisione la responsabilità c.d. oggettiva perché «[i]l diritto è esigenza che attinge la profonda spiritualità del soggetto, nella quale, prima che nel mondo dei cosiddetti rapporti esteriori, esso vive la sua vicenda e compie il suo destino. Prescindere da questo modo di operare del diritto, significa trasformare la vita in una strana e dura meccanica sociale di azioni e reazioni, dove ogni luce di umanità è spenta, abbagliati, - ed è falsa prospettiva - da quello che sembra essere il termine ultimo della vicenda giuridica, l’esteriore assetto ordinato della società, quasi che esso si possa produrre altrimenti che mediante un operare soggettivo e perciò etico»[114].
L’antigiuridicità, intesta come contrasto tra fatto e diritto, connota dunque il fatto di reato, tutto considerato, in termini di disvalore, dovendo il fatto contraddire il diritto, sia nel suo aspetto oggettivo, sia nel suo aspetto soggettivo.
A questa visione unitaria dell’antigiuridicità (che, come si è visto, si compone di due momenti inscindibili tra loro) corrisponde, nella concezione di Moro, una visione unitaria del reato. Per cui, sebbene sia possibile, a scopo d’analisi, considerare in maniera disgiunta i momenti del fatto, della tipicità e dell’antigiuridicità, deve escludersi la possibilità di considerare questi aspetti come realtà a sé stanti, cioè come elementi esistenti in maniera autonoma nel mondo del diritto.
In una visione unitaria, infatti, non può darsi un fatto che non sia al contempo tipico e antigiuridico; così come non è pensabile un’antigiuridicità che prescinda dal fatto e dalla tipicità.
Per riprendere un’immagine assai nota nel dibattito dell’epoca, gli aspetti del reato sono - piuttosto che elementi o categorie accostate in sequenza - facce inscindibili di un medesimo poliedro.[115]
Anzitutto, per quanto riguarda il raffronto tra fatto e antigiuridicità, Moro sottolinea come l’antigiuridicità, essendo il carattere del fatto, sia in realtà essa stessa fatto: «il fatto e il suo significato di disvalore sono in realtà tutt’uno»[116].
L’antigiuridicità non è quindi un giudizio che cade sul fatto, ma che in questo si invera, perché non solo investe il substrato naturalistico del reato, ma lo plasma proprio come fatto contrario al diritto: «l’antigiuridicità, nell’atto che si pone come il profondo senso di disvalore del fatto, qualifica, carattere, giudizio di valore o come altrimenti si voglia chiamare, fa riferimento al fatto appunto così qualificato, si radica, per così dire, in esso ed è fatto così e così conformato, e perciò caratterizzato opportunamente, più che pura e astratta qualifica»[117].
Alla domanda se l’antigiuridicità sia quaestio facti o quaestio iuris, Moro risponde pertanto che l’antigiuridicità è l’una e l’altra cosa assieme: non è mero astratto giudizio di valore, ma è fatto qualificato come contrario al diritto.[118]
Rispetto alla tipicità, inoltre, Moro riafferma la visione unitaria degli aspetti del reato, rifiutando il punto di vista c.d. «dualistico»[119], che presuppone «l’astratta possibilità che il tipo […] si dimostri sfornito di valore giuridico penale» (per cui «altro è il fatto rispondente al tipo legale, il quale per sé nulla esprima sulla sua antigiuridicità ed è da pensare come non soggiacente ad alcun giudizio di valore, altro il fatto antigiuridico nel senso del diritto penale, che è bensì quello tipico, ma arricchito della nuova e autonoma determinazione di contrarietà al diritto, la quale poi […] si ricava mediante considerazione di tutto intero l’ordinamento giuridico extrapenale»[120]).
Secondo Moro, di contro, la tipicità implica sempre il giudizio di disvalore (l’antigiuridicità), perché quando il legislatore descrive la fattispecie penale al contempo valuta il fatto: «[d]escrivere significa dunque necessariamente indicare un fatto pieno di significato e di significato, anzi giuridico. La fattispecie è pregna del disvalore etico-giuridico del fatto» («perché un fatto privo di valore non è umano, ma, se mai, fenomeno bruto e un fatto di generico valore umano e non ancora giuridico è un non senso, quand’esso ci si presenti nei termini della fattispecie, che è il modo con cui il diritto prende posizione sui fatti suscettivi della sua valutazione»)[121].
Se il fatto tipico è antigiuridico e se l’antigiuridicità è il fatto tipico, il reato è, dunque, «un tutto unitario, atto umano di determinato contenuto negativamente significante dal punto di vista etico-giuridico»[122].
Concludendo sulla sistematica proposta da Moro, occorre infine guardare alla sistemazione delle cause di esclusione dell’illiceità.
Il tema, peraltro, viene affrontato da Moro soltanto «di sfuggita», giacchè «se non si può ritenere col Gerland che la teoria dell’antigiuridicità si risolva in fondo in una teoria delle cause di esclusione, nessuno poi vorrà disconoscere che si sia di fronte ad un problema dei più vasti e gravi del diritto penale»[123].
L’intera opera, tuttavia, aiuta a comprendere la sistemazione della cause di esclusione dell’antigiuridicità, che deriva in maniera coerente dalla sistematica unitaria del reato.
Sul punto, Moro chiarisce anzitutto come siano da rifiutare le concezioni che vedono nelle cause di esclusione dell’antigiuridicità, casi eccezionali, particolari, a fronte dei quali la norma penale (eccezionalmente) si ritrarrebbe.
Queste concezioni, in particolare, guardano alle cause di liceità come a un quid che si aggiunge al caso concreto e che toglie in via straordinaria la normale liceità che invece connoterebbe il fatto[124].
Accomunando le diverse cause di esclusione sotto il comune cappello di ‘casi eccezionali’, inoltre, queste teorie tentano di individuare (per Moro, ingenuamente)[125] un principio comune in grado di spiegare tutte le ipotesi in cui la norma penale eccezionalmente si ritrarrebbe; enucleandosi così i diversi criteri dell’interesse prevalente, dell’interesse mancante, ovvero del giusto mezzo per il giusto scopo e via dicendo.
A questa concezione - che, com’è evidente, ‘stacca’ le cause di liceità dalla norma penale, contrapponendole alla tipicità e al fatto - Moro oppone invece la propria visione unitaria del reato, per cui le cause di liceità fanno parte della stessa fattispecie legale e i casi ‘normali’ di liceità in nulla differiscono da quelli ‘eccezionali’.
Nello specifico, la «circostanza di liceità è tutto il fatto»[126] e anche in queste ipotesi l’antigiuridicità «non sussiste sin dall’inizio»[127].
Qui come altrove, senza dover andare alla ricerca di principi onnicomprensivi che spieghino l’esclusione dell’antigiuridicità, l’unico ‘criterio’ da considerare per determinare la liceità o meno del comportamento è l’intrinseca giustizia dell’azione[128], che deriva da una «considerazione approfondita di tutto il sistema di apprezzamenti etico-sociali»[129].
L’unica differenza con i casi ‘normali’ di liceità è che, quando sussiste una causa di esclusione dell’antigiuridicità, il fatto sembra a prima vista rientrare nel tipo[130], salvo poi riconoscersi, uno volta guardato nella sua «concretezza individuale», come effettivamente lecito[131]; il richiamo al principio regola-eccezione può, pertanto, valere a scopo d’analisi, per evidenziare la necessità di guardare oltre l’apparenza illecita e indagare le particolarità del caso concreto, onde appurare l’intrinseca giustizia dell’azione. [132]
Concludendo sulle cause di liceità, occorre peraltro evidenziare che, adottando una concezione unitaria del reato, secondo Moro, rientrano in queste ipotesi non solo le cause che escludono il momento oggettivo dell’antigiuridicità (le cause di giustificazione), ma altresì quelle che ne escludono il momento soggettivo (le scusanti).
A quest’ultime Moro dedica peraltro un’analisi approfondita, in cui, ancora una volta, emerge la sua concezione essenzialmente personale (e garantista) del reato e della pena.
Anzitutto, Moro distingue le cause di esclusione del momento soggettivo dell’antigiuridicità dalle ipotesi di «radicale e […] originaria»[133] assenza di colpevolezza, ossia dai casi in cui manca sin dal principio uno degli elementi costitutivi della colpevolezza (è il caso della non imputabilità, dell’errore che esclude il dolo e del caso fortuito).
Se in assenza di un elemento costitutivo, infatti, «la colpevolezza è puntualmente negata» e «siamo veramente di fronte alla non colpevolezza»[134], nell’ipotesi in cui sussista una causa di esclusione del momento soggettivo dell’antigiuridicità, questo «a prima vista appare, ancorchè dopo si dissipi la fallace impressione, eccezionale deroga alla antigiuridicità soggettiva che nel caso tutti gli elementi costitutivi sembrano entrare a comporre»[135].
Quanto al contenuto delle cause di esclusione della colpevolezza, Moro lo individua in «quella veramente significante non esigibilità»[136] che si identifica con lo stato di necessità «quando sia inteso con più largo respiro che non abbia nel troppo rigido schema legale dell’art. 54 C.P.»[137] e cioè come «la considerazione della forza travolgente dei motivi che […] hanno determinato [l’azione in contraddizione col diritto] ed ai quali non era possibile umanamente resistere»[138].
Anche in questo caso, la necessità che il diritto sia umano (e che, quindi, consideri la situazione particolare del soggetto agente per valutare se egli poteva determinarsi diversamente), conduce Moro a plasmare l’istituto oltre i confini legislativi, per riconoscere «al giudice in tale delicatissima materia l’essenziale libertà di umano apprezzamento della situazione di fatto»[139]; considerato che «l’ostinarsi a porre motivi di obbligo, la dove è evidente che essi non posso essere in nessun modo efficaci, sarebbe davvero un fuor d’opera e come un irrazionale esigere cosa che si sa già non potere essere data».[140]
Quanto all’efficacia delle cause di esclusione della colpevolezza, infine, in una visione unitaria del reato, la non esigibilità non si limita a scusare il comportamento del soggetto agente, che rimarrebbe (in un’ottica tripartita) obiettivamente illecito, ma travolge tutta l’antigiuridicità del rato, rendendo il fatto lecito anche dal punto di vista oggettivo degli interessi tutelati (seppur esclusivamente a livello penale e non in tutti i rami dell’ordinamento, accedendo Moro alla teoria dell’antigiuridicità penale, su cui retro par. 4).
Infatti, la «particolare struttura della situazione, nella quale il sacrificio della propria azione sembra umanamente non esigibile dal soggetto, induc[e] appunto ad una nuova valutazione specialissima degli interessi in gioco»[141], cosicché «lo scopo normalmente precluso, apparirebbe nella situazione particolare lasciato libero alla realizzazione dell’agente per una umana considerazione».[142]
Questo perché «tutto il diritto riguarda azioni particolari»[143] e in casi siffatti «di contro [alla valutazione giuridica] generale, ne sorg[e] una nuova, che guarda alle posizioni reciproche dei soggetti, tenendo conto di tutti i dati che le rendono significanti», ponendo «in conseguenza un nuovo criterio di giustizia per la situazione particolare».[144]
La teoria unitaria dell’antigiuridicità e del reato, che Moro illustra ne «L’antigiuridicità penale», contribuì al progresso della scienza penalistica e rappresenta ancor oggi un lascito prezioso per gli studiosi di diritto penale.
L’opera è caratterizzata anzitutto dal metodo adottato da Moro, il quale, dopo le prime monografie del 1939 e del 1942, si affranca dal quel movimento di studi che aveva condotto alla c.d. «civilizzazione» del diritto penale e che era stato criticato per l’eccesiva formalizzazione e astrazione dei concetti giuridici.
In linea con il clima culturale e dottrinale dell’epoca, Moro adotta nell’opera del 1947 il metodo del tecnicismo-giuridico inteso in senso ampio, ossia come esclusiva attenzione al dato normativo unita però a momenti di critica del diritto vigente e a proposte de jure condendo. [145]
La costruzione della sistematica penale, quindi, si arricchisce ne «L’antigiuridicità penale» di momenti di critica al dato positivo, che derivano dalla concezione filosofica che Moro aveva del diritto; una concezione che invero pervade l’intera opera[146].
In particolare, oltre al diritto positivo, Moro riconosceva il diritto naturale, che pone la persona al centro del sistema normativo e spinge il sistema vigente verso l’evoluzione continua, ossia verso la conquista etica che è ordine universale.
Così, in Lo Stato. Il diritto, l’illustre Autore afferma:
«[q]uesta naturalità [del diritto] è la freschezza dell’insorgere dello spirito con una nuova pressante istanza di ordine universale, la quale corrisponde puntualmente allo svolgimento storico s’inaridirà essa pure, quando vi sia stato un nuovo avanzamento, nel dato crista[l]lizzato del diritto positivo, per essere a sua volta superata in una nuova vicenda dello spirito umano. In quel punto essa sarà degradata ad economia; sarà diventata soltanto la maschera che cela inconfessabili egoismi e sarà in lotta con una effettiva, fresca, veramente imparziale universalità che darà battaglia in nome della giustizia. La rivoluzione è appunto la manifestazione eclatante di questa opposizione tra economia ed etica, di questo intrico complesso di azioni divergenti diventate ormai radicalmente incompatibili. Perciò la rivoluzione è l’ultimo atto di una evoluzione, la quale deve accelerare il suo ritmo di avanzamento per una giovanile irresistibile pressione dello spirito»[147].
Proprio questa concezione del diritto - ancor più significativa se si considera che Moro ricoprì la cattedra di Filosofia del diritto anche durante l’epoca del fascismo - dà conto della visione profondamente personalistica del diritto penale[148] e dell’approccio critico che Moro assunse rispetto alla normativa esistente.
Prova ne è la severa critica che Moro muove alla previsione normativa della responsabilità oggettiva - che invece altri non solo avevano ‘accettato’ come dato esistente[149], ma avevano altresì valorizzato per riconoscere il c.d. torto oggettivo (grosso modo sostenendo che, se esiste la responsabilità oggettiva, significa che vi sono casi in cui il fatto è antigiuridico a prescindere dalla partecipazione soggettiva del soggetto agente)[150] -, contrapponendo alla responsabilità senza dolo e senza colpa, l’eticità della norma giuridica, per cui «l’operare del soggetto, in accordo o in disaccordo con l’esigenza giuridica è […] fatto di volontà, umano ed etico» e «prescindere da questo modo di operare del diritto, significa trasformare la vita una strana e dura meccanica sociale di azioni e reazioni, dove ogni luce di umanità è spenta, abbagliati - ed è falsa prospettiva - da quello che sembra essere il termina ultimo della vicenda giuridica, l’esteriore assetto ordinato della società»[151].
Per altro verso, la teoria unitaria ebbe il merito di pervenire a risultati altamente garantistici, limitando talune derive soggettivistiche od oggettivistiche.
In effetti, è importante evidenziare come la visione unitaria del reato propugnata da Aldo Moro non diminuisca, ma anzi innalzi il livello del garantismo penale; sia perché a uno sguardo superficiale, per il lessico utilizzato dall’Autore e per i frequenti richiami all’etica cristiana e alla morale, si potrebbe credere che la sistematica proposta sia prettamente di stampo subiettivo (con tutte le criticità derivanti); sia perché, perché, dopo l’esperienza della scuola di Kiel, la teoria unitaria del reato è stata a volte guardata come di per sé sintomatica di un diritto penale di stampo illiberale ̶ com’è stato efficacemente rilevato, «in questo come in altri campi si è qualche volta esagerato, o facendo una vera e propria “caccia alle streghe” o credendo con troppo facilità alle proclamazioni politiche con cui alcuni autori, soprattutto in Germania, amavano ammantare idee e prospettive teoriche o metodologiche che avrebbero potuto allignare anche in altri climi»[152].
La concezione unitaria del reato, di contro, servì a Moro raggiungere esiti altamente garantistici e, in particolare, per porre l’accento sulla colpevolezza e sul carattere veramente umano del reato, in contrapposizione ad alcune teorie di stampo oggettivistico, che avevano finito per offuscare i contorni della categoria, arrivando perfino a legittimare la responsabilità oggettiva. [153]
Proprio questo aspetto mette al riparo la teoria unitaria del reato dalla maggior critica che la dottrina del tempo muoveva a questa concezione, ossia quella di “aver mosso i mobili nella stanza” inutilmente, avendo negato l’esistenza di diversi elementi del reato per poi recuperarli, tali e quali, in sede di analisi del reato [154] (col nome di ‘aspetti’ dell’illecito, in luogo di ‘elementi’ del reato)[155].
La visione unitaria del reato, invece, come sopra esposto, era funzionale a ricalibrare l’attenzione sull’aspetto della colpevolezza, in opposizione a «una inammissibile obbiettivazione del diritto e dell’azione, che toglie ad essi ogni significato umano ed ogni verità»[156].
Per altro verso, contro la sistematica unitaria del reato e in favore di una visione tripartita del reato, si è rilevato come la seconda abbia stimolato importanti acquisizione scientifiche, soprattutto perché proprio la considerazione disgiunta degli elementi del reato, che caratterizza della sistematica tripartita, avrebbe stimolato la successiva evoluzione della materia nel segno di una crescita teleologica delle categorie, prima tra tutti quella del fatto[157].
In merito, occorre evidenziare che, se è vero che per scopi didattici e di analisi la visione unitaria del reato può apparire meno agevole, ingenerando talvolta qualche confusione per la natura miscellanea degli ‘aspetti’ del reato, ciò non vale, a nostro avviso, a confutare del tutto la bontà della sistematica, per i risultati garantistici cui Moro perviene.
L’esame dell’unità o della pluralità di reati rappresenta senza dubbio una delle questioni più complesse del diritto penale[158].
La problematicità della materia, che investe il concorso di norme e di reati, emerge dalla varietà di soluzioni elaborate tanto in dottrina quanto in giurisprudenza per risolvere il nodo dell’unità o pluralità di reati.
Così, alla cospicua ed eterogenea elaborazione dottrinale, non di rado appuntata su singoli casi ‘difficili’ di concorso di reati, fa riscontro un panorama giurisprudenziale tutt’altro che lineare, in cui, nel tempo, si sono susseguiti orientamenti diversi.
Basti considerare che, in passato, a decisioni in cui si affermava la sufficienza del solo principio di specialità per riconoscere il concorso apparente di norme, sono seguite altre pronunce - addirittura a Sezioni Unite - in cui si faceva ricorso al differente principio della consunzione, riscontrata l’inapplicabilità del principio di specialità al caso sub iudice[159].
La materia, segnata dall’eterogeneità delle soluzioni adottate, appare allo stato ancora lontana da una compiuta (meglio, condivisa) sistematizzazione.
Con l’ultima delle sue monografie penalistiche, “Unità e pluralità di reati. Principi”, Aldo Moro affronta proprio quest’ambito problematico, con l’intento di dare alle questioni affrontate una soluzione unitaria.
L’opera, edita per la prima volta nel 1951 (seguirà la seconda edizione nel 1954), restituisce un’indagine ancora oggi attuale, conservando intatta la sua originalità e rilasciando importanti stimoli per il lavoro dell’interprete (infra § 7.1.).
Considerando più da vicino l’opera, che valse a Moro la promozione a professore ordinario presso l’Università di Bari[160], occorre considerare che il volume seguiva il precedente studio del suo Autore del 1947 su «L’antigiuridicità penale»[161], da intendere, secondo Moro, come l’essenza del reato, ossia ciò che contraddistingue l’illecito penale dagli altri fatti aventi rilevanza giuridica.
Di questa indagine, “Unità e pluralità di reati. Principi” rappresenta un’ideale prosecuzione, giacchè: «determinare […] quel che è unità, e correlativamente, quel che è pluralità di reati significa procedere, in un’interessantissima problematica, per la stessa via che percorriamo per giungere ad intendere l’essenza del reato»[162].
In altri termini, se con la precedente monografia Moro aveva studiato l’essenza del reato - l’antigiuridicità - definendo l’illecito penale rispetto agli altri fatti rilevanti nel mondo del diritto; in «Unità e pluralità di reati. Principi», l’Autore prosegue l’indagine sull’«in sé» del reato, distinguendolo, questa volta, dagli altri reati.
Viene così in considerazione il concetto di unità dell’illecito penale, che serve a Moro (come al resto degli studiosi) per determinare quando il reato è uno e, quindi, per risolvere i diversi casi problematici di concorso di norme o di reati (in cui non è chiaro ‘sin dall’inizio’ se l’illecito penale sia uno o più).[163]
Tra queste ipotesi ‘difficili’, Moro considera il concorso apparente di norme, il concorso formale di reati, il reato continuato e quello complesso, ma a altresì il reato abituale e quello permanente[164].
In questa indagine, Moro procede necessariamente dal quadro normativo all’epoca vigente, per quanto - pare opportuno anticiparlo sin d’ora - l’Autore superi il dato positivo per proporre soluzioni innovative, in particolare, rispetto al trattamento sanzionatorio del concorso formale di reati.
Per questo motivo, per comprendere la teoria di Moro, in via preliminare sembra opportuno dar conto delle disposizioni di legge allora vigenti, in seguito modificate dal d.l. n. 99 dell’11 aprile 1974.
Nello specifico, in disparte il principio di specialità - che nel susseguirsi delle modifiche normative rappresenta per così dire una ‘costante’[165] -, si considereranno le disposizioni in tema di: concorso materiale, concorso formale, reato continuato e reato complesso.
Per completezza espositiva e per meglio comprendere l’evoluzione del dibattito scientifico sul punto, inoltre, si confronteranno le previsioni dell’allora “codice Rocco” con il previgente “codice Zanardelli” del 1889, nonché con la disciplina attuale.
Cominciando col considerare il concorso formale (o ideale) di reati, il codice Rocco modificava la disciplina previgente, che prevedeva: «colui che con un medesimo fatto viola diverse disposizioni di legge, è punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave».
Al «medesimo fatto», che sotto il vigore del precedente codice determinava l’applicazione della pena più grave, il codice Rocco sostituì l’espressione «con una sola azione od omissione[166]», cui conseguiva ora non più l’assorbimento delle pene, ma la ben più severa regola sanzionatoria del cumulo materiale delle pene stabiliste per ciascuna violazione di legge.
All’unicità del reato segnata dalla pena unica comminata dal Codice Zanardelli[167], dunque, il Codice Rocco sembrava preferire una concezione plurima dei reati commessi con una sola azione od omissione.
Il nuovo codice, inoltre, precisava che tale concorso poteva riguardare non solo più violazioni di «diverse disposizioni di legge», ma anche più violazione della medesima disposizione di legge.
La regola del cumulo materiale di reati, inoltre, venne estesa dal Codice Rocco al concorso di reati, anche in questo caso modificando la disciplina previgente, ben più favorevole, che prevedeva l’applicazione della pena più grave (art. 78)[168].
Proprio questi significativi ‘cambi di rotta’ in punto di disciplina sanzionatoria, richiamarono l’attenzione degli studiosi sul tema dell’unità e della pluralità di reati; tema che, di converso, il trattamento di favore previsto dal codice Zanardelli aveva «lasciato quasi privo di elaborazione»[169].
Con l’entrata in vigore del codice Rocco, «[d]iventava particolarmente sentita la necessità di distinguere, con la maggior possibile esattezza, situazioni di concorso formale da situazioni di concorso apparente e in tale ricerca non poteva non pesare, pur se talora non appieno avvertita, l’esigenza di comprimere, dilatando la categoria del concorso apparente di norme, la rigida disciplina del concorso di reati».[170]
Di contro, data l’omogeneità sanzionatoria tra concorso formale e concorso materiale, risultava meno urgente l’indagine scientifica volta a definirne i rispettivi contorni, risultando «la questione […] irrilevante perché […] alla distinzione tra concorso formale e materiale non si riallaccia alcun effetto di pratico rilievo»[171].
In contrasto con questa tendenza, tuttavia, Moro cerca di definire con esattezza il confine tra concorso formale e materiale, avanzando altresì innovative soluzioni in punto di pena e, di fatto, anticipando la successiva modifica sanzionatoria del 1974, che sostituirà il cumulo materiale con quello giuridico [172] (cfr. infra par. 6).
Venendo ora a considerare la disciplina del reato continuato, occorre evidenziare che il codice Rocco, all’art. 81, secondo e terzo comma, prevedeva che: «[l]e disposizioni degli articoli precedenti non si applicano a chi, con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità. In tal caso le diverse violazioni si considerano come un solo reato e si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo»[173].
Il nuovo codice aveva modificato la disposizione previgente, sostituendo l’espressione «atti esecutivi della medesima risoluzione»[174] con la formula di «più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso».
Rispetto all’odierna disposizione, inoltre, il codice Rocco disciplinava solamente il reato continuato omogeneo (ossia la commissione di più violazioni della stessa disposizione di legge) ed espressamente considerava il reato continuato «come un solo reato».
Prima della riforma del 1974[175], quindi - è bene sottolinearlo - più violazioni della stessa disposizione di legge potevano essere assoggettate alla disciplina del cumulo giuridico (la pena più grave aumentata sino al triplo) solo se esecutive di un medesimo disegno criminoso, in mancanza applicandosi la disciplina del concorso di reati che, sia in caso di concorso formale che in caso di concorso materiale, prevedeva la regola del cumulo materiale delle pene previste per ciascun illecito. [176]
Inoltre, poiché il reato continuato poteva riguardare solo violazioni della medesima legge, ne conseguiva che violazioni di disposizioni di legge diverse potevano essere sottratte alla rigida disciplina del cumulo materiale solo se considerate nell’ambito del reato complesso.
L’art. 84 c.p., infatti, esattamente come oggi, prevedeva che: «[l]e disposizioni degli articoli precedenti [sul concorso di reati] non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato».
La previsione del codice Rocco - lo si evidenzia per completezza espositiva - innovava parzialmente (ampliandone la portata) la previgente disposizione del codice Zanardelli, che, all’art. 77, prevedeva: «[c]olui che per eseguire o per occultare un reato, ovvero in occasione di esso, commette altri fatti costituenti essi pure reato, ove questi non siano considerati dalla legge come elementi costitutivi o circostanze aggravanti del reato medesimo, soggiace alle pene da infliggersi per tutti i reati commessi, secondo le disposizioni contenute negli articoli precedenti».
Le disposizioni all’epoca vigenti sul reato continuato e complesso aiutano a comprendere l’interpretazione che delle due figure dà Aldo Moro e che trovava nel dettato normativo del Codice Rocco un sicuro aggancio letterale.
Rinviando in seguito per un esame dettagliato della questione, si consideri infatti che l’illustre Autore interpretava il reato continuato - considerato espressamente dallo stesso legislatore «come un solo reato» - come una figura più vicina all’unità di reato piuttosto che alla pluralità di illeciti.
Inoltre, secondo Moro, il reato continuato si sarebbe differenziato da quello complesso solo per il tipo di violazione considerata, trattandosi nell’un caso di più violazioni della stessa legge penale, nell’altro di violazioni di leggi penali diverse.
In entrambe le ipotesi, di contro, il fondamento dell’unità del reato sarebbe da rintracciare in un elemento di carattere squisitamente oggettivo, costituito dall’unitaria lesione giuridica (infra par. 7 ss.).
Dopo questo breve excursus normativo, è possibile esaminare più a vicino l’opera di Moro. Come si è anticipato, con «Unità e pluralità di reati. Principi», l’Autore tenta di dare alla materia una sistemazione unitaria, risolvendo i diversi casi problematici di unità e pluralità di reati a partire da un solo criterio risolutore, per cui l’unità dell’illecito è data dall’unità dell’offesa giuridica.
È questo il principio a partire dal quale Moro risolve i casi difficili, domandandosi se nell’ipotesi considerata l’offesa al bene giuridico sia una o più.
Nel dibattito scientifico dell’epoca, questa posizione - su cui si tornerà più diffusamente nelle prossime pagine - si contrapponeva a una molteplicità di punti di vista, che variamente individuavano l’elemento a partire dal quale determinare l’unità del reato.
Seguendo la sistematizzazione proposta da Pagliaro[177], queste diverse teorie possono essere raggruppate in tre gruppi, a seconda che dell’elemento che ciascuna teoria pone al fondo dell’unità del reato.
(i) Un primo gruppo di teorie, anzitutto, ricavava l’unità dell’illecito a partire dal substrato pregiuridico del reato[178]. A seconda dei diversi punti di vista, veniva di volta in volta ritenuto decisivo: l’aspetto oggettivo del fatto (l’unità dell’azione[179] o dell’evento), l’aspetto soggettivo[180] ovvero, ancora, entrambi (per cui «vi [è] un unico reato dove c’è un solo fatto materiale e un’unica volontà»[181]).
Seguendo queste impostazioni, l’indagine sull’unità o pluralità del reato doveva riguardare unicamente l’accadimento naturale, da solo capace di dirimere l’alternativa tra uno o più illeciti; in sintesi, vi sarebbe un solo reato a seconda che il giudizio di unicità investa l’azione, l’evento o l’intenzione del reo.
(ii) Dalle teorie precedenti, si distingueva un secondo gruppo di posizioni, che ricercavano l’unità del reato facendo riferimento anche alla norma; fatto e norma, per questi Autori, avrebbero avuto una posizione paritaria nell’indagine sull’unità dell’illecito penale.
In particolare, questa posizione era stata sostenuta nella dottrina tedesca da Welzel e ripresa in Italia da Giuseppe Bettiol, per il quale «[l]’unicità penale dell’azione è data […] da due momenti: dall’unicità naturale di scopo cui l’azione tende, e dall’unicità di valutazione penale della fattispecie delittuosa»[182].
Più nello specifico, Bettiol aveva posto al centro del proprio pensiero l’unità d’azione, da rintracciare nella maggioranza dei casi in elementi extra-giuridici, giacchè «l’unità dell’azione è data dall’unicità dell’atto volitivo in quanto coscientemente diretto ad un fine»[183].
Solo in alcuni casi, l’unità d’azione sarebbe da desumere dalla fattispecie legale, quando, come nel caso della fattispecie a più norme, «l’unità d’azione è un artificio voluto dal legislatore»[184].
(iii) A queste posizioni si contrapponeva, infine, la teoria normativista, che individuava l’unità del reato a partire anzitutto dalla norma.
Secondo questi Autori, è la disposizione normativa che deve essere considerata per decidere se il reato è uno o più.
Così, secondo Raoul Frosali, è «da escludere che il concorso apparente od effettivo di reati - così appresi nel complesso dei loro elementi costitutivi - possa essere rivelato altronde che attraverso un concorso (apparente od effettivo) degli elementi giuridici dai quali i reati traggono la loro natura»[185].
Infatti: «se il reato trae sua natura soltanto per il tramite (essenziale) degli elementi giuridici (penali) che lo configurano, la unità del reato (cioè la unità, dal punto di vista giuridico penale, di un complesso di elementi) non potrà de iure condito presentarsi se non come unità giuridico-penale, cioè unità stabilita in confronto alla unità degli elementi giuridici penali cui il reato viene a configurarsi»[186].
Dalla posizione espresse da Raoul Frosali, prende le mosse la teoria di Moro, che, come si è visto, fonda l’unità del reato sull’unità della lesione giuridica.
Della teoria normativista, infatti, l’Autore condivide l’idea di fondo secondo la quale, per capire se sussista un reato o una pluralità di reati, si deve guardare alla norma - giacché il reato non è che una valutazione giuridica, normativa, sull’accadimento concreto e pertanto, per misurare l’illecito penale, non può che farsi riferimento al dato normativo.
Per sciogliere il nodo dell’unità e pluralità di reati, tuttavia, la norma deve essere considerata non solo nella sua forma esteriore di mera descrizione, ma, soprattutto, nella sua funzione valutativa e determinante[187].
La funzione essenziale della norma penale, infatti, è quella dirigere - determinare - le azioni dei consociati in ragione della loro incidenza rispetto al bene giuridico tutelato[188], ossia di valutare negativamente un determinato comportamento ritenuto offensivo del bene giuridico.
Il richiamo alla norma, pertanto, deve essere riferito a questa essenziale funzione di tutela, che è la ragione vera della legge penale, e, quindi, alla lesione giuridica che il legislatore considera e intende prevenire mediante la minaccia di pena.[189]
L’esame astratto della norma, tuttavia, non esaurisce l’indagine sull’unità del reato, perché, secondo Moro, dalla norma così intesa occorre procedere verso il fatto.
Il reato - e, conseguentemente, l’unità del reato -, infatti, è norma e fatto assieme; è fatto investito e qualificato dalla norma[190].
Per accertare se la lesione giuridica è effettivamente una, occorre dunque esaminare l’accadimento concreto, considerando se l’offesa al bene tutelato (o, eventualmente, ai beni tutelati) appare una o più.
In sintesi, poiché secondo Moro l’episodio delittuoso è delimitato in ragione dell’offesa che arreca al bene giuridico, l’unità del reato deve essere ricercata nell’unitarietà della lesione giuridica, da rintracciare nel fatto a partire dalla norma.
Secondo questa prospettiva, «a sfondo valutativo-teleologico»[191], si tratta di ricercare, nella norma, l’unitaria funzione di tutela e, nel fatto, l’unitaria lesione a un solo bene giuridico.[192]
In questa concezione, di contro, il momento soggettivo assume un’importanza ‘secondaria’[193].
L’unitaria colpevolezza, infatti, viene in considerazione o per indiziare la presenza di un’unica lesione al bene tutelato (che, in ogni caso, rimane il solo criterio valido per decidere sull’unità o la pluralità dei reati) oppure, in caso di più offese al bene giuridico - e, quindi, di più reati - per temperare il trattamento sanzionatorio delle plurime violazioni di legge[194].
Il criterio dell’unitarietà della lesione giuridica - da individuare tanto nella norma quanto nel fatto - è alla base delle soluzioni che Moro propone per spiegare i casi ‘difficili’, in cui non è immediatamente evidente se il reato sia uno o più.
La prima ipotesi problematica affrontata dall’Autore riguarda il concorso apparente di norme.
In particolare, secondo Moro, quando più norme sembrano tra loro concorrenti, il reato è uno - così come una è la norma effettivamente applicabile - se, nelle disposizioni, è rintracciabile un unico (meglio, omogeneo) telos di tutela e, nel fatto, un’unica offesa al bene tutelato.
Cominciando col piano delle norme, anzitutto, si può rintracciare una sola funzione di tutela quando le fattispecie appaiano tra loro in rapporto di rango.
Questo rapporto evidenzia come le disposizioni esaminate sottendano un solo valore normativo[195] e può essere trovato impiegando due principi: quello della specialità e quello della consunzione[196].
Nello specifico, la specialità viene intesa da Moro «nel senso che tutti gli elementi contenuti nella fattispecie generale [devono essere] compresi nella speciale, la quale deve inoltre contenere elementi propri che hanno appunto funzione specializzante»[197].
La valenza del principio, tuttavia, non si esaurisce su un piano logico formale, rintracciandosi anche in questo caso, dal punto di vista sostanziale, l’unitaria lesione giuridica che fonda - pur sempre - l’unità del reato.
Secondo Moro, infatti, il rapporto logico-formale tra le norme considerate non è che il riflesso del rapporto di compenetrazione tra gli interessi tutelati dalle disposizioni in concorso apparente: «[t]ra le norme (e le fattispecie che le riproducono nella loro funzione descrittiva e delimitatrice dei fatti umani) e gl’interessi v’è un collegamento necessario»[198] e in caso di specialità sussiste «una sorta di naturale compenetrazione degli interessi in gioco, la quale fa perfetto riscontro con analoga compenetrazione e affinità delle norme e delle fattispecie»[199].
In particolare, questa compenetrazione degli interessi consegue al carattere proprio della norma speciale, che deriva per ‘gemmazione’ da quella generale, ossia per incrementazione degli elementi tipizzanti.
Per questo motivo la norma speciale aderisce meglio al fatto considerato, che da essa riceve nuova qualificazione e conformazione[200].
Dalla compenetrazione degli interessi tutelati, deriva che «la stessa materia» di cui parla l’art. 15 c.p., deve essere intesa non come medesimo bene giuridico (si è visto, gli interessi sono diversi), ma come «il confluire nello stesso oggetto di considerazione giuridica di situazioni di fatto idealmente distinte, ma caratterizzate dalla continuità di sviluppo delle loro strutture e delle interne posizioni di interesse che quelle strutture configurano»[201].
Nel rapporto di specialità, infatti, per quanto i beni tutelati appaiano omogenei[202], non può trattarsi dello stesso interesse[203].
Invero, poiché per interesse deve intendersi la «specifica posizione assunta dagli uomini di fronte ai beni della vita», le norme in concorso apparente non possono avere la medesima ragione di tutela perché altrimenti «sarebbero esse stesse identiche» e «[s]i ai avrebbe un fenomeno di ripetizione legislativa e non già di concorso di norme»[204].
Accanto al principio di specialità ‘rigidamente’ inteso, Moro individua nella consunzione l’ulteriore principio in grado di indiziare il rapporto di rango tra le norme e, quindi, l’unitaria funzione di tutela che determina l’assorbimento dell’una nell’altra.
In questo caso, il rapporto di rango non è riconoscibile tramite il mero raffronto degli elementi formali della fattispecie, ma si desume considerando gli scopi di tutela cui le norme tendono: «la parentela dei fatti e quella immediatamente correlativa delle norme non è secondo la ragione propria della specialità, ma secondo un altro motivo di connessione, secondo cioè una ragione di convergenza ad un medesimo fine che si svolge in una certa gradualità e complementarietà e che, in vista della meta unica, caratterizza le diverse estrinsecazioni di fatto e quelle normative».
La «linea di svolgimento» tra le norme (e i fatti) considerati è in questo caso «funzionale, in vista cioè di una più compiuta e comprensiva realizzazione di scopi e quindi, secondo i punti di vista, di protezioni e di repressioni giuridiche penali»[205].
In questa ipotesi, mancando quel « riflesso strutturale»[206] che invece connota il rapporto di specialità, secondo Moro l’indagine si deve «rivolgere con maggior attenzione alla realtà di fatto in tutti i suoi aspetti ed in particolare agl’interessi in gioco così come si esprimono nelle norme e debba far perno in larga parte sull’intelligente apprezzamento del giudice»[207].
Inoltre, mentre nella specialità gli interessi appaiono in rapporto di “compenetrazione”, qui gli interessi - e quindi i fatti - si susseguono, lungo quella linea di svolgimento funzionale di cui sopra si è detto[208].
Proprio per questo motivo, nella sistematica di Moro, il principio di consunzione risolve anche i casi che parte della dottrina aveva ricondotto alle figure del reato progressivo[209], dell’antefatto e del postfatto non punibili[210].
Per concludere sul concorso apparente di norme, occorre sottolineare che secondo Moro l’unitarietà della lesione giuridica, evidenziata dal rapporto di rango tra le norme, deve riscontrarsi anche nel fatto considerato.
«Una considerazione concreta» dell’episodio delittuoso, infatti, «è indispensabile […] per definire se in atto sia giustificato l’assorbimento che consegue all’accertato rapporto di rango tra le norme»[211].
In particolare, in senso positivo, affinché sussista un unico reato, è necessario che i fatti si svolgano in un contesto unitario «o in contemporaneità assoluta o in contemporaneità non assoluta (parziale coincidenza temporale) oppure successivamente»[212].
In negativo, invece, nel senso cioè di escludere l’assorbimento di una norma nell’altra, occorre considerare la molteplicità di soggetti lesi, che, nei casi in cui il bene giuridico sia personale, evidenzia «una pluralità di oggettive realizzazioni di scopi contrari al diritto […] e quindi una pluralità di reati»[213].
Per completezza espositiva, a margine delle considerazioni sopra esposte, occorre altresì considerare la sistemazione dogmatica che Moro dà al concorso apparente di norme.
Anzitutto, nel panorama scientifico dell’epoca il fenomeno del concorso apparente veniva ricondotto ora nell’ambito della dottrina del concorso di reati, ora in quello della teoria della norma.
Da un punto di vista sostanziale, la riconduzione del concorso apparente di norme nell’ambito del concorso di reati denotava una certa comunanza tra le due ipotesi, considerate come «derivazioni di un'unica realtà»[214]. In particolare, nel concorso di norme, vi sarebbe effettivamente una pluralità di violazioni giuridiche, alle quali corrisponderebbe - in via d’eccezione - un solo reato[215].
La tesi «risal[irebbe] ad uno stadio dogmatico in cui il concorso di norme ancora stentava ad assumere la sua autonoma fisionomia e veniva concepito come una deroga, solo quoad poenam, al concorso di reati»[216].
Di contro, riconducendo il concorso apparente di norme nell’ambito della teoria delle norme, il concorso apparente si distacca della teoria sul concorso di reati e viene trattato come una questione attinente all’intersecarsi di diverse disposizioni. Questa posizione, «rispecchiante uno stadio di più matura elaborazione dogmatica della materia e l’emancipazione [….] del concorso apparente di norme dal concorso formale di reati», riconosceva nei due istituti due realtà distinte e autonome, respingendo quel rapporto di regola - eccezione di cui sopra si è detto.[217]
Nel dibattito scientifico dell’epoca, peraltro, un’ulteriore questione riguardava il problema se, nell’ambito della teoria della norma, il concorso apparente fosse un problema di interpretazione[218] oppure di applicabilità (e quindi di efficacia della norma giuridica)[219] ovvero di sfera di validità delle norme[220].
In particolare, «allorché si asserisce trattarsi di applicabilità si vuole affermare, almeno secondo determinati autori, che le norme concorrenti contemplano tutte il fatto e che l’accertata prevalenza di una non tocca la sfera di previsione delle altre, sottraendo loro i fatti da essa contemplati, ma incide unicamente sulla loro applicabilità alla concreta situazione di fatto. Quando al contrario si afferma trattarsi di un problema di validità, si intende invece dire che le norme apparentemente concorrenti sono tali perché in realtà presentano distinti oggetti di previsione, siccome l’una delimita la sfera di validità dell’altra sottraendole i fatti da essa contemplati […]. In breve: nel primo caso, affermandosi la simultanea violazione di più norme, si ravvisa o quanto meno dovrebbe coerentemente ammettersi pluralità di reati e si riduce o dovrebbe ridursi l’apparenza del concorso al solo momento della sanzione; nel secondo caso si ha la violazione della sola norma effettivamente contemplante il fatto e quindi un solo reato con la relativa sanzione»[221].
Moro sostiene che si tratti di un problema di validità, risolvendosi il tema del concorso di norme «con l’accertare la validità concreta di una sola norma»[222].
Sebbene i plurimi richiami al momento del fatto concreto sembrino inficiare - secondo alcuni Autori - questa conclusione (per cui Moro propenderebbe in verità per ricondurre il tema al problema dell’applicabilità della norma penale), così in verità non è. Come più volte ribadito, infatti, secondo Moro, la norma è anche fatto, perché la disposizione investe il fatto conformandolo e qualificandolo.
In caso di concorso apparente di norme, pertanto, Moro riscontra un’unica lesione giuridica e, dunque, un’unica norma applicabile.
Nel concorso formale di reati, di contro, l’illustre Autore individua più norme applicabili, più lesioni giuridiche e, di conseguenza, più reati.
In particolare, il concorso formale appare a Moro come una realtà complessa, in cui, coesistono ragioni di pluralità e unità; ci troviamo di fronte, infatti, a più violazioni di legge[223] (effettive e non apparenti) commesse con unica azione od omissione.
Quest’azione unitaria, in particolare, motiva secondo Moro un trattamento differente dal concorso di reati e viene intesa dall’Autore come una connessione significante di processi esecutivi.
In altri termini, non si tratterebbe di un processo esecutivo completamente identico (con eventi giuridici plurimi), ma di più processi esecutivi, raccolti in unità perché inseriti nel contesto di un unico episodio delittuoso. [224]
Come nel reato complesso[225], si tratterebbe di processi esecutivi che hanno taluni elementi in comune, punti di contatto, per cui, in entrambi i casi, non verrebbe in considerazione «solo una specie di contestualità, una certa vicinanza temporale di diversi episodi delittuosi, ma, di più, un’intrinseca connessione di essi che può costituire la base di una configurazione unitaria della situazione».[226]
A questo significato oggettivo unitario (la connessione dei processi esecutivi), inerisce «una volontà unitaria, un’unica applicazione ed esplosione di energia subiettiva, che assume tuttavia, in vista di un processo esecutivo articolato e di molteplici risultati di rilevanza giuridica, il carattere di una iniziativa complessa»[227].
Proprio questa ragione di unità - «l’unità di iniziativa criminosa, quello unico e non ripetuto infrangere l’ordine giuridico»[228] - dà ragione di distinguere anche sotto il profilo sanzionatorio - de iure condendo - il concorso formale da quello materiale, respingendo la disciplina del cumulo materiale in favore di quello giuridico.[229]
Secondo Moro, quindi, nel concorso formale sussistono effettivamente più lesioni giuridiche, collocate però - è questa la differenza con il concorso di reati - in un unico episodio delittuoso, ossia un’unica azione che evidenzia un’unica iniziativa criminosa.
In questa prospettiva, pertanto, il concorso formale si colloca a ‘metà strada’ tra il reato unico e la pluralità di reati, unendo in sintesi le diverse posizioni che, all’epoca, avevano considerato il concorso formale o come reato unico o come un concorso materiale di reati.
Senza alcuna pretesa di esaustività, occorre evidenziare come il dibattito scientifico sulla natura del concorso formale fosse all’epoca assai vasto e complesso[230]: non solo le posizioni sul punto riflettevano la divergenza di opinioni espresse sull’essenza e l’unità del reato[231], ma la varietà di teorie rifletteva altresì un dato positivo di volta in volta diverso.
Così, la tendenza a considerare il concorso formale come reato unico era più forte in quegli ordinamenti in cui il concorso ideale era disciplinato con la regola dell’assorbimento (così nel previgente codice Zanardelli).
Tendevano poi a riscontrare nel concorso formale un unico reato quegli Autori che fondavano l’unità dell’illecito a partire dalla considerazione dell’elemento subiettivo del reato, riscontrandosi in questo caso un processo subiettivo unitario[232].
Di converso, le teorie che intravedevano nel concorso formale un concorso di reati trovavano anzitutto appiglio normativo nella disciplina sanzionatoria del codice Rocco, che equiparava in punto di pena il concorso ideale a quello materiale.
Nel concorso formale, inoltre, i reati sarebbero stati molteplici, considerando la pluralità degli eventi giuridici ovvero delle qualificazioni del fatto.
Così, ad esempio, Giuseppe Bettiol riscontrava nel concorso formale un’ipotesi di concorso di reati, rilevando la pluralità degli eventi cui faceva riscontro la pluralità di atti volitivi. [233]
Per altro verso, sottolineava la molteplice qualificazione giuridica del fatto[234], ad esempio Giacomo Delitala, il quale riteneva che: «[p]erché si abbia concorso ideale di reati ai sensi dell’art. 81 cod. pen. occorre […] a nostro avviso, che la fattispecie concreta presenti una complessità di elementi, per cui mentre una parte di essa corrisponde, contemporaneamente ed egualmente, a due fattispecie legali, per le parti residue corrisponda, invece, disgiuntamente, con alcuni elementi ad una fattispecie, con gli altri all’altra»[235].
Occorre evidenziare, peraltro, che in Italia il dibattito relativo all’unità o pluralità di reati nel concorso di reati perse di una certa rilevanza proprio con l’entrata in vigore del codice Rocco. Il regime sanzionatorio adottato dal nuovo codice, infatti, sostituendo alla regola dell’assorbimento quella del cumulo materiale di reati, «depone[va] decisamente a favore della teoria pluralistica, rendendo anzi in gran parte sterili e fondamentalmente aprioristiche le eventuali affermazioni di segno opposto»[236]. La stessa Relazione al progetto definitivo del codice precisava come con la nuova disciplina si intendesse «nettamente distinguere l’ipotesi di concorso ideale di reati da quella del concorso di norme giuridico, che a poco a poco gli interpreti avevano finito col confondere fra loro»[237].
Proponendo innovative soluzioni in punto di pena, si è visto come Moro, di contro, costruisca la figura del concorso formale come un quid intermedio tra unità e pluralità di reati, rintracciandovi ragioni tanto di pluralità (le lesioni giuridiche molteplici), quanto di unità (l’azione unitaria).
Questa posizione ‘di mezzo’, che caratterizza le c.d. universitas, connota inoltre, secondo l’Autore, anche le c.d. unità legali, alle quali vengono ricondotte le figure del reato complesso e continuato, nonché del reato abituale e permanente. In tutti questi casi, secondo Moro, il reato sarebbe unico, ma l’unità dell’illecito avrebbe una struttura «complessa che trova il fondamento in una volontà della legge»[238]. In particolare, i «dati che si risolvono in unità sono qui dei reati, nella considerazione astratta perfetti in tutti i loro elementi, in ordine ai quali sussiste una ragione di connessione che conduce il legislatore ad amalgamarli in una nuova complessa configurazione criminosa»[239].
Rispetto al caso vero e proprio di reato unico, le unità legali si distinguono perché l’unificazione appare anzitutto compiuta dal legislatore, che, rintracciando nella realtà sostanziale una ragione di connessione, unifica in una sola fattispecie più ipotesi di reato[240]; il momento della sintesi legislativa, pertanto, «precede idealmente il porsi di un rapporto di rango tra le norme»[241], pure rintracciabile tra la norma unitaria e le disposizioni riferite agli singoli elementi.
La ragione di connessione che fa da sfondo alla scelta normativa è data ancora una volta, secondo Moro, dalla «oggettiva antigiuridicità della situazione, che risulta unitaria, pur nella sua linea di complessità, per lo sfociare dei vari contenuti illeciti in un solo oggettivo significato, entro un quadro unitario posto nella realtà sociale»[242].
Come si è anticipato, Moro riconduce alle c.d. unità legali anzitutto le figure del reato complesso e del reato continuato.
Per quanto riguarda il reato complesso, questo presenta secondo l’Autore una struttura simile al concorso ideale di reati, perché in entrambe le ipotesi vengono in considerazione più lesioni giuridiche aventi «un punto comune d’incidenza, che s’inserisc[o]no in una stessa situazione» di fatto[243].
A differenza del concorso ideale, tuttavia, nel reato complesso «l’unificazione operata dal diritto dissolve l’autonomia delle lesioni in una nuova e più comprensiva configurazione»[244].
Come per tutte le ipotesi di c.d. unità legali, anche in questo caso i motivi che determinano l’unificazione sono di tipo squisitamente obiettivo, tali per cui i diversi reati, nella considerazione unitaria del legislatore, rivelano «un vero significato illecito unitario»[245], «un significato veramente nuovo e non riconducibile alla somma dei singoli delitti»[246].
Secondo Moro, questa ragione unitaria di tipo oggettivo connota, inoltre, il reato continuato.
Anche nel reato continuato, che il dato normativo dell’epoca limitava alle violazioni della stessa legge penale e considerava espressamente «come un solo reato»[247], è possibile rintracciare quell’unitaria ragione oggettiva che è alla base di ogni ipotesi di unità del reato, ossia il «solo valore normativo […] inerente» al fatto[248].
Il «medesimo disegno criminoso» di cui parla la legge, pertanto, deve essere inteso anzitutto sul piano oggettivo come unico disvalore giuridico evidenziato dalle diverse violazioni di legge.
A questa base unitaria di tipo oggettivo, fa riscontro poi una componente soggettiva, individuata in un’«unica ragione operante nello spirito del soggetto»[249], un unico «motivo determinante della volontà in tutte le sue estrinsecazioni»[250] (considerata «sufficiente a caratterizzare questo aspetto, senza che occorra parlare di dolo o risoluzione generici»)[251].
Alla categoria della delle c.d. unità legali, Moro riconduce, infine, anche le figure del reato abituale e di quello permanente.
Secondo l’Autore, infatti, in queste ipotesi si riscontrerebbero più elementi dotati di autonoma rilevanza penale considerati unitariamente dal legislatore, perché aventi significato (ossia disvalore giuridico e sociale) unitario.
Così, nel reato abituale, le singole condotte sarebbero dotate di autonomo rilievo giuridico perché «non è possibile che la valutazione giuridica negativa che crea questa figura di reato investa il tutto senza investire le parti, renda significante giuridicamente il tutto senza rendere significante allo stesso modo, ciascuno per la funzione che vi esplica, gli elementi che lo compongono»[252]. Sicchè, il legislatore - con la fattispecie del reato abituale - compie una sintesi dei singoli elementi giuridicamente rilevanti, che nella serie acquistano «un significato, per così dire, essenziale»[253].
Allo stesso modo, inoltre, si atteggerebbe la struttura del reato permanente: anche qui, nell’unica permanente condotta delittuosa, si riscontrerebbero «una molteplicità, in una serie ininterrotta, di lesioni e violazioni giuridiche che si riconducono a unità per un’umana e ragionevole considerazione del complesso delittuoso»[254].
In tutti casi di unità legale, infine, la disposizione più ampia assorbirebbe i disvalori dei singoli elementi sulla base del principio di sussidiarietà, perché «[s]embra agevole ritenere che […] l’un valore normativo comprenda l’altro per il suo contenuto ed il disvalore giuridico del fatto unitario includa in sé quello dei fatti componenti al modo proprio della sussidiarietà».
L’opera di Moro appare senza dubbio originale perché affronta i diversi casi problematici di concorso di norme e reati impiegando un solo criterio risolutivo, ossia l’unitarietà della lesione giuridica, da rintracciare nel fatto (come una sola offesa a un solo bene giuridico) a partire dalle norme (in termini di unica - omogenea - funzione di tutela).
Volendo sintetizzare i risultati raggiunti, è possibile sistemare i vari casi problematici a seconda che nella fattispecie concreta le azioni rilevanti appaiano tra loro connesse nell’ambito di un unico episodio delittuoso ovvero separate da un apprezzabile intervallo di tempo.
(a) In un unico contesto criminoso, dove le azioni rilevanti appaiono in qualche modo collegate, si potrà avere:
(b) Fuori dall’ipotesi di unico contesto delittuoso, di concorso, si danno le seguenti ipotesi:
Nel dibattito scientifico successivo alla pubblicazione del volume, la monografia di Moro ha rappresentato un punto di confronto per gli studiosi che hanno affrontato questi temi.
È necessario, pertanto, evidenziare le principali critiche mosse alla sua impostazione, i punti di forza e gli stimoli ancora attuali alla riflessione scientifica.
Per semplicità espositiva, si procederà ‘a ritroso’, partendo dal tema delle c.d. unità legali per passare poi al concorso formale di reati e, infine, all’unità di reato e al concorso apparente di norme (che dell’opera appaiono senza dubbio i loci più fecondi per la riflessione scientifica attuale).
Per quanto riguarda le unità legali, anzitutto, è stata criticata la possibilità di individuare nei casi considerati da Moro - soprattutto di reato continuato, abituale e permanente - un concorso apparente di norme.
Anzitutto, nel caso del reato continuato, questa possibilità è stata esclusa, perché si dovrebbe ammettere un concorso della norma con se stessa, con l’incertezza sul criterio da utilizzare per individuare la norma prevalente.
«Già sotto il profilo logico» apparirebbe inconcepibile «la convergenza di una norma con sé stessa»[258], presupponendo il fenomeno della convergenza il concorrere di più norme tra loro diverse.
Nel caso del reato abituale e permanente, inoltre, il concorso apparente non sarebbe ipotizzabile, perché «la norma incriminatrice dovrebbe essere addirittura “disintegrata” in due norme diverse, tra le quali poter successivamente ravvisare un rapporto di sussidiarietà»[259]. Per questo motivo, si è affermato che: «per quanto l’illustre Maestro si impegni, la norma incriminatrice di un reato - comunemente ritenuto permanente - come il sequestro di persona (art. 605 c.p.) rimarrà, fino ad eventuali modifiche legislative, una e una soltanto»[260].
Queste critiche, invero, appaiono difficilmente superabili.
Per fondare il concorso di norme, infatti, Moro ipotizza, accanto alla sussistenza della norma del reato unitario, altre norme «che si riferiscono alle singole entità delittuose in essa composte in sintesi»[261], così predicando un inammissibile «processo di disintegrazione o d’integrazione» della fattispecie unitaria, attraverso cui desumere «quel minor valore normativo in essa implicito sulla cui base costruire le parziali individue estrinsecazioni delittuose»[262].
Nonostante questi ‘punti deboli’, si deve riconoscere come la costruzione di Moro colga nel segno, laddove mette in luce la ratio sostanziale di queste figure delittuose, ossia la ragione di unitarietà che avvince gli elementi considerati.
Rispetto al concorso formale di reati, l’impostazione di Moro è stata critica per aver inteso “l’unica azione od omissione” in termini anche subiettivi, intendendo questo requisito come unico atto di ribellione all’ordinamento.
In particolare, si è affermato che «[i]n corrispondenza all’ampia gamma di tipi ed intensità di connessione che - pur restando nel quadro di una nozione ristretta del concorso formale - fra la pluralità di eventi sul piano oggettivo si può dare, il riflesso di tale gamma sullo specchio (talvolta deformante) costituito dallo schermo mentale del reato può dar luogo a svariati atteggiamenti psicologici, a seconda del nesso ravvisato fra gli eventi e del maggiore o minore grado di “appetizione” relativo a ciascuno di essi»[263].
In altri termini, «anche restando nel quadro del dolo, è assai facile che la stessa intensità dell’atteggiamento volitivo si presenti differenziata rispetto ai diversi eventi»[264].
Accanto alla valorizzazione del momento subiettivo, inoltre, è apparsa critica anche la scelta di accordare un trattamento di favore in considerazione dell’unicità della condotta esterna, che rappresenterebbe solo un «fortunato risparmio di energie»[265]; ovvero perché l’autore di reati in concorso formale non può ritenersi meno pericoloso di chi abbia commesso reati materialmente concorrenti[266].
In realtà, per quanto riguarda il momento subiettivo, si è visto che Moro intende questo elemento come unica esplosione di energia, traducendo sul piano soggettivo il concetto (oggettivo) di unica azione od omissione, da leggersi, secondo l’Autore, come “unico episodio delittuoso”. Ciò che importa, quindi, è che le diverse violazioni si collochino all’interno di un quadro che appare unitario, sia in termini di tempo e luogo, sia rispetto al soggetto agente, che agisce mosso da un unico impeto.
Trattandosi poi di un unico episodio delittuoso, proprio la circostanza unitaria in cui si sono estrinsecate le condotte illecite giustifica un trattamento sanzionatorio meno severo rispetto al concorso materiale, perché le violazioni commesse in questa evenienza presentano comunque un carattere unitario che le distingue dal concorso materiale di reati.
I rilievi critici maggiori sono stati rivolti al concetto di unità del reato ed al correlativo tema del concorso apparente di norme, risolto attraverso i principi di specialità e consunzione.
In merito, al di là delle ‘tradizionali’ critiche contro il criterio di consunzione, - vuoi perché non espressamente codificato, vuoi perché troppo incerto nei suoi contorni[267] -, la posizione di Moro è stata criticata anzitutto per l’eccesivo spazio che concederebbe all’intuizione del giudice, in uno con il riconoscimento di un sottostante significato “sociale”-pregiuridico al fatto che, appunto, l’organo giudicante sarebbe chiamato a considerare.
A partire, anzitutto, dalle critiche mosse alla possibilità di ravvisare il rapporto di specialità anche tra disposizioni che proteggono interessi diversi, si è affermato che «[n]on sarebbe esatto per contro osservare, come si è fatto dal Moro (Unità, ecc. cit., pag. 55), che la stessa natura del rapporto di specialità richiede la diversità del bene giuridico protetto e che ad ogni norma corrisponde un particolare bene giuridico. Salvo a scivolare in una concezione tanto atomistica del contenuto del reato che perverrebbe al singolare risultato di affievolire del tutto, per eccesso, la nozione in esame, occorre riconoscere che uno stesso bene giuridico può essere protetto con una pluralità di norme incriminatrici, le quali, per talune particolarità non inerenti all’oggetto della tutela, possono essere legate da un rapporto di genere a specie»[268].
Sul punto, anzitutto, occorre però chiarire che nella sistematica di Moro per “interesse tutelato” si allude allo specifico scopo di tutela perseguito dalla norma (cfr. retro par. 5.5.1.) ed è per questo motivo che due disposizioni non possono avere la stessa funzione di protezione, perché, altrimenti, sarebbero identiche.
Inoltre, al di là della specifica posizione di Moro, occorre evidenziare che anche altri Autori, impiegando argomenti diversi, hanno escluso che il medesimo bene giuridico sia condizione necessaria per individuare un rapporto di specialità tra norme: «fondare […] il criterio distintivo del cosidetto concorso di norme dal vero e proprio concorrere di reati, sull’identità del bene giuridico tutelato dall’una e dall’altra fra le più norme incriminatrici che verrebbero in considerazione ci sembra che possa risultare non del tutto giustificato, poiché equivale ad appoggiarsi su di una base non sempre sicura per l’incertezza stessa dei confini che possono separare l’uno dall’altro bene, l’uno dall’altro interesse giuridico» e può «può offrire il fianco a critiche il cui fondamento non può senz’altro essere disconosciuto in rapporto alla indiscutibile fluidità di una innumerevole molteplicità di casi de bene di cui trattasi, donde l’estremo disagio che ne accompagni l’individuazione concreta in talune circostanze» [269].
Peraltro, «quello che più conta porre in rilievo è che questo criterio restrittivo, oltre a non avere il minimo punto di appoggio ed essere, quindi, del tutto arbitrario, porta a conseguenze che per nessun verso si possono giustificare. Se infatti, venisse accolto, bisognerebbe escludere - tanto per fare degli esempi - che siano speciali rispetto alla norma generalissima che prevede la violenza privata (art. 610 cod. pen.: delitto contro la libertà individuale) le norme incriminatrici che contemplano l’attentato contro i delitti politici del cittadino (art. 294: delitto contro la personalità dello Stato), la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336: delitto contro la pubblica Amministrazione) e la violenza carnale»[270].
In merito, infine, occorre segnalare che anche la giurisprudenza più recente sembra aver abbandonato il criterio dello stesso bene giuridico per ravvisare un rapporto di specialità tra norme penali, affermando che «il richiamo alla natura dell’interesse protetto non è considerato decisivo» e «il riferimento anche all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità»[271].
Sotto altro punto di vista, la posizione di Moro è stata criticata per l’eccessivo spazio che lascerebbe all’intuizione del giudice, chiamato a decidere se, nella situazione considerata, si ravvisa un solo reato o una pluralità di illeciti.
A proposito del principio di consunzione, infatti, Moro afferma che l’indagine sull’unità del reato deve «rivolgersi con maggior attenzione alla realtà di fatto in tutti i suoi aspetti ed in particolare agl’interessi in gioco così come si esprimono nelle norme e debba far perno in larga parte sull’intelligente apprezzamento del giudice»[272].
Più in generale, è l’intera materia dell’unità del reato che in ultima analisi risulta affidata all’interprete, perché è «già l’interprete che attribuisce alla situazione un valore giuridico unitario, che, riducendo ad unità in un quadro di significato sociale i complessi elementi che si presentano, esclude una plurima validità di norme e riscontra nel fatto un solo reato. Il punto focale di questa interpretazione è la lesione unitaria dei beni giuridici […]. E’ proprio questa determinazione sostanziale, operata sovente in base ad apprezzamenti di valore sociale, che indica il reale unitario significato normativo della fattispecie che viene in considerazione»[273].
Per questo motivo, la teoria di Moro è stata criticata perchè «la definizione di una questione dotata di notevoli conseguenze sotto il profilo sanzionatorio quale la distinzione fra concorso formale e concorso materiale non pare opportuno venga cercata sul piano delle sfumature “emozionali”: si tratta di un problema tecnico tra i più complessi, che esige un’impostazione precisa e per il quale comunque il rinvio a inafferrabili convincimenti “sociali” appare ben poco fruttuoso»[274].
Con riguardo a questa critica, occorre anzitutto evidenziare che il ruolo centrale demandato nella teoria di Moro all’interprete, chiamato a considerare la realtà sub iudice nel significato che questa assume all’interno del quadro sociale, è senz’altro in linea con il pensiero giuridico e filosofico dell’Autore, per cui il diritto è non è che uno dei punti di vista sulla vita sociale, oggetto precipuo delle norme è la realtà sociale.
La teoria elaborata dall’Autore, inoltre, non sembra in realtà attribuire all’interprete eccessiva libertà, in quanto, a nostro avviso, si limita ad evidenziare il ruolo sempre centrale dell’interpretazione, che, in quest’ambito come in ogni altro settore del diritto, appare fondamentale.
Per altro verso, l’attenzione richiamata da Moro sul singolo caso sub iudice vale forse a porre in luce un ulteriore aspetto di questa delicata materia, ossia la circostanza per cui, in ultima analisi, il problema del concorso di reati e di norme si risolve, prima di tutto, interpretando correttamente le singole fattispecie di volta in volta considerate. Proprio questa circostanza, a ben vedere, spiega la complessità dei problemi affrontati e motiva la necessità di procedere dal piano dei principi generali a un’analisi specifica dei diversi casi di concorso di norme o di reati, secondo un approccio case by case per fattispecie di reato.
In questo senso, si è rilevato come si tratti, pur sempre, «di accertare il campo di estensioni delle singole norme, delimitandosi la portata della tutela da ciascuna predisposta, e determinandosi entro quali confini la tutela voluta da una norma sia ricompresa in quella apprestata da un’altra più ampia, il che, in mancanza di una espressa disposizione legislativa, avrà pur sempre a dipendere dall’intuito pratico del giurista, non senza la possibilità di valutazioni difformi e fra loro discordanti, e ciò per la natura stessa dell’indagine, diretta alla ricerca di una volontà che il legislatore non ha manifestato espressamente e che per ciò stesso può facilmente prestarsi alla varietà molteplici delle opinione e dei giudizi»[275].
Per le ragioni esposte, le critiche mosse alla teoria di Moro in punto di unità del reato appaiono almeno in parte superabili, dovendosi riconoscere anzitutto come l’applicazione del principio di specialità si riveli spesso insufficiente a risolvere i problemi di ne bis in idem sostanziale, al quale va incontro il principio di consunzione che talvolta la giurisprudenza ha utilizzato[276] (v. retro nota 2) ed è stato anche considerato da tutti i progetti di riforma del codice penale redatti a partire degli anni ’90.[277]
Rimane attuale la riflessione di Moro sulla rilevanza attribuita all’offesa agli interessi tutelati dalle norme convergenti e sulla concreta conformazione del fatto: «non v’è dubbio […] che possa o debba farsi ricorso alla determinazione di quegli aspetti soggettivi ed oggettivi del fatto, che in qualche modo contribuiscono a far risultare il carattere unitario della lesione e perciò del reato. Un importante riferimento è quello all’unità della persona lesa […]. Dovrà considerarsi ancora la struttura propria del processo esterno la quale dimostri, nella rapida successione delle azioni, quella puntuale incidenza del reato nel mondo dei valori giuridici […]. È da tener presente infine lo svolgersi delle diverse attività in una sequenza che prende le mosse da un’unica iniziativa del soggetto».
G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, in «Il Politico», vol. 45, n. 1, 1980, p. 34. ↑
Movimento che come noto «è cominciato poco dopo il 1870 in Germania, dove ebbe le più cospicue manifestazioni nelle opere del Binding e del Merkel, mentre il Laband parallelamente operava nel diritto costituzionale», F. Antolisei, Per un indirizzo realistico, in Id., Scritti di diritto penale, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1955, p. 35, che richiama K. Binding, Handbuch des deuschen Strafrechts, Duncker & Humblot, 1885, vol I, p. 477 ss., il quale, importando le categorie civilistiche della cessione, della novazione, dell’obbligazione solidale e della fideiussione nel diritto penale, giunse fine a definire il reo quale «soggetto debitore della pena». ↑
«Non è possibile fare a meno di riconoscere che nel campo della nostra disciplina sono nate e si sono sviluppate non poche piante senza fronde e senza frutti; vi sono degli arbusti secchi ed anche dell’erba inutile», ibidem. ↑
Come si vedrà, infra par. 2 ss., l’antigiuridicità penale è definita da Moro - citando A. Rocco, L'oggetto del reato e la tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Torino, F.lli Boca, 1913, p. 475 - come «l’essenza stessa, la natura intrinseca, l’in sé del reato» (A. Moro, L’antigiuridicità penale, Palermo, Editore Priulla, 1947, ed. digitale, in aldomorodigitale.unibo.it, p. 1). ↑
G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, cit., p. 34. ↑
«Attraverso il filtro di quel tanto discusso elemento costitutivo del reato, che è appunto l’antigiuridicità, […] passano tutta la dottrina generale dell’illecito (del quale l’antigiuridicità è una del tutto penalistica e non riproducibile espressione), la dottrina sul carattere valutativo della norma giuridica o meglio sulla autonomia di una funzione valutativa del diritto rispetto alla funzione imperativa […], la dottrina del bene giuridico e del reato come azione lesiva ed a un tempo violatrice di un dovere, tutta la dottrina della colpevolezza», G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, cit., p. 34 s. ↑
S. Messina, L'antigiuridicità nella teoria del reato, Spoleto, Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1942, rileva altresì che «la indagine indipendente sulla contradizione al diritto contenuta nel reato è una indagine recente. Solo col Carrara si rivolge l’attenzione al reato come entità giuridica che sorge dalla violazione del diritto», p. 1, che rimanda a F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, Lucca, Tipografia Giusti, 1877, vol. I, § 35, per cui «il delitto non è definito un’azione ma una infrazione: dunque la sua nozione non si desume dal fatto naturale, né dal divieto della legge, isolamente guardati, ma dal conflitto tra quello e questo». Anche G. Maggiore, Principi di dir. pen., Bologna, N. Zanichelli, 1937, I vol., 2° ed., p. 253 rivendica al Carrara la priorità dell’indagine sul concetto di antigiuridicità. Contro questa opinione, v. tuttavia F. Alimena, Appunti di teoria generale del reato, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1938, p. 3, per il quale Carrara «credette che, accanto al requisito del fatto (forza fisica) ed a quello psicologico (forza morale), non vi fosse un atro requisito. Onde, allorché si trovò a dover sistemare buona parte di quelle che si chiamano cause di giustificazione o di esclusione della illiceità, le allocò nell’ambito della forza morale». ↑
Sull’evoluzione che la categoria ha subito, e in particolare per la considerazione per cui l’elemento dell’antigiuridicità è risultato svuotato in favore del fatto tipico, che oggi «contiene molto del discorso relativo ai diritti e alla valutazione giuridica», v. M. Donini, Antigiuridicità e giustificazione oggi. Nuova dogmatica o solo una critica?, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 2009, p. 1646 ss. ↑
È importante notare che il giudizio di disvalore era anche quello demandato al giudice dal legislatore, perché, nella dottrina allora coeva, appartenevano all’antigiuridicità - a questo giudizio di disvalore - anche gli elementi normativi del tipo, che appunto non descrivono un dato della realtà, ma richiedono un giudizio ulteriore (quale ad esempio il concetto di oscenità). ↑
A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, a cura di F. Tritto, Bari, Cacucci Editore, 2005, p. 484. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 486. ↑
G. Delitala, La nozione di fatto, in Id., Dritto penale. Raccolta degli scritti, Varese, Giuffrè editore - Milano, 1976, p. 13. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Per un ampio excursus v. G. Marinucci, Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., Torino, 1987, I, p. 172 ss.; M. Donini, Teoria del reato, in Dig. disc. pen., vol. XIV, p. 242 ss.; R. Dell’Andro, Antigiuridicità, in Encicloped. Dir., 1958, II, p. 542 ss.; S. Canestrari - L. Cornacchia, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 503 ss.; T. Padovani, Alle origini di un dogma: appunti sulle origini dell’antigiuridicità obiettiva, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1983, p. 532 ss.; G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1984, p. 529 ss.; Id., La dottrina italiana dell’antigiuridicità, in Festschrift für H.H. Jescheck, Berlin, 1985 e ora in Id., Scritti giuridici, Milano, Dott. A. Giuffrè Editore, 1997, Vol. I, Tomo I, p. 893 ss.; F. Antolisei, L’analisi del reato, in Id., Scritti di diritto penale, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1955, p. 61 ss.; G. Bettiol, Sul metodo della considerazione unitaria del reato, in Id., Scritti giuridici, Padova, Cedam, 1966, tomo I, p. 388 ss. ↑
Oltre alla disputa tra oggettivisti e soggettivisti, ad esempio, un’altra questione riguardava l’antigiuridicità formale ovvero sostanziale: intesa in senso formale, il metro del giudizio (del contrasto al diritto) doveva intendersi soltanto la legge formale dello Stato; intensa in senso sostanziale, l’antigiuridicità rimandava a fonti ultra-legali, per cui: «le dottrine sull’antigiuridicità materiale prospettano, in generale, la distinzione tra antigiuridicità formale e materiale come distinzione tra il punto di vista del legislatore ed il punto di vista della società sul conflitto di interessi che sottostà alla norma penale» (R. Dell’Andro, Antigiuridicità, cit., 1958, p. 553). A queste teorie, si riconduce la teoria dell'azione socialmente adeguata proposta dal Welzel (cfr. Studien zum System des Strafrechts, cit., 516 ss.), nonché la teoria del «giusto mezzo a giusto scopo» di Graf Zu Dohna (Die Rechtswidrigkeit als allgemeingültiges Merkmal im Tatbestande stafbarer Handlungen, cit., 53 ss.).Cfr. G. Marinucci, voce Antigiuridicità, cit., 185 ss., per cui dietro la coppia concettuale “antigiuridicità-formale” e “antigiuridicità-sostanziale” si cela «la ricerca, al di fuori e al di sopra del diritto positivo, anche consuetudinario, di ‘principi’ destinati a colmare vere o supposte lacune nel catalogo delle cause di giustificazione» .
Si noti peraltro che negli scritti dell’epoca non sempre l’antigiuridicità materiale rimanda a una fonte metagiuridica. In A. Valletta, L’antigiuridicità penale in relazione allo scopo della norma, Napoli, Casa editrice dott. Eugenio Jovene, 1951, p. 37 - in maniera analoga a A. Moro, L’antigiuridicità penale, ed. digitale p. 3 - ad esempio il termine fa riferimento all’esigenza che il fatto non sia formale violazione della norma penale ma si diriga altresì contro lo «scopo che, con la legge penale, un determinato Stato persegue in un momento storico» (p. 34). In questo senso la distinzione tra antigiuridicità formale e sostanziale «dovrebbe stabilirsi tra una antigiuridicità formale intesa, sic et simpliciter, quale rapporto di antitesi tra l’azione e la legge penale, ed una antigiuridicità materiale consistente - per mantenersi nelle linee generali - nella contradizione tra l’azione e qualche cosa di sostanziale che si ricava dalla norma penale ma non si esaurisce formalmente in essa, e per la quale contradizione l’azione può essere considerata intrinsecamente antigiuridica» (ibidem). Così anche il Grispigni proponeva un criterio teleologico materiale o sostanziale dalla natura conoscitiva, che tiene unicamente conto dello scopo fissato nella legge dal legislatore (F. Grispigni, Corso di diritto penale, Cedam, Padova, 1937, p. 412, nt. 2); in contrapposizione alla natura creativa del criterio, per cui un elemento emotivo e irrazionale si troverebbe alla radice del processo mentale (E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), Padova, Cedam, 1935, p. 102).
In Italia, v. soprattutto l’indagine di P. Nuvolone, I limiti taciti della norma penale, Palermo, G. Priulla Editore Palermo, 1947, che ha esplorato i confini della norma penale anche oltre il corpus legislativo e, in particolare, considerando (tra i limiti taciti dal punto di vista oggettivo che derivano da fonti diverse dalla legge) la consuetudine e alla natura della istituzione, intesa come « organizzazione legale e di fatto di un gruppo sociale che si attua secondo il criterio di equilibrio delle forze sociali» (p. 83). Nella costruzione di Nuvolone, a monte, vi è la considerazione che «la norma giuridica […] dovendo essere obbligatoria per una generalità di soggetti, ha come caratteristica fondamentale l’obbiettività, in quanto rappresenta o dovrebbe rappresentare il punto di equilibrio delle forze sociali; tale obbiettività può essere presunta, nella forma legislativa, che è emanazione di un potere costituito; o effettiva, quando essa si traduce in un modo di essere della struttura del gruppo (istituzione) o in un comportamento concreto consacrato dall’uso (consuetudine)» (p. 58). La teoria di Graf Zu Dohna è stata ripresa da A. De Marsico, Diritto penale. Parte generale. Lezioni universitarie, Napoli, Casa editrice dott. Eugenio Jovene, 1935, p. 143, che ne ha tratto il carattere a un tempo obiettivo e subiettivo dell’antigiuridicità: «l’antigiuridicità, sorgendo dal rapporto tra mezzo e fine […] è un carattere d’indole subiettiva ed obiettiva insieme. Se nasce dalla ingiustizia del mezzo, può anche dirsi di carattere originariamente obiettivo ma conduce anche all’ingiustizia del fine; e viceversa» (p. 160). ↑
S. Messina, L’antigiuridicità nella teoria del reato, cit., p. 4. ↑
Appartengono a questa corrente, oltre a E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), cit., anche G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, Cedam, 1930; Id., Diritto penale. Raccolta degli scritti, Milano, Giuffrè editore, 1976, p. 12 ss.; A. Santoro, Circostanze, fatto ed antigiuridicità nella teoria del reato, in Studi in onore di Mariano D’Amelio, III, Roma, Società Editrice del Foro Italiano, 1933, p. 340 ss.; F. Grispigni, La responsabilità giuridica dei c.d. non imputabili, in «La scuola positiva», 1920, p. 2 ss.; C. Esposito, Lineamenti di una dottrina del diritto, Padova, Cedam, 1932, p. 12; G. Bettiol, Diritto penale (parte generale), Busto Arsizio, G. Priulla Editore Palermo, 1945, p. 181 ss. Anche G. Maggiore, Principi di dir. pen., cit., pur propugnando una concezione unitaria del reato, accede a una concezione dell’antigiuridicità in senso oggettivo: per cui «l’antigiuridicità è del tutto oggettiva» e «il giudizio sulla criminosità del fatto è distinto da quello sulla colpevolezza» (p. 171). ↑
Cfr. E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), cit.,p. 185, per cui «esistono situazioni contrarie o conformi al diritto»; G. Delitala, La nozione di fatto, cit., p. 14: il diritto soggettivo è in ogni caso «una relazione tra soggetto e oggetto posta dal diritto oggettivo», e pertanto il contrasto col diritto si risolve sempre nel contrasto col diritto oggettivo. ↑
B. Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 38. ↑
Cfr. G. Delitala, La nozione di fatto, cit., p. 16 s.: «quando l’ordinamento giuridico impone ai singoli un dovere di condotta, ha precedentemente valutato la conformità ai propri fini del comportamento richiesto, e che questo giudizio prescinde conseguentemente dal requisito della colpa. In altre parole, l’ordinamento giuridico prima valuta le azioni umane secondo la loro direzione oggettiva, e considera se contrastino o meno ai propri scopi, poi, sulla base di quella valutazione, impone ai sudditi di comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, o, in altre parole, di non porre colpevolmente in essere le azioni che reputi contrastanti ai propri fini, o, più brevemente, azioni antigiuridiche». ↑
G. Delitala, La nozione di fatto, cit., p. 20 s.: «Conseguentemente, anche le azioni di un minore o di un infermo di mente possono essere considerate azioni antigiuridiche, sebbene non siano azioni colpevoli, perché, facendo difetto l’imputabilità, fa anche necessariamente difetto la colpa. L’imputabilità è quindi un presupposto della colpa, e non già […] un presupposto dell’antigiuridicità». ↑
Occorre peraltro sottolineare che non sempre l’antigiuridicità oggettiva rimanda alla sistematica tripartita; alcuni autori, infatti, ricostruivano l’antigiuridicità in senso obiettivo, pur non accedendo alla sistematica tripartita. Cfr. ad esempio F. Grispigni, La sistematica della parte generale del diritto penale, cit., che utilizza il concetto di antigiuridicità obiettiva all’intero però di una sistematica unitaria del reato. ↑
Altra funzione era quella di escludere il dolo dell’antigiuridicità. Cfr. G. Delitala, La nozione di fatto, cit., p. 25 «[a]lla diversità di tali elementi [quelli propri del fatto e dell’antigiuridicità] è bene che corrispondano anche nomi diversi, se si vuole evitare ogni pericolo di confusione. Pericolo, per giunta, tutt’altro che ipotetico, quando si ricordi che la maggior parte degli scrittori che considerano l’antigiuridicità come un elemento o una nota del fatto, hanno finito poi per sostenere che la conoscenza dell’antigiuridicità dell’azione è un elemento costitutivo del concetto del dolo»; nonché, a p. 131 ,«[l]a riserva dell’art. 35 c.p. indica chiaramente come la volontà non abbracci, sempre e necessariamente, tutti gli elementi del fatto. Non c’è dunque una ragione per restringere il concetto di fatto a quegli elementi del reato che debbono essere realizzati volontariamente, designando tutti gli altri come condizioni di punibilità. La determinazione del concetto di fatto in funzione dell’elemento soggettivo è, d’altra parte, non solo praticamente inutile, ma anche teoricamente impropria, poiché parte dal presupposto che la volontà colpevole si adegui sempre esattamente agli estremi obiettivi del fatto».
Cfr. però E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), cit., p. 350, per cui sebbene il torto dell’azione non sia elemento costitutivo della fattispecie, è comunque elemento costitutivo del reato e, pertanto, l’agente deve averne conoscenza. ↑
Sull’utilità della distinzione tra fatto antigiuridico e colpevolezza per la risoluzione di alcuni problemi pratici (l’applicabilità delle misure di sicurezza ai soggetti incapaci, la natura accessoria della partecipazione delittuosa, la ricettazione di cose sottratte da un incapace, ecc.), v. G. Delitala, La nozione di fatto, cit. p. 45 ss. A questi fenomeni, secondo i sostenitori dell’antigiuridicità soggettiva, si poteva rispondere anche senza far ricorso al torto oggettivo. Così per esempio, con riguardo alla posizione dei soggetti incapaci, B. Petrocelli, L’antigiuridicità, Cedam, Padova, 1966, p. 50 ss. riteneva che il fatto dell’incapace non dovesse considerarsi antigiuridico; F. Antolisei, L’analisi del reato, cit., p. 85 ss., affermava invece che anche in questi casi vi fosse un coefficiente soggettivo, come nesso psicologico tra il soggetto e il fatto allo stesso modo. Rispetto ai vari fenomeni del diritto ‘l’antigiuridicità obiettiva avrebbe aiutato a ‘spiegare’ (l’applicazione delle misure di sicurezza agli incapaci e gli altri problemi sopra menzionati) A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., riteneva in particolare che i diversi problemi potessero essere risolti riconoscendo comunque rilievo giuridico alle varie situazioni di volta in volta esaminate (ad esempio, al fatto dell’incapace), capaci quindi di produrre conseguenze giuridiche, pur non rientrando «nella categoria dell’atto illecito vero e proprio» (p. 35). Sicchè «l’escludere tali casi dalla categoria dell’illecito, non vuol dire dunque di necessità escluderli dal mondo del diritto» (ibidem); «[s]iamo di fronte al genus del fatto giuridico, non alla species dell’atto illecito» (ibidem). ↑
G. Battaglini, Diritto penale. Teorie generali, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1937, p. 68. ↑
Cfr. in questo senso G. Bettiol, Diritto penale, cit. p. 182: «solo in casi eccezionali la tipicità è anche ratio essendi dell’antigiuridicità, vale a dire quando nell’ambito della fattispecie sono racchiusi degli elementi normativi che postulano da parte del giudice una valutazione. L’antigiuridicità consiste per l’appunto in una valutazione che compie il giudice circa il carattere lesivo di un comportamento umano». ↑
È noto che la scuola tedesca di Kiel, sotto l’impulso principalmente del Dahm e dello Schaffstein, dal 1935 in poi ha rivendicato il cosiddetto “metodo della considerazione unitaria” nello studio del reato. Questa concezione «era stata presentata come reazione al “malsano partizionismo” della scuola classica e dunque come uno dei punti di aggressione alle teoria liberali tradizionali» (G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, cit., p. 535). In Italia le critiche alla scuola di Kiel sono molto più che note: cfr. tra gli altri R. Maurach, L’evoluzione della dogmatica del reato nel più recente diritto penale germanico, trad. di P. Nuvolone, in «Riv. it. dir. pen.», 1949, p. 637 ss. (per cui «la considerazione unitaria del reato non potè affermarsi nella scienza tedesca neppure sotto il nazionalsocialismo ed è oggi completamente liquidata», p. 637) e in particolare G. Marinucci, Fatto e scriminanti, cit., per cui, seguendo l’impostazione della scuola di Kiel, il reato diverrebbe un Gesamttatbetstand nel cui crogiolo verrebbero fusi, in un «tutto organico», elementi soggettivi e oggettivi, cause di giustificazione, etc. (per cui, richiamando la critica del Welzel, la considerazione unitaria sarebbe “la notte concettuale che occulta ogni distinzione”). Da tale impostazione deriverebbe uno svuotamento del concetto di bene giuridico, nonché la comprensione nell’orbita del reato anche del reo, donde il diritto penale d’autore. In questo senso anche G. Bettiol, Sul metodo della considerazione unitaria, cit., p. 393, che evidenzia come questa concezione attragga nell’orbita del reato anche il reato e la sua personalità, che invece sono entità distinte. ↑
Infatti l’indirizzo propugnato dalla scuola di Kiel è detto anche della «intuizione della essenza» («Wesensschau»): «”il diritto” è insito, ed in continua evoluzione, nella comunità dei popoli, “la legge” non lo crea ma soltanto gli dà una forma: ne consegue che la natura di ciascun reato deve essere avvertita mediante una intuizione della essenza quale si trova storicamente concretata nella coscienza di un dato popolo», R. A. Frosali, Sistema penale italiano. Parte prima. Diritto penale sostanziale, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, vol. I, p. 81. ↑
G. Marinucci, Fatto e scriminanti, cit., p. 1199. ↑
H. Mayer, Strafrecht. A.T., 1953, p. 107, riportato in G. Marinucci, Fatto e scriminanti, cit., p. 1200. ↑
Così, rispetto agli elementi normativi (riscontrati in tutti i casi in cui il legislatore, per descrivere il fatto, si serva di concetti di valore), mentre per G. Delitala, Diritto penale, cit., p. 92, si dovrebbero scomporre tali elementi in due parti, l’una descrittiva appartenente al fatto e l’altra normativa appartenente all’antigiuridicità; viceversa, per G. Bettiol, Sul metodo della considerazione unitaria del reato, cit., p. 396, in questi casi (in cui i fatti non si lasciano ridurre a elemento naturalistico, postulando da parte del giudice un giudizio di valore), effettivamente la tipicità e l’antigiuridicità si confondono. Così anche per A. Santoro, Circostanze, fatto ed antigiuridicità nella teoria del reato, cit., p. 348, in questi casi «il fatto, in tanto è costitutivo del reato, in quanto lo si valuta in un certo modo»; «il fatto, per corrispondere al modello legale, [è] talvolta subordinato ad un giudizio di valore» (ibidem) (di modo che tra gli atti di libidine e la visita ginecologica non vi sarebbe, come vorrebbe Delitala, un medesimo fatto diversamente valutato in punto di antigiuridicità, ma un fatto sostanzialmente diverso: «l’atto di libidine non è solamente animato da una lasciva interiore, ma si esplica come una lasciva», ibidem). ↑
Per esempio, rispetto agli ‘elementi soggettivi del fatto’, mentre per G. Delitala, Diritto penale, cit., p. 93, si tratti di casi in cui la volontà dell’agente è l’indice più sicuro della direzione dell’azione; per E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), cit., p. 187 in questi casi verrebbe eccezionalmente in rilievo il fondamento puramente subiettivo dell’illicitezza. Più a monte, per una ricognizione dei diversi significati di ‘fatto’ nelle teorie tripartite, v. A. Pagliaro, Fatto, condotta illecita e responsabilità oggettiva, cit. ↑
G. Bettiol, Sul metodo della considerazione unitaria del reato, cit., p. 390, cui si rimanda per una considerazione dei diversi metodi e concezioni del reato. ↑
B. Petrocelli, Riesame degli elementi del reato, in «Riv. it. dir. e proc. pen.», 1965, p. 7. ↑
In Italia, B. Petrocelli, Pericolosità e antigiuridicità, in «Riv. dir. penitenziario», 1937, p. 441 ss.; Id., L’antigiuridicità, cit.; F. Antolisei, L’analisi del reato, in Id., Scritti di diritto penale, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1955, p. 61 ss..; F. Alimena, Appunti di teoria generale del reato, cit., p. 10, per il quale «agire in maniera antigiuridica altro non può significare che agire contra ius. Se così è, non si capisce perché, secondo l’accennata dottrina, l’agire contra ius deve concernere il lato obiettivo del reato e non pure quello subiettivo»; così anche A. Regina, La norma penale e la tutela degli interessi privati, Parte prima (Gli interessi penalmente tutelati), Bari, Casa Editrice Dott. Luigi Macrì, 1942, spec. p. 48, per cui «ripugna di considerare contrari al diritto, cioè antigiuridici, quei pregiudizi di fronte ai quali la norma non spiegò tutta intera la sua efficienza e che risultano estranei al momento più caratteristico di essa, cioè al momento imperativo». Escludono che il momento oggettivo della lesione degli interessi protetti appartenga alla giuridicità, pur ritenendolo elemento costitutivo del reato, nella forma del danno o del pericolo, A. Rocco, L’oggetto del reato, cit., p. 474 ss.; nonché V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino, Utet, 1935, vol. I, p. 526. ↑
Cfr. B. Petrocelli, Pericolosità e antigiuridicità, cit., p. 443 s.: «È la coscienza sociale che, prima ancora del diritto, compie la valutazione di ciò che è bene e di ciò che è male, ma questa valutazione è pregiuridica. La valutazione compiuta successivamente dal legislatore, che pur indubbiamente sussiste, non può distaccarsi dal comando giuridico, ma è insita in esso e ne costituisce il contenuto». Nello stesso senso, F. Antolisei, L’analisti del reato, ci.t, p. 81: «[s]i tratta di una cosa sola, che nel campo del diritto penale adempie contemporaneamente due funzioni: valuta e comanda. In realtà la norma penale non valuta senza comandare, non comanda senza valutare». Così anche A. Regina, La norma penale e la tutela degli interessi privati, cit., p.44 s. ↑
B. Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 36. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 38. ↑
Così, la colpa è il non essersi posto nella posizione di lasciarsi motivare dal comando legislativo; non aver rispettato l’obbligo di comportarsi con diligenza, prudenza, ecc. Per questa precisazione, ‘trasportabile’ nella teoria soggettivistica, v. A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 31. ↑
B. Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 116. ↑
Ivi, p. 46, per cui «l’individuo umano sfornito di volontà capace non è destinatario ma oggetto del comando giuridico; e il comando giuridico, che è indirizzato ad altro soggetto, è a lui non indirizzato, ma applicato» e inoltre «esso è considerato non come un soggetto volente, ma come un qualunque fatto che il diritto mira ad influenzare, nell’un senso o nell’altro, per la tutela della convivenza sociale». Sebbene si sia già detto come per l’Antolisei, anche in questi casi sarebbe presente un coefficiente psicologico (v. retro nt. 26). Anche S. Messina, L’antigiuridicità nella teoria del reato, cit. p. 45, pur n una visione unitaria e non soggettivistica dell’antigiuridicità, ritiene che il fatto dell’incapace possa considerarsi antigiuridico, perché il comando legislativo sarebbe rivolto anche all’incapace, il cui procedimento di volontà non è assente ma anormale. L’imputabilità, infatti, rientra soltanto «nel momento della concreta valutazione giuridica del fatto e non in quello della direzione del comando», dovendosi «accogliere […] l’insegnamento del De Marsico per il quale “la distinzione tra capaci e incapaci riguarda il momento ultimo del rapporto processuale, dell’applicazione della sanzione, non quello iniziale, anzi preliminare, della direzione del precetto, e gradua o scevra l’efficacia concreta della norma, non la sua generalità» (p. 46, con rinvio a A. De Marsico, Premesse certe alla dogmatica delle misure penali, in «Riv. dir. pen.», 1935, p. 114). ↑
Cfr. B., Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 70: «Voler ridurre il giudizio sul fatto alla sua oggettività è un’assurda pretesa, perché la ragione della incriminazione è in gran parte nella qualità dell’azione, e gran parte della qualità dell’azione è nell’elemento psichico». Si noti peraltro che lo stesso A. pone in luce il contenuto garantistico della concezione soggettivistica dell’antigiuridicità, da distinguere dal diritto penale c.d. d’autore: «[d]el resto la profonda e radicale differenza fra l’indirizzo soggettivistico dell’antigiuridicità e il diritto penale della volontà sta in ciò: che il primo, fondandosi sulla funzione imperativa del diritto e sul criterio della disobbedienza al comando, accentua nella norma la sua funzione, giuridica ed etica, di garanzia per la libertà del cittadino che viva nella fiduciosa osservanza del diritto; il secondo, sorto in un clima di profondo abbassamento del valore della norma e nel quale si poneva la comunità al di sopra della legge, cioè, in realtà, il modo di vedere attuale al di sopra della regola preventivamente stabilità, esprime un orientamento poliziesco del diritto penale» (p. 82). ↑
Ivi, p. 84. ↑
Ivi, p. 141 (rispetto ai reati di pura condotta), «[i]l danno può essere, dunque, non solo obbiettivamente non riscontrabile; non solo diversamente giudicato dal legislatore e dalla coscienza sociale, sia in rapporto alla sua esistenza che alla sua qualità e quantità; ma tale da essere perfino socialmente nociva l'affermazione che della sua esistenza si fa nella norma e la limitazione di libertà che ne deriva. Tuttavia non è dubbio che, dichiarato dalla norma, il danno esista dal punto di vista giuridico. Non è dunque essenziale che il danno sia effettivo, reale, concreto, come voleva il Rocco. Ciò che è essenziale per il verificarsi dell'illecito non è l'effettivo essere del danno, ma l'affermazione del suo essere da parte del legislatore. Contro il principio che legislatore non vieta l'azione in sé, ma in vista del danno che ne deriva occorre dunque stabilire nettamente che deve trattarsi di un danno che la legge giudica derivare dall'azione. In breve: non l'azione in quanto dannosa, ma l'azione in quanto legislativamente ritenuta dannosa». Anche Antolisei sostiene l’esistenza di reati senza bene giuridico (nei casi in cui la norma penale non si limiti a una funzione conservatrice, ma abbia invece una funzione propulsiva), evidenziando di conseguenza l’esagerazione che la dottrina realistica ha fatto del concetto, F. Antolisei, Il problema del bene giuridico, in Id., Scritti di diritto penale, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1955, p. 96 ss. ↑
Cfr. B., Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 4: «se la tripartizione, così come innanzi stabilita, si presenta nel complesso come un utile mezzo per l'analisi del fatto giuridico-reato, essa non importa affatto che quegli elementi siano come ciascuno a sé, quasi staccati l'uno dall'altro, mentre è evidente che costituiscono una indissolubile unità». Sulla concezione unitaria del reato, v. E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), cit. e, in Italia, oltre allo stesso Moro e Petrocelli, già citato, S. Messina, L’antigiuridicità nella teoria del reato, Spoleto, Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1954, p. 52 s.; G. Maggiore, Principi di dir. pen., Bologna, Nicola Zanichelli, 1937, 2° ed., I vol., p. 192, per il quale il reato «non è già quel ch’è un composto rispetto ai suoi componenti, o una somma rispetto agli addendi. Il reato non è l’azione più l’antigiuridicità più la colpevolezza, ma è, secondo l’aspetto da cui si consideri, tutto azione, tutto antigiuridicità, tutto colpevolezza». Si veda altresì F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Padova, Cedam, 1933, p. 72; per l’Autore gli elementi del reato sono «non già parti dell’atto fisicamente separate o separabili, ma aspetti del medesimo logicamente distinti. Se il reato si raffigura come un poliedro, gli elementi possono essere rappresentati non già come i suoi pezzi ma come le sue facce». Anche P. Nuvolone, I limiti taciti alla norma penale, cit., accede a una concezione unitaria del reato, per cui «fattispecie oggettiva e fattispecie soggettiva costituiscono il fatto del reato, e cioè il contenuto del giudizio di antigiuridicità» (p. 21). Una visione unitaria del reato è propugnata anche da A. Valletta, L’antigiuridicità penale in relazione allo scopo della norma, Napoli, Casa editrice dott. Eugenio Jovene, 1951, spec. p. 18 s. La principale critica mossa alla concezione unitaria del reato sta nell’aver bandito la distinzione del reato in elementi per poi recuperare la medesima differenziazione in sede di analisi del reato, salvo considerare gli ‘elementi’ come aspetti del reato. Cfr. in questo senso - tra i tanti - G. Bettiol, Sul metodo della considerazione unitaria del reato, cit., p. 391, secondo cui «quando al termine elemento si vuole sostituire quello dell’aspetto, non è da credersi che si raggiunga una maggiore chiarezza di idee, perché gli aspetti che un ente può presentare sono normalmente diversi dagli elementi che lo compongono, e se invece - come nel caso del reato - essi si possono identificare anche nei nomi, non c’è motivo per creare una duplicità terminologica pericolosa». Così anche Dell’Andro, Antigiuridicità, cit., p. 546, per cui: «[t]ale concezione non risolve ma supera l’esigenza dalla quale è nata la dottrina dell’antigiuridicità: il sostenere che la qualificazione d'antigiuridicità non può prescindere dagli estremi strutturalmente soggettivi, e che, pertanto, la stessa qualificazione cade su tutti gli elementi dell’illecito, equivale ad attribuire un nuovo nome all'illecito. Prova ne è il fatto che tutti gli autori che accolgono la concezione soggettiva (unitaria) dell’antigiuridicità non possono poi sottrarsi alla necessità di distinguere, nell’àmbito dell’unitaria antigiuridicità (e cioè nell’àmbito dell’unitario illecito) due momenti, due aspetti, oggettivo e soggettivo». V. anche in senso critico G. Marinucci, Fatto e scriminanti, cit., p. 1205, per cui «è la visione “unitaria” del reato, non la sua analisi che sembra impedirne un’adeguata comprensione giuridica». Anche G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, cit., p. 535, rispetto alla concezione unitaria del reato - correlata in particola modo alla scuola di Kiel - sottolinea come «in questo come in altri campi si è qualche volta esagerato, o facendo una vera e propria “caccia alle streghe” o credendo con troppo facilità alle proclamazioni politiche con cui alcuni autori, soprattutto in Germania, amavano ammantare idee e prospettive teoriche o metodologiche che avrebbero potuto allignare anche in altri climi». ↑
Che l’antigiuridicità fosse un carattere del reato, era affermazione diffusa: cfr. ex multis G. Battaglini, Diritto penale. Teorie generali, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1937, p. 116 nt. 3 e p. 87, per cui «nessuna componente del reato è un quid puramente naturale. La considerazione giuridica si riferisce tanto all’elemento oggettivo quanto agli altri componenti»; E. Massari, Il momento esecutivo del reato: contributo alla teoria dell'atto punibile, Pisa, F. Mariotti, 1923, p. 142 ss. per cui l’illiceità «non è un elemento ma un carattere del fatto punibile […] è una nota che penetra in tutte le parti della entità criminosa e tutte le qualifica»; A. De Marsico, Diritto penale. Parte generale. Lezioni universitarie, Napoli, Casa editrice dott. Eugenio Jovene, 1935, p. 245 ss. «non è un elemento del reato ma un carattere di esso. Non lo si trova scomponendo il reato nei suoi elementi strutturali, ma lo si percepisce in ciascuno di essi e nell’insieme di essi»; «[q]uale carattere, essa circola in tutti gli elementi materiali e subiettivi del reato»; E. Florian, Trattato di diritto penale. Parte gen., Milano, Vallardi, 1926, vol. I, p. 380: «l’antigiuridicità del reato ne investe ogni elemento, ogni parte come quella che imprime la caratteristica fondamentale»; T. Delogu, Teoria del consenso dell’avente diritto, Milano, Giuffrè, 1936, p. 76, nt. 14; S. Messina, L’antigiuridicità nella teoria del reato, cit., p. 31 s., secondo cui «[l]’illiceità non è una realtà concreta ma un attributo, una qualificazione che non può stare staccata dall’oggetto al quale si riferisce, ma solo in un rapporto di immanenza»; F. Grispigni, La sistematica della parte generale del diritto penale, Roma, Tipografia delle mantellate, 1935, p. 9, per cui «la contraddizione tra il fatto e il precetto penale non è uno dei requisiti del reato, perché invece, essendo il reato precisamente “la violazione di un precetto penale”, il detto carattere rappresenta l’essenza più intima del reato e come l’espressione sintetica di tutti i requisiti, e si confonde con i medesimi presi insieme, perché, verificandosi questi, contemporaneamente si verifica esso medesimo, in quanto l’antigiuridicità non è né temporalmente né concettualmente diversa dalla somma dei requisiti stessi». ↑
A. Rocco, L'oggetto del reato e la tutela giuridica penale, cit., p. 475. ↑
Così ad esempio, a proposito della considerazione sintetica del reato, A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, cit., p. 482, precisa: «bisogna che sia chiaro che non è una scomposizione in parti del reato ma è l’esercitazione che si compie mediante un’analisi logica in forza della quale il reato ci si presenta secondo aspetti diversi» ma «sia ben chiaro che non si tratta di parti, non si tratta di elementi nei quali si scomponga il reato come qualche volta impropriamente sembra suggerire la terminologica che parla di elementi del reato». ↑
B. Petrocelli, Riesame degli elementi del reato, cit., p. 8. ↑
Oltre a Moro, sostiene l’antigiuridicità unitaria S. Messina, L’antigiuridicità nella teoria del reato, cit. Sostiene che l’antigiuridicità sia oggettiva e soggettiva anche A. Valletta, L’antigiuridicità penale in relazione allo scopo della norma, cit. ↑
Cfr. ad esempio F. Grispigni, La sistematica della parte generale del diritto penale, Roma Tipografia delle mantellate, , 1935, p. 10: «giova poi aggiungere che inesattamente taluni scrittori si limitano a parlare di “antigiuridicità”, mentre è necessario dire: antigiuridicità “penale”, perché se è vero che, per il carattere sanzionatorio del diritto penale, ogni causa di giustificazione extrapenale fa venir meno l’antigiuridicità penale, è però anche vero che possono esistere delle cause per cui viene bensì meno l’antigiuridicità oggettiva penale, ma non anche ogni e qualsiasi antigiuridicità secondo degli altri rami dell’ordinamento giuridico». ↑
V. però F. Alimena, Appunti di teoria generale del diritto, cit., p. 8, che riconosce l’efficacia extra-penale delle cause di liceità per tutt’altri motivi e, in particolare, perché «se esistono delle ragioni così forti che si ha liceità penale, nonostante la conformità al tipo, pare che si possa concludere che trattasi di una liceità che debba valere anche per gli altri rami del diritto». Anche per questo motivo (per cui in caso di non conformità al tipo residuerebbe una possibile illiceità extrapenale, mentre in caso di cause di giustificazione il fatto sarebbe lecito per ogni ramo dell’ordinamento), l’Autore ritiene indispensabile ‘aggiungere’ al requisito del fatto, quello dell’antigiuridicità. ↑
G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, cit., p. 941, che sottolinea altresì come l’antigiuridicità generica sia strettamente collegata alla concezione tripartita del reato e all’antigiuridicità oggettiva. Cfr anche G. Maggiore, Principi di dir. pen., cit., p. 169 s., nt. 2: «Il concetto di un’antigiuridicità speciale (criminale) distinta da l’antigiuridicità in genere, è contestato da quanto aderiscono alla teoria delle Norme del Binding (Beling - Grunzuge, par. 10; Calker - Strafrech, par 5, 8). Il Binding, con la sua concezione ondeggiante tra il diritto comune, e il diritto penale insegna che il delitto non trasgredisce la legge penale ma la norma; e la norma appartiene al diritto pubblico generale e non al diritto penale. […] Or questa teoria, che sottrae al diritto penale tutta la materia delle norme, è costretta, per far ciò, a lacerare l’unità della norma distaccando arbitrariamente la sanzione dal precetto, il mezzo dallo scopo: qui è il suo errore già più volte rilevato. Il vero è che la norma è un tutto inscindibile di precetto e sanzione; e la sanzione (civile, penale, amministrativa) imprime una inconfondibile fisionomia alla norma. Così vi sono norme penali distinte dalle altre norme, e un ordinamento giuridico penale diverso dagli altri ordinamenti. E se vi è una norma penale, vi è una antigiuridicità penale, nel caso che la norma sia trasgredita». Sul collegamento tra antigiuridicità generale e carattere sanzionatorio del diritto penale, cfr. però A. Spena, Diritti e responsabilità penale, Milano, Giuffrè Editore, 2008, p. 323, per cui «nessun dubbio che una concezione sanzionatoria del diritto penale implichi l’idea di una antigiuridicità generale, Non vale però l’inverso».↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 2. Nello stesso senso, anche S. Messina, L’antigiuridicità nella teoria del reato, cit., p. 28, per cui «il diritto non comanda solo per comandare, ma valuta comandando. Se non è un comando cieco c’è nel comando una realtà teleologica». ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 3. ↑
Ibidem. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 4. ↑
Ibidem, p. 3. In un’ottica unitaria: «se è vero che l’antigiuridicità obiettiva non s’intende senza colpevolezza, è pur vero che la colpevolezza neppure s’intende senza antigiuridicità, che insomma il momento del danno e quello dell’inadempimento personale si condizionano a vicenda ed entrano a costituire in unità indissolubile l’illiceità penale», ibidem, p. 4. ↑
Ivi, p. 8. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 20. ↑
Ivi, p. 19. ↑
Ivi, p. 20. ↑
Ivi, p. 9. ↑
Per Moro sono «momenti da distinguere in una complessa realtà, nessuno dei quali può aspirare ad una considerazione esclusiva», ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 11. ↑
Ivi, p. 10. ↑
Ivi, p. 18, nota n. 94. In questo senso Moro riprende la nozione di interesse inteso come alterazione della posizione di un bene rispetto a un soggetto, propugnata da F. Carnelutti, Il danno e il reato, Padova, Cedam, 1930, p. 99. ↑
Tutte le citazioni sono riferite a A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, cit., p. 195. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 19. Moro riprende qui espressamente la teoria della causa del reato di F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Padova, Cedam, 1933. In sintesi, secondo l’A. «ogni atto umano […] è dominato dal principio dell’interesse» giacché «l’uomo si muove se non per appagare un bisogno o, almeno, per raggiungere un interesse»; nel reato l’interesse «corrisponde allo svantaggio dell’altro» (p. 135). L’interesse può essere poi costituito come elemento costitutivo del reato (e in questo caso è disvoluto) ovvero come elemento impeditivo. Si noti peraltro che «“causa” è elemento diverso da quello psicologico e formale e corrisponde all’interesse attivo, cioè il vantaggio che il reo si procura a prezzo del danno altrui», per cui «la causa è un elemento esteriore, non interiore o psicologico», «è l’interesse che, mediante l’atto, cerca il suo raggiungimento» (p. 154). Nel caso delle cause di giustificazione si ha «una causa lecita di una forma illecita» (p. 157). Rispetto a questa teoria e in maniera critica, v. anche J. Goldschidt, Contributo alla sistematica delle teorie generali del reato. (A proposito di un recente libro di F. Carnelutti), in «Riv. it. dir. pen.», 1934, p. 437 ss. ↑
Ivi, p. 16 nota 84. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 16. ↑
Ibidem. ↑
In senso analogo v. anche A. Moro, Lo Stato. Il diritto, cit., p. 373: «di fronte alle dottrine negatrici del bene giuridico, sostenute di recente dalla dottrina nazista, allo scopo di propugnare a parole una eticizzazione del diritto, ed in realtà una legalizzazione o statualizzazione della morale, bisogna tener fermo il già delineato contenuto di scopo dell’azione, il contenuto ingiustamente lesivo dell’azione altrui. L’illecito è cioè un atto completo e concreto, il quale incide in modo significante nel mondo delle relazioni umane». ↑
Moro propugna qui una concezione individualistica del bene giuridico che all’epoca non caratterizzava di per sé il concetto di bene giuridico. Molti teorici, infatti, sostenevano che l’interesse protetto dalla norma penale è sempre e solo quello statuale e l’interesse particolare trova tutela solo eccezionalmente, quando venga a coincidere con quello pubblico. In questo senso si v. uno dei maggiori teorici del bene giuridico - così riconosciuto all’epoca - A. Rocco, L’oggetto del reato, in Id., Op. Giur., Roma, Società editrice del «Foro italiano», 1932, vol. II, p. 147; così anche V. Manzini, Trattato, Torino, Utet, 1935, vol. VI, p. 126 ss., come interesse alla conservazione dei beni giuridici; v. anche A. Regina, La tutela penale degli interessi privati, cit., passim e spec. 131 (che trae la natura dell’interesse tutelato dalla norma penale dal carattere peculiare della sanzione che mira a ripristinare la situazione conforme al diritto; per cui mentre la lesione dell’interesse privato si presenta per lo più come irreparabile, diversamente è l’interesse dello Stato che può essere reintegrato con la pena). Su queste concezioni bene giuridico e sul dibattito vigente all’epoca v. G. Bettiol, Bene giuridico e reato, in Id., Scritti giuridici, Padova, Cedam, 1938, tomo I, p. 318 ss. Che la concezione individualistica del bene giuridico avesse un risvolto politico (giacchè «la teoria del bene giuridico non è che una variante della dottrina del reato come violazione del diritto soggettivo e presuppone, perciò, l’esistenza di una sfera naturale e autonoma nella quale l’individuo sia libero da ogni vincolo sociale, in modo che si presenta come un prodotto caratteristico dell’ideologia dell’individualismo liberale») e che mal si conciliasse con lo stato autoritario è sottolineato da F. Antolisei, Il problema del bene giuridico, in Id., Scritti di diritto penale, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1955, p. 101 s. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 17. ↑
A. Moro, Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, cit. p. 200. L’interesse dello Stato che la norma penale mira a tutelare è quindi proprio l’interesse del singolo: «il bene che è oggetto dell’interesse del soggetto privato è anche il bene che è oggetto dell’interesse pubblico, e lo Stato è soddisfatto, e lo Stato vede realizzati i suoi interessi quando i singoli soggetti privati vedano realizzato il proprio interesse al godimento, garantito ed esclusivo, dei beni della vita sociale che ad essi appartengono. Quindi, da un lato l’interesse del singolo al godimento della cosa propria; dall’altro l’intesse dello Stato al godimento indisturbato della cosa da parte ci ciascun singolo che la possiede». (p. 203). Nei casi della norma penale però vi è un di più «un di più di reazione dell’ordinamento giuridico che, evidentemente, non sta a tutelare il rapporto del singolo con la cosa propria - che è sufficientemente tutelato dalle restituzioni e dai risarcimenti sanciti dalla legge civile - ma riguarda quell’interesse di sicurezza, quell’interesse di normalità della vita sociale, che è proprio dello Stato» (ibidem). ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 24. ↑
Ivi, p. 25. ↑
H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleintung in die rechtswissessenschaftliche Problematik, 1934, trad. it. di R. Treves, Lineamenti di dottrina pura del diritto, 2000, Torino, Giulio Einaudi editore, p. 215. ↑
Ivi, p. 223. ↑
Ivi, p. 216. Il significato del collegamento è però nei due casi diversi: il principio di causalità afferma «se A, c’è (o ci sarà) B»; il principio di imputazione afferma «se A, deve esserci B». Nel primo giudizio, inoltre, la condizione è a sua volta effetto di condizioni pregresse, mentre nel secondo la condizione «non [è] necessariamente allo stesso tempo, conseguenz[a] imputabil[e] a un’altra condizione» (p. 217). In effetti la libertà del soggetto agente sta proprio nel trattare la condizione (il suo comportamento) come causa prima, sganciata dalle pregresse cause naturalistiche, pur ammettendosi al contempo la possibilità di determinazione causale del comportamento umano. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 25. ↑
Ivi, nt. 9. ↑
Ivi, p. 76. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 77. ↑
Ivi, p. 78. Si noti che secondo Kelsen «delle norme possono riferirsi agli individui senza riferirsi ai loro comportamenti. Le sanzioni previste dalle norme giuridiche devono essere dirette contro individui. Ma il comportamento dell’individuo contro il quale la sanzione è diretta può non trovarsi tra le condizioni della sanzione» (H. Kelsens, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 225). ↑
Ivi, p. 77. ↑
Ivi, p. 79. ↑
Moro costruisce quindi la colpa in senso normativo; cfr. ivi, p. 27 ss. ↑
Così il titolo del par. n. 38, nell’indice, p. 24. ↑
Ivi, p. 30. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
A. Moro, La capacità giuridica penale, cit., p. 25 e Id., Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale, cit., p. 357 ss. ↑
M. Bertolino, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, Dott. A. Giuffrè Editore, 1990, p. 542, cui si rimanda per una ricostruzione del dibattito sull’imputabilità e la sistematica del reato. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità penale, p. 27. ↑
Ivi, p. 29. ↑
Ibidem, p. 28, nota 131, con citazione di F. Carnelutti, Teoria generale del reato, cit., p. 209, nota 2. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 28. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. Si segnala che la questione non è ulteriormente sviluppata da Moro, che riconosce espressamente: «[p]unto questo interessantissimo, ma sul quale non possiamo trattenerci nell’economia di questo lavoro», ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem, corsivi aggiunti. ↑
Ivi, p. 34. ↑
Il riferimento corre a F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Padova, Cedam, 1933, p. 72. ↑
V. il titolo del par. 55, nell’indice, p. 37. ↑
Ivi, p. 40. ↑
Si tratta quindi di «una qualità del fatto» che «è un suo modo d’essere»: «l’atto si risolve nel suo significato e questo a sua volta in quello», ibidem. E inoltre: «L’antigiuridicità è il modo di essere essenziale dell’atto che ne esprime la caratteristica, sia pur negativa, adeguatezza alla norma; non è pertanto carattere, se non è al tempo stesso fatto con quel significato; non è fatto, se non così e così conformato, tanto che possa essere colto sotto il profilo del suo disvalore» (p. 40). ↑
Ivi, p. 43. ↑
Ivi, p. 42. ↑
Ivi, p. 44. Ne deriva dunque, in contrapposizione agli oggettivisti, che la fattispecie, il tipo, è ratio essendi dell’antigiuridicità, non ratio cognoscendi, che indizia l’antigiuridicità che pur tuttavia potrebbe escludersi nonostante la conformità al tipo legale; cfr. retro nt. 27. ↑
Ibidem. In termini analoghi S. Messina, L'antigiuridicità nella teoria del reato, cit., p. 61 che inoltre, considera l’antigiuridicità in rapporto alle diverse sistematiche del reato. Così, se nella visione tripartita del reato, al centro stava il fatto materiale naturalistico, dal quale venivano poi a sdoppiarsi un giudizio di antigiuridicità in relazione alla norma e un giudizio di colpevolezza in relazione alla psiche dell’agente; nella bipartizione invece ciascun aspetto contiene non solo l’elemento naturalistico ma altresì la qualifica giuridica di illiceità. In una sistematica unitaria, invece la ‘tripartizione’ è ‘apparente’, nel senso che l’antigiuridicità è «tutto il reato visto da una certa prospettiva, come tutto il prisma si offre alla vista in una delle sue facce». ↑
Ivi, p. 46. ↑
Cfr. G. Delitala, Il «fatto» nella teoria generale del reato, cit., p 35. ↑
Cfr. A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 48: «è come una ingenua pretesa di spiegare, con l'accenno ad un interesse di più alto valore sociale, il non ricorrere della fattispecie illecita nella situazione concreta e come mai perciò il punto di vista della legge in quel caso sia insospettatamente nel senso di escludere la incriminazione. Ma proprio la intrinseca giustizia di quella realizzazione di scopi costituisce criterio per la prevalenza dell'interesse che poi qualifichiamo di maggior valore sociale e non viceversa» ↑
A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 48, nt. 220. ↑
Ivi, p. 43. ↑
Ivi, p. 49. ↑
Ibidem. ↑
Si ricordi che in Moro antigiuridicità e tipicità sono un tutt’uno. ↑
«[I]l parlare di eccezione può valere come richiamo a un più attento esame da parte del giudice delle situazioni particolari che gli si presentano», ivi, p. 48. ↑
Ibidem. ↑
Ivi, p. 49, corsivi aggiunti. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem, corsivi aggiunti. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. Per questa ragione - per l’aspetto veramente umano del diritto - «[i]l diritto accetterebbe così come fatto inevitabile di essere contraddetto»: l’ordinamento penale così come «è costretto a subire il limite invalicabile della capacità del soggetto» («di quella piena umanità, mancando la quale ha da rinunziare […] alla normale e diretta tutela degli interessi»), nei casi di inesigibilità «pure sarebbe necessitato a tener conto dell’umana debolezza ed a sopportare che gli interessi protetti vengano compromessi, quando al rispetto di essi si opponga la forza di motivi contro i quali non valga la capacità media di resistenza e di autodeterminazione nel senso del dovere» (ibidem, corsivi aggiunti). ↑
Ivi, p. 50. ↑
Ibidem. «L’umana considerazione del normale sviluppo del processo volitivo […] invece che scusare la volontà che persegue scopi determinati, giustifica quegli stessi in una diversa e più complessa considerazione» (ibidem). ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
In senso ampio il metodo del tecnicismo-giuridico si contraddistingue per concentrare l’oggetto della ricerca del giurista esclusivamente sulla legislazione vigente, separando scienza del diritto e politica criminale (cfr., ovviamente, la prolusione sassarese di A. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1910, p. 263 ss., vero e proprio manifesto di questo metodo, e, attualmente in una prospettiva più ampia di ricognizione delle scuole e dei metodi succedutesi nel Novecento, C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento, in Storia d’Italia – Annali – 12 – La criminalità, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1997, p. 7 ss. e G. N. Modona e M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, ivi, p. 759 ss.). La ricerca giuridica, in questa prospettiva, doveva riguardare esclusivamente lo studio del diritto positivo, da tenere separato dall’indagine sostanzialistica di tipo politico, sociologico o criminologico. Soprattutto: «la verità dai più pensata e detta, anche se spesso non scritta, era che le ricerche dovevano tenere ben distino il momento “scientifico” e positivo dall’aspetto politico, sociologico, criminologico o di riforma» (M. Donini, Teoria del reato, cit., p. 226). In un’accezione più ristretta, invece, il metodo del tecnicismo-giuridico - «che ha avuto l’adesione, più o meno incondizionata della maggioranza dei seguaci della Scuola Positiva» - espungeva dall’ambito della ricerca scientifica anche il momento di critica al diritto positivo; giacchè: «oggetto della scienza giuridica non è un ipotetico diritto razionale, naturale o ideale, e neppure un diritto di là da venire, vale a dire il jus condendum, ma il diritto positivo in vigore» (ibidem). In questa accezione più ristretta, il metodo tecnico-giuridico separava lo studio delle norme (dalla cui elaborazione mediante concettivi giungeva alla costruzione degli istituti e del sistema) altresì «dalla storia e dalla filosofia», sterilizzando alla radice i tentativi di critica e elaborazione pro futuro del diritto positum (per una critica al metodo v. F. Antolisei, Per un indirizzo realistico, cit., p. 15, tra l’altro al dichiarato fine adattare la scienza giuridica alla nuovo Stato autoritario). ↑
V. in particolare le pagine sul bene giuridico e il rifiuto della concezione metodologica, retro par. 4.3.2. ↑
A. Moro, Lo Stato. Il diritto, cit., p. 299 s. (corsivi aggiunti). ↑
Su cui v. ampiamente, P. Troncone, L'umanesimo penale nel pensiero di Aldo Moro, in «federalismi.it», n. 3, 2017; e L. R. Perfetti, Sul valore normativo della persona. Appunti su Aldo Moro giurista nel quarantennale dell’omicidio in «P.A. Persona e amministrazione», 2018, p. 225 ss.; F. Tritto, Il valore della persona umana nel pensiero giuridico di Aldo Moro, in Atti del Convegno Crisi o collasso del sistema penale? Università di Cassino 28 maggio 1998, a cura di F.S. Fortuna - F. Tritto, Edizioni Univ. Cassino, 2002, pp. 102 ss.; G. Contento, Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 4 (1998), pp. 1151 ss.; A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, in Aa.Vv., Umanesimo e mondo contemporaneo, Roma, Editrice Studium Christi, 1954, p. 51. ↑
P. Nuvolone, I limiti taciti, cit., p. 16, nota 9 ammette anche la responsabilità oggettiva: «se antigiuridicità penale è contrarietà al diritto penale, per stabilire quando vi sia antigiuridicità, è necessario riferirsi a quei fatti cui il diritto ricollega una sanzione di carattere penale; e se il diritto prescinde, in qualche caso, dall’elemento soggettivo, bisogna per forza concludere che l’antigiuridicità è, in quelle ipotesi, solamente obbiettiva. Altrimenti si sancirebbe l’assurdo per cui un fatto è reato senza essere illecito». ↑
Cfr. ad esempio G. Bettiol, Diritto penale, cit., p. 189, per cui «i casi di responsabilità obiettiva che sussistono indubbiamente nella nostra legislazione, non si possono intendere se non si ammette la possibilità che il giudizio sull’antigiuridicità del fatto cagionato dall’agente sia distino dal giudizio sulla rirpovevolezza giuridica del fatto stesso, riprovevolezza che nei casi di responsabilità obiettiva viene decisamente a mancare». ↑
A. Moro, L’antigiuridicità, cit., p. 34. ↑
G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, cit., p. 535. ↑
Oltre alla responsabilità oggettiva, il momento soggettivo dell’antigiuridicità serviva a Moro per affermare il dolo dell’illiceità, invece escluso dagli oggettivisti. Questa posizione, che in Moro non porta a risultati ‘rivoluzionari’ (posto che comunque l’art. 5 c.p. rimane legittimo, stante la ritenuta coincidenza normale tra ordinamento giuridico ed etico, cfr. A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit. p. 28), risulta invece fondamentale con riguardo ai ‘risultati’ conseguiti dai suoi allievi. Il riferimento corre in particolare alla sentenza costituzionale 23 marzo 1988, n. 364, il cui giudice redattore fu l’allievo di Moro Renato Dell’Andro; sul punto v. C. Iagnemma, “La capacità giuridica penale” e “la subiettivazione della norma penale”: i primi due volumi penalistici di Aldo Moro, in «DisCrimen», 22 gennaio 2020, p. 9 s. ↑
Per questa critica v. retro, nt. 49. In effetti, anche guardando alle Lezioni di diritto e procedura penale di Aldo Moro, ci si accorge come, pur continuando a evidenziare il carattere unitario del reato, egli insegni, quali «note concettuali del reato», il fatto tipico, le cause di esclusione dell’antigiuridicità e la colpevolezza. È vero che quest’ultimi due aspetti del reato sono ricompresi sotto il medesimo ‘cappello’ dell’antigiuridicità; purtuttavia questa, esaurendosi proprio nell’assenza di cause di giustificazione e nella colpevolezza, nulla aggiunge di per sé ai due ‘momenti’ (soprattutto considerando che le cause di giustificazioni sono comunque intese in senso obiettivo, come cause che escludono l’aspetto oggettivo dell’antigiuridicità). ↑
Alla visione unitaria del reato, infatti, si accompagnava l’utilizzo, ai fini dell’analisi dell’illecito, dei concetti di “momenti” o “aspetti” del reato, da preferire ai termini - disgreganti l’unità dell’illecito penale - di “categorie” o “elementi: i ‘momenti’ o gli ‘aspetti’ del reato, infatti, possono essere considerati autonomamente, a sé, solo per semplicità d’analisi, essendo di converso inscindibili nella realtà giuridica. Cfr. ad esempio A. Moro, Lezioni di diritto e procedura penale, cit., p. 482 «e sia ben chiaro che non si tratta di parti, non si tratta di elementi nei quali si scomponga il reato come quale volta impropriamente sembra suggerire la terminologia che parla di elementi del reato». ↑
A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit. p. 33. ↑
Circa i meriti della sistematica tripartita, v. G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico – criminali, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1983, che mette in luce come questa costruzione favorisca la costruzione del fatto come categoria teleologica e, quindi, come specifica forma d’offesa al bene giuridico. Inoltre «le categorie del fatto e delle scriminanti racchiudono ordini di problemi la cui comprensione e nessi verrebbero velati senza necessità cogente lavorando con un’unica categoria» (p. 1194 s.). Sui meriti della concezione tripartita - che «tende a sganciarsi dal riferimento al dato naturalistico, orientandosi verso i disvalori - v. anche A: Fiorella, Lo sviluppo in Italia, nel ‘900, delle fondamentali categorie del diritto penale alla luce delle influenze della dottrina tedesca, in «Riv. it. per le scienze giur.», 2015, 6, p. 182. La concezione tripartita permetterebbe infine una miglior costruzione del concetto di colpevolezza; cfr. M. Donini, voce Teoria del reato, cit., p. 239, per cui dall’antigiuridicità intesa in senso obiettivo «si sviluppa l’idea che la colpevolezza non si riduca a un puro stato psicologico, ma esprime un momento più personale di valutazione di antidoverosità»; nonché E. Mezger, Diritto penale (Strafrecht), cit., p. 184, nt. 3, che sottolinea come senza il concetto di ‘torto’ la colpevolezza non esca determinata. ↑
Per tutti, v. A. Pagliaro, voce Concorso di norme, in Enc. dir., VIII, Milano, p. 660 s.: «La questione della unità o pluralità di reati è uno degli argomenti più impegnativi della dottrina del diritto penale. Alla sua definizione si perviene attraverso una problematica assai interessante, lungo la stessa via che si percorre per giungere a intendere l’essenza stessa del reato. Si spiega, quindi, facilmente la diversità delle opinioni che sono state manifestate in questo campo». ↑
In particolare, il principio di consunzione è stato riconosciuto dalla Corte di Cassazione riunita a Sezioni Unite con la sentenza n. 22902 del 2001. Nello specifico, in quell’occasione, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul rapporto tra il delitto di truffa e quello previsto dalla prima parte dell’art. 12 del d.l. n. 143/91 (indebita utilizzazione di carte di credito). Avendo escluso che tra le due norme considerate sia ravvisabile un rapporto di specialità in senso stretto (trattandosi tutt’al più di specialità bilaterale, presentando il reato di uso indebito di carte di credito l’elemento specializzante dell’oggetto della condotta e quello di truffa gli eventi ulteriori di danno e profitto), la Corte ha affermato la necessità di ricorrere a criteri diversi e ulteriori rispetto al mero principio di specialità, «già normativamente disciplinanti sia pure in forma non espressa», riconoscendo: «l'esigenza di far ricorso ad ulteriori criteri di soluzione del concorso di norme nel senso dell'apparenza, dettati dallo stesso legislatore, quando espressamente esclude il concorso reale di norme e quindi di reati, o, in assenza di una specifica previsione, desumibili dal sistema, che esprime in sé un'istanza-guida di giustizia materiale che non tollera l'addebito plurimo di un medesimo fatto tutte le volte che l'applicazione di una sola delle norme in cui è sussumibile il fatto ne esaurisca l'intero contenuto di disvalore sotto il profilo sia oggettivo sia soggettivo: è il c.d. ne bis in idem sostanziale, rispondente ad una esigenza equitativa insopprimibile» (par. 6.1.). La Corte, superando la prevalente giurisprudenza precedente, ha escluso che tra le disposizioni considerate possa ravvisarsi, pur in assenza di un rapporto di specialità tra le due norme, il concorso dei reati di utilizzo indebito di carta di credito e di truffa, facendo espressa applicazione del principio di consunzione (6.2.).
In seguito, l’insegnamento delle Sezioni Unite è stato ripreso nella sentenza Cass. pen., VI sez. pen., 12 dicembre 2006 (dep. 17 gennaio 2007), n. 1090, con cui la Corte ha escluso il concorso (reale) tra i delitti di maltrattamenti e di riduzione di schiavitù; nonché Cass., sez. II, 10 marzo 2016, n. 12872. In questa occasione, ancora una volta, la Corte, chiamata a pronunciarsi sul concorso tra il reato di truffa aggravata ex art. 640, co. 2, n. 1 c.p. (se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico) e i reati tributari di cui agli artt. 5 e 8 del d.lgs. n. 74/2000 (emissione di fatture per operazioni (soggettivamente)), ha escluso il concorso di reati, nonostante l’assenza di un rapporto di specialità e applicando il criterio della consunzione. ↑
Cfr. G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, in «Il Politico», vol. 45, n. 1, 1980, p. 39. ↑
A. Moro, L’antigiuridicità penale, Palermo, Priulla, 1947, ora anche in ed. digitale, in www. aldomorodigitale.unibo.it. ↑
A. Moro, Unità e pluralità di reati. Principi, ed. digitale, in www. aldomorodigitale.unibo.it, p. 9. ↑
Se l’antigiuridicità «serve essenzialmente per la definizione del reato in sé, l’unità per i rapporti di differenziazione con altri reati. Tenuto conto di ciò, si può ben dire che esse costituiscono l’in sè del reato, in forza del quale esso si afferma nel mondo giuridico con i suoi lineamenti propri distintamente da ogni altra realtà», A. Moro, Unità e pluralità, cit., p. 3. ↑
Moro invece non affronta il concorso reale «poiché ci siamo imposti il limite di studiare i casi di unità e pluralità di reati nel processo, spesso estremamente difficile, mediante il quale si accerta, in situazioni equivoche, l’effettiva unità e pluralità» e il concorso reale «non presenta siffatte incertezze» (p. 37). ↑
«Il principio di specialità non è certo nato con il vigente codice penale - che si è limitato a fissarlo nell’art. 15 -, ma è stato sempre presente nel nostro (e non solo nel nostro) pensiero giuridico», così R. Messina, Concorso formale di reati (artt. 81, p.p., C.p., 8 D.L. 11 aprile 1974, n. 99), Milano, Dott. A. Giuffrè Editore, 1979, p. 30. ↑
L’art. 78 del Codice Zanardelli, infatti, limitava il concorso formale al concorso eterogeneo, prevedendo che «colui che con un medesimo fatto viola diverse disposizioni di legge, è punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave»; il Codice Rocco, al nuovo art. 81, puniva (con il cumulo materiale delle pene) chi «con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge». Per quanto riguarda la modifica da «medesimo fatto» a «unica azione od omissione», rileva R. Messina, Concorso formale di reati, cit., p. 35 s. che in questo modo si volevano dirimere le controversie che nell’applicazione pratica erano nati sotto la vigenza del Codice Rocco e che «si incentravano specialmente sulla possibilità di far rientrare nella portata della norma ipotesi di illeciti distinti commessi con azione naturalistica unica: si voleva, cioè, in ultima analisi, intendere il “fatto” come “azione”». Per quanto riguarda l’interpretazione della previgente disposizione del Codice Zanardelli, v. anche L. Majno, Commento al codice penale italiano, Torino, Utet, 1922, nonché la giurisprudenza richiamata da R. Messina, Concorso formale di reati, cit., p. 19, per la quale: «[c]aratteristica dell’art. 78 è l’unità del fatto, considerato questo non tanto nell’azione soggettiva del colpevole quanto in tutti gli elementi costitutivi del reati». Così, inoltre, si esprimeva alle soglie dell’entrata in vigore del codice Rocco anche G. Delitala, Il “fatto” nella teoria generale del reato, Padova, Cedam, 1930, p. 202 s.: «l’art. 78 presuppone […] il concorso di più leggi sopra un medesimo fatto. Tale concorso è semplicemente apparente: in realtà delle due o più norme che si dicono concorrenti, una, ed una sola, corrisponde esattamente al fatto delittuoso integralmente considerato. […] Il principio dell’art. 78 c.p. vale, però, anche in altri casi [in cui] il fatto non è unico ma molteplice poiché molteplici sono gli eventi che ha prodotto. […] L’unicità di pena non deriva allora dall’unicità del fatto, ma, più propriamente, dall’unicità dell’azione». Così, infine, il ministro Rocco, nella sua Relazione progetto definitivo del codice (Lavori preparatori, vol. V, pt. I, Roma, 1929, 131 s.) giustificava le modifiche adottate: «appariva necessario, in un nuovo testo legislativo, nettamente distinguere l’ipotesi di concorso ideale di reati da quella del concorso di norme giuridico, che a poco a poco gli interpreti avevano finito col confondere fra loro»; e, all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice, G. Delitala, Concorso di norme e concorso di reati, in «Riv. it. dir. pen.», 1934, p. 107, affermava: «a nostro avviso la dizione del nuovo codice è non solo più chiara, ma anche più esatta, poiché nel concorso ideale di reati, se unica è la condotta delittuosa, più sono gli eventi».
Sull’evoluzione del concorso formale di reati, cfr. l’ampia indagine di R. Messina, Concorso formale di reati, cit.; nonché D. Brunelli, Azione unica e concorso di reati nell’esperienza italiana, Torino, G. Giappichelli Editore, 2004. ↑
La pena realmente unica conseguiva all’unicità del reato. Nella vigenza del Codice Zanardelli il concorso formale o ideale sembrava così designare un reato unico, sovrapponendosi quasi al concorso apparente di norme. Di questa concezione, rimane traccia nella stessa terminologia adoperata per designare questi casi (concorso formale di reati) che «rispecchia la concezione unitaria» (A. Pagliaro, voce Concorso di reati, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1961, vol. VII, p. 665). Cfr. inoltre G.G. Allegra, voce Concorso di reati e di pene, in Nuovo dig. it., vol. III, Torino, Utet, 1938, p. 698 per cui l’ipotesi in esame andrebbe distinta dai casi «che debbono dirsi di vero e proprio concorso formale, per la conseguenza che è loro attribuita di assorbire nel reato più grave gli altri meno gravi agli effetti della pena». ↑
Sul punto cfr. L. Conti, voce Concorso apparente di norme, in Nss. Dig., vol. III, Torino, Utet, 1959, p. 1009. ↑
L. Conti, voce Concorso apparente di norme, cit., p. 1009. ↑
Ibidem. Cfr. altresì F. Antolisei, Concorso apparente di norme, in «Riv. pen. it.», 1948, p. 1: «Dopo l’entrata in vigore del codice attuale la nostra dottrina si è occupata con grande impegno di questo […] problema, dedicandovi non poche pubblicazioni, alcune di mole cospicua, ma non si può proprio dire che i risultati di sì nobili fatiche siano stati soddisfacenti. Ne è derivata, fra l’altro, una varietà sbalorditiva di opinioni, colorate a loro volta di gradazione e sfumature: una specie di ginepraio, nel quale anche il giurista più esperto trova difficoltà ad orientarsi». ↑
A. Pagliaro, Concorso di reati, cit., p. 665. ↑
Evidenziano la sperequazione sanzionatoria tra concorso materiale e concorso formale altresì: F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 405; A. Pagliaro, voce Concorso di reati, cit., p. 669; G. Delitala, Concorso di norme e concorso di reati, cit., p. 107 s. ↑
Si noti che con sent. n. 9 dell8 febbraio 1966, la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo nella parte in cui non permetteva di ritenere la continuazione anche nei casi in cui la pluralità delle violazioni fosse frutto di un’unica azione od omissione. ↑
Il Codice Zanardelli, all’art 79 prevedeva: «[p]iù violazioni della stessa disposizione di legge, anche se commesse in tempi diversi, con atti esecutivi della medesima risoluzione, si considerano per un solo reato; ma la pena è aumentata da un sesto alla metà». ↑
Sulle modifiche normative intervenute rispetto al reato continuato e sulle loro significative ricadute ermeneutiche, cfr. E. Morselli, Il reato continuato nell'attuale disciplina legislativa, in «Riv. it. dir. e proc. pen.», 1, 1977, p. 115. ↑
Si noti che, data la differenza sanzionatoria tra concorso formale e reato continuato («iniquità così grande e così priva d’ogni ragione» per l’«abbandono della misura della repressione penale alle pure accidentalità dell’azione», G. Vassalli, Concorso formale e reato continuato, in «Giur. cost.», 1966, p. 109), in dottrina si era sostenuto di ricondurre al reato continuato (e quindi alla disciplina del cumulo giuridico) anche le ipotesi di plurime violazioni della stessa legge penale commesse con processo esecutivo unico. V. in particolare A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, 2020, p. 572; R. A. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, cit., p. 390; soprattutto, G. Leone, Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, Jovene, 1933, p. 218 s. per cui se il legislatore ha contemplato «il caso di una pluralità di azioni producenti pluralità di violazioni della medesima disposizione, non si potrà negare che in tale previsioni rientri anche l’ipotesi minore di un’azione unica con violazioni molteplici della stessa disposizione».
Contra G. Bettiol, Diritto penale, cit., p. 403: «se anche ciò è vero per l’aspetto meramente logico-astratto, è altrettanto vero che il legislatore ha voluto espressamente distinguere l’ipotesi di un concorso ideale omogeneo da quella del reato continuato la quale richiede […] la presenza di un “medesimo disegno criminoso” che leghi tra loro più azioni cronologicamente distinte, e che non può - come tale - raffigurarsi quando l’azione dalla quale scaturiscono più eventi lesivi omogenei sia materialmente unica. Del resto, sotto l’impero del codice precedente, in cui mancava una disposizione che prevedesse l’ipotesi, la dottrina più autorevole ricorreva allo schema del concorso reale di reati e, in via eccezionale, alla regola della continuazione qualora si potesse dimostrare la presenza di un concorso ideale omogeneo». Anche Moro, in Unità e pluralità di reati, cit., p. 68, pur dopo aver posto in luce le differenze tra reato continuato e concorso ideale omogeneo, afferma: «anche dopo questo chiarimento, resterebbe una vera incongruenza nel sistema, se si volesse limitare la possibilità di applicare questa ragione di più intensa e sostanziale unificazione [ossia l’unità di interesse, l’unità di contenuto illecito complessivo della situazione] al solo caso di concorso reale e non anche a quello di concorso ideale». Pertanto, quando si dovesse riscontrare questa ragione unitaria anche tra le violazioni della stessa norma di legge realizzate «come, si dice, in unità d’azione invece che mediante molteplici e distinte azioni od omissioni» (ibidem), si dovrebbe riconoscere un reato continuato. ↑
A. Pagliaro, voce Concorso di reati, cit., p. 661 ss. Sui criteri adottati per individuare l’unità del reato, cfr. inoltre l’ampia ricognizione di R. A. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, Città di Castello, Società anonima tipografica «Leonardo da Vinci», 1937, p. 94 ss. ↑
A. Pagliaro, I reati connessi, Palermo, G. Priulla Editore, 1956, rileva peraltro come già all’epoca i criteri del “naturalismo puro” fossero tutt’altro che recenti; «[p]iù recente è, invece, l’opinione per cui il reato è azione, ma questa non è intesa sotto un profilo materiale-oggettivo, ma piuttosto sotto un profilo soggettivo: l’azione è essenzialmente realizzazione di volontà» (p. 15). ↑
Si tratta per lo più di teorie di matrice tedesca, in cui si inserisce anche la teoria dell’azione come manifestazione di volontà; cfr. A. Moro, op. cit., p. 4 e letteratura ivi citata. ↑
In particolare cfr. G. Puccioni, Il cod. pen., tosc. ill., II, Pistoia, 1855-1856, p. p. 223 s.; G. Impallomeni, L'omicidio nel diritto penale, Torino, Unione tipografico-editrice, 1900, n. 74. Per questi autori «Se il fine criminoso fu unico, malgrado la complessità o molteplicità materiale del fatto, unico è il delitto dal punto di vista giuridico. L’unicità del fatto, in che si adagia il concorso formale ove ne derivi pluralità di lesioni giuridiche, intendevasi non soltanto dal punto di vista fisico, ma altresì e soprattutto dal punto di vista intenzionale e del fine» (E. Florian, Parte generale del diritto penale, Milano, F. Vallardi, 1934, p. 729)
La marca soggettivistica di questa posizione, peraltro, si rifletteva anche nella concezione del cumulo di reati considerandosi che «[o]gni nuovo reato commesso non è la fonte di una responsabilità nuova, ma una causa ulteriore aggravante la responsabilità del delinquente». «La conseguenza diretta di ciò e che i reati concorrenti debbono essere trattati con unità di pena» e «la pena è progressiva, in ragione del numero e della qualità delle delinquenze, prendendo a punto di partenza la pena minacciata pel reato più grave» (G. B. Impallomeni, Concorrenza reale e concorrenza formale dei reati, Catania-Palermo, Tipografia Fratelli Galati, 1884.p. 7)
È interessante notare che la teoria dell’Impallomeni venne ripresa dal Florian, op. cit., che applicava al concorso di reati il metodo criminologico positivo; per cui (p. 738): «la torica del fine si presta mirabilmente per delineare il più esattamente possibile l’accennata distinzione. Quando il delinquente, quantunque con un solo fatto, si propose di commettere due o più delitti, egli dovrà essere ritenuto responsabile di tuti i reati risultatine: la circostanza che il fatto sia unico, non è che accessoria, accidentale, né può in alcuna guisa giovargli. Avremo pertanto, in questo caso, a suo carico un concorso materiale di reati». «La distinzione, pertanto, fra l’ipotesi di reato unico e l’ipotesi di più reati, corrisponde perfettamente alla realtà delle cose ed al criterio della pericolosità del delinquente». A proposito del concorso materiale dei reati, quindi, «converrebbe sostituire il metodo più semplice dell’adattamento della pena al delinquente, secondo la temibilità di questo, alla stregua del numero dei reati e degli altri noti criteri. Al calcolo aritmetico, del tutto oggettivo, noi vorremmo sottentrasse la ricerca complessa, soggettiva ed oggettiva insieme, della personalità del reo e della natura e della gravità dei delitti commessi. A questa ricerca apriva la via, come già vedemmo, l’Impallomeni» (p. 741) ↑
E. Proto, Sulla natura giuridica del reato continuato, Palermo, Priulla Editore Palermo, 1951, p. 86 ss. ↑
G. Bettiol, Diritto penale (parte generale), Palermo, G. Priulla Editore, I ed., 1945, p. 537. ↑
Ivi, p. 400. In particolare, secondo Bettiol, «l’azione non possa prescindere da un’idea di scopo, in quanto è proprio questa idea - inquadrata nel mondo dei valori sociali - che riduce ad unità tutta una serie di atti, di frammenti, di parti di azione, le quali non hanno rilevanza sotto il profilo sociale-valutativo anche se meccanicisticamente parlando possono vantare una indipendenza strutturale» (ibidem). ↑
Ivi, p. 401. ↑
R. A. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, cit., p. 98 ↑
Ibidem, p. 98 s. ↑
A. Moro, op. cit., p. 3: «Noi siamo ben disposti a riconoscere che sia la norma la determinante ideale di tutta la realtà giuridica, il valore che entra in modo essenziale a costituire il reato e quindi il fondamentale criterio di misura dell’unità di episodio delittuoso». Ma quando si fa riferimento alla norma non si deve considerarla nella sua «generica esteriore funzione descrittiva» (p.9), come un astratto e ‘silente’ amorfo schema normativo, ma si deve invece considerare il «suo più vero significato valutativo e costitutivo».
Sulle funzioni della norma, valutativa e descrittiva, cfr. ampiamente A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 2 per cui la norma è «comando e valutazione insieme» (corsivo aggiunto). In particolare, secondo Moro, nella norma si rintracciano due momenti essenziali: (a) il momento della valutazione, che opera su un piano oggettivo e astratto e indica il «concreto contenuto di scopo» del reato, il «suo perché» (p. 3); nonché (b) il momento del comando, che opera su un piano soggettivo e concreto (poiché, per divenire concretamente operativa, la norma deve subiettivarsi, raccogliersi in capo a un soggetto cui comanda di tenere o meno un determinato comportamento) e che indica il «come» del reato (p. 3), cioè il come della lesione degli interessi tutelati. ↑
Secondo Moro, la tipicità implica sempre il giudizio di disvalore (l’antigiuridicità), perché quando il legislatore descrive la fattispecie penale al contempo valuta il fatto: «[d]escrivere significa dunque necessariamente indicare un fatto pieno di significato e di significato, anzi giuridico. La fattispecie è pregna del disvalore etico-giuridico del fatto» («perché un fatto privo di valore non è umano, ma, se mai, fenomeno bruto e un fatto di generico valore umano e non ancora giuridico è un non senso, quand’esso ci si presenti nei termini della fattispecie, che è il modo con cui il diritto prende posizione sui fatti suscettivi della sua valutazione», A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 44. ↑
È il «principio di valore, in rapporto al quale il fatto da delineare assume il suo pieno significato», A. Moro, Pluralità e unità di reati, cit., p. 6. ↑
Sul rapporto nel pensiero di Moro tra fatto, antigiuridicità e norma v. ampiamente la monografia A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., passim e spec. p. 44. per cui il reato è «un tutto unitario, atto umano di determinato contenuto negativamente significante dal punto di vista etico-giuridico» ↑
Così G. De Francesco, Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Milano, Dott. A. Giuffrè Editore, 1980, p. 1. ↑
«Noi crediamo che si debba fare perno sulla funzione di tutela della norma, alla quale fa riscontro la lesione giuridica. Così la norma come i beni giuridici protetti (e quindi l’evento lesivo che è il loro contrario) entrano insieme a definire che cosa è l’unità del reato»; A. Moro, Pluralità e unità di reati, cit., p. 4. ↑
Laddove in altre teorie, l’elemento soggettivo serve per individuare l’unità del reato. Cfr. G. Bettiol, Diritto penale, cit., v. retro nt. 182. In termini analoghi anche A. Pagliaro, voce Concorso di reati, cit., p. 662, che critica l’impostazione di Moro nella misura in cui, facendo riferimento al solo momento oggettivo, non riuscirebbe a spiegare la differenza «tra certe forme di unicità di reato (esempio: furto di più sacchi) e il concorso omogeneo rispettivo. E’ significativa, in proposito, la opinione del Beling, il quale, con somma coerenza alla propria dottrina sulla fattispecie, delinea il concorso omogeneo di reati come ipotesi di conformità rafforzata alla fattispecie, e, quindi, come unità di reato». Per questo motivo Pagliaro corregge questa impostazione col riferimento anche al momento subiettivo, per cui si avrebbero più reati quando si moltiplica la lesione giuridica e il rispettivo elemento subiettivo: «la unità o pluralità di reato dipende essenzialmente dalla unità o pluralità dell’azione tipica, intesa come l’integrale contenuto del reato, in quanto sia volontà o nella volontà si specchi», (ibidem). Così anche Id., La connessione dei reati, cit., p. 11 s. ↑
A. Moro, op. cit., p. 58: «Con ciò non si esclude che anche processi subiettivi abbiano un significato e che il loro atteggiarsi possa contribuire a far assumere quella unità di contenuto oggettivo illecito ch’è il fondamento della unità legale di reato. Ma ciò non può svolgersi in modo indipendente, perché, esseno accentrate sempre l’essenziale significato unitario degli episodi delittuosi nel momento oggettivo, è in questo che debbono confluire tutte le determinazioni significative ai fini dell’unità. E s’intende pure che, ferma l’essenziale funzione di limite categorico alla punizione che spetta ai momenti soggettivi dell’illecito, anche nei casi di unità legale il profilo soggettivo deve adeguarsi al significato unitario e configurarsi in modo aderente alle esigenze della situazione». ↑
A. Moro, op. cit., p. 10, per cui: «Nel presupposto che un valore normativo da applicare caratterizzi il reato e che la riscontrata unità di quel valore (alla quale corrisponde l’unità del bene e della lesione) sia il segno certo dell’unità di reato, sarà affermata l’applicabilità effettiva di una sola norma in base ad un rapporto di rango e conseguentemente unità di reato». ↑
La posizione di Moro, quindi, rientra tra le teorie c.d. pluralistiche, che, per risolvere il concorso apparente di norme, fanno ricorso a più principi, che si aggiungono a quello della specialità e che vengono variamente ricondotti ai criteri della sussidiarietà, consunzione, assorbimento o alternatività (criterio quest’ultimo, in realtà, elaborato in senso alla dottrina tedesca ma che in Italia ha trovato scarso seguito; cfr. sul punto, F. Grispigni, Dir. pen., cit., p. 417, nota 115); ma anche al reato progressivo (cfr. nt. 51), così come alle figure dell’antefatto e postfatto non punibili (cfr. nt. 52).
Caratteristica comune di queste teorie è quella, da un lato, di intendere il principio di specialità in termini ‘rigidi’ (considerando cioè irrilevante la specialità bilaterale così come quella in concreto) e, dall’altro, di fare ricorso accanto alla specialità a criteri che trascendono una logica puramente formale di confronto tra fattispecie astratte, richiedendo un apprezzamento di valore sul fatto o sulla norma.
Le teorie c.d. monistiche, di contro, fanno ricorso esclusivamente al principio di specialità intesto, però, in termini più ampi (sino a ricomprendere la specialità bilaterale ovvero la specialità in concreto) .
In Italia, tra le teorie pluralistiche cfr. tra gli altri: A. Pagliaro, voce Concorso di norme (dir. pen.), in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1961, VIII, p. 544 ss. (che accanto al principio di specialità riconosce quello di consunzione); L. Conti, voce Concorso, cit., p. 1014; C. Losana, Reato complesso e ne bis in idem sostanziale, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1963, p. 881; S. Ranieri, Manuale, cit., p. 83; S. Piacenza, Rilievi e proposte sui rapporti fra concorso di reati e concorso di norme, in «Riv. di proc. pen.», 1960, p. 318 ss.; Id., Rilievi e proposte, cit., p. 138 («per una nuova sistemazione del cosiddetto concorso di norme ci pare che ben si possa ridurre […] la sfera dell’estensione del ridetto concorso ai due principi della specialità e dell’assorbimento, o se così vogliamo della progressione»); F. Grispigni, Dir. pen., cit., p. 417; R. A. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, cit., p. 475; Spezia, Il reato progressivo, Udine, 1937, p. 69. Cfr. inoltre la letteratura italiana e tedesca citata da F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1966, p. 71.
Tra i sostenitori della teoria monistica, cfr. F. Antolisei, Manuale, cit., 113; Id., Sul concorso, cit., passim e spec. p. 14; F. Carnelutti, Lezioni di diritto penale, Milano, Giuffré, 1943, vol. I, p. 275s.; G. Lozzi, Fatto antecedente e successivo non punibile nella problematica dell’unità e pluralità di reati, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1959, p. 941 ss.; M. Gallo, Appunti di diritto penale, 1967, p. 71; M. Siniscalco, Il concorso apparente di norme nell'ordinamento penale italiano, Milano, Giuffré, p. 124; L. Conti, voce Concorso apparente di norme, cit. Cfr. inoltre la letteratura citata da F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit., p. 73. Sostiene che il rapporto di specialità debba essere ravvisato in concreto, perché la «stessa materia» di cui all’art. 15 c.p. dovrebbe essere intesa come «fatto concretamente verificatosi», G. Delitala, Concorso di norme e concorso di reati, in Riv. it. dir. pen., 1934, p. 108 s. Per un’ampia critica a queste posizioni cfr. F. Mantovani, Concorso, cit., p. 138 e G. De Francesco, Lex specialis, cit. p. 10 ss. ↑
A. Moro, op. cit., p. 16. ↑
Ivi, p. 18. ↑
Ivi, p. 19. ↑
Per questo motivo, inoltre, il fatto rimane attratto nell’orbita della norma speciale anche nel caso in cui non segua effettivamente la punizione secondo questa disposizione. La disciplina dell’ipotesi speciale, quindi, «segue completamente la sorte della norma speciale» (A. Moro, op. cit., p. 24). Viceversa, nel caso della sussidiarietà, la norma primaria assorbe la norma secondaria solo se segua effettivamente la punizione secondo la norma primaria: questo assorbimento «cessa, quando in concreto non sussista quella determinante di giustizia sostanziale» data da «un motivo di opportunità» (ibidem). ↑
A. Moro, op. cit., p. 17. ↑
Riscontrandosi una «caratteristica affinità e continuità» tra interessi (ibidem, titolo del paragrafo n. 20). ↑
Sostengono che «stessa materia» sia identità del bene protetto di guisa che il rapporto di specialità esisterebbe soltanto fra le norme che hanno la stessa oggettività giuridica: E. Florian, Parte generale del diritto penale, Milano, 1934, I, p. 194; E. Jannitti Piromallo, Corso di dir. crim., Roma, 1932, p. 37; Spezia, Il reato progressivo, cit., p. 57; G. Bettiol, Diritto penale (Parte generale), cit., p. 419. Contra F. Antolisei, Concorso apparente di norme, cit., p. 3 s. per cui non v’è ragione di limitare l’ambito del principio di specialità, tenuto altresì conto della Relazione del Guardasigilli al Re sul codice penale, nonché la portata pratica di una simile restrizione; l’espressione «stessa materia» dovrebbe pertanto intesa nel senso di «situazione di fatto». Nello stesso senso A. Pagliaro, voce Concorso di norme, cit., p. 549, per cui, considerando il bene giuridico in maniera più delimitata non come «come complesso delle considerazioni finalistiche che stanno a base della norma», ma come «nucleo centrale dello scopo della norma», ben può darsi che il rapporto di specialità si ponga rispetto ai primi ma non con riguardo ai secondi. Così anche L. Conti, voce Concorso apparente di norme, p. 1013, per cui «insuperabile resta l’argomento letterale, essendo tra l’altro assurdo supporre che i compilatori di un codice ove si accentua, in ossequio ad un preciso indirizzo dottrinale, l’importanza di bene giuridico, abbiano usato [nell’art. 15 c.p.] una terminologia così equivoca ed impropria per esprimerla». ↑
A. Moro, op. cit., p. 17. ↑
A. Moro, op. cit., p. 23. Una norma, pertanto, «ne ha implicite in sé altre» che nella prima rimangano assorbite perché altrimenti «vorrebbe dire duplicare la forza normativa in modo inutile e ingiusto» (ibidem). Si riferiscono al principio del ne bis in idem G. Neppi Modona, Manifestazioni e radunata sediziosa; concorso di reati o concorso apparente di norme?, in« Riv. it. dir. proc. pen.», 1963, p. 881; Id., Inscindibilità del reato complesso e ne bis in idem sostanziale, in «Riv. it. dir. proc. pen.», 1966, p. 203 ss.; R. Frosali, Concorso, cit., spec. p. 221, 561 1 510 e M. Siniscalco, Il concorso, cit., p. 71 ss. e 87; C. Pedrazzi, Inganno ed errore, Milano, Giuffrè, 1955, pp. 78 e 80; S. Piacenza, Rilievi e proposte sui rapporti fra concorso di reati e concorso di norme, in «La Giustizia pen.», 1947, II, p. 134 («A chi ben guardi, il concorso di norme giuridiche nel campo del diritto penale non può essere regolato che da un solo principio, quello che vieta che per uno stesso fatto si punisca più volte»).
In seguito, la ricerca sul principio del ne bis in idem sostanziale è stata ampiamente sviluppata da F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme, cit., passim, che lo ha inteso in termini assoluti, ritenendo - in base a un’estesa indagine sul diritto positivo - che nel nostro ordinamento la regola sia che il medesimo fatto non possa essere addossato più volte al medesimo soggetto anche se ricondotto a più norme penale; il concorso formale sarebbe quindi ammissibile solo in via d’eccezione. ↑
A. Moro, op. cit., p. 24. ↑
Ibidem. ↑
Ritengono che «riferire i principi del cosidetto concorso di norme i casi di unicità di fatto […] non esaurisca la sfera di influenza del concorso stesso» anche S. Piacenza, Rilievi e proposte sui rapporti fra concorso di reati e concorso di norme, in «La Giustizia pen.», 1947, II, p. 130; nonché F. Grispigni, Corso di diritto penale secondo il nuovo codice, Padova, Cedam, 1932, vol. I, p. 512 ss e S. Ranieri, Diritto penale, Parte generale, Milano, Ist. Edit. Ambrosiano, 1945, p. 73 ↑
V. in particolare lo studio monografico di S. Ranieri, Reato progressivo e progressione criminosa, Milano, Dott. A. Giuffrè - Editore, 1942, che del reato progressivo dà la seguente definizione: «Si ha reato progressivo allorché una fattispecie legale penale, astrattamente considerata, ne contiene un’altra, per modo che la sua realizzazione non può verificarsi che passando attraverso la realizzazione di quella che vi si trova contenuta». p. 13; cfr. inoltre l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (invero modesta) ivi citata, spec. p. 5 ss. Vi sarebbe in questo caso, per Ranieri, un reato unico, partendo dal presupposto che il problema del concorso di norme deve essere risolto «cercando di stabilire quale rapporto ricorre tra alcuni modelli criminosi, astrattamente considerati, e di quale valutazione sono suscettibili, in base a un apprezzamento compiuto sul loro contenuto e, perciò sugli elementi che li compongono» (p. 8). Per una ricognizione delle diverse nozioni di progressione criminosa e reato progressivo, cfr. anche G. Vassalli, voce Progressione criminosa e reato progressivo, in Enc. dir., XXXVI, p. 1150 ss. In particolare, per quanto riguarda la diversa figura della progressione criminosa, occorre sottolineare che in questo caso mancherebbe «quel rapporto ordinario di mezzo a fine secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit» (G. Vassalli, op. cit., p. 1161), per questo motivo, secondo Vassalli, sarebbe difficile ravvisare in questa ipotesi un solo reato (mentre, secondo il Ranieri, si scorgerebbe anche in questo caso un’unità giuridica, perché «è il diritto positivo che lo esige, in quanto se una fattispecie legale da questo configurata contiene, tra gli elementi che la costituiscono, quelli di altra fattispecie legale, è proprio il diritto positivo che vi ravvisa un’entità criminosa sola», op. cit., p. 88 s.). ↑
Cfr., anche da un punto di vista storico, l’ampia ricostruzione di S. Prosdocimi, Profili penali del postfatto, Milano, Dott. A Giuffrè Editore, 1982, spec. p. 131 ss. e la letteratura ivi citata; nonché G. Vassalli, voce Antefatto non punibile, postfatto non punibile, in Enc. dir., II, p. 505 ss. ↑
A. Moro, op. cit., p. 19. ↑
Ivi, p. 26. ↑
A. Moro, op. cit., p. 19. ↑
F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit. p. 60. ↑
A. Tesauro, Istituzioni di diritto e procedura penale, Napoli, Morano, 1964, p. 170. Secondo F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit., p. 60, si «ravvisa nel concorso di reati la regola» e si «degrada il concorso di norme a mera deroga od eccezione». ↑
F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit., p. 60. ↑
In questo senso R. Frosali, Concorso, cit., pp. 371 e 351; G. Bettiol, Diritto penale, cit., p. 514; S. Ranieri, Manuale, cit., p. 78 s.; G. Maggiore, Diritto penale, cit., p. 182 s.; L. Conti, Concorso, cit. 1009, nonché F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Dott. A. Giuffrè, Milano, 15° ed., 2000, p. 149 ss. ↑
G. Vassalli, voce Antefatto non punibile, in Enc. dir., II, Milano,.1958, p. 513 s. Considerando solo le ipotesi di antefatto e post-fatto non punibile l’A. riduce la categoria a «un comune problema di interpretazione», trattandosi «in ogni caso di difetto di tipicità, vuoi per l’assenza di taluno dei presupposti soggettivi del reato vuoi per l’assenza di presupposti od elementi di carattere oggettivo». ↑
Così, A. Pagliaro, voce Concorso di norme, cit., p. 545 : «ci sembra più corretto […] parlare di applicabilità, intendendo questo concetto come validità di una norma rispetto a una determinata situazione di fatto da essa contemplata e che sia identica a quella alla quale è applicabile un’altra norma». ↑
R.A. Frosali, Concorso, cit., p. 611 ss., 318 ss.; M. Siniscalco, Il concorso, cit., p. 52. ↑
F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit., p. 63 s., corsivi aggiunti. ↑
A. Moro, op. cit., p. 11. ↑
Le norme in concorso risultano tutte applicabili perché non sussiste tra loro un rapporto di rango e perché si riscontra nella situazione considerata più lesioni giuridiche. ↑
Moro rifiuta criteri più restrittivi, elaborati in ordinamenti che prevedevano l’assorbimento e che spesso conducevano a ravvisare nel concorso formale un unico reato: «Nel fatto del confluire di più processi realizzativi in una stessa situazione, tanto che essi, in ragione delle loro inevitabili interferenze, debbano ricevere una disciplina in qualche modo unitaria, c’è un significato necessario e sufficiente per definire la categoria ora in esame con le sue particolari esigenze. Richiedere, di più, un rigido legame d’implicazione reciproca, un vincolo di necessità che renda in un certo senso connaturali le lesioni, vuol dire esigere troppo per quel significato posto in luce e che è essenziale nella situazione di concorso ideale. Quel significato, unitario e complesso, riposa agevolmente sulla semplice connessione dei processi esecutivi. Porre una nuova condizione, vuol dire accentuare, senza necessità e senza profitto, i lineamenti tipici di questa situazione e respingere verso la generica disciplina del concorso reale situazioni che intuitive ragioni di giustizia vorrebbero sottoporre ad un regolamento speciale» (A. Moro, op. cit., p. 42).
Per le teorie che propugnano un’attività esecutiva completamente unitaria, v. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, Giuffrè, 1982, p. 446 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, Padova, Cedam, 1979, p. 405; A Pagliaro, Principi, cit., p. 585. ↑
I due fenomeni sono a tal punto accostabili che «[d]a un concorso ideale può svilupparsi un reato complesso, solo che il legislatore voglia consacrare in un significato unitario quella connessione», A. Moro, op. cit., p. 119. ↑
Ibidem. ↑
A. Moro, op. cit., p. 44, enfasi aggiunta. ↑
Ivi, p. 53. ↑
Ivi, p. 52. ↑
Per la ricostruzione del dibattito in tema di unità e pluralità di reati in relazione al concorso formale, v. la ricostruzione di A. Moro, op. cit., spec. p. 119 ss., nonché, una prospettiva di sintesi, S. Prosdocimi, Contributo alla teoria del concorso formale di reati. Cfr. G.G. Allegra, voce Concorso, cit., 699, per cui se l’unità d’azione possa o non dar luogo ontologicamente a pluralità di reati. Il Binding affermava che l’azione era in realtà plurima in tema di concorso formale; il Listz che il reato era unico perché unica l’azione; il Baumgarten e il Mezger che il reato è unico perché unica è l’azione, ma che questa va giuridicamente valutata da diversi punti di vista, e per questo motivo dà luogo a concorso ideale di diversi reati». ↑
«La soluzione all’alternativa unità o pluralità nel concorso ideale di reati può farsi - se pure impropriamente - dipendere anche dal punto nel quale il disvalore preminente dell’illecito penale venga ravvisato. E così, di fronte ad un’azione “unitaria” con pluralità di eventi, la tesi monistica potrà riuscire più congeniale a chi ponga nell’azione e non nell’evento il centro di gravità del reato», S. Prosdocimi, Contributo alla teoria del concorso formale di reati, cit., p. 3, nota 3. ↑
Secondo alcuni Autori, ad esempio, era necessaria in questi casi una unicità di azione subiettiva condizionata da un modo di presentarsi unitario delle diverse lesioni giuridiche. Per configurarsi concorso ideale, cioè, sarebbe stato necessario un rapporto di dipendenza necessaria tra le lesioni giuridiche, per cui si produrrebbero tutte sia che il reo ne voglia una sola, sia che le voglia tutte. V. B. Alimena, Del concorso di reati e di pene (Lib. I, tit. VII del Codice penale), Milano, Società Editrice Libraria, 1904, 450 ss., specie 462 ss.; E. Massari, Corso di diritto penale, Parte generale, Napoli, Jovene, 1925 - 1926, p. 227 s.; E. Jannitti Piromallo, Elementi di diritto criminale, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati Roma; 1932,p. 125. ↑
G. Bettiol, Diritto penale, cit., p. 405, che pure procedeva dalla concezione di azione finalisticamente intesa (nel senso di atti cementati in unità dallo scopo unico). Nel caso di concorso formale, pertanto, l’unicità dell’azione sarebbe stata solo «apparente». L’Autore, riconoscendo che più sono gli scopi perseguiti e quindi molteplici sono le azioni, intendeva l’unica azione od omissione di marca legislativa come «espressione in senso meramente obiettivo, materiale, non in senso psicologico che è poi quello che sostanzialmente conta». ↑
G. Delitala, Concorso di norme e concorso di reati, cit., p. 108; F. Grispigni, Corso di diritto penale, cit., vol. I, p. 504 s.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., 259 s. ↑
G. Delitala, Concorso di norme e concorso di reati, cit., p. 108; per cui inoltre: «Ove per contro la medesima fattispecie corrisponda, simultaneamente ed ugualmente, in tutte le sue parti, a due diverse fattispecie legali, ben lungi dall’aversi concorso formale di reati, si avrà, a nostro avviso, concorso di norme». ↑
S. Prosdocimi, Contributo alla teoria del concorso formale di reati, cit., p. 6 ss. Nello stesso senso v. anche A. Pagliaro, voce Concorso di reati, cit., p. 665. ↑
Lavori preparatori, vol. V, pt. I, Roma, 1929, 131 s. ↑
A. Moro, op. cit., p. 55. ↑
Ibidem. ↑
A. Moro, op. cit., p. 56. In particolare, per quanto riguarda il reato complesso, questa costruzione, già espressa da Leone, p. 166, è ripresa da R. Messina, Concorso formale di reati, cit., p. 55: «Nel reato complesso[…] questa pluralità ipotetica [di reati] si riduce ad unità giuridica in virtù di una espressa previsione legislativa; e questa particolarità fa sì che, come è stato ritenuto, non esiste una figura generale di reato complesso adattabile ad un numero indeterminato di reati, mentre esistono nella parte speciale singole figure di reati complessi». ↑
A. Moro, op. cit., p. 56. ↑
Ivi, p. 58. ↑
Ivi, p. 77, nt. 94, per cui, inoltre: «Reato complesso non potrebbe logicamente concepirsi con riferimento ad illeciti giuridici del tutto indipendenti. Ma tale è appunto, come si è visto a suo tempo, la struttura del concorso ideale». ↑
Ivi, p. 77. ↑
Ibidem. ↑
Ibidem. ↑
Per un’ampia ricostruzione dell’istituto e del dibattito scientifico dell’epoca, v. G. Leone, Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, Nicola Jovene, 1933, p. 177 ss. Per quanto riguarda le significative conseguenze della modifica normativa, cfr. R. Pasella, Osservazioni in tema di struttura e fondamento del nuovo reato continuato, in «Riv. it. dir. e proc. pen.», 1976, p. 515 ss.; nonché V. Zagrebelsky, Reato continuato, 2 ed., Milano, Giuffré, 1976, p. 116 ss. ↑
A. Moro, op. cit., p. 65.
Si noti, in termini analoghi F. Carnelutti, Lezioni di diritto penale, cit., p. 289: «per giudicare dell’unità del fine, giova l’esattezza della sua nozione, la quale si richiama all’interesse e, attraverso di questo, al bisogno; è pertanto l’indagine del momento economico del reato, più e meglio di quella del momento psicologico, la quale decide per la diagnosi della continuazione; quando un medesimo interesse generale la molteplicità delle azioni, la continuazione deve essere ritenuta». Si noti che «all’unità del fine non può non corrispondere la omogeneità degli eventi […]; se le violazioni fossero diverse, ossia penalmente diversi gli eventi, non potrebbero rispondere a un identico fine» (ibidem, p. 289). ↑
A. Moro, op. cit., p. 66 «questa unità di fine è considerata sufficiente a caratterizzare questo aspetto, senza che occorra parlare di dolo o risoluzione generici» ↑
Ivi, p. 65. ↑
Ivi, p.66. Si noti peraltro che proprio perché il reato continuato trova la propria ratio nella «essenziale connessione di più lesioni giuridiche omogenee, le quali rivelino una linea unitaria», è possibile ritenere avvinte dal vincolo della continuazione anche fra più violazioni commesse con un’unica azione od omissione, che in questo modo verranno assoggettate alla disciplina del cumulo giuridico in luogo di quella del cumulo materiale. Nella sistematica di Moro, l’estensione del reato continuato all’unica azione od omissione non ha una ragione giustificatrice, perché anche in questo caso, per Moro, comunque dovrebbe applicarsi il cumulo giuridico. Considerata la disciplina dell’epoca, tuttavia, l’estensione si giustifica con l’intento di evitare le pesanti conseguenze sanzionatorie previste per l’ipotesi di cumulo formale. Si tratta, a nostro avviso, di una ‘forzatura’ rispetto alla sistematica di Moro, motivata dal quadro normativo allora vigente. ↑
A. Moro, op. cit., p. 73. E ancora «la legge compie ad un tempo l’incriminazione dei singoli elementi che compongono la serie e, in base alla sintesi, del fatto costituente il reato abituale» (ibidem). ↑
Ivi, p. 74. ↑
Ivi, p. 75. ↑
Ivi, p. 44. ↑
Come si è detto, Moro ritiene che il reato continuato, per sfuggire alla regola del cumulo materiale del codice Rocco, sia rinvenibile anche nel caso in cui le plurime violazioni della stessa legge penale siano state commesse con un’unica azione od omissione. Rispetto alla costruzione che l’Autore offre del concorso ideale, l’estensione del reato continuato appare una forzatura che sembra essere dettata dalla volontà di evitare il cumulo materiale delle pene, all’epoca vigente per il caso di più reati commessi con un’unica azione od omissione. ↑
Come si è detto, Moro ritiene che il reato continuato, per sfuggire alla regola del cumulo materiale del codice Rocco, sia rinvenibile anche nel caso in cui le plurime violazioni della stessa legge penale siano state commesse con un’unica azione od omissione. Rispetto alla costruzione che l’Autore offre del concorso ideale, l’estensione del reato continuato appare una forzatura che risponde alla ratio di cui si è detto. ↑
F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit. p. 178. ↑
A. Aimi, La fattispecie di durata, Milano, Giappichelli, 2020, p. 336. ↑
Ibidem. ↑
A. Moro, op. cit., p. 80. ↑
Ibidem. ↑
S. Prosdocimi, Contributo alla teoria del concorso formale di reati, cit., p. 14. ↑
Ivi, p. 17. ↑
Ibidem; laddove peraltro, secondo l’Autore, la scelta del cumulo giuridico sarebbe invece giustificata perché l’ampiezza del potere sanzionatorio del giudice consentirebbe di fornire una risposta adeguata alle differenti situazioni, «rientrando ipotesi non dissimili, quanto a riprovevolezza globale del fatto, da quello di concorso di norme […] accanto ad ipotesi che in nulla appaiono meno gravi di quelle di concorso materiale, né sotto il profilo dell’allarme sociale […], né sotto il profilo della colpevolezza» (ibidem). ↑
R. Messina, Concorso formale, cit., p. 44 s. ↑
Lo contesta F. Antolisei, Concorso apparente di norme, cit., p. 6 ss. perché p. 7 «non presenta nulla di caratteristico, ma esprimo soltanto quell’assorbimento di una fattispecie in un’altra che costituisce l’effetto generale della concorrenza delle leggi» e inoltre perché quel più di caratteristico che dovrebbe contraddistinguere il principio (l’applicazione quando una norma è «di più ampia portata») si rivela in verità del tutto oscuro. ↑
L. Conti, Concorso apparente di norme, in Nov.mo Digesto, p. 1013, nota 2. ↑
S. Piacenza, Rilievi e proposte sui rapporti fra concorso di reati e concorso di norme, cit., p. 131; cfr. anche retro nota 203. ↑
F. Antolisei, Concorso apparente di norme, cit., p. 4. ↑
Da ultimo Cass. pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 3844. ↑
Ibidem. ↑
A. Moro, op. cit., p. 62. ↑
S. Prosdocimi, Contributo alla teoria del concorso formale di reati, cit., p. 49 s., nota 68. ↑
Piacenza, Rilievi e proposte sui rapporti fra concorso di reati e concorso di norme, p. 134. Nello stesso senso A. Vallini, Concorso di norme e di reati, in Introduzione al sistema penale, a cura di G. Insolera - N. Mazzacuva, vol. II, Torino, Giappichelli, 2001 p. 374 s. «Ne deriva, in buona sostanza, che la soluzione di casi problematici quali quelli or ora ricordati potrà rinvenirsi in base a considerazioni essenzialmente incentrate sul modo di atteggiarsi delle disposizioni di “parte speciale”. L’interprete avrà infatti il compito di definire, se così si può dire, la “capacità di continenza” di una certa disposizione, ovvero la capacità di una singola fattispecie incriminatrice di fornire una qualificazione tipizzante esauriente ed unitaria ad un certo numero di atti e fatti concreti». ↑
V. retro nt. 159. ↑
Già il progetto Pagliaro, infatti, stabiliva, all’art. 33, co. 1, che ai fini dell’aumento di pena del concorso di reati, gli elementi di disvalore in concreto comuni a più reati devono essere presi in considerazione una sola volta. La medesima previsione era stata poi ripresa nei suoi contenuti anche dal progetto di riforma redatto dalla Commissione Grosso, la quale, nella Relazione preliminare, aveva rilevato che: «L'esperienza giurisprudenziale e dottrinale ha rivelato come il principio di specialità in astratto sia tuttavia inadeguato a rappresentare tutte le ipotesi in cui deve riconoscersi concorso apparente di norme coesistenti: la elaborazione dei criteri della sussidiarietà, dell'assorbimento e della consunzione da un lato, della specialità in concreto e della specialità bilaterale nelle sue diverse specificazioni dall'altro, stanno a dimostrare l'esigenza di impedire che il soggetto agente, pur in assenza di situazioni di specialità in astratto, sia chiamato a rispondere della violazione di più norme penali quando una di esse sia comunque in grado di comprendere per intero il disvalore del fatto (c.d. ne bis in idem sostanziale)». Pertanto, la Commissione «ha ritenuto di prevedere nell'art. 4, a fianco del principio di specialità in astratto, che 'quando un medesimo fatto appare riconducibile a più disposizioni di legge, si applica quella che ne esprime per intero il disvalore', chiamando in questo modo l'interprete a valutare se, in mancanza appunto della prima ipotesi di concorso apparente di norme, una delle disposizioni in gioco sia in grado di rappresentare nella sua interezza la, o le offese, realizzate dal fatto posto in essere». Il principio, infine, è stato richiamato anche dal più recente progetto “Pisapia” (Schema di disegno di legge recante delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione della parte generale di un nuovo codice penale), che all’art. 3 lett. b) ha previsto: «in caso di concorso di norme, nel rispetto del ne bis in idem sostanziale, la legge o la disposizione di legge speciale deroghi alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia diversamente stabilito, e che quando un medesimo fatto sia riconducibile a più disposizione di legge si applichi quella che ne esprime per intero il disvalore». ↑