1. La produzione monografia di Aldo Moro nel dopoguerra si caratterizza per la pubblicazione di due lavori, uno di teoria generale del reato su L’antigiuridicità penale (1947) e l’altro dedicato a Unità e pluralità di reati. Principi (edito nel 1951 e ripubblicato nel 1954). Entrambe le monografie affrontano due temi complessi sui quali la riflessione dottrinale è ancora oggi impegnata: il primo, denso di implicazioni teoriche sulla struttura del reato e sulle categorie astratte nelle quali gli elementi della fattispecie possono essere incasellati, viene affrontato con la capacità di riportare il lettore anche sui concreti riflessi applicativi ai quali la riflessione teorica fa da supporto; il secondo tema pone il penalista di fronte alla necessità di trovare soluzioni idonee per sciogliere i nodi del rapporto tra pluralità naturalistica delle condotte e valutazione normativa dell’unità della condotta penalmente rilevante, un tema che è prodromo ai rapporti che intercorrono tra concorsi di reati e concorso apparente di norme. Il fatto che i temi connessi all’antigiuridicità e all’unità o pluralità di reati siano ancora molto discussi in dottrina e giurisprudenza fa delle riflessioni di Aldo Moro un terreno di ricco di spunti di riflessione anche nel dibattito scientifico odierno.
Non spetta a queste note ripercorrere le riflessioni dell’Autore, non sempre di agevole lettura, anche per il linguaggio spesso criptico, ben diverso da quello utilizzato nella riflessione politica. I due ampi e puntuali saggi della dott.ssa Sofia Confalonieri ne ripercorrono gli sviluppi argomentativi, riuscendo a cogliere il significato delle due monografie nel contesto della discussione dottrinale del tempo. Peraltro, sviluppare una riflessione di sintesi non è affatto agevole in ragione della netta diversità degli oggetti di indagine, come d’altra parte si confà ad ogni studioso di diritto penale la cui completezza del percorso accademico si misura anche con la capacità di confrontarsi con temi diversi.
Tuttavia, è possibile cogliere quale tratto comune delle monografie del dopoguerra elementi propri nel metodo e in alcune linee di riflessione che connotano i temi affrontati.
Quanto al metodo, segnalerei due elementi comuni. Il primo è costituito dal distacco dalla prospettiva della “civilizzazione” del diritto penale, ossia dalla tendenza a trasporre in ambito penale categorie e strumenti di lettura propri del diritto civile: le categorie utilizzate da Aldo Moro in questi lavori sono essenzialmente penalistiche e si misurano con la struttura del reato (in particolare l’essenza dell’antigiuridicità ed il suo rapporto con il fatto e la colpevolezza) e con gli elementi di identificazione del concorso di reati. Il secondo elemento comune è l’impronta del tecnicismo giuridico con marcato dogmatismo, specialmente evidente nella prima monografia: in questo Aldo Moro è figlio del suo tempo, ma come si evidenzierà al termine di queste note, le due monografie presentano anche elementi di commiato da una metodologia di scuola che da più di trent’anni aveva condizionato la penalistica italiana.
Quanto ai tratti comuni che percorrono, da un punto di vista contenutistico, le due monografie, è possibile sviluppare alcune brevi considerazioni in merito alle argomentazioni sviluppate nei due lavori.
2. Si sottolineava innanzi che i temi scelti presentano una specifica connotazione penalistica, al punto da declinare come “penale” la stessa categoria dell’antigiuridicità che, invece, una parte della dottrina dell’epoca (in continuità, peraltro, con la maggior parte della dottrina odierna), legge come categoria generale del sistema giuridico capace di rendere lecito un fatto per l’intero ordinamento, non solo sul piano della responsabilità penale.
È una lettura dell’antigiuridicità lontana dalla chiave teorica che ne faceva la categoria al cui interno sistemare le scriminanti e la connotazione in chiave penale ne sottolinea l’autonomia del giudizio di disvalore penale rispetto agli altri settori dell’ordinamento giuridico. Potrebbe essere letta come il tentativo del poco più che trentenne penalista di proporre una lettura sincretica della categoria all’interno di un dibattito dogmatico che impegnava la migliore dottrina dell’epoca divista tra sostenitori dell’antigiuridicità oggettiva e soggettiva. Partendo da questa contrapposizione, Moro avanza una lettura autonoma ed originale: se il diritto è al contempo norma comando e norma di valutazione, l’antigiuridicità va concepita in senso unitario, non come elemento costitutivo del reato, ma come giudizio di disvalore che investe le componenti oggettive (illiceità) e soggettive (colpevolezza) del reato. Di conseguenza, anche il reato va inteso in senso unitario, in opposizione all’acribia dall’approccio analitico che ne differenziava e spezzettava le componenti. Si tratta, tuttavia, di una lettura in chiave unitaria che si allontana da quella proposta negli anni Trenta dalla Kieler Schule, alla quale la concezione unitaria del reato servì per dare spazio all’intuizionismo dell’interprete nel cogliere l’essenza del reato facendo filtrare nell’interpretazione della norma penale la tipologia d’autore: quella fu una aberrante deformazione del tipo legale in un contesto, come quello della Germania nazionalsocialista che nel 1935 aveva intaccato il principio di legalità, dando al giudice la possibilità di applicare analogicamente, anche in malam partem, la norma penale sulla base del gesundes Volksempfinden.
La lettura unitaria proposta da Moro non cede mai all’intuizionismo, ma offre una copertura teorica alla necessità di non disperdere, entro una parcellizzata scomposizione analitica del reato, la necessaria interazione tra gli elementi del reato (che l’Autore non rinnega) per riportare al centro la persona autrice del reato. Proprio questo elemento di forte personalismo pervade la lettura unitaria dell’antigiuridicità penale.
La monografia di Aldo Moro si segnala per altri due profili di originalità.
Anzitutto, il giudizio di antigiuridicità coinvolge sia l’azione che l’evento giuridico, inteso come lesione degli interessi tutelati: un fatto è antigiuridico nella misura in cui è conforme al disvalore giuridico espresso dalla norma. Queste riflessioni non solo sviluppano l’idea dell’offensività in concreto come elemento di interpretazione del reato, ma esprimono la preferenza per il termine “interesse” in luogo di quello di “bene giuridico” per identificare l’oggetto della tutela penale nelle singole fattispecie incriminatrici: la questione non è solo terminologica, ma riflette la necessità di superare l’interpretazione oggettiva che il riferimento al bene giuridico porta con sé per riportare l’oggetto della tutela nel rapporto con la persona che ne è titolare.
Il secondo elemento di originalità risiede nell’aggancio dell’antigiuridicità alla categoria della colpevolezza, in quanto la norma penale non è solo Bewertungsnorm, ma anche Bestimmungsnorm. Arricchire l’antigiuridicità del giudizio di disvalore sulle componenti soggettive ha alcune importanti conseguenze: la centralità della colpevolezza nella teoria del reato; il rifiuto di forme di responsabilità oggettiva; la necessità di dar spazio alla prova contraria nel rigido principio di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale; l’accoglimento della inesigibilità come categoria “ultra legale” che consente di escludere la colpevolezza, e quindi anche l’antigiuridicità, sulla base di parametri elastici di valutazione, desunti dalla specificità delle circostanze di contesto nelle quali si realizza un reato e che potrebbero portare il giudice a ritenere non esigibile nel caso concreto il rispetto della norma-comando.
Questi elementi di teoria generale, che Moro riprenderà anche nelle Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale, rivelano una forte modernità nella capacità di coniugare la riflessione teorica con il suo impatto nella interpretazione delle norme e sono in linea con le acquisizioni della più recente dottrina penalistica attenta a rileggere la dogmatica penale entro il contesto delle garanzie costituzionali. Ciò che sorprende delle riflessioni sviluppate a margine della categoria dell’antigiuridicità penale è il fatto che queste si collochino nel panorama dottrinale dominato dal tecnicismo giuridico, di cui anche Moro è figlio, se non che in questa monografia il legame con la scuola tecnico-giuridica si ammorbidisce, al punto da tradirne l’essenza che voleva scissa la dogmatica giuridica dalla politica criminale. Per certo verso, la lettura morotea del sistema penale tradisce il tecnicismo giuridico per collocarsi più vicino alla scuola classica del diritto penale, che aveva costruito un “giure penale filosofico” fondato su principi di ragione che sopravanzano le specifiche scelte del legislatore. Per Moro il principio di ragione è dato dalla centralità della persona che sta alla base della lettura unitaria della categoria dell’antigiuridicità penale e della valorizzazione, al suo interno, della colpevolezza. Di certo l’elemento di maggior frattura del rapporto tra tecnicismo giuridico e impostazione dogmatica di Moro è rinvenibile nell’accoglimento della categoria dell’inesigibilità, letta – così la qualifica l’Autore – come una sorta di stato di necessità «intenso»: è una intensività di spinta motivazionale, imposta dalla specificità della situazione di fatto che giustifica il superamento dei limiti tracciati dalla disciplina codicistica dello stato di necessità. Tuttavia, altrettanto dirompenti sono le riflessioni sul superamento della responsabilità oggettiva e della rigida inescusabilità dell’ignoranza della legge penale.
3. Del tutto differente è il tema affrontato nella monografia Unità o pluralità di reati. Principi che presenta, tuttavia, alcuni elementi che ritroviamo nell’altra.
Se l’antigiuridicità è un giudizio di valore che investe l’intero reato nelle sue componenti oggettive e soggettive, anche la questione relativa alla sussistenza di un solo reato o di una pluralità di reati pone al centro l’“essenza del reato”. È proprio guardando all’unità dell’offesa del fatto criminoso che è possibile determinare i criteri discretivi che consentono di comprendere se la complessità dell’accadimento concreto sia riconducibile ad una o più fattispecie. Nelle argomentazioni sviluppate da Moro svolge un ruolo essenziale il bene giuridico quale metro di lettura dei principi di specialità e di consunzione che, nell’impostazione seguita dall’Autore, presidiano il concorso apparente di norme. Ora, se per il principio di consunzione, quale criterio di valore, il richiamo al bene giuridico è notoriamente determinante, meno scontata è la centralità di questo concetto anche nell’ambito del principio di specialità che abbandona la classica impostazione del raffronto strutturale tra gli elementi costitutivi delle fattispecie convergenti e sposta il fulcro sul rapporto di specialità tra i beni giuridici tutelati dalle fattispecie incriminatrici.
A differenza delle riflessioni sviluppate a margine dell’antigiuridicità, nella quale tutti gli elementi costitutivi del reato, oggettivi e soggettivi, diventano oggetto di una valutazione unitaria di contrarietà all’ordinamento penale, nella individuazione dell’unità o della pluralità delle violazioni diventa dirimente il riferimento al bene giuridico, mentre alla colpevolezza è riservato un ruolo marginale, ed eventuale, di mero indizio di lesione del bene giuridico. Tuttavia, una volta riconosciuta la pluralità delle violazioni, il profilo della colpevolezza diventa nuovamente centrale nel definire la sussistenza del concorso formale di reati, connotato da una volontà unitaria che sorregge una condotta unitaria. Proprio la valorizzazione del valore unificante della volontà dà ragione della proposta di superare il regime del cumulo materiale delle pene – vigente al tempo della pubblicazione della monografia – in favore del cumulo giuridico, a cui il legislatore arriverà solo vent’anni più tardi con la riforma del 1974.
Infine, è da segnalare che in questa monografia Moro torna ad utilizzare il termine bene giuridico che nel lavoro sull’antigiuridicità aveva abbandonato in favore del termine “interesse”. La scelta – non motivata dall’Autore – ha forse alla base la consapevolezza della interscambiabilità dei due termini, che comunque accentuano profili differenti dell’oggetto della tutela che l’uno e l’altro termine meglio valorizzano: nella monografia sull’antigiuridicità penale, è più confacente alla ricerca dell’essenza del reato il riferimento all’interesse che richiama la centralità della persona e del suo rapporto con il bene da tutelare; quando, invece, l’indagine si sposta sul terreno dei criteri distintivi tra unità e pluralità del reato, diventa più proficuo il termine bene giuridico, perché è sul disvalore insito nell’offesa al bene che ruotano i criteri che delimitano il concorso di reati.
4. Entrambe le monografie di Moro offrono al lettore moderno importanti stimoli di riflessione e in alcune parti anticipano scelte che sarebbero successivamente state fatte dalla Corte costituzionale o dal legislatore: il superamento della responsabilità oggettiva; la parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. per effetto della sentenza 364/1988; l’interpretazione gradualistica del reato, attraverso il giudizio di antigiuridicità penale, che avrebbe condotto, molto tempo dopo, a valorizzare il principio di offensività e, ancor più recentemente, di sussidiarietà del controllo penale rispetto a fatti connotati da particolare tenuità dell’offesa; la riforma del 1974 in tema di concorso di reati. Un elemento che accomuna i due lavori risiede nel rapporto tra riflessione dogmatico-penalistica e ruolo della giurisdizione, perché l’indagine teorica sviluppa categorie e criteri di lettura del sistema penale che attribuiscono al giudice un ampio potere discrezionale. Sono significative due riflessioni.
La concezione unitaria dell’antigiuridicità, inclusiva della colpevolezza, legittima la categoria dell’inesigibilità: questo epilogo è l’effetto dell’impostazione personalistica che l’autore trasfonde nella interpretazione delle norme penali; tuttavia, l’inesigibilità non si presenta come contenitore teorico al cui interno ricondurre una serie di istituti disciplinati dal sistema vigente e nei limiti fissati dalla legge, ma fa ingresso nel sistema come una scusante “sovralegale” che permette al giudice di rapportare la norma comando alla specifica situazione di fatto che ha condizionato l’esercizio della libertà.
Nell’ambito del concorso di reati, la differenza tra concorso effettivo o concorso apparente di norme non ricorre al confronto strutturale tra le fattispecie convergenti, ma fonda sui beni giuridici tutelati da queste tanto il principio di consunzione che quello di specialità che tradizionalmente, ed ancora alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, è basato sul raffronto genus ad speciem tra gli elementi di fattispecie con una apertura alla specialità bilaterale, nella quale non viene meno l’approccio strutturale. Il criterio utilizzato riserva al giudice un ampio potere discrezionale, in quanto i beni giuridici tutelati dalle fattispecie non sono determinati ex lege, ma vanno desunti in via interpretativa con un margine di apprezzamento rimesso all’interprete.
È indubbio che l’impostazione dogmatica di Moro, pur nella sua complessità, operi in un duplice direzione: de iure condendo sollecita il legislatore ad intervenire sulla disciplina vigente per adeguarla ai principi e alle categorie proposte; de iure condito mette già a disposizione del giudice strumenti che gli consentono, per così dire, un dialogo più ravvicinato con la realtà e con la complessità della specifica situazione concreta. È come se il penalista barese si fosse liberato della zavorra del tecnicismo giuridico per riflettere più liberamente, senza la spada di Damocle dello Stato autoritario, su un sistema penale che, pur non essendo ancora letto alla luce dei principi costituzionali, richiedeva una profonda revisione. Anche l’ampliamento degli spazi riservati all’interprete segnala il distacco di Moro da un legalismo asfittico che il tecnicismo giuridico aveva legittimato in nome della purezza della scienza dommatica. Siamo ancora lontani dalla lettura delle norme penali alla luce dei principi costituzionali; tuttavia, il ruolo riconosciuto all’interprete nel definire i confini delle norme, nella loro duplice valenza valutativa ed imperativa, apre alla forte valorizzazione della persona che percorre tutta la lettura morotea del sistema penale.